Scarica numero 5 Contromano dicembre 2013

N°5 Dicembre 2013
Intervista al ministro
Lorenzin:
ecco la sanità ventura
ISEE: tutti i conti per
ogni famiglia
Beatrice Lorenzin
Romano Prodi:
Quale riscatto per
l’Africa
Giorgio Torelli:
Gesù Bambino
alla ritirata di Russia
Sommario
Gian Guido Folloni è un politico e giornalista italiano, già Ministro della
Repubblica per i Rapporti con il Parlamento.
E’ stato direttore del quotidiano cattolico Avvenire dal 1983 al 1990.
Successivamente ha lavorato alla Rai.
Dal 2008 è Presidente di Isiamed (Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo).
3 Editoriale (Gigi Bonfanti)
4 Hanno scritto per noi
5 “La lettera” (Giuseppe Pipicella)
6 La posta del direttore
8 Tracce di conflitto generazionale (Giobbe)
POLITICA
9 Intervista esclusiva a Beatrice Lorenzin ministro della Salute (Marco Iasevoli)
12 Legge di stabilità, le pensioni:che fare? (Marco Pederzoli)
14 Il Governo Letta,ponte verso il futuro
15 E’ ricambiata la politica (Guido Bossa)
16 Le sfide del lavoro e dello sviluppo (Paolo Raimondi)
ATTUALITA’ E SOCIETA’
18 Ospedali al nord, ospedali al sud (Simone Martarello)
20 Castegnato, il taxi sociale (Dino Della Casa)
21 Storie di origami: deficit di futuro (Elettra)
22 Il nuovo ISEE (Marco Iasevoli)
CULTURA
24 Alain Touraine: serve una base etica (Mimmo Sacco)
26 Viaggio fotografico nei mercatini delle feste
28 Africa, il male oscuro (Folloni incontra Romano Prodi)
32 Il summit dei Brics di Durban (Marguerite Lottin Welly)
33 Gesù Bambino alla ritirata di Russia (Un racconto di Giorgio Torelli)
36 Alla ricerca dei significati perduti (Michelangelo Tagliaferri)
38 Niente “satana” niente “male” (Gianfranco Varvesi)
SALUTE
40 Inverno: problemi alle articolazioni (dr. Alberto Costantini)
41 Sciare senza età (Stefano Della Casa)
MAPPAMONDO
44 La “voce Fiume” dei nonni (Umberto Folena)
46 Il “Cenone” a 5o euro (Gian Paolo Galloni)
48 Tradizioni, costumi e solidarietà (Stefano Della Casa)
49 Libri e Web (Marco Pederzoli)
51 Il vagabolario (Dino Basili)
2
memoria, attualità, futuro
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N°5 Ottobre 2013
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15/12/2013
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Editoriale
Prossima fermata: Fnp
di Gigi Bonfanti
Il XVII Congresso nazionale ha affrontato la questione
della nuova Fnp, come progetto riformatore della struttura organizzativa e funzionale.
L’analisi attuale prende le mosse dalla fragilità che deriva dalla crisi generale ed acuta che pervade le organizzazioni di massa, ne mina il rapporto fiduciario, ne
comprime il quadro della rappresentanza, ne attenua il
processo di partecipazione, indebolendone il carattere
democratico.
La riflessione che la Fnp è tenuta a sviluppare, nel concreto dei fatti, si sviluppa sul ruolo e sugli strumenti
dell’azione sindacale, affrontando alcuni aspetti prioritari quali la mutazione della concezione del lavoro ed il
nesso fra la rappresentanza e la rappresentatività.
L’Italia è fondata sul lavoro ed il sindacato è una organizzazione di lavoratori. Ed in funzione di questa relazione che si è compiuta l’ascesa delle masse popolari
alla vita politica, alla diffusione della democrazia, alla
generalizzazione dei diritti, all’uguaglianza rispetto ai
beni primari della vita, come la salute, l’istruzione, la
previdenza sociale ed il rigetto del privilegio.
Il lavoro acquisisce un suo valore sociale che trasmette
il senso della realizzazione della persona, l’espressione
più matura dell’inclusione nella cittadinanza e nei suoi
connessi diritti civili.
Ma il lavoro muta nel tempo e nello spazio, assume
contenuti che si modificano, esprime rapporti giuridici
connessi al loro tempo, produce una fase di attesa del
lavoro e di fragilità e precarietà del pre-lavoro e genera, al compimento del ciclo operativo, una ampia fase
di post-lavoro, che si sostiene con il salario differito e
si confonde con l’espressione della longevità della vita.
Ed è in relazione a questa concezione ampia e costituzionale del lavoro, che condiziona la politica (e non
viceversa), che assume rilevanza la nozione di rappresentanza, che diventa di conseguenza legittimazione a
svolgere l’azione politico sociale ed il presupposto necessario per essere considerati soggetti aventi diritto ad
orientare il percorso lungo della società.
Il Congresso ha risolto la parabola del rinnovamento
della Fnp chiamandola a diventare uno strumento rigenerativo di proposte e di prospettive verso una visione
della società libera, riformista, equa ed solidale.
La Fnp pertanto, dovrà reagire a quella lenta agonia che
pervade tutti i corpi intermedi stritolati dalla forza della
globalizzazione e dal potere occulto della finanza speculativa che, nella loro perversa integrazione, devitalizzano la tendenza partecipativa, la capacità attrattiva, la
modernità dell’elaborazione collettiva ed anche il giacimento crescente dei saperi della Federazione.
In questo contesto il carattere della confederalità connette il profilo negoziale, in particolare nei confronti di
controparti istituzionali, ed orienta l’elaborazione programmatica verso i presidi del territorio, sede naturale
della contrattazione sociale, rivolta alla tutela, allo sviluppo e alla rimodulazione del welfare, esaltando l’opportunità’ della conoscenza diretta dei problemi.
Questa azione rigenerativa può consentire di disegnare
un futuro sostenibile, con nuovi scenari, nuove speranze, con un rinnovamento di uomini e metodi, coinvolgendo il meglio della società civile e dei corpi intermedi,
quali portatori di valori e di idealità.
La nuova Fnp, a partire dal 2014, potrà diventare un
atto di fede nella democrazia, persino nel cambiamento
della politica, per quanto incerto ed erratico.
La Fnp ha comunque nel tempo maturato la convinzione che per cambiare l’Italia bisogna cominciare da se
stessi. In questo senso noi abbiamo le carte in regola in
quanto siamo seduti su un patrimonio di potenzialità
democratica, al servizio dei pensionati, dei nostri ideali,
con un forte senso di responsabilità verso il Paese.
Ma per far sì che la Fnp agisca efficacemente come soggetto collettivo sarà necessario rivedere i contenuti e gli
strumenti dell’azione sindacale, per renderla adeguata
ai mutati scenari politici, economici e sociali.
Per tutelare gli interessi dei nostri associati e dell’area
degli anziani in generale, occorrerà ripensare nuovi modelli organizzativi, nuovi strumenti di azione, fondati su
relazioni fiduciarie e spirito di cooperazione, dove il negoziato si inscrive in una più vasta rete di accordi e di intese che coinvolgono i diversi soggetti pubblici e privati,
i diversi livelli ed aspetti che rappresentano l’interconnessa struttura nel sistema socio economico italiano.
Con l’inizio del nuovo anno dovremo esprimere tutto il
nostro coraggio per concorrere a superare la crisi etica
del Paese, per riavvolgere il nastro operativo della nostra azione in favore dei pensionati, intesi come un’area
debole e depredata dalla barbarie di una classe dirigente
inadeguata ed autoreferenziale che ha ridotto il Paese ad
una realtà sciapa ed infelice, secondo l’interpretazione
del Rapporto Censis.
Occorre, per De Rita, un respiro più spontaneo della società, più fecondo rispetto alla prassi che ha prodotto
solo illusioni.
In questo scenario si delinea l’essenza della nuova Fnp,
interprete disincantata della realtà, sede di un crescente
processo associativo, luogo della amicizia e della solidarietà.
*Segretario Generale Fnp Cisl
3
Hanno
scritto
per noi
4
Marco Pederzoli
Giornalista e collaboratore di diverse testate.
Scrive per La Gazzetta
di Modena, Il Sole 24
ore.
Gigi Bonfanti
Segretario generale
Fnp Cisl.
Giuseppe Pipicella
Studente universitario
Bocconiano.Collabora
con il periodico “Fili
d’Argento e con il
programma “Anti Aging
project”
Marco Iasevoli
inviato del
quotidiano
L’Avvenire
Simone Martarello
giornalista
professionista.
Ha collaborato per Il
Resto del Carlino e
L’Informazione.
Dino Della Casa
Laureato in marketing
e comunicazione.
Editore
Mimmo Sacco
Giornalista RAI TV.
Condirettore de
Il Domani d’Italia,
mensile di politica
e cultura.
Marguerite Lottin
Welly
Giornalista e
conferenziera del
Camerun, presidente
dell’associazione Griot
Camerun, presidente
dell’associazione Griot
Gianfranco Varvesi
Diplomatico, ha
ricoperto incarichi
in Italia e all’estero.
Ha prestato servizio
nell’ufficio stampa del
Quirinale.
Alberto dr. Costantini
Cardiologo.Ex medico
cardiologo della
Camera dei Deputati.
Stefano Della Casa
Giornalista
Freelance e Direttore
della rivista
Jag Generation
Umberto Folena
Editorialista del
quotidiano L’Avvenire.
Consulente della CEI
Guido Bossa
Giornalista
professionista.
Presidente
dell’Unione
nazionale giornalisti
pensionati
Paolo Raimondi
Economista
Scrittore
Giorgio Torelli
per 40 anni inviato speciale dei più importanti
quotidiani e settimanali
italiani.Fondatore con
Indro Montanelli de “Il
Giornale”
Michelangelo
Tagliaferri
Fondatore di
Accademia di
Comunicazione.
Gian Paolo Galloni
Per 25 anni direttore
della comunicazione
Michelin.Esperto
gastronomo.
Dino Basili
Giornalista e scrittore,
Direttore di Rai 2 e
Capo ufficio Stampa
del Senato
Se, dopo il tramonto...
Cari lettori di Contromano,
mi chiamo Giuseppe e ho vent’anni. Nella vita mi occupo di
tante cose ma, soprattutto, mi guardo intorno e vedo molte
cose e così questa volta mi permetto di parlare degli anziani.
Qualche numero fa, su questa rivista venne pubblicata la
lettera aperta di un padre al figlio: vi si faceva riferimento
a un remoto, eventuale, scongiurato futuro nel quale questo
padre sarebbe stato “vecchio”. L’uso delle virgolette non
serve a mitigare un aggettivo odiato fino al patetico dalla
giovanilista società contemporanea, ma a evidenziarlo, a far
capire che la vecchiaia non è un fattore cronologico, non si
è vecchi nel momento in cui si è raggiunta una determinata
età ma quando ci si rassegna. Non vi è per forza critica nella
rassegnazione, lo spirito non può combattere in eterno con
occhi che non vedono più i volti cari, orecchi che non sentono
più le voci affettuose, gambe stanche perchè cariche di strada:
è semplice umanità. La lettera merita una mia risposta, che non è, non può e non
deve essere mai univoca. Come già detto, una persona anziana
non sempre è anche una persona vecchia, come una persona
vecchia non sempre è anziana: è anziano chi si sente anziano.
Ormai l’aspettativa di vita si alza sempre di più; si può
considerare una persona anziana quando ha raggiunto una
determinata età? No, assolutamente. Tutti vogliamo vivere a
lungo, immaginandoci di essere sani, giovani e gaudenti per
sempre, molti poi si scontrano con la realtà dei fatti: la vita
è bella se c’è la salute, se il nostro corpo ci permette di vivere.
Per questo motivo penso che tutti, soprattutto dopo una certa
età, dovrebbero avere il più possibile cura della propria
salute: seguire una dieta equilibrata, fare regolare esercizio
fisico e mantenere la mente allenata. Che fatica tutte queste
cose! In effetti, dopo che si ha lavorato una vita e finalmente
ci si potrebbe concedere il più che meritato riposo, pensare di
vivere sotto una serie di “restrizioni”, anche se a fin di bene,
non è il massimo. D’accordo. Guardiamo ora il rovescio della
medaglia: immaginate di dovervi ricordare cinque pastiglie
ogni giorno o di avere bisogno di qualcuno per potervi
alzare...quale cosa è peggio?
L’anti-aging è un aspetto estremamente importante della
medicina; purtroppo viene spesso associato unicamente alla
cosmetica e all’estetica, in realtà è la più grande forma di
prevenzione. Sicuramente io, come molti dei miei coetanei,
nonostante la diffidenza che ruota intorno alla nostra
generazione, non farei mai mancare niente a un genitore o
ad un nonno anziano ma, proprio per l’affetto che mi lega a
loro, sono il primo a spronare le persone ad avere cura del
proprio corpo e della propria mente: perchè io posso essere
il più premuroso degli assistenti, il più competente degli
infermieri e il più devoto dei badanti, ma tutti abbiamo il
diritto alla nostra libertà ed indipendenza, nessuno può vivere
la propria vita o respirare attraverso gli altri, anche se questi
lo accettassero e lo volessero con tutto se stessi. Non dipendere
da nessuno: ogni fase della vita riserva tesori per sé e per
le altre persone. Quando viene meno l’energia, compensa
l’esperienza. Quello che mi sta a cuore è che gli anziani non
diventino mai vecchi! Nello stesso Vangelo è Gesù a insegnarci
che al pescatore è meglio dare la canna da pesca e insegnare a
pescare, anziché dare il pesce già pescato.
la Lettera
Giuseppe Pipicella
studente 2° anno facoltà di giurisprudenza Università
Bocconi di Milano.Vicepresidente dell’associazione
BocconianaMente.
BocconianaMente è un’associazione studentesca dell’università
commerciale “Luigi Bocconi”. Ha come scopo la creazione di
occasioni di dibattito culturale su vari argomenti. E’ attiva da quasi
tre anni, ma ha registrato il suo periodo di maggior splendore
nei primi mesi dell’anno accademico 2013-2014. I membri sono
selezionati tra gli studenti della nota università milanese sulla base
dell’attitudine personale a volersi mettere in gioco e voler imparare
sia dalla teoria sia dalla pratica.
5
la posta del Direttore
Perché siamo indifesi di fronte alla
crisi
Caro direttore,
da qualche anno in modo crescente, anche a ragione della crisi economica, il rapporto tra anziani
è giovani è diventato oggetto di confronto sociale. Si discute delle diverse opportunità che gli uni
(giovani un tempo e oggi anziani) e gli altri (i giovani d’oggi) hanno avuto dalla vita. Ad esempio:
si dice spesso che i primi sono riusciti a costruirsi
una pensione mentre i secondi non sono certi che
il futuro garantirà loro la stessa sorte. Ma non è
solo questo. La sicurezza del lavoro, ad esempio,
sembra oggi una chimera, soprattutto se messa
confronto con gli anni del dopoguerra, quando gli
anziani di oggi erano i giovani di allora.
Più in generale appare sempre più evidente la fragilità dell’oggi, segnata da una grande precarietà.
Tuttavia, questa condizione finisce per scontrarsi
con un paradosso, almeno apparente.
Gli anni passati, proprio quelli del dopoguerra,
non erano certo di vacche grasse. Il Paese era uscito dalla guerra e le condizioni economiche delle famiglie non erano mediamente floride. Appare per
questo singolare che non si possa oggi fare quel
che fu fatto allora.
E’ una considerazione che vale in generale per il
Paese e, al tempo stesso, per le singole persone.
Inventare il lavoro, costruire una socialità tutelata,
ricostruire le infrastrutture distrutte e fatiscenti:
in pochi anni fu fatto quel che oggi appare quasi
impossibile. Come se gli italiani e l’Italia avessero
perso la sapienza necessaria per uscire dalle difficoltà che, pur in modi e misure differenti, la storia presenta sempre a ogni generazione. Credo sia
necessario riflettere su questa debolezza dell’oggi,
6
forse non solo “tecnica”, finanziaria e organizzativa, ma culturale e morale.
Andrea Bontareggi
Bari
Concordo con lei, signor Andrea, a proposito della
complessità dei fattori emersi da alcuni anni, tutti
collegati alle insicurezze che la crisi finanziaria e
di lavoro ci ha sbattuto in faccia. In sintesi possiamo dire – vale per tutto l’Occidente – che mentre
fino a qualche anno fa i genitori pensavano che i
figli avrebbero avuto una vita migliore della loro,
oggi sono consapevoli che probabilmente non sarà
così. Questo fatto è origine di grande ansietà, fino
a far vacillare, negli USA, il mito della “american
way of life”.
Rimboccarsi le maniche è, probabilmente, l’atteggiamento giusto. Ma proprio qui sta, forse, il problema più grave da superare.
Zygmunt Baumann, uno dei più grandi filosofi contemporanei, nel riflettere sul rapporto tra giovani
e anziani considera tre fasce generazionali. La prima è quella di chi è nato durante, o appena dopo,
la Seconda Guerra Mondiale. Costoro hanno conosciuto i lutti e i disagi del conflitto. Sono cresciuti
in famiglie che si sono misurate con le ristrettezze
proprie di quel tempo. Sanno – se non altro perché
i loro genitori glielo hanno testimoniato concretamente – che solo la solerte dedizione al lavoro, la
frugalità dei consumi e ogni possibile forma di solidarietà famigliare e sociale garantiscono – allora
fu così – di uscire dai disagi e di non riprecipitarvi.
La seconda è la generazione figlia della prima.
Sono nati e cresciuti a valle del boom economico.
Non hanno conosciuto le ristrettezze dei padri, ma
ne hanno sentito parlare e, dunque, ne conservano
una certa memoria.
La terza fascia generazionale considerata da Bau-
mann è quella dei ventenni di oggi. Questi non
hanno conosciuto direttamente, e nemmeno ne
hanno sentito parlare dai loro genitori, le difficoltà
di fronte alle quali si trovano improvvisamente a
misurarsi. E’ la generazione più indifesa e che con
maggiori difficoltà rispetto ai loro nonni dovrà superare la crisi.
Quei bambini così male educati
Mi ha molto colpito la multa inflitta dal giudice
sportivo alla Juventus per gli insulti urlati dagli
spalti dello stadio contro il portiere della squadra
avversaria, durante la partita Juve – Udinese.
Il fatto è noto: sanzionata con l’interdizione di una
curva dello stadio alla propria tifoseria, la Juventus ha aperto gratis le porte a 12 mila giovanissimi tifosi. L’idea era buona: sostituire i facinorosi
con i ragazzini, per rendere più innocente il tifo.
Peccato che sia accaduto il contrario e che gli “innocenti” abbiano subito adottato il linguaggio del
trivio che, purtroppo, caratterizza troppo spesso le
partite di casa nostra.
“Emulazione”, ha dichiarato Guidolin, l’allenatore
della squadra bersagliata degli insulti.
