Untitled - RCS Libri

VLADIMIR LUXURIA
LE FAVOLE NON DETTE
BOMPIANI
ISBN 978-88-452-6277-7
© 2009 RCS Libri S.p.A.
Via Mecenate 91 - 20138 Milano
Prima edizione Bompiani maggio 2009
a Enoque,
che qualcuno che ti voglia bene
possa augurarti la buonanotte
prima di addormentarti
LA DONNA-UOMO
“E con le mani, amore, per le mani ti prenderò,
e senza dire parole nel mio cuore ti porterò…”
Francesco De Gregori, La donna cannone@
Gli abitanti del paese ci credevano: qualcuno giurò di
averlo visto per metà uomo e per metà animale nascosto nei
cespugli; altri di averlo sorpreso, con tanto di corna, all’ombra degli alberi o al fresco del lavatoio a ripararsi dal caldo
del sole di agosto; altri addirittura ne descrivevano le zampe
da caprone e gli zoccoli spaccati al posto dei piedi mentre si
arrampicava sui monti lontani. Alle donne che erano rimaste incinte prima di sposarsi conveniva dire di essere state
“importunate” dall’essere mostruoso, rannicchiato vicino al
cimitero appena fuori dall’abitato. Nelle notti estive si
confondeva il rumore del vento con il suono della sua siringa. A lui era dedicato il nome del paese e una statua nel giardino della casa più bella: Pannia, in omaggio a Pan, dio dei
pastori e delle greggi numerose a pascolare sui prati circostanti l’insieme di casette in salita, che se non eri abituato ti
veniva il fiatone a raggiungere la sommità senza fermarti. In
alto, circondati da un giardino su un vasto panorama, i resti
di un vecchio castello simile a un enorme dente cariato.
L’unica a non essere suggestionata dall’immaginazione
ma a vederlo davvero era Barbara, una bambina bionda
minuta, due occhioni celesti, un sorriso da furbetta che
mostrava due soli denti alla gente che la guardava mentre
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saltellava strafottente nei vicoletti. Era soprannominata in
paese “Barbi la birba” per il suo carattere molto vivace. Pan
si divertiva a spaventarla, sbucando improvvisamente da
dietro la chiesa, facendo volare i corvi dai tetti, oppure a
farle la linguaccia facendo capolino da dietro l’arco della
grande fontana a tre cannelle, dove la bambina si recava
malvolentieri con la mamma e la nonna per attingere acqua
e lavare i panni al lavatoio ai piedi del paese. Le donne
strofinavano e insaponavano gli indumenti con l’acqua
della vita, avendo di fronte il piccolo cimitero del paese. Era
altresì normale raccogliere le ciammaruche, ovvero le piccole lumache, sulle lapidi dopo una giornata di pioggia, per
bollirle e condirle con olio d’oliva e aglio; mangiare per
vivere raccogliendo il cibo in un luogo di morte.
La birba poteva solo vedere Pan senza toccarlo. Il dio
era intangibile e non aveva il potere di spostare oggetti o di
esercitare il suo tatto sulle persone.
Ma a Pannia tutti credevano agli avvistamenti della
bambina perché Pan era la loro identità campanilistica. E
poi si sa che le donne ci credono di più in queste cose, e le
donne erano più numerose degli uomini, molti dei quali
erano dovuti andare lontano per trovare lavoro. Il papà di
Barbara era uno di questi.
Lei non amava molto stare in casa, la scuola le andava
stretta, i giochi di infanzia femminili la annoiavano: le
bambole, la campana tracciata con il gesso sull’asfalto, il
salto sull’elastico legato alle caviglie.
La sua vera passione erano gli animali, gli animali in
libertà.
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Sviluppò i primi sintomi della sua ossessione verso i dieci
anni. Si fermava davanti ai tanti portali in pietra grigia delle
case del paese succhiando il suo lecca-lecca rosso zuccherato. Guardava i grandi battenti in legno, l’architrave a sesto
ribassato e la finestrella quadrata sopraluce sulla sommità
per illuminare di sole l’ambiente interno. Ma ciò che la turbava maggiormente erano i bassorilievi attorno al portale: leoni
e pantere scolpiti con cura, cuccioli di fiere dentro stemmi
nobiliari, teste di cavallo sporgenti. Le sembrava che quegli
animali fossero prigionieri della materia, rinchiusi, immobilizzati e pietrificati, vittime di qualche misterioso maleficio,
lo stesso malvagio incantesimo che aveva incastonato in un
angolo il viso murato di un uomo, simile a un guerriero maya,
con il copricapo di piume, gli occhi a mandorla e la bocca
aperta in una smorfia di dolore. A distoglierla da questa fissazione il soffio improvviso nelle canne della siringa di Pan
alle sue spalle: si girò con uno scatto ma lui era già sparito con
un balzo caprino. Ciò che non poteva fare aiutando gli
animali di pietra lo avrebbe fatto con quelli vivi.
A casa la madre aveva un canarino giallo canterino in
una voliera in stile arabo. Barbara guardava l’uccello
aggrapparsi con le zampette da un’inferriata all’altra,
metteva a fuoco gli occhi disperati e ne sentiva la supplica:
“Salvami, ti prego, salvami, rendimi libero di volare nel
cielo!” Con gesto istintivo la bambina aprì lo sportellino e
vide volar via dalla finestra verso la libertà quel piccolo
essere in costrizione. Subito dopo quella azione sentì una
scarica di brividi di piacere per tutto il corpo, una sensazione di benessere fisico che durò qualche minuto assapo9
rata a occhi chiusi. Quando li riaprì vide dietro la tenda
della finestra, che il vento gonfiava come vele sul mare, il
dio Pan che mimava il volo degli uccelli con le braccia,
tenendo gli occhi sbarrati e la lingua a penzoloni come a
sfotterla. Alla mamma disse di non saperne nulla e recitò
così bene la parte dell’innocente che la madre si convinse
che forse l’abile uccelletto era riuscito con il becco a forzare la porticina della voliera.
La seconda volta avvenne a casa della zia: la cuginetta
aveva vinto un pesciolino rosso al luna park centrando un
vaso d’acqua con una pallina di plastica colorata. Barbara
non prestava attenzione a ciò che si stavano dicendo tra
loro la madre e la zia. Lo sguardo era ipnotizzato su quella
vaschetta dove nuotava, girando su se stesso, il piccolo
pesce rosso che la guardava con l’occhio fisso e le parlava
in suoni liquidi: “Non ce la faccio più a girare in piccoli
cerchi, non capisco il limite delle mie acque, la trasparenza
di questo contenitore mi crea l’illusione di avere tanto
spazio! E invece continuo a sbattere contro il vetro sognando di esplorare un torrente”. La cuginetta la strattona per
la camicia: “Dai, giochiamo insieme con le bambole?”
Barbara la lascia giocare da sola, lei proprio non li
sopporta quei fantocci di plastica! Le sorride dando muti
cenni di assenso con la testa, ma in realtà sta già pensando
al suo prossimo piano di evasione. Nelle sere estive gli
abitanti del paese erano soliti lasciare le porte di casa aperte per farsi una passeggiata e prendere un poco di fresco
gustando il gelato lungo il corso; il paese era tranquillo, non
era mai avvenuto un furto o qualsivoglia crimine. Lei sgat10
taiolò dentro la casa della zia sollevando con fatica la
vaschetta e uscì fuori prendendo le stradine interne dove
non girava mai un’anima.
Corse per pochi chilometri in discesa dal paese con la
vaschetta tra le mani, l’acqua che debordava e il pesciolino
che si strapazzava. Arrivò sull’argine del fiume e vi svuotò
tutto il contenuto; il riflesso della luna piena le consentì di
vedere il pesce nuotare veloce seguendo la corrente:
“Grazie, grazie, a buon rendere!” sentì la voce sfumare
man mano che si allontanava. Sull’altra sponda Pan
boccheggiava scherzosamente imitando il pesce mentre lei
era assorta in un prolungato piacere fisico.
La terza volta fu a casa della vicina, una gabbia con un
criceto. L’animale correva incessantemente facendo girare
una ruota ormai impazzito, Barbara vedeva i suoi occhietti
persi nel vuoto che puntavano verso un obiettivo davanti a
sé che non avrebbe mai raggiunto: “Devo fare un ultimo
piccolo sforzo, se continuo a correre così ancora un po’
riuscirò a fuggire e andare lontano, devo solo fare un ultimo piccolo sforzo, un ultimo piccolo sforzo…” Appena la
vicina si distrasse chiacchierando sull’uscio con la dirimpettaia, aprì la gabbia liberando il roditore: lo vide fuggire
veloce rasoterra sul pavimento, uscire da sotto le gambe
della sua ex proprietaria e infilarsi in un buco della strada
lastricata. Le due donne erano un fiume in piena di parole
mentre Pan con i denti sporgenti da roditore faceva capriole a imitare il movimento della ruota ormai ferma nella
gabbia. In paese si cominciò a credere che quel burlone di
Pan si prendesse gioco di loro facendo scherzetti.
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La situazione si fece più grave e seria una settimana
dopo.
La bambina era entrata di nascosto in una masseria: vi si
accedeva dall’arco esterno attraverso un sentiero bianco
sterrato che portava dritto alla casa di campagna dalla
facciata rustica con pietre a vista, il tetto di tegole ramate
con un piccolo camino fumante e il cortiletto abbellito da
vasi e giare, con un pozzo al centro. I proprietari contadini
erano fuori a coltivare la terra a ulivi e grano; i cani smisero di abbaiare appena lei diede loro dei biscotti accarezzandoli. Entrò in una grande stalla dal forte odore di paglia e
letame, c’erano gabbie e recinti ovunque: conigli, galline,
oche, colombi, cavalli e asini. Come nella torre di Babele
dovette tapparsi le orecchie con le mani per non sentire
tutte quelle strazianti invocazioni di aiuto in suoni diversi.
Ruotavano la testa come se così facendo potessero liberarsi e si scagliavano con il becco o a morsi sulle sbarre che li
tenevano prigionieri.
Si scatenò: in pochi minuti aprì tutte le gabbie e i recinti. Si sentì un chiasso infernale: gli animali appena conquistata la libertà correvano da una parte all’altra alla ricerca
di una via d’uscita, Barbara sarebbe stata calpestata dalla
furia dei cavalli e degli asini se non fosse tempestivamente
uscita di corsa dalla stalla abbandonando la masseria. Pan
corse con lei standole sempre davanti, trottando ora come
un cavallo, ora scalciando come un asino oppure agitando
le braccia a mo’ di ali a scimmiottare i fuggiaschi. I contadini, attratti da tutto quel frastuono, lasciarono i campi e
con le mani nei capelli videro disperati gli animali del
proprio allevamento fuggire via. Solo pochi di loro furono
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