L’episodio si presta a più di una riflessione e, tralasciando quelle che investono la società bianconera, su una desidero soffermarmi. Per dei ragazzini
male educati ci devono certamente essere dei mal
educatori. Sanzionata la Juve (5000 euro), messi
alla gogna mediatica i ragazzini, chi sono e come
giudicare i mal educatori?
Roberto Cantone
Milano
Caro direttore,
i blocchi stradali, gli scontri di piazza, la contestazione ai governanti e alla politica tutta mossa dai
cosiddetti “Forconi”: da una parte sono un deprecabile problema d’ordine pubblico, dall’altra sono
termometro del punto cui è arrivato il disagio
sociale. Ciò che colpisce non è tanto la dinamica
organizzativa (con gli strumenti mediatici attuali
è fin troppo facile creare “movimento”), quanto
la pronta presa tra la popolazione di un ennesimo
movimento di protesta. Dopo la Lega, dopo il grillismo, dopo la meno piazzaiola ma efficace rivolta
interna al PD (anche il renzismo è contestazione),
i forconi sono un altro segnale.
Credo che queste “rivoluzioni” – con radici non
solo italiane – pongano a tutti grandi interrogativi. Non solo la politica, ma ogni forma associativa
(e tra queste in prima linea i sindacati) sono chiamate in causa.
Che cosa succede in Italia e in Occidente? I nostri
giovani vedono il declino incipiente e nessuno che
sappia orientare nuovamente la marcia di una società a rischio di disfacimento. La sola Chiesa, con
papa Francesco, mi pare stia mandando messaggi
costruttivi.
Cresce la distanza tra ciò che la gente si aspetta
dai suoi governanti (i desideri e le promesse fallaci
di una stagione politica segnata dal berlusconismo
e intessuta d’inganni) e la possibilità concreta di
dare risposte. In questa condizione – già Antonio
Rosmini nei suoi scritti politici l’aveva descritta –
rischia di fallire anche la democrazia.
Contromano, nell’anno trascorso, ha fornito alcuni interessanti spunti di riflessione. Spero che
la rivista prosegua in quest’analisi dei mutamenti
profondi oggi in atto. Ma spero anche che, da politici e sindacati, maturi qualcosa di più concreto
delle ingannevoli promesse rottamatorie o della
difesa di quel che non abbiamo già più. Se l’Italia
è da re-industrializzare, il sindacato deve reinventare una politica di nuovo lavoro e di nuove tutele.
Bruno Dovo
Torino
I meteorologi, le alluvioni e
il silenzio dei tecnici
Che non piova più come un tempo è ormai un fatto
accertato. Non solo lo spiegano i meteorologi che
hanno al riguardo coniato neologismi (“bombe
d’acqua”, ad esempio), ma lo constatiamo di persona per il sempre più frequente pianto nazionale
sulle vittime di torrenti in piena, sottopassaggi allagati, strade cittadine trasformate in fiumi, valli
devastate da tonnellate di acqua che distruggono
declivi e fondovalle.
Preso atto del fatto che la meteorologia è cambiata, ci vuol poco a dedurre che il modo in cui furono
costruiti negli anni passati centri abitati, alvei fluviali e torrentizi, argini e sistemi di regimentazione delle acque non reggono (anche nei casi in cui
non sia stata data via libera all’incuria o all’abusivismo, alla colpa e al dolo) alle mutate condizioni
climatiche.
Ogni volta l’Italia piange i suoi morti. Mi chiedo
però il perché del silenzio dei tecnici dai quali la
pubblica opinione ha il diritto di aspettarsi indicazioni sul come adeguare il nostro territorio alle
mutate e inclementi nuove stagioni.
Rocco D’Altri
Bari
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TRACCE DI CONFLITTO GENERAZIONALE
“Finalmente potevo diventare vecchio” è la frase
finale con cui Michele Serra conclude il suo “Gli
sdraiati”, una “storia di rabbia, amore e malinconia” che indaga sul rapporto fra i “dopo-padri”
e una generazione “che si è allungata orizzontalmente nel mondo”, ma che da quella posizione
forse vede cose che gli “eretti” non vedono più.
I giovani appaiono “sdraiati” in senso letterale:
distesi su un divano con le cuffiette sulle orecchie, o su un letto in un sonno comatoso, mentre
il resto del mondo si arrabatta nel darsi da fare.
In sostanza “Gli sdraiati” rappresenta il tormento del padre, l’invettiva e la rabbia di fronte a
quel “groviglio interconnesso” che è il figlio, il
quale in definitiva non conosce, mentre avverte l’esaurirsi dell’autorità e della capacità di un
contatto tra generazioni, proprio nell’epoca del
sistema relazionale diffuso.
Il padre si rende conto, in sostanza, di essere
una “parodia di padre”, che non sa confrontarsi
con il figlio post-adolescente e i suoi coetanei.
Condizione che coinvolge chiunque abbia un figlio di quell’età e ritrova nel monologo paterno
le fotografie della propria vita, la difficoltà nello
stabilire un rapporto con ragazzi che sembrano
galleggiare in un’altra dimensione e che si chiede: ma come fa l’autore a conoscere così bene
mio figlio?
In realtà il padre vorrebbe solamente comunicare almeno una volta con il proprio figlio, ma non
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ci riesce e si trova solo di fronte ad una alterità
inaccessibile.
Tuttavia, si chiede Antonio Polito, se l’universo
sconosciuto fossimo noi? Noi padri, non i figli
che appaiono incomprensibili, coinvolti in un’apocalisse solo apparente perché, come diceva
De André, spesso “da letame nascono i fior”.
Serra trasmette il nucleo fondante del senso comune della nostra generazione, di noi figli ribelli del baby boom, diventati genitori di figli per lo
più unici, e solitamente viziati.
Forse il fallimento genitoriale della nostra generazione di padri (secondo il modello di Serra di
un padre “relativista etico” che non sa trasmettere i valori, cercare verità, parlare del bene e
del male) deriva proprio dall’aver tentato di
sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Il padre sente la lontananza del figlio,
la passiva non condivisione verso le cose che il
padre non riconosce come gusti personali (pertanto discutibili), ma concepisce come modello
di vita, cui uniformarsi. Ed è per l’appunto questa “condizione umana” che il figlio sente come
“estranea”. Non ci arrendiamo al fatto che, in
concreto, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Se non abbiamo niente
da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di
parlare con i nostri figli? Forse abbiamo paura
della loro libertà, temiamo che la usino male,
ma non abbiamo niente da proporre in cambio.
Noi della Fnp, anche attraverso il Festival delle Generazioni, potremo confrontarci con i giovani su questo rapporto fra generazioni che sta
avanzando, in cui il ruolo del genitore tende ad
alienarsi nel contesto di un disinteresse dei gusti culturali ed esistenziali dei giovani.
Anche il libro di Serra si chiude nella riconciliazione con il figlio, in un giorno imprevisto in
alta montagna, dove il padre si allontana dalla
sua vita, rinunciando ad imporla al figlio, come
autentica eredità.
Giobbe
Intervista al ministro Beatrice Lorenzin
“VOGLIO MEDICI E CURE
NELLE CASE
DEGLI ANZIANI”
Sanità buona in tutte le
Regioni e conti in ordine.
Strutture ospedaliere
altamente specializzate
e assistenza territoriale
nelle 24 ore con strutture
dedicate. Nel Patto nessun
nuovo ticket e risorse certe
fino al 2016. Le regole per
i costi standard. Lotta
a sprechi e malaffare.
Risparmi dalle centrali di
spesa regionali. Anagrafe
elettronica, telemedicina e
trasparenza: con un click si
conoscerà l’intera
storia clinica.
Intervista esclusiva
al Ministro della Salute
Beatrice Lorenzin
(Di Marco Iasevoli)
9
“Sogni? Non sono stata nominata ministro
della Salute per fare sogni o disegnare scenari
immaginifici. Dobbiamo mettere in sicurezza
la Sanità italiana e la salute degli italiani,
riformandoci dall’interno, senza tagli lineari ma
eliminando sprechi e reinvestendo le risorse in
capitale umano, tecnologico e infrastrutture. La
Sanità deve guardare l’orizzonte dei prossimi venti
anni. Diventiamo un popolo sempre più longevo,
per fortuna, grazie alle scoperte scientifiche. Cure
sempre più appropriate e sempre più costose
dovranno essere garantite a tutti. Possiamo farlo
solo se miglioriamo e riorganizziamo il sistema
attuale, che ha tante eccellenze ma anche zone
grigie. Ecco, il mio obiettivo è una sanità buona in
tutta Italia, conti in ordine in tutte le Regioni. In
questi mesi ho verificato che il punto di partenza
non può che essere la scelta di persone capaci per
la governance di questioni così complesse. Dove
ha funzionato questa scelta, funziona il sistema,
si spende meno, si spende meglio, si garantiscono
cure appropriate”. La vista del Lungotevere che
domina il suo dicastero ormai intenerisce poco o
nulla Beatrice Lorenzin. La vita da ministro l’ha
spinta a chiudere in un cassetto qualche ideale
troppo staccato dalla realtà. Il ‘giorno-dopogiorno’ è un calvario di problemi, bilanci in rosso,
casi di mala sanità a volte intervallati – per fortuna
- da eccellenze e piccoli grandi miracoli.
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“Ora è il tempo della programmazione”, ripete
con un sorriso inquieto. “Per anni, per troppi
anni, non c’è stato un disegno generale. È questo
il mio compito principale: mentre si tamponano
le emergenze, vanno ricercate soluzioni nuove.
Per me l’esempio che chiarisce tutto riguarda la
domiciliarità delle cure: un malato che riceve le
cure a casa costa al Sistema sanitario nazionale tra
i 40 e i 200 euro circa; ricoverato in un’azienda
ospedaliera, per la sola degenza, costa tra i 300 e
gli 800 euro. Con il particolare per me di assoluta
rilevanza che il malato curato a casa gode del
conforto della famiglia e quindi dei vantaggi di
un’umanizzazione delle cure. Non solo risparmio
e qualità, ma anche umanizzazione delle cure.
Chiaro il confronto?”
Iasevoli: Vuole portare medici e infermieri in
casa? Come?
Lorenzin: “I governatori hanno capito che siamo
a una svolta epocale e hanno mostrato grande
sensibilità. Stanno lavorando per rimuovere
le resistenze locali, il vero grande intoppo.
Pensiamo di realizzare strutture ospedaliere di
alta specializzazione e di garantire l’assistenza
territoriale attraverso strutture dedicate. Le
cure più complesse e in condizioni di emergenza
dovranno svolgersi in ospedali sempre più sicuri.
Questo non vuol dire chiudere alcuni settori
di attività. I servizi dovranno raggiungere gli
ammalati piuttosto che far muovere le persone
verso gli ospedali. In questa chiave è evidente
che ogni operatore sanitario sarà impegnato a
garantire assistenza. Tutto questo va integrato
con la riforma dei medici di famiglia, che prevede
presidi territoriali aperti h24 in modo da dare
risposta in ogni momento della giornata senza
dovere ricorrere necessariamente al pronto
soccorso, con un’attenzione particolare alle attività
svolte anche dalle associazioni e dai volontari”.
Iasevoli: Già si intravedono le manifestazioni
guidate dai sindaci…
Lorenzin: “Il lavoro che insieme alle Regioni
faremo sui piccoli ospedali non è un taglio, non è
una risorsa sottratta ai cittadini. La differenza tra
ospedali di alta specializzazione e piccole strutture
è già nei fatti, è già nelle scelte dei cittadini. Chi
di noi si farebbe operare da un chirurgo che ha
operato pochissimi casi solo perché l’ospedale
è vicino a casa? Chi farebbe nascere il proprio
bambino in un ospedale che non sarebbe in grado
di gestire una minima complicazione neonatale
o per la mamma? Gli utenti già scelgono, ogni
giorno, di fare dei chilometri in più per andare
dove sanno di trovare medici e personale bravi
e aggiornati, dotati delle migliori tecnologie.
È meglio per tutti che queste piccole strutture
svolgano un lavoro diverso ma altrettanto utile per
la comunità territoriale. Il personale dovrà essere
utilizzato tutto, ma per uno scopo diverso. È una
riorganizzazione che dovrebbe anche ridurre il
fenomeno dei ricoveri fuori regione se, appunto,
ogni territorio avrà un numero di ospedali di
alta specializzazione piuttosto che una miriade
di piccole realtà con standard insufficienti dal
punto di vista della qualità e della sicurezza
dell’assistenza erogata”.
Iasevoli: Le risorse per una trasformazione del
genere?
Lorenzin: “Il Governo per la prima volta
negli ultimi dieci anni ha evitato ulteriori tagli
al fondo sanitario nazionale. Nel 2014 avremo
109.9 miliardi di euro e una certezza di risorse
per almeno tre anni, fino al 2016. Abbiamo
scongiurato anche l’introduzione di nuovi ticket,
il cui aumento sarebbe stato molto pesante per
i cittadini. Considerando la precarietà in cui
viaggiavamo sino a ieri, non è poco. Le risorse ci
sono, il Patto per la Salute fornirà il nuovo piano
regolatore della sanità italiana. Siamo partiti con i
costi standard, la cui introduzione è la vittoria di
una battaglia culturale. Spero che il Patto si chiuda
entro l’anno o al massimo entro Gennaio”.
Iasevoli: A cosa servono i costi standard?
Lorenzin: “Qualcuno confonde e allora meglio
ribadire che i costi standard non nascono per
unificare il prezzo d’acquisto della siringa in
Veneto e Campania. Quella è un’altra cosa. Con
i costi standard intendiamo fissare il criterio
di ripartizione delle risorse tra le regioni.
Ripartiremo il fondo utilizzando come riferimento
i costi medi di Umbria, Emilia Romagna e Veneto,
considerando i livelli di spesa pro capite di ognuna
di queste regioni benchmark. Questo è solo il
primo passo perché la norma che introduce i costi
standard prevede che gli indicatori possano essere
riconsiderati entro i due anni successivi”.
Iasevoli: Quanti risparmi porta questa
operazione?
Lorenzin: “I risparmi saranno considerevoli,
potremmo anche superare i 2 miliardi di euro,
e le Regioni saranno impegnate a garantire i
cambiamenti organizzativi e gestionali necessari
per assicurare i livelli essenziali di assistenza
allo stesso costo delle regioni di riferimento. È
su questo che ci siamo impegnati con il ministero
dell’Economia contro i tagli alla sanità, certi di
poter portare alla casse dello Stato il risparmio
richiesto ma senza penalizzare il sistema. Per
quanto riguarda i tagli ho chiesto al commissario
Cottarelli di consentire un gruppo di lavoro ad hoc
per la revisione della spesa in Sanità e così è stato.
Il gruppo di lavoro si è già insediato. Cottarelli ha
individuato esattamente le nostre stesse fragilità,
ma gli abbiamo detto che le forbici volevamo
usarle noi. È proprio per questo sforzo di serietà
che anche Saccomanni, dopo 10 anni di interventi
ininterrotti sulle spese della Sanità, quest’anno ci
ha graziato”.
Iasevoli: Ma torniamo al costo delle siringe,
o dei pasti, o dei servizi di pulizia… Lì non solo
si annidano differenze clamorose tra Nord e
Sud, ma si verificano scempi (mazzette, appalti
truccati, corruzione, collusione con la malavita…)
che occupano le procure di mezza Italia. Come
rispondete?
Lorenzin: Sprechi e malaffare sono terribili in
ogni settore della vita pubblica, ma in sanità sono
particolarmente odiosi perché noi ci confrontiamo
con la vita e la morte delle persone. Su questo
non avremo indugi, la lotta sarà durissima. Ho
dato mandato al coordinatore del tavolo del
ministero di approfondire tutti gli aspetti relativi
alla prevenzione della corruzione nel sistema
sanitario. Per i risparmi rafforzeremo il sistema
delle centrali uniche d’acquisto regionali. E’ una
strada intrapresa e che ha già portato risultati. Nel
2012, in Calabria, il risparmio è stato di 42 milioni,
in Campania di 68.
Iasevoli: L’altra grande battaglia che ha in
mente?
Lorenzin: Non è una battaglia ma una evoluzione
del sistema attraverso la sua digitalizzazione.
Siamo partiti con l’anagrafe nazionale degli
assistiti, dobbiamo procedere col fascicolo
sanitario elettronico. Ovunque vada un cittadino
per ricevere e chiedere cure, dall’altra parte deve
essere possibile, con un solo click, conoscere la sua
storia clinica, i medicinali che prende, le patologie.
L’e-health è la sfida del futuro, è telemedicina, è
trasparenza, è uso appropriato dei farmaci, è il
risparmio di tanti, tantissimi soldi da reinvestire
per la salute degli italiani.
11
Legge di Stabilità,
pagano sempre i pensionati
Di Marco Pederzoli
Chi pagherà il prossimo
anno le decisioni prese con
la nuova Legge di Stabilità
(ex manovra finanziaria)
che è in discussione proprio
in questi giorni alla Camera
dei Deputati, dopo essere
stata licenziata dal Senato? Il
pericolo ravvisato dai sindacati
dei pensionati, tra cui in
primis la stessa Fnp-Cisl, è
che il documento definitivo
non contenga un’adeguata
rivalutazione delle pensioni
e la tutela del loro potere
d’acquisto rispetto al reale
costo della vita,
trova ampiaconferma.
12
Già l’Italia, di per sé, vive una situazione piuttosto
anomala dal punto di vista pensionistico. Basti
pensare che, secondo un’indagine Confesercenti,
il prelievo fiscale dello Stato nei confronti delle
pensioni erogate dall’Inps va dal 9 al 20%. Ad
essere colpiti da questa scure, sono oltre 16,5
milioni di anziani. In particolare, Confercenti ha
preso in esame le pensioni comprese tra 1,5 e 3
volte il trattamento minimo, che corrispondono a
un importo lordo tra 9.661 e 19.322 euro all’anno
(cioè tra 700 e 1.200 euro netti circa al mese). In
questa fascia di reddito, il peso dell’Irpef (l’imposta
sulle persone fisiche, comprese le addizionali)
varia tra un minimo del 9,17% per chi guadagna
meno e arriva sino al 20,7% per chi riceve invece
un assegno Inps un po’ più alto. Succede tutt’altro,
invece, nei principali Paesi europei. In Germania,
per esempio, nella medesima fascia di reddito le
pensioni sono praticamente esentasse, con un
prelievo che varia tra lo 0 e lo 0,2%. In Spagna,
Francia e Gran Bretagna, gli assegni previdenziali
più bassi (pari a una volta e mezzo il trattamento
minimo) non subiscono alcuna tassazione, mentre
le rendite di medio importo (3 volte il trattamento
Enrico Letta,
Presidente del Consiglio dei Ministri
minimo) sono soggette a un’aliquota fiscale tra il
5,2 e il 9,2%. Dunque, l’Italia parte già con un gap
decisamente molto forte rispetto all’Europa.
Se la Legge di Stabilità non sarà ritoccata dalla
Camera sul fronte delle pensioni, ecco cosa cambia
per il 2014.
Sono previste nuove rivalutazioni delle rendite,
con un leggero vantaggio per chi guadagna attorno
a 1.500 – 2.000 euro lordi al mese (cioè tra 3 e 4
volte il trattamento minimo). La nuova manovra,
infatti, ha ripristinato la rivalutazione delle
pensioni in base al caro-vita dell’anno precedente,
che era stata bloccata in parte dal governo Monti,
per un periodo transitorio di un biennio (cioè tra
il 2012 e il 2014). Da gennaio 2014, dovrebbero
quindi ripartire gli adeguamenti, seppure parziali.
Così, chi percepisce fino a 1.486 euro lordi mensili,
vedrà la pensione crescere in base al caro-prezzi
2013, che dovrebbe attestarsi secondo l’Istat
all1,5%. Per fare un esempio, chi percepisce un
assegno mensile da 1.000 euro lordi, dovrebbe
vedere un aumento di 15 – 16 euro, ovvero circa
11 euro netti.
Le pensioni comprese tra 3 e 4 volte il trattamento
minimo (tra 1.486 euro e 1.981 euro circa al mese),
avranno un aumento pari al 95% dell’inflazione (e
non più del 90%, come previsto invece dal testo
iniziale della Legge di Stabilità).
Gli assegni compresi tra 4 e 5 volte il minimo
(cioè tra 1.981 e 2.475 euro circa) ci sarà invece un
aumento del 75% dell’inflazione. La rivalutazione
sarà poi del 50% dell’aumento Istat per le rendite
tra 5 e 6 volte il minimo (ovvero tra 2.475 euro
circa e 2.973 euro lordi), mentre per chi guadagna
oltre 3.000 euro lordi (cioè più di 2.120 euro netti
al mese), la rivalutazione sarà invece pari al 40%
dell’inflazione. Per le pensioni oltre 6 volte la
minima, invece, non ci sarà alcun adeguamento.
Una decisione è invece ancora attesa sul
contributo di solidarietà che riguarda le cosiddette
“pensioni d’oro”, riproposto anche per il 2014
con l’obiettivo di finanziare un sussidio a favore
dei più poveri. Tale finalità, secondo il Governo,
dovrebbe peraltro consentire di superare i dubbi
sulla costituzionalità di tale prelievo, già avanzato
dalla Corte di Cassazione (perché colpiva solo una
categoria specifica, n.d.r.). Il contributo è fissato
nel 6% per la parte di pensione compresa fra 14
e 20 volte il minimo, nel 12% sugli importi fra
20 e 30 volte il minimo, nel 18% sulle quote oltre
30 volte. In tutto, le pensioni colpite dal nuovo
contributo di solidarietà sarebbero, secondo i
dati Inps, oltre 29.000. Ancora non si sa, tuttavia,
quale sarà effettivamente questo prelievo e se in
effetti sarà applicato.
Nel frattempo, il vice ministro dell’Economia,
Stefano Fassina, ha auspicato un miglioramento
dell’indicizzazione al costo della vita, così come
chiedono da tempo gli stessi sindacati.
13
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale
IL GOVERNO LETTA
PONTE VERSO IL FUTURO
Finite le larghe intese
ecco gli obiettivi: lavoro,
credito, tutele sociali.
Poi le riforme più che in
fretta da fare bene.
La Corte costituzionale che boccia la legge elettorale in vigore da otto anni e che ha battezzato ben
tre legislature; le Camere che votano la fiducia al
Governo Letta mentre i palazzi della politica, le
piazze, gli snodi ferroviari, gli esercizi commerciali sono assediati da una protesta confusa quanto
aggressiva. Istituzioni colte da un senso di vertigine; l’incertezza che domina sovrana in un corpo
sociale abulico, sciapo, come l’ha descritto l’an14
nuale rapporto del Censis.
Eppure, poiché nella politica il vuoto non esiste,
ecco che il governo Letta ha la possibilità di gettare
un ponte fra il bipolarismo in macerie e il nuovo
assetto che verrà quando, sperabilmente, le acque
si saranno calmate e i pezzi oggi dispersi del puzzle istituzionale saranno tornati, se tutti, in buona
parte al loro posto.
La scommessa, per quanto azzardata, può essere
vinta a condizioni ben precise: che Matteo Renzi, il
vincitore delle primarie del Pd, non ceda alla facile
tentazione di riscuotere subito il dividendo del suo
clamoroso successo ma preferisca darsi da fare per
adeguare alle sue non nascoste ambizioni un partito ancora riottoso; che Enrico Letta, selezionando le numerose promesse fatte in Parlamento, si
concentri su due-tre obiettivi importanti, riesca a
spostare rapidamente risorse significative dai costi della politica e delle istituzioni al lavoro per i
giovani, al credito alle imprese, alla riduzione della pressione fiscale; che Angelino Alfano abbia il
tempo di regolare i suoi conti con la casa madre
dalla quale è coraggiosamente uscito; infine che
tutti tengano i nervi ben saldi.
Il tempo a disposizione non è tanto, il compito non
è agevole per nessuno, ma la pur ridotta maggioranza di cui il governo gode può farcela se darà
rapidamente quei segnali di efficienza che finora sono in parte mancati. Se nel sommario elenco delle cose da fare non compare la nuova legge
elettorale, non è per una banale dimenticanza, ma
perché pur trattandosi di un adempimento urgen-
te, non è assolutamente prioritario.
Una volta modificato il sistema, la tentazione di
andare al voto sarebbe forte, con il rischio di perdere altro tempo e di sciupare la preziosa occasione di portare al giudizio degli elettori un apprezzabile bottino di riforme. Per dire: se gli elettori
chiamati alle urne sapessero che eleggeranno un
parlamento meno pletorico, meno costoso, differenziato nei suoi compiti e quindi più moderno, è
probabile che si sentano più invogliati ad entrare
nei seggi. Ma, per presentarsi con un volto più accattivante, una maggioranza numericamente più
ridotta di quella delle larghe intese (che le riforme
non le ha fatte) ha bisogno di tutto il tempo che la
doppia lettura fra Camera e Senato richiede. Dunque, al lavoro.
g.b.
L’elezione di Renzi ultimo atto della mutazione dei partiti
E’ ricambiata la politica
Finisce il ventennio del bipolarismo muscolare.
Il sindaco di Firenze vince contro gli apparati.
Dopo Fini, Meloni e La Russa,
Alfano prova a far nascere la destra europea.
di Guido Bossa
L’elezione di Matteo Renzi alla segreteria del Partito democratico, imprevista per la misura del consenso riversatosi sul sindaco di Firenze, ma ancor
più per il numero e la composizione del corpo elettorale, cioè dei cittadini che domenica 8 dicembre
sono andati a votare nelle sezioni, nei circoli e nei
gazebi, completa il processo di trasformazione dei
partiti politici italiani avviatosi all’inizio degli anni
Novanta quando nel giro di una breve stagione
scomparvero dalla scena la Dc e il Partito socialista, mentre il Pci riusciva a sopravvivere ma solo
al prezzo di un cambiamento non solo di nome ma
anche in qualche misura di fisionomia. In quegli
anni sorgeva anche l’astro politico di Silvio Berlusconi, e si imponeva sulla scena il suo partito, che
tanto “di plastica” non doveva essere, se è vero che
è sopravvissuto fino a ieri e ha governato a lungo,
pur cambiando pelle, anch’esso come il Pci, diverse volte.
Dalle elezioni del febbraio 2013, par di capire, la
fase delle mutazioni, per le due principali formazioni del bipolarismo italiano, è arrivata ad un approdo che vedremo quanto sia stabile. Ciò appare
evidente nel polo di centrodestra dove, dopo i velleitari tentativi di Fini e Meloni-La Russa e dopo
l’insuccesso di Mario Monti, Angelino Alfano si è
avviato lungo un percorso che, pur fra le incertezze
e i compromessi tipici della vicenda politica di un
paese come l’Italia segnato dal trasformismo fin
dalle origini unitarie, dovrebbe concludersi con la
nascita della famosa e tanto desiderata destra “europea”, “moderna”, “perbene” di cui nella storia
patria si erano perse le tracce circa un secolo fa,
quando Giolitti lasciò via libera al fascismo pensando di poterlo controllare facilmente.
Vedremo gli sviluppi, che richiedono tempo, perché intanto l’altra destra, quella populista e demagogica guidata da Berlusconi, sta giocando
spregiudicatamente la sua partita, contro Alfano
e contro tutti, ammiccando a Grillo. Ma intanto
conviene esaminare il punto di caduta della principale formazione dell’altro estremo dell’assetto
bipolare, dove, con l’elezione in due tempi di Renzi – prima nelle sezioni (voto degli iscritti), poi nei
gazebi (voto degli elettori) – si è consumata una
vera e propria mutazione genetica, con i simpatizzanti, i cittadini, la gente comune, la cosiddetta
società civile, che hanno preso il sopravvento sugli
apparati e su una classe dirigente interamente formatasi nel ‘900: un terremoto politico nel quale si
è subito rispecchiata la nuova segreteria di trentacinquenni, a maggioranza “rosa”, insediata nelle
stanze lasciate libere da Epifani.
Si è detto, giustamente, che con la scissione di Alfano e l’elezione di Renzi si è chiuso un ciclo politico
ventennale, quello del maggioritario e del bipolarismo “muscolare”, che non ha fatto bene all’Italia (basta vedere l’affanno con cui rincorriamo la
ripresa del ciclo economico). Ma forse c’è anche
dell’altro, perché se il sindaco di Firenze manterrà
le sue promesse, non solo nel Pd si potrà realizzare quell’amalgama fra culture riformiste diverse
che finora non è riuscito a nessun segretario, ma il
nuovo soggetto politico che nascerà, meno strutturato, meno “pesante” dell’attuale, potrà costituire
il nucleo, o uno dei nuclei, di un diverso assetto,
nel quale i politica e società tornino a parlarsi, a
comprendersi, a contaminarsi. Sarebbe un bene
per tutti.
15
Le tante incognite di una
ripresa che tarda
LE SFIDE
DEL LAVORO
E DELLO
SVILUPPO
Non è solo questione di
carico fiscale, “spending
rewiew” e consumi.
L’assenza di un progetto per
l’Azienda Italia.
Nuove tecnologie e
formazione.
L’Agro industria e il
turismo.
Superare Maastricht.
di Paolo Raimondi
16
La più difficile sfida di fronte a noi è quella di trasformare il principio etico del valore e della centralità del lavoro e della persona in una strategia operativa immediata. Altrimenti, i dati catastrofici che
i sindacati e le varie associazioni di categoria continuano a sfornare sembrano non lasciare scampo.
Dopo quelli sull’aumento della disoccupazione, in
particolare quella giovanile (15 - 24 anni) al 41,2%,
la Confcommercio riporta di un crollo del reddito
pro capite al livello del 1986, mentre la pressione
fiscale rimane ai livelli più alti in Europa con il
44,3%. Inevitabilmente, l’aumento della precarietà e della povertà si traduce in una drastica diminuzione nei consumi, che sarà del - 2,4% nel 2013
dopo il crollo del 4,2% nel 2012.
Certamente il carico fiscale è troppo elevato e una
detassazione sul lavoro e sugli investimenti è più
che necessaria. Ma questi argomenti non devono
diventare alibi per nascondere una mancanza più
grave, e cioè l’assenza di una progettazione del “sistema Italia” e di idee e metodi per la sua realizzazione.
Al riguardo, occorre innanzitutto sbarazzarsi
dell’ideologia degli automatismi, siano essi della
domanda e dell’offerta o del mercato più in generale. Lo si è visto nel settore del credito, e non solo
in Italia. L’abbassamento fino allo 0% del tasso di
interesse e l’elargizione di tanti soldi a bassissimo
costo al sistema bancario non si sono tradotti in
nuovi crediti agli investimenti e alle famiglie.
Lo stesso vale per la teoria che il consumo possa
essere da solo la molla della ripresa economica.
Con ciò non si vuol dire che i livelli di vita della
maggioranza della popolazione che vive in condizioni precarie, i salari dei lavoratori e le pensioni
(che da anni non vedono alcuna indicizzazione in
rapporto all’inflazione) non debbano aumentare e
con essi anche i consumi. Tuttavia, in una situazione di prolungata recessione e depressione economica, simili misure non rimettono in moto il
motore dello sviluppo.
Ricordiamoci che gli Stati Uniti iniziarono ad uscire dalla Grande Depressione del ’29 quando, insieme ad una profonda riforma bancaria che sancì
la separazione tra le banche commerciali e quelle
di investimento, allo scopo di sottrarre i depositi
bancari dei risparmiatori ad un utilizzo speculativo, il presidente Franklin D. Roosevelt lanciò il
New Deal di grandi investimenti statali nelle infrastrutture e nella modernizzazione agro-industriale. Contrariamente a certe leggende, infatti,
gli USA, tempio del liberismo e del libero mercato,
rimangono ancora una grande economia dirigistica nei settori militari, delle nuove tecnologie, dello spazio, delle infrastrutture oltre che del settore
amministrativo. Occorrerebbe perciò definire una
strategia nazionale ed europea di rilancio economico, che faccia perno sulle nuove tecnologie e su
un moderno comparto agro-industriale-turistico.
Il primo cambiamento paradigmatico è quello di
puntare sullo sviluppo invece che sulla crescita
lineare. Quando si parla di crescita ci si riferisce
sempre ad un aumento numerico di cose prodotte,
non importa quali. L’importante è che abbiano un
effetto positivo sul Pil. Lo sviluppo, invece, inglobando anche la crescita, coinvolge risorse, spazio,
popolazione ed educazione-cultura, proiettandosi
sul lungo periodo e per differenti generazioni.
Tale approccio richiede tra l’altro la messa in sicurezza e la valorizzazione del territorio e dei beni
culturali. Ne va della nostra agricoltura, delle nostre infrastrutture, delle nostre comunità sociali,
del nostro turismo. Sono beni di primissima importanza e sono settori che necessitano di molto
lavoro qualificato. Uno dei settori potrebbe essere quello della modernizzazione degli immobili pubblici e privati per ottenere, tra l’altro, una
maggiore efficienza energetica. Si calcola che, oltre ad abbassare la bolletta nazionale del gas, con
investimenti per 7 miliardi di euro si creerebbero
alcune centinaia di migliaia di posti di lavoro. Nonostante gli effetti della crisi, molte nostre piccole
medie industrie hanno saputo mantenere e sviluppare quote di mercato anche nei settori di alta tecnologia. Il loro sostegno e la loro modernizzazione
saranno fondamentali perché l’Italia, che ancora
si annovera tra le prime 10 economie industrializzate del mondo, mantenga un ruolo tecnologico di
avanguardia. Guai se diventassimo una mera attrazione turistica.
Molti si sono sorpresi che, nonostante la crisi, l’Italia sia stata capace di mantenere un elevato livello di esportazioni guadagnando addirittura un
significativo surplus commerciale. Essa è infatti la
quinta economia al mondo per surplus commerciale manifatturiero. Ciò è un bene importante che
attesta la nostra capacità di resistere all’attrito tecnologico e di competere alla pari con gli altri Paesi
in molti settori dei prodotti e dei macchinari innovativi. Le nostre industrie e le piccole medie industrie ad alta tecnologia creano lavoro specializzato,
devono produrre e vendere sul mercato globale,
quindi non possono dipendere soltanto dal mercato interno. Questa è la forza dell’economia tedesca
e non è la causa, come alcuni vorrebbero, della crisi e dei rischi di deflazione nel mondo. Da questo
punto di vista una grande opportunità tecnologica, industriale ed occupazionale per l’Italia e per
l’intera Europa sta nello sviluppo dell’intero continente euro asiatico e nella realizzazione dei grandi
corridoi infrastrutturali, le nuove Vie della Seta.
I 28 contratti di cooperazione tra Italia e Russia
siglati a Trieste alla fine di novembre finalmente
vanno nella giusta direzione.
Il “sistema Italia” deve guardare al futuro della ricerca e mirare a portare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo dall’attuale misero 1,2% almeno al
3% del Pil, come sostenuto dall’UE a Lisbona nel
2000. Per il lavoro giovanile è necessario ripensare a un efficiente sistema di istruzione professionale e di apprendistato. Come in Germania, dove
con una disoccupazione giovanile sotto l’8%, riforme ben fatte permettono l’integrazione effettiva
tra scuole professionali, università e industrie e
integrano ogni anno centinaia di migliaia di giovani in nuovi posti di lavoro. Certo, in una situazione
di “spending review” è doveroso ridurre gli sprechi e rendere più efficiente la spesa pubblica. Ma è
necessario anche progettare nuove fonti di credito
produttivo. Mentre le pressioni per privatizzare gli
immobili statali si fanno sempre più asfissianti, di
fatto a beneficio solo dei compratori più che dei
conti pubblici, tale patrimonio potrebbe invece essere valorizzato e diventare il capitale di base di un
grande fondo, di alcune decine di miliardi di euro,
preposto al credito per lo sviluppo, per le infrastrutture e per le piccole medie industrie. Quindi
per il lavoro. Una simile iniziativa sarebbe fuori da
qualsiasi “fiscal compact” restrittivo.
Stiamo provando sulla nostra pelle che “di solo
rigore si muore”. E’ diventata improcrastinabile l’esigenza non solo di rafforzare, ma anche di
cambiare l’Unione Europea. Pure Romano Prodi,
uno dei costruttori dell’architettura europea, ha
recentemente detto che i parametri di Maastricht
dovrebbero essere ridefiniti. Oltre ai criteri di stabilità finanziaria non applicabili in situazioni di
profonda crisi, come quella odierna, Maastricht
purtroppo sostiene ancora l’incompetente e anti
economica idea di annoverare i nuovi investimenti, le infrastrutture e la ricerca come costi di bilancio da limitare.
17
Ospedali al nord
e ospedali al sud,
la differenza continua
di Simone Martarello
Esiste in Italia la
differenza tra ospedali
del nord e ospedali del
sud? La risposta, per
molti versi desolante,
è affermativa.
18
La situazione, peraltro, è atavica e confermata da più
parti. In altri termini da anni, per non dire da sempre, gli ospedali del nord Italia risultano migliori di
quelli del meridione, pur con le dovute e necessarie
eccezioni, perché anche il sud può vantare alcune eccellenze che primeggiano in Europa.
Venendo ai fatti, una recente indagine di Altroconsumo, una delle maggiori associazioni di consumatori
presenti in Italia, riferisce: “Abbiamo chiesto a centinaia di medici di base e specialisti di indicarci i migliori ospedali italiani. Ancora una volta è fortissima
la differenza tra nord e sud: quasi tutte le eccellenze si
concentrano nelle regioni settentrionali, Lombardia
in testa....Dei quarantasette ospedali presenti nelle
nostre classifiche perché i più frequentemente citati
come i migliori dai medici interpellati, ben 22 strutture mediche sono situate nel nord-ovest e solo 4 al
Sud: la nostra inchiesta conferma quindi la scandalosa disparità esistente nelle strutture sanitarie del
nostro territorio. Va meglio al centro e al nord est,
che hanno rispettivamente dieci e undici ospedali tra
i più segnalati...Per la cardiologia, è risultato primo
l’Istituto cardiologico Monzino di Milano. Nella stessa città, la palma va al San Raffaele per diabetologia,
nonché oculistica e urologia. Gastroenterologia vede
in prima posizione il policlinico Malpighi di Bologna,
mentre per ginecologia è in testa l’azienda ospedaliera San Gerardo di Monza, seguita a breve da un’altra
struttura lombarda, la Mangiagalli di Milano. Ancora a Milano troviamo l’ospedale più reputato per la
nefrologia: è l’Ospedale Maggiore Policlinico. Primo
posto per l’Istituto europeo di oncologia di Milano
nella specialità relativa, seguito a breve dall’Istituto
Nazionale dei Tumori nella stessa città. Per l’ortopedia il primato va al Rizzoli di Bologna. Per la neurologia, spicca lo stacco con cui è in testa il Besta di
Milano. Per otorinolaringoiatria (disturbi della gola
e del naso) primeggia il policlinico Gemelli di Roma,
tallonato dagli Spedali Civili di Brescia, mentre nella
pediatria è in cima alla classifica il Gaslini di Genova.
Quello della pneumologia è uno dei settori in cui il
Sud ha la sua parte: è in testa il Monaldi di Napoli,
seguito a breve distanza dal San Matteo di Pavia”.
Resta da chiedersi, ora, se questa differenza nella sanità del Nord e del Sud sia ancora tollerabile. Non è
un segreto, peraltro, che da anni esiste un forte fenomeno migratorio dal sud al nord della Penisola per
andarsi a curare, con tutti i disagi che ne possono
conseguire.
Continuando a dare uno sguardo a ciò che non va
nella sanità pubblica, un capitolo consistente riguarda ancora gli acquisti di farmaci. Un’altra indagine,
questa volta condotta dall’Osservatorio dell’Autorità
per la Vigilanza sui contratti pubblici di Lavori, Servizi e Forniture, la migliore capacità di acquistare un
farmaco a uso ospedaliero a un prezzo relativamente vantaggioso è appannaggio di Veneto, Piemonte e
Abruzzo, mentre in fondo a questa speciale classifica
stanno Puglia, Lazio e Umbria. Oggetto di tale inchiesta sono stati 85 farmaci non coperti da brevetto, un
set limitato che, se da un lato non permette di trarre
conclusioni di portata generale, dall’altro è comunque significativo. Tanto che le conclusioni di tale
studio affermano: “In generale, si rileva un’evidente
difformità di risultati in termini geografici: non si
può non rilevare come le regioni del Sud (Abruzzo a
parte) mostrino risultati nettamente peggiori rispetto
alle altre. Da notare infine come, dai dati analizzati, le
performance relativamente peggiori siano associate,
fatte alcune eccezioni, alle Regioni con piani di rientro”.
Tuttavia, come ha scritto il 13 ottobre scorso su Repubblica Raffele Calabrò, ordinario di cardiologia
presso la Seconda Università degli Studi di Napoli
(e senatore Pdl), proprio nella differenza della sanità
tra Nord e Sud si possono nascondere anche grandi
affari. “Non voglio rivestire il ruolo di avvocato d’ufficio del nostro sistema sanitario dopo le polemiche
dei giorni scorsi”, scrive Calabrò. “Restano senz’altro
– continua - delle falle da tappare, si può e si deve ottimizzare la performance delle nostre strutture: sono,
tra l’altro, in dirittura d’arrivo alcune linee guide indirizzate al miglioramento della qualità e dell’appropriatezza delle prestazioni; si potrebbero prevedere,
inoltre, indicatori di esito nella valutazione dei direttori generali, come suggerito dall’Agenas (Agenzia
nazionale per i servizi sanitari regionali, n.d.r.). Epperò di tutto abbiamo bisogno, tranne che di incoraggiare i meridionali ad andare a curarsi fuori regione,
aggiungendo un ulteriore danno alle casse regionali,
senza alcun beneficio per la salute dei campani. Non
vanifichiamo l’impegno della Campania nel contrastare una migrazione sanitaria che rappresenta un
dato patologico e alla quale abbiamo posto un argine necessario, approvando un decreto che subordina
in alcune condizioni la possibilità di curarsi in altre
regioni alla previa autorizzazione dell’Asl. Il provvedimento - sia chiaro - fa salva la libertà del cittadino
che migra fuori regione per interventi di alta complessità, o in presenza di liste di attesa non adeguate,
ma pone regole e restrizioni per quegli interventi che
possono essere effettuati dai nostri medici nei nostri
nosocomi, che spesso, in quanto a professionalità ed
esperienza, eguagliano se non superano i colleghi del
Nord. Non a caso il decreto (tra l’altro, è cronaca di
questi giorni, ha ottenuto il disco verde dalla giustizia
amministrativa) ha suscitato polemiche e ricorsi da
parte di quelle Regioni che finora si sono avvantaggiate ingiustamente e inappropriatamente del flusso
di migrazione sanitaria. A scanso di equivoci, saranno
negate richieste di rimborsi per alcuni tipi di intervento sulla retina: ci sono eccellenti oculisti napoletani; saranno concesse quelle per interventi complessi
in centri di eccellenza. Quanto allo squilibrio di assistenza sanitaria tra Nord e Sud, in tutta coscienza,
si può sostenere che le performance dei nostri ospedali sarebbero di gran lunga migliori se potessimo
contare su una quota di risorse destinate alla sanità
non più vincolata soltanto al dato anagrafico, che finora ha avvantaggiato il Settentrione; se finalmente
potessimo disporre della libertà di assumere più medici e infermieri per offrire un’assistenza adeguata,
se potessimo ottenere quei finanziamenti ex articolo
20 dedicati all’edilizia sanitaria per modernizzare e
tecnologizzare le nostre strutture sanitarie. È, infatti,
facilmente dimostrabile che questi fattori (blocco del
turn over, riparto del fondo sanitario, articolo 20) di
forte impatto politico-economico fanno una gran bella differenza tra l’assistenza sanitaria nostra e quella
del Nord”.
19
Giuseppe Orizio
A Castegnato, il Taxi è Sociale
L’Italia, si sa, non è una
repubblica fondata sul lavoro,
ma sul servizio sociale
ed il volontariato.
Dove lo Stato non riesce
ad arrivare ci pensano le
amministrazioni locali ed
i volontari che,
animati da sana voglia di
rendersi utili, sopperiscono alle
carenze dei servizi assistenziali.
20
Ennesima prova di questo moto popolare “solidale”, la si trova a Castegnato, in provincia di Brescia, comune di 8.000 anime dove, grazie ad una
amministrazione locale particolarmente attenta
alle esigenze dei propri abitanti, con l’impegno
delle associazioni di volontariato locali e dell’Associazione Pensionati e Anziani in prima fila, ha
dato vita al “Taxi sociale”.
Il servizio predisposto è semplice, efficace e, soprattutto, gratuito.
Il Comune mette a disposizione i propri mezzi, donati dalle Aziende locali, ed il carburante, i pensionati ed i volontari ci mettono il tempo. Nasce
così il Taxi sociale, non un vero e proprio taxi, ma
un servizio rivolto a chi si trova nella momentanea impossibilità di recarsi ad una visita medica
o a fare terapie presso cliniche o case di cura nella
zona di Brescia. Per poterne usufruire si deve fare
richiesta ad un numero dedicato o all’Ufficio Servizi Sociali del Comune, nulla di più semplice.
Giuseppe Orizio, Sindaco di Castegnato ed ex dirigente della Cisl Bancari (Fiba) a Brescia, Milano
e Roma, ha dichiarato di essere particolarmente
soddisfatto di come questo servizio si sta sviluppando. “Sono sempre di più le persone che trovano
difficoltà ad utilizzare le strutture sanitarie nel circondario di Castegnato – afferma Orizio – anche
perché i trasporti pubblici sono particolarmente carenti nei collegamenti con i paesi limitrofi. I
mezzi a disposizione effettuano servizi giornalieri
e la priorità di prenotazione è rivolta principalmente ad anziani, bambini accompagnati e persone che hanno motivati e particolari problemi”.
“Il Taxi Sociale – prosegue il Sindaco – non è un
servizio sostitutivo rispetto a quello proposto dalla
Croce Verde, con la quale abbiamo una convenzione per il trasporto di persone che hanno problemi
più seri, ma serve a coprire quelle situazioni che
per necessità o per urgenza non possono essere
svolte dalla normale attività degli organi preposti. L’Amministrazione comunale, dal canto suo,
svolge un’azione di controllo mirata ad evitare che
accadano abusi a discapito di chi ne deve usufruire
per reale necessità”.
Dino Della Casa
Deficit di futuro
Origami vuole essere uno spazio per raccontare il dialogo tra le generazioni, un raccoglitore di domande e storie
Nelle famiglie giapponesi l’arte degli origami veniva trasmessa dalla madre ai figlii non solo per insegnar loro
ad ottenere oggetti utili dalla carta, ma per far comprendere il concetto della trasformazione della materia, un
momento, una pausa della continua trasformazione della materia e dell’energia. Per i giapponesi la bellezza non
risiede nell’umile foglio di carta, ma nella forma che viene ricreata e così rinasce, in un eterno ciclo vitale che il
rispetto delle tradizioni mantiene vivo.
Gli interessi degli anziani e dei giovani sono in contraddizione fra loro o invece possono conciliarsi?
I prossimi anni, saranno ancora caratterizzati dalle
forti difficoltà economiche del Paese,
porteranno difficoltà e rischi per tutte le fasce generazionali, un cammino più ostico e faticoso per tutto
il mondo del lavoro italiano?
A questi interrogativi a cercato di dare una risposta
la ricerca previsionale che la FNP ha realizzato.
a seguito dell’ ulteriore riforma previdenziale e del
progressivo allungarsi della speranza di vita, si troveranno a sopportare carichi crescenti: lavoro prolungato, assistenza dei grandi anziani, ma anche
supporto familiare ai propri figli.
Nel lavoro, invece, la “crescente precarizzazione dei
rapporti di lavoro” provocherà un evidente contrasto di interessi fra le generazioni che disporranno
di posizioni più consolidate, maggiori certezze, ma
che faranno sempre più fatica ad acquisire le nuove
competenze che il lavoro richiederà, e le generazioni
più giovani, più qualificate e dinamiche ma prive di
prospettive di carriera, di sicurezza previdenziale, di
possibilità di rendersi economicamente autonomi.
Il rischio di conflitti generazionali “sarà nei prossimi
anni rilevante”: in tal senso sarà importante il “ruolo
che le parti sociali” potranno avere per evitare che
nel mondo del lavoro prevalgano criteri allocativi
poco trasparenti.
Infine, nella sfera sociale, la condizione degli anziani
e dei giovani sarà in larga misura destinata a divaricarsi.
I primi crescendo progressivamente di numero, acquisiranno un peso sociale e politico crescente. Il
maggiore attivismo, consentito dal miglioramento
della loro qualità di vita, accentuerà questa tendenza. I giovani, viceversa, percependo la difficoltà di
modificare la propria condizione sociale prendendo
in mano il proprio destino, tenderanno ad essere
poco coesi con il resto della società, organizzandosi
autonomamente per rivendicare una diversa organizzazione sociale.
Il rapporto fra le generazioni più giovani e quelle più
anziane è un tema centrale del dibattito pubblico di
questo paese. Da molti anni a questa parte, un discorso ricorrente riguarda la (presunta) contrapposizione fra gli interessi economici e sociali dei giovani
(gli attuali 20enni e 30enni) e quelli delle generazioni
precedenti che, per motivi anagrafici, hanno potuto
usufruire di un sistema pensionistico più favorevole
dell’attuale.
Alcune riflessioni possiamo trarle dall’indagine previsionale Generazioni – Giovani e anziani nel 2020,
che tratteggia un quadro articolato ed organico degli aspetti tecnologici, economici, sociali, culturali e
politici della relazione fra anziani e giovani ed evidenzia alcune tendenze di particolare interesse.
Nel contesto familiare, le relazioni generazionali saranno infatti proficue e solidali: i flussi di aiuto andranno in tutte le direzioni, consentendo tanto ai
giovani quanto agli anziani di trovare supporto, tanto pratico ed economico, quanto umano e affettivo.
“Elemento di vulnerabilità” che spicca è la condizione della “fascia d’età attorno ai 60 anni” che,
Gli anziani andranno assumendo una crescente importanza sociale il motivo è costituito dalle loro capacità professionali. Oggi, a sessant’anni, si è ancora forti, sani e lucidi; eppure le aziende continuano a
disfarsi dei sessantenni, benché formati professionalmente, dotati di una vasta rete di conoscenze,
gran parte dei pensionati costituisce una preziosa
riserva professionale, molti avviano imprese e svolgono mansioni intellettuali.
Infine un’altra questione di particolare rilevanza che
l’indagine propone è l’intreccio fra la questione generazionale e la questione etnica.
Ai cittadini, che vivono il disagio quotidiano della
depressione economica, psicologica e sociale, occorre aggiungere gli immigrati, che a queste insicurezze sommano l’emarginazione razziale e culturale.
In funzioni di badanti, molti di questi immigrati sono
a contatto diretto con gli anziani e ne assicurano la
sopravvivenza.
Inoltre è da considerare che gli immigrati, avendo
accettato lavori sottopagati e spesso irregolari, giungeranno all’età anziana senza alcuna rete di sicurezza previdenziale. Mentre sarà inevitabile il conflitto
per i giovani e quindi le seconde generazioni nate e
cresciute in Italia e le famiglie di prima immigrazione.
Dunque la presenza crescente di pensionati e di giovani inoccupati impone una svolta epocale nell’organizzazione della società. Sono gli anziani stessi,
insieme ai giovani, che debbono pretenderla.
Elettra
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Cosa prevede, come opera, quando funzionerà
Il nuovo ISEE, anti evasione
Nel calcolo entra tutto quanto fa cassa in famiglia. Molti dati saranno acquisiti alla fonte.
La casa pesa molto e può diventare penalizzante per i nuclei disagiati.
In preparazione il nuovo modello di dichiarazione.
Isee più severo se si possiedono case di proprietà,
conti correnti e titoli e altre forme di reddito, anche
se fiscalmente esenti. Ma più attento famiglie numerose e con disabili (attraverso detrazioni e franchigie ad hoc che si accompagnano alla sottrazione
standard sino a 3mila euro di reddito dipendente
e mille di pensione). Anche se poi, a ben vedere,
la novità più forte del nuovo “Indicatore della situazione economica equivalente (vero e proprio
“pass” per numerose prestazioni sociali: asilo, università, borse di studio, libri di testo, bollette telefoniche, social card…) è il filtro antievasione: solo
una parte dei dati utili sarà autocertificata, alcuni
dati di reddito saranno invece forniti in automatico dalle amministrazioni che già li possiedono,
Inps in primis. Una misura preventiva: i controlli
sono scarsi, ma quando avvengono restituiscono
cifre imbarazzanti, addirittura sino al 60 per cento
di certificati falsi come verificato in alcune inchieste sulle tasse universitarie e il diritto allo studio.
La filosofia è dunque chiara: nel certificato entra
tutto quanto fa cassa in una famiglia, poi si ragiona caso per caso, nucleo per nucleo. Con minori
margini discrezionali che spesso hanno indotto il
contribuente a “truccare” le carte. Il cittadino deve
immaginare di trovarsi davanti non più un modulo
vuoto, ma in parte precompilato, con informazioni date dall’Istituto di previdenza o dal Fisco. Una
forte stretta ci sarà anche sull’elusione relativa alla
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dichiarazione dei conti correnti: l’80 per cento
di chi si avvale dell’Isee dice di non averne uno,
contro ogni statistica di Bankitalia. Perciò il patrimonio mobiliare verrà controllato ex ante con riferimento all’esistenza di conti non dichiarati ed ex
post con la creazione di liste selettive per controlli
sostanziali della Guardia di Finanza.
Insomma, per i furbetti la vita è più dura. Ma forse
sarà più dura anche per chi, non navigando nell’oro, ha comunque la sicurezza della propria abitazione. Che varrà di più nel calcolo complessivo,
con gli stessi valori Imu del 60 per cento superiori a quelli della vecchia Ici. La stretta sulla parte
reddituale e patrimoniale dovrebbe essere compensata da una serie di sottrazioni e detrazioni ad
hoc per famiglie numerose e con disabili. Ma qui
i calcoli si fanno abbastanza difficili e tendenziali.
Già diversi parlamentari e associazioni a tutela di
famiglie numerose e disabili hanno fornito stime
allarmanti: colpendo la casa, è il ragionamento,
di fatto si colpisce una delle prime necessità cui
vanno incontro diversi nuclei disagiati per definizione, quelli con famigliari non autosufficienti
e molti bambini. L’equazione “problema grande
– casa necessariamente grande” potrebbe dunque
diventare una beffa ai fini dell’accesso a importanti prestazioni sociali. Sul punto occorrerà monitorare l’applicazione concreta del nuovo strumento.
Infatti, gli enti erogatori possono utilizzare, accan-
to all’Isee, altri criteri di selezione. E soprattutto,
determinano le soglie per l’accesso alle prestazioni
sociali o la compartecipazione ai costi.
Il Dpcm in ogni caso non rende il nuovo Isee immediatamente operativo. Dopo la pubblicazione in
Gazzetta, serviranno altri provvedimenti: in primis la stesura del Dsu (Dichiarazione sostitutiva
unica), in pratica il nuovo modello con istruzioni
per la compilazione. Insieme al Dsu dovrebbero anche specificati due elementi fondamentali:
come l’ente erogatore può reperire in automatico
le informazioni reddituali già disponibili, e come
può integrarle se insufficienti. Il quadro attuativo
prevede, inoltre, anche una convenzione Inps –
Agenzia delle entrate per lo scambio di dati, e apre
alla possibilità di convenzioni ad hoc tra Inps ed
enti erogatori. Tra un anno, inoltre, è prevista l’automatizzazione anche dei dati relativi all’anagrafe
tributaria e le operazioni di natura finanziaria. A
futura memoria e senza una scadenza già fissata, il
ministero del Lavoro dovrà poi istituire una commissione di monitoraggio.
Tutto quello che è bene sapere
Cosa cambia per le famiglie
Casa di proprietà, la stangatina. Nell’indicatore si contano i valori Imu dell’abitazione di proprietà, superiori del 60 per cento rispetto ai vecchi
valori Ici. A questo valore si sottrae un terzo, ma
resta più alto delle cifre precedenti. Confermato il
meccanismo del vecchio sistema per cui viene sottratta la restante parte di mutuo da pagare. Cancellata invece la possibilità di detrarre 51.645 euro.
La casa fino a 52.500 euro non va messa nei conti
(con ulteriore franchigia di 2500 euro per ogni figlio).
convinvente in poi, si aggiunge un’ulteriore detrazione da 500 euro pro-capite.
Immobili, sconto molto più basso. La detrazione riferita al patrimonio mobiliare passa da
15493,7 euro a 6mila euro. Per le famiglie numerose ci sono due norme aggiuntive: una detrazione extra di 2mila euro per ogni componente dopo
il primo e di ulteriori mille per ogni figlio dopo il
secondo. In ogni caso non si possono superare i
10mila euro.
Due nuove detrazioni fisse. Il reddito da lavoro e da pensione può essere detratto per il 20 per
cento. Ma senza superare la soglia di 3mila euro
per i dipendenti e di mille per chi ha cessato dalle
attività lavorative.
Più redditi conteggiati. Non andrà indicato
solo il reddito da lavoro o da pensione, ma tutti
quelli soggetti a imposta sostitutiva (come l’affitto con la cedolare), i redditi tassati all’estero, gli
assegni di mantenimento per i figli, i trattamenti
assistenziali, le indennità… ll calcolo si estende
anche al Tfr. Tutto va messo nel calderone, poi, sul
totale, si può iniziare a ragionare di detrazioni.
Conti correnti pesano di più. Il vecchio sistema conteggiava il valore dei conti correnti e dei depositi al 31 dicembre. Ora si adotta la consistenza
media annua, se superiore al valore di fine anno.
Altri bonus con occhio a disabili e malati.
Se chi riceva l’assegno di mantenimento lo deve
dichiarare nel nuovo Isee, chi lo emette lo può
sottrarre. Maxisconto sino a 5mila euro per spese
mediche e di assistenza specifica per disabili, acquisto di cani-guida e servizi di interpretariato per
non udenti.
Casa in affitto, un po’ di sollievo. Arriva sino
a 7mila euro (prima era 5164,6) la detrazione per
le spese di affitto, ammesso però che ci sia un
contratto regolarmente registrato. Dal terzo figlio
Franchigia ad hoc per l’handicap. Sino a
4mila euro per famiglia (5500 se il componente
disabile è minorenne) nel caso di handicap medio.
La franchigia sale a 5500 (7500 se minorenne)
per disabilità grave, a 7000 (9500 minorenne) per
non autosufficienza totale. Sottratte all’Isee tutte
le spese per collaboratori domestici legati alle persone non autosufficienti.
L’Isee corrente, un’opportunità per chi perde reddito in una fase della vita. Se si verifica
una consistente contrazione del reddito (fine di un
rapporto temporaneo di lavoro, ad esempio…) si
può modificare in corsa l’Isee. Ma ci vogliono alcuni criteri: nei 18 mesi precedenti la richiesta della
prestazione sociale, almeno uno dei componenti
deve essersi trovato in una situazione di licenziamento, sospensione o riduzione di lavoro a tempo determinato, lavoratori autonomi che hanno
cessato l’attività per almeno 12 mesi, contratti a
tempo determinato o flessibili non rinnovati che
hanno ridotto la persona in disoccupazione al momento della presentazione della domanda (purché
abbiano lavorato almeno 120 giorni nei 12 mesi
precedenti la conclusione dell’ultimo rapporto di
lavoro). Ovviamente la “deroga” all’Isee standard
va valutata alla luce delle altre fonti di reddito della famiglia.
Marco Iasevoli
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La crisi e la riscoperta di diritti non negoziabili
“Serve una base etica
contro il populismo”
Alain Touraine:
“La politica non parla
più alla gente e la finanza
speculativa ha provocato
diversi guasti.
Ma resto ottimista. Vedo i
segni di molte opposizioni
a disuguaglianze e
autoritarismi”.
Intervista di
Mimmo Sacco al sociologo
Alain Touraine
Alain Touraine
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Sacco: Professore, di fronte alla preoccupante
crisi sociale, politica e anche morale della nostra
società (mi riferisco alla corruzione), Lei pone
(come una sorta d’imperativo categorico) di riscoprire il concetto di etica. Ma in concreto da dove si
può e si deve ripartire?
Touraine: La sua è una domanda che ha una
valenza generale, ma la ritengo, al tempo stesso, assolutamente importante. Direi che proprio
perché stiamo vivendo un periodo dominato sia
dal capitalismo finanziario sia anche, in molti paesi, da regimi totalitari, avvertiamo la necessità
di una resistenza che definirei globale. Cioè non
negoziare dei diritti ma porre in atto il principio
che, al di sopra delle leggi e dei poteri (qualunque
essi siano) ci siano dei valori assoluti, direi universali, contenuti nella Carta dei Diritti dell’uomo.
Il diritto alla libertà, all’uguaglianza e il diritto di
ogni persona di essere padrona della propria vita.
In sintesi direi, in particolare, che dagli Anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del
capitalismo industriale. Ha prevalso il capitalismo
finanziario e speculativo che sottrae capitali agli
investimenti produttivi. Questa trasformazione
ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a
pensare la società industriale. Ecco perché non ci
resta che affidarci alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo.
Da qui bisogna ripartire.
Sacco: Professore, ma promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l’etica alla politica?
Touraine: La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo “politica“ è
ormai una realtà molto degradata e travisata. Il
carattere nobile dell’azione politica può rinascere
solo dall’etica. Non da una politica di classe, non
da una politica degli interessi. Utilizzando categorie del passato la politica non sa e non riesce più a
parlare alla gente. Diventa afasica.
Sacco: Lei considera i diritti civili (libertà, uguaglianza, dignità) fondamentali per ripensare la
società. Ma non avverte piuttosto la tendenza o la
tentazione di limitarli, questi diritti, e comprimerli?
Touraine: È vero. Ma il problema dei diritti è
fondamentale per ripensare la società. Non c’è
democrazia se non ci sono convinzioni democra-
tiche. Noi abbiamo lottato, in passato, per i diritti
di categorie particolari: i diritti sociali di varie categorie di operai, delle minoranze, ecc... Ma oggi,
di fronte all’espansione del potere autoritario o
del capitalismo speculativo, dobbiamo insistere
perché ci sia un movimento di democratizzazione. Noi abbiamo un compito urgente perché oggi
le convinzioni democratiche mi sembrano sempre
meno diffuse. Occorre partire da un’esigenza etica
che si trasformi in azioni e in istituzioni. In questo contesto si pensi, per esempio, ai diritti delle
donne. La condizione femminile è diventata uno
degli elementi determinanti per valutare il grado
di sviluppo di una società.
Sacco: La ricostruzione di un tessuto etico non
passa anche attraverso una rinnovata solidarietà
tra generazioni (anziani e giovani) che un diffuso
individualismo rischia di ostacolare?
Touraine: Condivido a pieno la sua opinione.
Noi viviamo in una società individualista e competitiva che spinge gli anziani verso l’emarginazione,
con tutti i danni che questo comporta e che quindi
non aiuta a far ritrovare le basi per una rinnovata
solidarietà intergenerazionale. E contro questo individualismo ho sempre combattuto.
Sacco: Lei che può guardare la realtà che ci circonda da un osservatorio privilegiato, nota un
nuovo linguaggio “etico – sociale” da parte di Papa
Francesco?
Touraine: È un segnale tra molti che è importante. Ratzinger è un teologo intelligente, un intellettuale. Il nuovo Papa (che si colloca nella tradizione
francescana) è molto interessato alle molteplici e
serie esperienze vissute delle persone. Allargando
poi il discorso, sono colpito nel vedere che le rivendicazioni si stanno spostando sempre di più su un
piano morale. Quando vediamo nel mondo di oggi
gente morire per mancanza di aiuto, il carattere
estremo delle prove subite da molte persone porta il linguaggio (che era di difesa degli interessi) a
diventare un linguaggio di difesa dei diritti e dei
principi, in ultima analisi etico.
Sacco: Veniamo al rapporto tra capitalismo industriale e finanziario, un campo di ricerca del
quale Lei si è occupato a lungo. Lei avverte che ci
avviamo verso un declino, verso un tramonto del
capitalismo industriale. Quali i guasti più vistosi
prodotti dal capitalismo finanziario?
Touraine: Noi stiamo vivendo una serie di crisi
finanziarie che sono sfociate in una crisi mondiale. Numerosi esempi ci mostrano degli scandali
finanziari massicci, migliaia di miliardi di dollari
andati in fumo, l’equivalente delle risorse delle
due più grandi potenze mondiali si ritrova nei paradisi fiscali, e ancora violenza, traffici di droga e
di armi, etc.… Ma assistiamo anche all’aggravarsi
delle situazioni in generale: aumentano le disuguaglianze, in particolare a favore dei più ricchi. In
altre parole c’è una sorta di estremizzazioni delle
crisi che ci obbliga a reagire in termini universalisti, cioè in termini morali.
Sacco: Ora, Professore, veniamo a un tema di
grande attualità. Un’ondata di populismo sta attraversando varie zone dell’Europa. Si può contrastare questo preoccupante fenomeno che rischia
di minare le basi stesse della democrazia?
Touraine: È sotto gli occhi di tutti la constatazione che questo spettro si aggira in vari Paesi. Si
nota dappertutto in Europa (come lei accennava),
dall’Italia, alla Francia, all’Austria, ad altri Paesi
del Nord Europa. Notiamo un vuoto politico che
fa sì che non ci sia più comunicazione tra governo
e popolazione. Per questo assistiamo alla crescita del populismo. Il populismo non è che il rifiuto
della democrazia rappresentativa e, molto spesso,
sfocia in ondate reazionarie o addirittura in regimi autoritari. Può accadere da noi in Francia con
il Fronte Popolare di Marine Le Pen, ma anche in
Austria, in Grecia, in Russia o altrove. E questo rischio potrebbe esserci anche da voi in Italia.
Sacco: Professore, avviandomi alla conclusione
di questa nostra conversazione le chiedo: di fronte
ad una situazione così complessa nella quale noi ci
troviamo (crisi politica e sociale, crisi della società
industriale, guasti prodotti dal capitalismo finanziario) quale deve essere il nostro atteggiamento?
Touraine: Ovviamente io ho un atteggiamento
ottimista perché non vedo nessun motivo per credere che la fine della società industriale, la crisi
delle forze sociali, politiche o ideologiche segni il
trionfo della violenza e delle brutalità dei regimi
autoritari. Noto, al contrario, che già in molte zone
del mondo si sviluppano movimenti contro questo tipo di regimi: la Primavera araba, movimenti
contro il potere assoluto del partito comunista in
Cina… Anche qui mi limito solo ad alcuni esempi.
Anche quando ci sono dei fallimenti, come la violenza oggi in Siria, vediamo dei movimenti democratici nascere e diffondersi ovunque nel mondo. Ci
sono gli Indignados in Spagna, Occupy Wall Street
negli Stati Uniti, dei movimenti coraggiosi di gente
che ha corso rischi importanti per manifestare contro Putin a Mosca, per esempio. Perciò, per questi
motivi ci sono molte ragioni per essere ottimisti.
L’ottimismo vuol dire, però, la necessità di impegnarsi in questi movimenti che hanno una base etica che deve concretizzarsi in azioni politiche.
Alain Touraine è uno dei massimi esponenti della
sociologia mondiale. Si è imposto come uno dei
più attenti e fini osservatori della società contemporanea. Dura la sua critica al capitalismo finanziario.
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VIAGGIO FOTOGRAFICO NEI MERCATINI DELLE FESTE.
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Puntare sull’Unione del Continente e avviare una concorrenza virtuosa
AFRICA: IL MALE OSCURO
SI PUO’ BATTERE
Le “primavere” fallite.
Il fondamentalismo.
La pressione dei cinesi.
La fragile politica dell’Europa e
la quasi assenza dell’Italia.
Il Sahel, la fame, le guerre
intestine. Una proposta: offrire
cooperazione internazionale
costruendo infrastrutture e
ospedali su priorità fissate
dall’ONU e realizzate sotto
controllo della Banca Africana.
Gian Guido Folloni
incontra Romano Prodi
Romano Prodi
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Il professore, il presidente della Commissione Europea, il due volte presidente del Consiglio dei ministri
dell’Italia e, oggi, il delegato delle Nazioni Unite per
l’Africa: Romano Prodi è statista a 360 gradi. Uno dei
pochi italiani, forse il solo, che può essere considerato tale. Ma il provincialismo della politica italiana
non riesce a mettere a valore la stima, il prestigio,
l’autorevolezza e la competenza che il mondo gli riconosce.
Trovarlo al telefono è stato semplice, perché è persona che non alza barriere a chi vuole raggiungerlo.
Fissare il momento dell’intervista è stato, al contrario, una difficile partita. L’Africa, la Cina, la Russia,
le repubbliche dell’Asia centrale e ovviamente, oltre
Atlantico, le Americhe: il professore è globe trotter.
Bisogna pazientare, ma la cordialità dell’accoglienza
ripaga.
Non parleremo d’Italia. Non di Europa. Mettendo il
registratore sul tavolo sappiamo che l’incarico dell’ONU di cui oggi è titolare è tra i più gravosi. Nel mondo
che cambia, l’Africa è turbolenta e inquieta. E’ anche
un enigma: ricca di ogni risorsa, è però rimasta la regione meno sviluppata.
Folloni: Partiamo da un dato: nel passaggio dal G7
al G20 tutti i continenti sono ampiamente rappresentati nel nuovo club dei potenti del mondo. Ma l’Africa vi partecipa con una sola nazione: il Sudafrica.
Quale male oscuro avvolge questo immenso e ricco
territorio?
Prodi: Questo rispecchia il peso specifico del mondo di oggi. Devo però specificare che non ritengo che
i G20 abbiano alcun ruolo nel futuro del mondo. E’
una struttura importante per il confronto delle idee,
ma dal punto di vista decisionale non lo è. Se invece
lo fosse, forse l’Africa sarebbe ugualmente trattata
male. Mi consola che non è questo il punto. Detto ciò,
il male oscuro esiste. In primis per un motivo storico
e oggettivo: il livello di povertà. L’Africa rappresenta
solo il 3-4 per cento del prodotto mondiale. Qualsiasi conto si faccia non supera comunque il cinque.
Però l’Africa non è solo il suo livello di povertà. Non
è solo la sua eredità coloniale. Il problema è la sua
frammentazione: sono 54 Paesi. Il lavoro della Fondazione che io presiedo ha un solo tema: cinquantaquattro paesi ma un’unica realtà. Finché l’Africa non
ha forza di rappresentazione, rimarrà sempre emarginata nella storia del mondo. Nonostante tutto, io
penso che l’Africa abbia aperto un nuovo capitolo. Da
qualche anno si è svegliata. E’ ancora a un livello di
povertà estrema, ma è cominciata la fermentazione.
Da sei - sette anni lo sviluppo africano è molto superiore a quello della media mondiale. Le sue città, da
orizzontali diventano verticali. C’è una nuova gioventù africana che ha come orizzonte il mondo e adotta
le nuove tecnologie. La diffusione de telefonini è a
livello di centinaia di milioni: una piccola cosa, segno tuttavia di un movimento. Oggi l’Africa è ancora
il buco nero del mondo, ma perlomeno a me offre la
speranza.
Folloni: Il Nord Africa e le fallite primavere. C’è una
domanda di democrazia che non ha avuto risposta?
Prodi: Difficile a dirsi. La domanda di democrazia
c’è stata, ma molto fragile; senza le istituzioni partitiche, senza tradizioni, senza consapevolezza della po-
polazione, senza esperienze precedenti diffuse. Nello
stesso tempo, in Paesi profondamente divisi al loro
interno da fattori religiosi, etnici e storici.
Folloni: Chiamandole primavere ci aspettavamo
l’adozione del modello occidentale. L’esportazione
democratica pare non funzionare nemmeno in questo caso. Perché?
Prodi: Non è che me lo aspettassi – sapevo le difficoltà – ma ci speravo. Speravo che le elezioni, con i
tanti partecipanti, dopo una vera campagna, avrebbero prodotto cambiamenti. Parlo dell’Egitto, che
ritengo la chiave di questa rivoluzione mancata. Non
solo è il Paese più numeroso del Nord Africa, ma è
il centro intellettuale di tutto l’islamismo moderno.
Dalle università egiziane partono le idee, le condensazioni intellettuali, quelle che poi fanno breccia nel
resto del continente africano, soprattutto nel Sub
Sahara. E’ stato un fallimento, ma attenzione a non
generalizzare. In ogni nazione il fallimento della cosiddetta primavera democratica ha avuto una sua ragione specifica. In Egitto la tradizione e il costume
hanno sempre avuto quale punto di riferimento e di
comando del Paese il blocco tra l’esercito e l’economia. Sì. La forza è sempre stata l’esercito, ma alleato
con duemila grandi famiglie economiche, che assieme possiedono quasi un terzo dell’economia egiziana.
Se uno va in un albergo a Sharm-el-Sheik gestito da
qualche compagnia internazionale, scopre probabilmente che la proprietà è dell’esercito, gestita maga-
ri da qualche generale in pensione. L’establishment
egiziano è sempre stato estremamente forte intorno
all’esercito. Le elezioni sono state una grande rivoluzione. Sarebbe andata avanti se il governo avesse
risposto alle attese e alle richieste del Paese. Di fronte ad una risposta governativa ritenuta insufficiente,
la controrivoluzione è diventata inevitabile. In Libia
non si è trattato di rivoluzione democratica. In Tunisia ho ancora speranza che la struttura democratica
persista e si rafforzi. In Marocco c’è l’unica lezione
positiva. Sentiti gli echi di questa scossa democratica,
il re – identità molto forte della nazione – ha capito
di dover precedere con le riforme ogni possibilità di
rivoluzione. L’Algeria non si è mossa a causa della
terribile traccia del recente passato.
Folloni: L’Italia che vive nel mezzo del Mediterraneo si pone la domanda: dove vanno le nazioni arabe
africane, punto di riferimento per una nazione europea così proiettata a Sud?
Prodi: No. L’Italia non si pone questi problemi, purtroppo.
Folloni: Dovrebbe…
Prodi: Se li dovrebbe porre! Perché poi ci vogliono
bene. Non è retorica. Mi sono sempre sentito dire:
ma l’Italia dov’è? Non mi hanno mai detto: vergognatevi! La chiave di questo è la guerra libica. Abbiamo
seguito decisioni altrui, senza pensare ai nostri interessi. Si potrebbe dire: siamo stati grandiosi, democratici e generosi. Ma non abbiamo nemmeno pensato a quello che sarebbe avvenuto dopo. Chiunque
conoscesse la Libia sapeva che costituiva l’equilibrio
di tutto il Sud Sahara. Quando Gheddafi ha smesso di creare turbolenze, e ha voluto essere il padre
protettore dell’Africa, per mantenere un suo esercito
versava una quantità grande di risorse a sud del deserto. Lo sapevano tutti. Distrutta la struttura libica,
quello che è poi successo è stato fatale. Gheddafi era
un dittatore. All’interno del Paese era di una durezza
estrema. All’esterno aveva capito che sarebbe stato
schiacciato se continuava a portare problemi in Ciad,
eccetera. Questo è il motivo per cui lo invitai a Bru29
xelles, acquistandomi prima l’attenzione degli americani e degli inglesi e poi la loro gratitudine. Era venuto a mancare un elemento di turbamento.
Folloni: Dopo quella visita fu ammesso in tutte le
sedi internazionali
Prodi: Non c’era conferenza africana in cui non ci
fosse la coda dei leader occidentali per essere ricevuti
da Gheddafi. Mi ricordo: una volta dovetti aspettare
perché c’era il primo ministro irlandese che doveva
vendere la carne, bovina naturalmente; il primo ministro inglese aveva dei contratti petroliferi, e così
via. Rotto quell’equilibrio, il Sud Sahara è andato in
mano all’economia illegale: la droga, i rapimenti; è
crollato il turismo e di conseguenza l’artigianato. E’
diventata una zona drammatica.
Folloni: La regione sub sahariana e le nazioni centro africane, il Sahel, il corno d’Africa. A distanza di
molti lustri, l’indipendenza post coloniale non ha stabilizzato queste nazioni.
Prodi: La divisione dei Paesi era completamente
artificiale. Per questo quando Ban Ki Moon ha detto
“cerchiamo di fare una politica che consideri finalmente questi Paesi in rapporto fra loro”, ha avuto
un’idea giusta. Tutti parlano francese, hanno cose
in comune, ma non si sono mai trovati assieme. Non
ci sono comunicazioni. Innovando, ho voluto che i
progetti di sviluppo partissero dalle università locali
e ho trovato che quei professori non si conoscevano
assolutamente. Tutti avevano studiato a Parigi, ma
nessuno conosceva l’altro. Ban Ki Moon ha avuto una
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grossa intuizione, e spero vada avanti anche dopo la
fine del mio mandato. A fine gennaio consegnerò il
mio rapporto. Gli “inviati speciali”, per essere tali,
devono stare poco tempo: fare le cose che devono
e poi lasciare che le strutture dell’ONU le portino
avanti. Per questo do tanta importanza e giudico negativa la guerra in Libia. I dittatori sono nemici della
democrazia, ma prima di abbatterli bisogna pensare
al dopo.
Folloni: La penetrazione fondamentalista. E’ accertato che elementi dell’islamismo radicale operano da
detonatore in molti territori africani. Sono rinati califfati che si pongono in alternativa ai governi sorti
dopo la stagione dell’indipendenza. Chi governerà
l’Africa?
Prodi: Il terrorismo si sta spargendo senza confini;
è finanziato anche dall’esterno e stiamo parlando di
paesi che hanno frontiere porose. E’ un gravissimo
problema. Non pensiamo però che la maggioranza
degli africani sia fondamentalista o sia amica di questi terroristi. Posso raccontare un episodio. Quando
andai a trovare Morsi, fu l’unico leader da me incontrato a dimostrarsi molto contrario all’argine che i
francesi avevano posto all’attacco terrorista dal nord.
Il giorno dell’attacco io ero a Bamako. Non c’era alcuno che non ritenesse provvidenziale la reazione
francese. Il problema guerra giusta o ingiusta non
si poneva: la si considerava indispensabile, obbligata. L’unico leader internazionale – in tutto il mondo
non c’è stata opposizione alcuna – che mi ha fatto un
attacco su questo è stato l’egiziano Morsi. Però alla
fine del colloquio mi ha chiesto, quasi con angoscia,
se il terrorismo del Sahel avrebbe potuto raggiungere
il Sinai. Ritengo che il problema del terrorismo sia
avvertito da tutti. E’ un grave problema, ma ci sono
anche gli antidoti. Il terrorismo è senza regole. Destabilizza tutto. Anche i governanti – sciiti, sunniti,
destra, sinistra, centro – hanno paura di questa destabilizzazione. Anzi, la maggioranza assoluta dei popoli ne ha paura.
Folloni: D’altra parte, la penetrazione cinese da
oriente potrebbe diventare una nuova e dolce forma
di colonialismo?
Prodi: La penetrazione cinese è profondamente diversa dalle altre. Le altre avevano un forte connotato
politico; quella cinese è economica, con una caratteristica straordinariamente diversa da quanto accaduto in passato. I cinesi esportano in Africa beni, capitali, tecnologia e persone: tecnici, operai. È la prima
volta nella storia – salvo il limitato caso dell’Algeria
– in cui c’è questo modo del tutto nuovo di penetrare
in Africa. E poi c’è una grave differenza, che può rendere il problema più serio. I francesi lo fanno con i
francofoni; gli anglofoni con la costa dell’Ovest e con
i paesi “amici”. Ma i cinesi lo fanno per tutto il continente.
Folloni: La Cina è ben accolta?
Prodi: In generale il giudizio è positivo, con momenti di forte tensione soprattutto in zone minerarie,
come protesta per l’eccessiva presenza di lavoratori
stranieri o per la concorrenza alle industrie di basso
livello. Tuttavia…Quattro anni fa chiesi al presidente
algerino Buteflika come andava con i cinesi. Mi disse:
“Abbiamo grandi appalti sia per le strade sia per le
case popolari. I cinesi le fanno a metà prezzo rispetto
a italiani e francesi. Sono venuti 25 mila cinesi. Consegnano con puntualità svizzera. Inoltre, ogni anno
cinquemila smettono di fare i muratori. Altri cinesi
li sostituiscono. E quelli sposano ragazze algerine e
danno vita alla piccola imprenditorialità di cui ho
bisogno”. La domanda gliel’ho rifatta quest’anno,
appena prima che si ammalasse, e ha risposto: “Va
come le dissi quattro anni fa; adesso abbiamo trentamila cinesi diventati in sostanza algerini”. Al momento della guerra in Libia sono stati rimpatriati
38 mila tecnici e operai cinesi. La Cina ha aiutato lo
sviluppo dell’Africa. Lei sola ha bisogno dell’Africa
per la propria sopravvivenza: cibo, materie prime ed
energia. Le trova in Africa e in America Latina.
Folloni: I vecchi colonialisti hanno smesso di saccheggiare il continente?
Prodi: Il saccheggio dipende molto dal governo africano. Servirebbero governi forti e non corrotti. Devono vendere le loro risorse, ma a beneficio delle loro
popolazioni. Turba che tante terre vengano comprate
dai cinesi, ma sono gli africani che le vendono. Oggi
la concorrenza cinese ha svegliato l’Occidente.
Folloni: E l’Unione africana? E’ una speranza o
un’illusione?
Prodi: Una speranza, ne sono convinto. Sono stato
il primo presidente della Commissione Europea che
ha deciso di finanziare le truppe di pace dell’Unione africana. Non con le armi, ma con la formazione.
Sulla facciata del Palazzo dell’Unione africana – più
bello e più grande di quello ONU – c’è una piccola
placca con scritto: “Dono del popolo cinese al popolo
africano”. Quando entri, trovi giovani tecnici cinesi
che per due anni insegnano come gestire il Palazzo.
Di fronte alla nostra lentezza presenterò, approvato
dal Consiglio di Sicurezza, un progetto rivoluzionario. Dobbiamo organizzare lo sviluppo del Sahel non
solo come progetto in comune ma rendendo possibile donazioni sia in denaro sia in generi. Affinché si
possano costruire direttamente strade e ospedali sui
quali mettere la bandiera: cinese, tedesca, eccetera. E
si possa fare in fretta. E tra le nazioni ci sia una concorrenza virtuosa: nelle gerarchie stabilite dall’ONU
e sotto il controllo della Banca africana di sviluppo.
Non è stato facile. L’idea è matura. Anche se adesso
– a fronte di problemi come quello siriano – parlare del Sahel è diventato faticosissimo. Per l’Africa la
concorrenza, prima viziosa, deve diventare virtuosa.
Non più sulle armi, ma sulla crescita.
Folloni: Dov’è finito il partenariato che l’Europa immaginò fin dalla Convenzione di Lomé?
Prodi: L’Europa è ancora il maggior donatore, ma
l’idea politica non c’è. L’Europa non riesce ad avere
un’idea politica per nessuna parte del mondo. Quando vado in Medio Oriente mi domando: dov’è l’Europa?
Folloni: Torniamo al Sahel, alla fame e alla sete, a
malattie, morti e guerre. Campagne di aiuto, missioni internazionali e volontariato non hanno abbattuto
queste piaghe?
Prodi: No. Però questi paesi disperati cominciano
a crescere. Dicendo “crescere” mi viene quasi vergogna. Si parte da livelli così tragici ed elementari…
Dove non ci sono guerre ci si muove. Le guerre sono
terribili. Vent’anni fa un modello era la Costa d’Avorio. La tragica guerra civile l’ha devastata.
Folloni: Sono guerre endogene o esogene?
Prodi: Sono sempre più endogene. E non sono nemmeno più fra stati e potenze, ma etniche, religiose,
anche se interessi di singoli e gruppi soffiano su di
esse. Ma fra stati rimane solo il residuo della guerra
tra Eritrea ed Etiopia. Oggi, sulle guerre pesa l’artificialità dei confini fissati a Berlino o in altre conferenze internazionali.
Folloni: Che cosa non ha funzionato e cosa di diverso si deve fare?
Prodi: Primo: il rafforzamento dell’Unione africana
e, in chiave economica, delle varie Unioni regionali.
Nulla avviene tutto in una volta.
Folloni: Europa e Italia possono o devono fare qualcosa?
Prodi: Mentre – come in Siria – l’ONU ha molte
difficoltà a risolvere i grandi conflitti, all’interno dei
Paesi le truppe ONU hanno svolto un ruolo di crescente stabilizzazione. Ci sono molte complicazioni
e inefficienze, i mezzi sono scarsi, però nel mondo e
specialmente in Africa sono più di centomila i soldati
con il casco blu. Questo è un progresso dell’umanità.
Nel Mali, i francesi si ritirano e ovunque vedi l’ONU.
Io auspico la politica estera dell’Europa. In tutti i casi
citati l’Europa è stata sempre divisa. In Libia la Germania non ha partecipato. In Medio Oriente l’Europa
non ha mai avuto una posizione unitaria. Altrimenti
noi e non gli americani avremmo gestito i rapporti.
E si sarebbe potuto parlare di “Colosseo”, invece che
di “Camp David”. Pur con tutti i cinesi del mondo, in
Africa l’Europa resta ancora primo investitore e commerciante e colei che ha i rapporti culturali più forti.
Folloni: In Africa, allora, c’è domanda d’Europa…
Prodi: Non c’è dubbio. La desiderano. Ma c’è sempre più delusione.
Chi era Nelson
Mandela
Nelson Rolihlahla Mandela nacque
a Mvezo, in Sudafrica, il 18 luglio
1918, ed è morto a Johannesburg il
5 dicembre scorso. E’ stato il primo
presidente nero a essere eletto dopo
la fine dell’apartheid nel suo Paese
e premio Nobel per la pace nel 1993. A lungo leader
del movimento anti-apartheid (ovvero la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca
del Sudafrica nel dopoguerra e rimasta in vigore fino
al 1993), ebbe un ruolo determinante nella caduta di
tale regime, pur passando in carcere gran parte degli
anni dell’attivismo anti-segregazionista. Fu eletto presidente del Sudafrica nel 1994, rimanendo in carica fino
al 1999. Il suo partito, l’African National Congress, è
rimasto da allora ininterrottamente al governo del paese. Il 15 dicembre scorso, Mandela è stato sepolto
nella tomba di famiglia presso il cimitero della cittadina
di Qunu, dove ha passato l’infanzia.
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Il summit dei BRICS di Durban:
la speranza dell’Africa,
infrastrutture e sviluppo
di Marguerite Lottin Welly
Mentre in Europa gli scenari di disintegrazione dell’euro
diventano sempre più allarmanti, i Paesi BRICS lavorano alacremente per creare un “nuovo asse dello sviluppo
globale” e propongono profondi cambiamenti nell’ordine economico e nell’equilibrio dei poteri mondiali.
In quest’ottica, il Quinto Summit dei BRICS tenutosi a
Durban nel mese di aprile può essere definito un avvenimento storico in quanto, per la prima volta, lo sviluppo
delle infrastrutture, delle manifatture e di una moderna
agricoltura di tutto il continente africano è stato posto al
centro della discussione.
Ciò rappresenta una profonda rottura con la vecchia
politica colonialista. Per i partecipanti al summit, l’Africa è e deve diventare lo spartiacque morale del mondo
moderno. A Durban è stato deciso di creare una Banca
di Sviluppo per finanziare le grandi infrastrutture e gli
altri progetti di sviluppo con un contributo iniziale di
10 miliardi di dollari da parte di ciascun Paese partecipante. Essa sarà un’istituzione sovrana e indipendente
dai controlli del Fondo Monetario Internazionale e della
Banca Mondiale.
E’ stato anche creato un Fondo di riserva di 100 miliardi di dollari per garantire la stabilità delle economie dei
BRICS contro la speculazione sulle materie prime e sui
prodotti alimentari e contro gli effetti negativi della crisi
globale e dell’instabilità prodotta dalla tanta liquidità a
buon mercato dei “quantiative easing” negli Usa e negli
altri Paesi occidentali.
Oggi i BRICS rappresentano già il 20% del Pil mondiale.
Nella logica di un mondo multipolare essi chiedono di
andare oltre l’attuale architettura di governance globale
e di “esplorare nuovi e più giusti modelli di sviluppo”.
Per l’Africa tutto ciò è una ragione di speranza.
L’Africa oggi conta più di un miliardo di abitanti. Nel
2000 la Nazioni Unite avevano presentato gli Obiettivi
di Sviluppo del Millennio allo scopo di dimezzare la povertà entro il 2015. Ma non sono stati raggiunti. E’ vero
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che le statistiche di alcuni Paesi africani parlano di una
crescita annuale anche del 10%, ma in molte regioni il
40% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà estrema con un dollaro al giorno.
In Nigeria, per esempio, che è un Paese di 170 milioni
di persone, 50 anni dopo l’indipendenza le infrastrutture non funzionano ancora. Nel settore dell’energia le
poche raffinerie operano raramente. Pur essendo il più
grande produttore di petrolio dell’Africa, la Nigeria è
costretta a importare carburante.
Dopo l’indipendenza dal potere coloniale i leader africani avevano iniziato dei programmi importanti per la
realizzazione di un sistema sanitario, di istruzione e di
sostegno all’agricoltura. Anta Diop, un noto intellettuale senegalese, nel 1974 scrisse il libro “L’Africa Nera.
La base economica per lo Stato federale” in cui indicava un piano di industrializzazione attraverso l’utilizzo
delle risorse idriche, energetiche e naturali. In seguito,
nel 1980 a Lagos, l’Assemblea dell’Unione dei capi di
stato e di governo africani presentarono un dettagliato
programma di sviluppo per l’intero continente. Ma al
posto dello sviluppo è arrivata la politica di “aggiustamenti strutturali” del FMI che è diventata un modello
per l’austerità, per il pagamento dei debiti esteri, per la
deregulation, la liberalizzazione del commercio e le privatizzazioni. Ciò si è combinato con la corruzione e le
dittature politiche locali.
Guerre regionali sono state combattute e si combattono per il controllo delle materie prime nell’interesse di
potenze straniere e più precisamente di multinazionali
private. Il Congo è uno dei bersagli principali di tale politica. A partire dal 1990 le regioni del Centro Africa e
dei Grandi Laghi sono state catapultate in una “guerra
dei 30 anni”. Alcuni la chiamano la “Prima Guerra Mondiale dell’Africa”. Tra 5 e 10 milioni di persone hanno
perso la vita. Dal 1999 l’ONU spende più di 1,3 miliardi
di dollari l’anno per le missioni militari e per la stabilità.
Ma non c’è pace nella regione in quanto ci sono troppi e
grandi interessi neocoloniali.
Il problema dell’Africa è la sua ricchezza. Durante il periodo coloniale i Paesi africani sono stati condannati a
vendere le loro risorse sottoprezzo e, in cambio, a comprare i prodotti finiti a prezzi salati. Il sottosviluppo è la
causa dell’instabilità politica e di ogni tipo di estremismo, come accade in Mali e in molti altri Paesi. Per questa ragione è sempre più valido l’appello di Papa Paolo
VI nell’Enciclica Populorum Progressio: “Lo sviluppo è
il nuovo nome della pace”.
L’alleanza dei BRICS è l’unica speranza per l’Africa. A
condizione che la sua indipendenza e la sua sovranità
siano rispettate da tutti, a cominciare dai BRICS stessi.
Il Brasile è l’amico e l’alleato più vicino. Si può considerare la seconda “nazione africana” per il numero di
cittadini neri. Può condividere con l’Africa l’esperienza
nella costruzione di reti di comunicazione e di trasporto
realizzate nel continente latino americano. Una priorità
è la creazione di grandi bacini idrografici. Il Brasile e l’America del Sud hanno grandi fiumi, come in Africa. I fiumi e l’acqua possono diventare la base per la produzione
di cibo e di energia anche in Africa, per il trasporto e lo
sviluppo regionale, per la creazione di nuove città, nel
rispetto della vita e della natura. Non è più tollerabile
che, 65 anni dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani, la dignità dell’uomo sia ancora calpestata e venga negata a milioni di persone in tante parti dell’Africa.
Chi è
Marguerite Lottin Welly
Marguerite Lottin Welly,
cittadina del Camerun, è
presidente dell’Associazione
Interculturale Griot e
membro della Consulta
Immigrati di Roma Capitale.
Dal 2 al 6 ottobre scorsi,
nella città greca di Rodi,
ha rappresentato l’Africa
alla conferenza annuale
del World Public Forum
“Dialogue of Civilization”.
Un racconto di Giorgio Torelli
lasciate che vi confidi questa storia vera di Natale:
GESU’ BAMBINO ALLA
RITIRATA DI RUSSIA
Su un quotidiano che ho motivo di stimare, non mi
imbatto nelle sdrucite divagazioni sul Natale. Ma
incontro una frase che subito si fa luce. La frase
suona : “ Natale è lasciarsi incontrare dal Signore”.
È il Signore – riprendo a dirmi - che arriva tra noi
e storna il corso della Storia. Siamo noi a volerlo, a
desiderarlo, a sentirlo nella cripta di noi stessi ed a
rivederlo in un qualunque presepe dove è nato povero, ma tra gli angeli; dentro una stalla con i fiati,
i topi e il lezzo, ma con i pastori a inginocchiarsi
tutt’ attorno come primissimi cristiani, già pervasi
della luce che da quella capanna ha sempre continuato a sprigionarsi. Il presepe è una boîte à musi-
que. Quell’ insieme sacro, composto come ciascuno crede, immagina o fantastica, soffonde voci e
suoni che rappresentano l’Ouverture dei Vangeli,
e sono il grandioso esordio del Fatto senza eguali,
il Fatto più fatto di tutti.
Ripeto dunque e ripropongo la frase che ormai mi
fronteggia: “Natale è lasciarsi incontrare dal Signore”. E allora eccomi pronto a narrare proprio
la storia mirabile di un incontro che, a tutt’oggiquando lo ripenso-mi appare insieme misterioso,
supremo, divino e dunque folgorante. Siamo in
Russia nell’anno di guerra 1942. Neve e orizzon-
ti di spietato candore. Distanze siderali tra infime
cerchie di villaggi con misere isbe dove cercar rifugio dallo strazio dei 42° sottozero. I nostri soldati, spediti in Russia da Mussolini per schierarsi
a fianco dei tedeschi, non hanno potuto reggere
all’urto del nemico. Le divisioni sovietiche hanno
traversato a cingoli unanimi lo spessore di ghiaccio
del Don e stretto in larghissima cerchia gli schieramenti italiani del poco dispiegato: poche armi di
grande affidamento, pochi rifornimenti, pochezza
del vestiario militare (pastranetti, scarponi di cuoio matto, lana risicata nelle uniformi), scarso criterio delle alte sfere per convincersi che in quelle
condizioni di estrema indigenza combattiva mai
si sarebbero potute tenere le posizioni trincerate. La spinta dell’armata Rossa a tutto rombo, ha
imposto la ritirata delle divisioni italiane di Fanteria, ormai completamente circondate. L’ho detto
prima: è il dicembre dell’anno tragico 1942. Solo i
reparti alpini reggono da par loro. Ma i fantaccini
vanno formando colonne umane, nereggianti nel
subdolo biancore di sterminate prospettive da traversare a piedi e con slitte di fortuna, trascinate da
muli inebetiti. Le slitte, cigolanti sulla neve gelata,
sono gravate di feriti, malati, masserizie militari e
armi superstiti e spaiate. Ci sono tanti episodi di
prossimità, anche gesti generosi e fraterni. Ma è
la disperazione ad addentare i fianchi dei derelitti
in colonna, alla cerca di una salvezza chissà dove
e muovendosi drammaticamente nella neve in direzione di un punto qualsiasi, comunque valido
per sottrarsi alle vampe delle artiglierie a razzo,
alla tenaglia dei carri armati che sanno irrompere a sorpresa dai boschi di betulle e all’improvviso comparire dei partigiani sciatori, rapidissimi a
sparare sul grosso coi Kalashnikov e svanire per
mordere appena oltre. In quel cruento desolarsi,
chi sa combattere contro le incursioni russe- e ce
n’è ancora di soldati che pur in rotta non vogliono cedere- ignora dove troverà munizioni per ar33
ginare il prossimo attacco, né se potrà imbattersi
in qualcosa per tacitare l’urlo della fame, magari
scalzando con le baionette le sementi finite nei letamai dei villaggi, dove, notte dopo notte, tutte le
isbe vengono invase dai naufraghi dell’oceano di
neve, avidi di un alito di calore. Si penetra nelle
isbe armi in pugno, contendendosi il passo, poi addossandosi a terra attorno al bene supremo di una
stufa contadina. Non c’è soldato senza una personale odissea in svolgimento lancinante. Gli eroi e
i disperati, gli audaci e i sopraffatti si sommano e
confondono in un collettivo dilagante, umiliato,
percosso, stranito, desolato, e tuttavia in perenne
movimento -dolentissimo e allucinato- verso l’ipotesi di una salvezza senza punti cardinali né approdi di certezza. Moltissimi si perderanno nelle
tormente, pensando a casa, alle famiglie, agli amori, agli affetti così remoti e taluno chiamando Dio
a voce rotta e quasi stroncata. Altri si assopiranno
diventando tragiche mummie di ghiaccio, pupazzi
di gelo col fucile scheletrito nei pressi e l’ultimo
addio congelato sul taglio delle labbra, ormai una
fessura livida dentro la doppia maschera di brina
che ha stralunato ogni fisionomia, illividito nei
piedi, arpionato in fine il cuore. Ed è quasi Natale. Rinascita di Gesù Nazareno, al gelo anche lui,
quel piccolino di Maria, partorito per amor delle
creature sul fieno immondo di un capanno, o una
stamberga, o una grotta,un rudere, o un’isba di
Palestina. Il serpentone dei derelitti, addensati in
un grigioverde che non si vede più - tutto è spietato biancore - procede nell’orrore improvviso di
salve che schiantano, sgominano, straziano uomini a caso, devastano slitte di moribondi e feriti accatastati, squartano gli ultimi muli, insordiscono
per poi ricominciare a maledire col fuoco chi ha
osato attaccare la Santa Russia e adesso ha da essere brado e ramingo, arrancando con le tempie a
martello.
Tra i fanti italiani, nella eterna Via Crucis della
ritirata, c’è anche un fante siciliano di vent’anni.
Apparteneva a una Divisione presa a spallate in
vista del Don ibernato. E adesso spasima nel farsi
e disfarsi delle colonne umane che le batterie sovietiche decimano. Da borghese, faceva il giovane
di sartoria in un punto assolato della Sicilia. E,
prima che l’inverno russo ingoiasse i soldati italiani, avventurati in fronte al nemico e stipati nei
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camminamenti sotterranei per reggere la provocazione intransigente dell’inverno cirillico, aveva
intuito che il gelo avrebbe annichilito gli uomini
dello schieramento, fermi là per subire confronti
impari. Così, s’era cucito un doppio giustacuore
di pelliccia da tener sotto il pastranello del Regio
Esercito. E aveva scambiato i poveri scarponi della
naja con scarponacci di tempra, imbottendoli di
pelo. Anche i guanti, il passamontagna triplo e un
gran giro di sciarpe se li era procurati con metodo
proprio lui, siciliano delle piane di aranci, finito
nel gironi bianchi di un inferno come i soldati di
Napoleone nel 1812. Di Napoleone, il ventenne
siciliano sapeva quasi niente. Ma adesso, toccava a lui vivere la Beresina. E restar dentro l’ angosciato dilungarsi della ritirata con una sola ardente determinazione: farcela, salvarsi, scampare.
L’accerchiata colonna dei profughi procedeva. Si
sommavano i giorni, le notti, le raffiche, la penuria assoluta. Fin quando, per un improvviso venir
di nebbia, toccò proprio al siciliano smarrire l’orientamento, perdersi nei vortici impalpabili delle
fumare e, un tragico momento, accorgersi d’essere
rimasto solo nel mezzo dell’inverosimile raggelato. Il serpentone aveva deviato a caso e il ragazzo
italiano - frastornato dalla pena di procedere- era
stato reciso dal grosso. Appariva ormai solo, solissimo, in un punto insensato dello sterminarsi
russo. Disperso sul far del Natale, barcollava infagottato, ancora col fucile Novantuno carico, le giberne quasi vuote e nessuna carta topografica che,
da soldato semplice, mai avrebbe saputo interpretare. La nebbia bendava ogni lontananza. Il gelo
l’afferrava per il bavero, trapunto dalle stellette
ghiacce. Morire così. Morire a vent’anni sul palcoscenico della pochezza. Ansimava, col groppo alla
gola riarsa, che la neve non poteva lenire. Rimaneva fermo lì senza saper dove muoversi dentro l’incorrotta maestà del nulla. Batteva i denti. Il tremito lo possedeva. Fin quando, chissà come, ecco un
improvviso refolo di vento - quasi l’ affermarsi di
un prodigio senza perché - diradare qualche attimo le fasciature di nebbia e qualcosa di impreciso
volare alto e ben visibile. Poi, lentamente, planargli ai piedi, giusto davanti agli scarponi marmorizzati. Un pezzo di carta? Un rettangolo di carta in
quella steppa insensata? Osando farlo, il fante rimosse un guantone rattrappito e si piegò, con gran
pena,a raccogliere quel “coso” che il vento quasi siberiano aveva recapitato. Lo alzò fin sotto gli occhi
abbacinati. E vide, proprio vide - dapprima senza
crederlo possibile - che l’immagine di quella che
era una cartolina vagante raffigurava un minuscolo presepio dei nostri, il più ingenuo forse, il più
amato. E sul rovescio c’era anche una scritta leggibile, che i barbagli dello sfinimento non impedivano di compitare. Il cartoncino volante era stato
inviato da Lodi a un artigliere. E il vento doveva
averlo sollevato, mandandolo in turbine chissà per
quante miglia, da un magazzino della Sussistenza
dove i viveri, i rifornimenti e anche la posta erano
stati stivati dagl’ italiani e mandati in fiamme subito prima della ritirata. Gli insulti del vento avevano eccitato le fiamme, ma anche spedito in aria le
poche carte sfuggite al rogo, dunque anche la cartolina con gli auguri di un “Natale sereno”. Il fante
siciliano sbalordì. C’era Gesù bambino su quella
carta vorticata. C’erano Maria e Giuseppe. E il si-
ciliano li invocò tutti e tre. Parlò con loro nell’accento della sua isola, li stordì con la frase ripetuta
senza più pause né requie: “ Gesù, portami a casa!
Maria, fammi salvo! Giuseppe, non lasciarmi
solo!”. Di più. Con la mano denudata dal guanto
infilò la cartolina (dove gli angeli cantavano in gloria) sotto il pastrano incartonato, sotto la pelliccia
interna, sotto la giubba, sotto i tre maglioni, sotto la camicia grigioverde, fin sulla nuda pelle che
era sudata per la fatica del disperarsi e percorsa
da pidocchi mai sazi. Ora, la cartolina abitava sul
cuore. Ed era tempo di stringersi i panni addosso
con una forza nuova per non lasciarsi più andare, tentando il raccordo con tutti gli altri dispersi,
ingoiati dalla nebbia. Ricominciarono i passi, uno
dopo l’altro, nella neve tumefatta. E, ad ogni sollevarsi di scarponi riscossi, l’invocazione ripetuta,
ribadita, replicata, rigonfiata a voce alta nel mezzo
dello svasato silenzio: “ Gesù, portami a casa! “.
Voi dite che Gesù sente chi lo invoca? Gesù sentì. Il
fante siciliano, emerso dall’addio, ritrovò l’ultimo
spuntone della colonna perduta. E si rimescolò ai
suoi che procedevano minuti, piegati, ognuno interprete del proprio destino. Furono più forti o i
più fortunati della colonna mutilata – il siciliano
tra loro - a trarsi fuori dalla sacca e raggiungere
stremati una tradotta italiana di vagoni merci per
cominciare il lunghissimo, sfibrante, impervio
viaggio di ritorno verso l’Italia così remota. E tuttavia sempre più vicina, di tappa in tappa, su quei
binari assordanti, dove tantissimi avevano imparato a pregare e il fante siciliano più di tutti.
Io ho conosciuto il fante della cartolina. Negli anni
‘50 e ‘60, faceva il sarto a Milano, un piccolo atelier dove la bravura era legge. E la cartolina? Gli
chiesi di vederla quando mi narrò -fidandosene e
con gli occhi pieni di lacrime- la sua gelida storia
di scampato. La cartolina non c’era più. L’atroce
sudore del continuo affannarsi e i brulicanti pidocchi l’ avevano macerata sotto gl’ indumenti lerci.
C’era il pensoso silenzio, però, in luogo della cartolina sbriciolata. E nel volgere di ogni dicembre,
giusto in quegli stessi giorni del ritirarsi senza tregua con Gesù bambino in petto, il sarto continuava
a cucire le belle giacche per i clienti. Ma intanto
ripercorreva, con la mente e col cuore, le immensità di Russia traversate a senso. E diceva a se stesso
che il suo, l’ormai e per sempre suo Gesù bambino,
quello stesso del presepe fatto in famiglia (moglie
e due belle figlie) stava proprio seduto accanto a
lui mentre tagliava e cuciva, stirava e metteva in
prova. Tacevano insieme perché avevano tanto,
tantissimo da dirsi.
35
Perdere la parola:
notazioni leggere a proposito di una
pandemia del nostro tempo
Sempre di più arrivano
segnali di confusione e
smarrimento sul significato delle parole che
usiamo o sono usate.
Questo fatto ci lascia
sorpresi e
preoccupati.
di Michelangelo Tagliaferri
36
Quando parliamo con gli altri, ci siamo intesi veramente? Quante volte abbiamo posto la domanda petulante: “Scusa, ma tu per mela che cosa intendi o a
che cosa ti riferisci….di cosa parli?” Molti si stanno
domandando se non sia il caso di intervenire ripristinando grammatica e sintassi, uso corretto del vocabolario e dei sinonimi, altri ancora lasciano perdere per superficialità, tanto la cosa più importante
è intendersi, come quando non si conosce bene una
lingua straniera.
Il fenomeno, al di là dei giochi d’ironia, è preoccupante e ricorda quanto è avvenuto a Babele con quel che
ne segue, quindi vale la pena di parlarne seriamente,
anche se gioiosamente, come quando parliamo di un
bambino che ha appena cominciato a balbettare i primi suoni delle parole.
Le cose di per sé non hanno alcun nome. Sono gli
uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi
a esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità
perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con
un certo nome. È tanto forte l’abitudine di chiamare
il cane col nome di cane, che quell’animale ci sembra
che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in
spagnolo si chiama “perro”, in francese “chien”, in inglese “dog”, in tedesco “Hund”…; quale sarebbe allora il “vero” nome del cane? Evidentemente nessuno;
oppure dobbiamo dire che i “veri” nomi del cane sono
tutti quelli usati nelle varie lingue.
Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare
al cane, al sole, all’albero e a tutto ciò che vedeva e
immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli
dati da altre tribù.
Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo
e usiamo le parole così come ci sono arrivate.
Su di noi, invece, influisce molto l’abitudine. È questa
che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose,
concrete o astratte che siano.
Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi;
proprio per questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo a usare la lingua con
prontezza ed efficacia.
Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate
proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo, scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare, sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore
esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da
una lingua all’altra: gli studiosi che si sono occupati
attentamente di questo fenomeno, hanno notato che
per gli italiani il gallo fa chicchirichì e l’oca qua-qua;
mentre per i Francesi il gallo fa cocoricò e l’oca muàcmuàc o cuèn-cuèn; per gli Italiani lo sparo faceva pum
e il bussare toc-toc. Ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall’America, lo
sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli Inglesi e
gli Americani riproducono così questi rumori.
Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che
sono e che noi cerchiamo di dare a esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande
maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo
sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione,
perché, sì, no), per noi non imitano proprio nulla.
Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti, questo è dovuto solo all’abitudine. Il
chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire
nel nome quasi la “presenza” della cosa stessa.
La lingua, prima ancora dei linguaggi formalizzati,
risente oggi di un’inconsistenza nella relazione tra significante e significato, tra ciò che designa il concetto
con ciò che è designato.
“Mela”, prima ancora di essere un frutto, è New York
o il peccato o la tentazione. Ma questo vale anche per
la mela OGM? E’ questa ancora una mela?
La questione è semplice: gli uomini hanno inventato
differenti suoni per lo stesso oggetto e utilizzano lo
stesso suono per oggetti differenti. Se moltiplichiamo
tutto questo per tutte le lingue e i linguaggi, ci troviamo di fronte a una confusione di suoni e di parole che
apparentemente hanno referenti diversi ma alla fine
vogliono dire una cosa sola.
Bene, io credo che tutto questo appartenga a un passato che sta per essere liquidato esattamente come la
storia. Nel gioco della complessità, cercare di rincorrere il referente appare vano e dotato di poca possibilità di successo. Le parole fluttuano come i capitali
dei derivati, lontani, molto lontani o quasi estranei
all’economia reale. Non sono più gli avvenimenti che
generano l’informazione, ma è l’informazione che genera gli avvenimenti, con conseguenze incalcolabili
per la vita concreta.
E così, come il lavoro sparisce all’orizzonte del capitale, così scompare il negativo dall’orizzonte dei media
che legittimano sempre di più ciò che è convenzionale. Una mela in fin dei conti è una mela perché non è
una pera. In tal modo classifichiamo e distinguiamo
e quindi diamo un’identità all’oggetto o al concetto.
Non è più così.
Non è più il lavoro che serve alla riproduzione del capitale, ma è il capitale che produce e riproduce a sua
misura il lavoro. Motivo per cui, se il capitale riproduce se stesso senza lavoro attraverso l’illusione finanziaria, è inutile cercare quest’ultimo a questo livello.
Gli impegni a favore della piena occupazione fanno
parte di una rappresentazione falsa e criminale, se si
rimane all’interno di queste regole. Sono la copertura
che legittima il baro a continuare a giocare.
Effetti e cause si mischiano e non è possibile più rappresentarne i nessi, se non essendo accusati di nostalgia o utopia. L’iper informazione dell’iper realtà che
stiamo costruendo non vuole referenzialità né nostalgiche né utopistiche e, se mai identifica una fine, essa
è una fiction con fotogrammi di deja-vu.
Il presente immanente finalizza già le cose che avverranno, le programma, le pianifica, le calcola e alla
fine le rappresenta ed esse ci sembra che avvengano
e, in effetti, avvengono lasciando morti e sofferenze
sul campo….scarti da mandare al macero con tutto il
loro carico di umanità che non serve più o non serve
ancora.
Ma se non serve l’uomo “umano” a costruire la sua
storia, a cosa possono servire le parole che la vogliono
rappresentare? Esse, come nella struttura della meccanica dei quanti, si aggregano e disgregano secondo
regole probabilistiche che nulla hanno a che fare con
la nostra emozione o con il suono delle nostre parole
e, soprattutto, con la necessità di non generare equivoci.
La referenza non serve: come nella musica che ormai
è vincolata al sapere tecnologico e tecnico e svincolata
dalle regole dell’armonia e della composizione, abbiamo la fluttuazione dei segni nel vuoto. Google realizza con successo una vendita e un apprezzamento di
parole all’asta. Datemi un milione di euro e vi faccio
sparire D-IO dalla classifica dei termini più ricercati.
Ora, qualcuno potrebbe dire che questo non va bene e
che bisogna ribellarsi, ma lo spazio di manovra è molto esiguo. O tutto il mondo interpreta a grado zero le
differenze per cui il codice è quello della dittatura, o
richiede la libertà di rappresentare correndo il rischio
di generare confusione.
D-IO ci ha dato il potere di nominare le cose e noi
dobbiamo continuare a farlo, costi quel che costi, modificando il suono e il significato, magari confondendoci ma sempre con l’intento di fonderci in un’unica
famiglia che è capace di generare lingue e linguaggi.
Ma attenti, come dice un vecchio detto ebraico…talora D-IO confonde gli uomini perché li vuole perdere!
37
Ali Khamenei
Storico passo tra Teheran e l’Occidente
NIENTE “SATANA”,
NIENTE MALE
Primo passo
sull’uso pacifico
del nucleare in Iran.
L’accordo può far
per superare gli
equilibri critici del
Medio Oriente.
di Gianfranco Varvesi
38
Dopo ben 34 anni, “Satana” e “l’impero del male”,
questi gli epiteti che Stati Uniti e Iran si sono
scambiati dopo il sequestro di 52 diplomatici americani, hanno concluso un accordo. E’ solo un primo passo nella giusta direzione, ma le implicazioni e le conseguenze possono essere di grandissima
portata per gli equilibri in tutto il Medio Oriente e
per gli interessi dell’industria italiana.
Nel 2002, la crisi fra Stati Uniti e Repubblica Islamica dell’Iran si è trasformata in un contenzioso
internazionale, quando l’Agenzia delle Nazioni
Unite per il controllo dell’energia nucleare ha scoperto che il Paese mediorientale aveva avviato un
programma per dotarsi della bomba atomica. Alla
richiesta di spiegazioni, però, Teheran ha risposto
evasivamente, confermando in pratica i peggiori
sospetti. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha pertanto varato numerose e sempre più severe sanzioni, cui si sono aggiunte quelle da parte degli Stati
Uniti e dell’Unione Europea. Si è così pervenuti al
divieto di vendere all’Iran non solo armi pesanti e
tecnologie legate al nucleare, ma anche strumenti
per l’estrazione del gas e del petrolio, non consentendo l’aggiornamento, e nemmeno il ricambio,
dei macchinari essenziali alla principale industria
e fonte di ricchezza del Paese. Inoltre, sono state
bloccate nei Paesi occidentali le importazioni di
petrolio e le attività bancarie dell’Iran.
Questo complesso di misure ha gradualmente
penalizzato l’economia e la società iraniana, alla
quale è stato sempre più difficile spiegare le ristrettezze cui il sistema la stava condannando. Con
coraggio e pragmatismo, il Presidente Rouhani ha
finalmente deciso di cogliere quei segnali di disponibilità che il Presidente Obama, già dai tempi della sua prima campagna elettorale, aveva lanciato e
segretamente rinnovato in questi ultimi anni.
Non è stato facile giungere all’accordo di novembre, essendovi in primo luogo difficoltà all’interno
di ciascun schieramento. In Iran si è svolto uno
scontro fra intransigenti e pragmatici, anche se
questi ultimi hanno avuto l’appoggio cauto della
Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei. Nel
gruppo dei 5+1 (costituito dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) le posizioni del fronte occidentale hanno conosciuto una breve crisi nel bel
mezzo del negoziato. USA e Gran Bretagna sono
state come sempre vicine, con la Germania felice
di aver saputo cogliere il momento della sua presidenza semestrale dell’Unione Europea quando
è nato il Gruppo e di inserirsi nel grande gioco;
la Francia, però, ha impresso ai negoziati un’improvvisa sospensione, quando il suo Ministro degli Esteri si è pubblicamente dichiarato insoddisfatto dei risultati che si stavano conseguendo. Un
tentativo di mostrare al proprio corpo elettorale,
deluso da Hollande e dalla sua politica inopportunamente aggressiva nei confronti della Siria, che
Parigi ha tuttora un peso internazionale? Interessi
economici con l’Arabia Saudita e alcuni Emirati
del Golfo? Comunque, si è trattato di una mossa
inutile sul piano della politica interna ed errata sul
piano internazionale. La Russia ha voluto consolidare, dopo il successo ottenuto nella questione
siriana, la sua posizione nel Medio Oriente. Più
importante ancora per Mosca è stato l’obiettivo di
denuclearizzare l’Iran al fine di eliminare ogni pretesto della NATO di sistemare missili in Romania
e Polonia, formalmente a difesa di eventuali attacchi nucleari dall’Iran, ma sostanzialmente proprio
ai suoi confini. Dal canto suo, infine, la Cina ha dovuto conciliare il suo ruolo di grande potenza con
il suo interesse commerciale di principale cliente
del petrolio iraniano a prezzi di favore. Oltre ai
problemi interni delle varie delegazioni, é stato
questo un negoziato dalla rara complessità politica e tecnica.
Il risultato raggiunto alle 3 di notte del 23 novembre rappresenta un evento che potrebbe definirsi
storico, se questa prima fase, che rappresenta una
“prova generale”, risultasse positiva.
In sintesi, per i prossimi sei mesi l’Iran si è impegnato a non arricchire il suo uranio oltre la soglia
del 5%, a sospendere la costruzione sia di impianti
per l’estrazione del plutonio dalle scorie del combustibile, sia di nuove centrifughe e del reattore ad
acqua pesante di Arak (quello destinato alla produzione di uranio per fini bellici). La Repubblica
Islamica deve inoltre neutralizzare le riserve che
già possiede di uranio arricchito al 20%. Tutti questi divieti devono essere verificabili da ispezioni
anche quotidiane degli esperti dell’Agenzia atomica delle Nazioni Unite. In compenso, sono contemporaneamente sospese le sanzioni all’Iran, che
potrà recuperare gli oltre 4 miliardi di dollari dalla
vendita di petrolio, congelati nelle banche americane ed europee, e sviluppare alcune esportazioni
di materiale industriale.
Sul piano internazionale, con questo accordo gli
Stati Uniti rischiano di compromettere i loro ottimi rapporti con Israele e l’Arabia Saudita, i due
pilastri della politica estera di Washington nella
regione. Nel corso dei negoziati abbiamo assistito alla formazione di una “strana coppia”, con la
convergenza di posizioni fortemente contrarie
all’accordo fra due nemici storici, come le monarchie del Golfo e Israele; altra conseguenza potrebbe essere l’indebolimento del sostegno iraniano
alla Siria. Potremmo quindi trovarci alla vigilia di
profondi cambiamenti di alleanze nello scacchiere
mediorientale.
Quali i vantaggi per l’Italia da questi primi passi?
Ricordiamo che i rapporti commerciali fra i due
Paesi sono stati di altissimo livello. Fino al 2010,
all’ulteriore inasprimento delle sanzioni, l’Italia
era il terzo partner dell’Iran, ed il primo fra i quelli
europei, con un giro d’affari di 7 miliardi di euro.
Nel 2012, per effetto delle sanzioni, l’interscambio
è crollato a 3,2 miliardi. Ma le prospettive future
lasciano ben sperare. Riguardano in particolar
modo la ripresa dei pagamenti congelati che, nel
complesso, superano i 10 miliardi, anche se la cifra è difficile da calcolare; basti pensare che l’ENI
deve recuperare crediti per oltre 2 miliardi e che
vi sono grandi e piccole imprese con pagamenti in
sofferenza. Vi è poi da considerare che la ripresa
dell’estrazione del petrolio iraniano dovrebbe di
molto aumentarne le disponibilità sul mercato
internazionale, con una riduzione del prezzo. Più
problematiche sono le prospettive di un recupero
dell’interscambio commerciale ai livelli precedenti. Le posizioni conquistate dalle industrie italiane
sono state occupate nel frattempo da quelle dei
Paesi asiatici, sottoposti solo alle limitazioni imposte dalle Nazioni Unite e non dall’Unione Europea, con vantaggio quindi della Turchia, di alcuni
Paesi arabi e soprattutto della Corea, del Giappone
e della Cina. Proprio per assicurarsi nel prossimo
futuro uno spazio politico ed economico, il nostro
Ministro degli esteri ha invitato l’omologo iraniano a Roma e la visita sembra essersi svolta in un
clima molto positivo.
In conclusione, i prossimi sei mesi saranno il banco
di prova di nuovi equilibri in cui si intrecceranno
e scontreranno legami diplomatici ed economici. I
tentativi di sabotare gli accordi saranno forti perché minacciano molti interessi precostituiti, ma
la determinazione delle parti che lo hanno sottoscritto è sostenuta da una visione politica di lungo
termine che fa sperare nel superamento di questi
ultimi travagliati decenni. Un nuovo equilibrio nel
Medio Oriente lascia sperare in una pacificazione
anche delle crisi del Nord Africa e in un mondo
multipolare, nel quale però l’Unione Europea dovrà rafforzarsi per trovare il suo ruolo.
39
Dolori articolari,
l’importante
è la prevenzione
di Alberto Costantini
Il dolore alle articolazioni
è un disturbo molto
frequente nella
popolazione sopra i 60
anni. In Italia interessa
addirittura qualche decina
di milioni di persone.
40
Il freddo, l’umidità, l’obesità e il tipo di attività
fisica peggiorano la sintomatologia. Molto spesso
ci curiamo a modo nostro: quando il dolore è più
acuto, non esitiamo a prendere la compressa
antidolorifica o antinfiammatoria e, con il beneficio
della scomparsa del dolore, pensiamo di aver risolto
il problema. Invece, quel dolore iniziale lentamente,
ma progressivamente, andrà ad aumentare fino a
che avremo difficoltà a chiudere le dita delle mani,
a muovere le spalle, a girare il collo, a inchinarci al
ginocchio e all’anca. Questi sintomi segnano l’inizio
dell’artrosi. Per avere un quadro più chiaro di come
questa malattia si forma, descriviamo come è
costituita anatomicamente un’articolazione normale
(vedi figura). L’artrosi è una patologia degenerativa
delle cartilagini articolari. Se le estremità delle ossa
rimangono compresse, ad esempio dal peso del
corpo, dalla tensione muscolare, soprattutto quando
si rimane nella stessa posizione per giorni, mesi ed
anche anni, le cartilagini non riescono più a ricevere
il nutrimento dal liquido sinoviale, si ammalano,
fissurandosi,
producendo
osteofiti
(piccole
protuberanze ossee intrarticolari) e infiammandosi
con conseguente edema e dolore. Come abbiamo
già detto, l’artrosi in genere colpisce all’età media
di 50-60 anni, ma vi sono moltissimi casi in cui
si può presentare prima, specialmente in chi ha
dovuto nella vita, per anni, tenere posizioni posturali
ripetitive e costrittive delle articolazioni, come ad
esempio tennisti, calciatori, ballerini, musicisti,
impiegati e operai addetti alle catene di montaggio,
artigiani, agricoltori, etc, senza dimenticare tutti
coloro che hanno subito incidenti stradali e sul
lavoro. Per evitare che la malattia progredisca nella
sua evoluzione, non dobbiamo accontentarci di
prendere la solita compressa antidolorifica, perché,
se è vero che con questa ci sentiamo meglio per
qualche ora, di sicuro, poi, non solo non abbiamo
risolto la patologia, ma anzi l’abbiamo allungata nel
tempo peggiorando e danneggiando ulteriormente
l’articolazione. È consigliabile invece consultare
un medico specialista, il quale farà una diagnosi
circostanziata, anche con l’ausilio di indagini
strumentali come esami RX – TAC – RMN, e
metterà a punto un programma terapeutico volto
a riattivare al meglio l’articolazione. In genere il
programma riabilitativo ha vari indirizzi: il massaggio
decontratturante per favorire la mobilità articolare;
la kinesiterapia e la ginnastica per potenziare la
muscolatura che protegge le articolazioni vicine.
In alcuni casi, poi, sono indicate infiltrazioni di
acido ialuronico, che ha una funzione lubrificante
e rigenerante sulla cartilagine, oppure infiltrazioni di
cortisone. Da parte nostra, dobbiamo non essere
pigri e tenere uno stile di vita che comprenda molto
movimento, come camminate, nuoto, ginnastica
varia. Dobbiamo ridurre l’obesità, responsabile di
un carico eccessivo sull’articolazione; dobbiamo
modificare le posizioni viziate del corpo, come
dormire o stare seduti a lungo nella stessa posizione.
Infine, vi è la terapia chirurgica, che può essere
preventiva (decomprime le articolazioni ripristinando
il corretto movimento), riparativa (ha lo scopo di
riparare le strutture articolari) o sostitutiva (ha lo
scopo di sostituire l’articolazione usurata con una
protesi artificiale).
Dr. Alberto Costantini
41
Sciare fino a
cento anni?
Il limite è solo
dentro di noi
Non me ne voglia il collega Vitaliano Damioli
se ho preso in prestito il titolo del suo libro per
iniziare questo articolo, ma non ho trovato una
frase più indicata per presentare la storia di
Giacomo Fedriani, ingegnere, scultore, pittore,
pluricampione italiano e mondiale di sci ed
imprenditore di successo. Non basterebbero tutte
42
le pagine di questa rivista per raccontare la vita di
questo uomo, io mi limiterò a descrivere quello
che ha fatto in quella fase di età in cui, dopo una
vita passata a lavorare come progettista, scrittore
di importanti libri come “Neve e urbanistica”,
considerato ancora oggi la pietra miliare della
letteratura specifica, presidente di associazioni
Giacomo Fedriani
ed infine imprenditore nel campo dell’enologia,
invece di godersi un meritato riposo ha ripreso
l’attività a cui è sempre stato legato, il mondo dello
sci.
E’ infatti nel 1991, all’età di 61 anni (il “giovanotto”
in questione è nato a Genova nel 1929), che
Fedriani torna a dedicarsi allo sci agonistico
nel settore “Master”, dopo una pausa di 37 anni
durante le quali si era dedicato al lavoro e alla
famiglia. In questi 22 anni ha collezionato un
numero di medaglie e titoli impressionanti
vincendo 40 volte un titolo nazionale e 14 volte
è arrivato secondo, raggiungendo un totale di
oltre duecento podi. In campo internazionale
è diventato campione olimpico in Super G e
medaglia di bronzo nel gigante, all’età di 79 anni!
E, sempre nel 2010, si è laureato Campione del
Mondo in Super G, Vicecampione in Gigante
e terzo in slalom, collezionando 125 podi in
gare internazionali, ed il curriculum potrebbe
continuare per pagine e pagine. Inoltre, non
pago della sua attività “agonistica”, Fedriani si
è dedicato alla ristrutturazione e valorizzazione
del podere “Il Galampio”, situato nella splendida
valle di Montalcino, creando una fiorente azienda
vinicola oggi condotta dal figlio Filippo ma nella
quale il Sig. Giacomo partecipa ancora attivamente,
vendemmiando ed allenandosi nel percorso
appositamente realizzato all’interno del podere.
Ma qual è il segreto per mantenere una longevità
atletica e psicologica così vincente? Sembra
scontato, ma le indicazioni sono quelle di sempre,
impegnarsi in quello che più piace, condurre
una vita sana e dedicare parte della giornata ad
una attività fisica, quella che più si addice alle
condizioni psicofisiche del soggetto. Ma questi
semplici consigli, scontati tra l’altro, non possono
bastare per spiegare fenomeni della natura come
Giacomo Fedriani, capaci di fare quello che ai
più non riesce in tutta una vita, e capaci anche di
stupirsi se gli si chiede come sia possibile arrivare a
tanto, dichiarando serenamente che non esiste un
segreto ma la chiave di tutto è quella di mantenersi
impegnati con un’attività che richieda cuore e
cervello, perché se è vero che non è possibile evitare
il deterioramento dei principali meccanismi
bioenergetici per effetto dell’invecchiamento, è
anche vero che questo effetto può essere limitato
e ritardato con uno stile di vita appropriato,
per passare dal concetto di terza età a quello di
“Grande età”, un concetto coniato dal Prof. Paolo
Cerretelli, illustre cattedratico dell’Università di
Milano e di Ginevra, che si sposa perfettamente
con figure come quella di Giacomo Fedriani.
Stefano Della Casa
43
La “Voce Fiume” dei nonni,
un patrimonio da difendere
di Umberto Folena
Lettori lo siam tutti. Lettori appassionati o pigri,
divoratori di pagine o parchi assaggiatori subito
sazi. Lettori di gazzette color rosa o rotocalchi con
i racconti improbabili dei vip; di romanzoni russi
così lunghi e densi che ti fan venire freddo e van
44
letti con lo scialle e la coperta sulle ginocchia; lettori di poesie (e quindi scrittori di poesie, è fatale),
lettori di romanzi avventurosi che ti afferrano le
viscere e non te le mollano fino all’ultima pagina.
Lettori di pagine romantiche che fan scivolare la-
crime e sospiri…Lettori, insomma.
Lettori silenziosi. Molti siamo, o siamo stati, anche
lettori “rumorosi”. Lettori ad alta voce. Per i nostri
figli, un tempo. Per i nipoti, oggi. Lettori di fiabe,
storie, racconti per bambini. Narratori di storie
mai scritte ma tramandate oralmente, o inventate;
raccontatori delle proprie “avventure”, perché ai
nipoti piace tantissimo sapere che cosa i nonni, e
ancor più i genitori, combinavano da piccoli.
Il passo avanti è diventare lettori ad alta voce.
Professionali…o quasi. Ci sono bambini che non
hanno né genitori né nonni che leggano loro ad
alta voce; perché non ci sono, perché non hanno
tempo, perché (ahinoi) non ne hanno voglia o non
lo ritengono importante. I nonni lettori allora si
organizzano. Ecco come.
Andate nella biblioteca del quartiere, o del paese.
Con un po’ di fortuna troverete un gruppo di nonni lettori già esistente e attivo, come una cellula
guerrigliera. Con un altro po’ di fortuna troverete
una bibliotecaria complice. Se non avete fortuna,
la cellula potrete costruirla voi, basta essere in due
o tre. I nonni lettori si scambiano idee, libri, impressioni. Fanno progetti. E poi, come ogni cellula
guerrigliera, passano all’azione. Si propongono in
biblioteca, nelle scuole dell’infanzia. Nei salotti, ai
nipoti e ai loro amici. E leggono.
Non occorre essere attori, anche se esistono corsi di lettura (attenti però alle fregature). Serve
soprattutto divertirsi e commuovere, spaventare,
rassicurare. La voce? Non è un problema. Bruno
Tognolini, scrittore per bambini (fu tra gli autori
della celebre “Melevisione”), nel libro Leggimi forte, scritto con Rita Valentina Meletti, edito da Salani sette anni fa e giunto ormai alla quinta edizione, scrive: “Quando si legge un libro a un bambino,
la voce è la storia: dà corpo alla storia, la riempie,
come l’acqua riempie il letto del fiume. La voce è la
storia come l’acqua è il fiume. È la “Voce Fiume”.
È una voce che s’infiltra nella storia e scorre do-
cile dentro di lei, gira serena nelle anse delle frasi, frulla nei gorghi delle esclamazioni, si allarga
nei laghi delle descrizioni, spumeggia nelle rapide
dei dialoghi: insomma, è un bel fiume che va. E
attenzione, non sto parlando di “leggere bene”, di
dizione corretta e interpretazione brillante: io non
ne ero e non ne sono capace. Son stato addirittura
balbuziente, e spesso mi accade ancora d’incespicare: passetti di danza… No, la Voce Fiume non
ha niente a che fare con la buona dizione. La Voce
Fiume è una voce personale, che può ben essere
nasale, piatta, chioccia, colorita da cantate dialettali, da erre mosce e vizi e vezzi di pronuncia. Ma è
la voce nostra, quella che c’è toccata in sorte, unica
e irripetibile”.
Organizzatevi, nonni lettori guerriglieri delle parole. Togliete potere alla televisione più sciocca
e divertite voi stessi per primi. Spiega Tognolini:
“Siamo sempre spettatori… ma con la “scusa” dei
bambini, noi adulti possiamo riprenderci un attivo
ruolo culturale che altrove ci è negato. Il numero
di “spettatori” non conta”.
E allora, cari nonni lettori, cominciate. Magari dal
vostro libro preferito dell’infanzia. Pinocchio? Anche lui. Scoprite la vostra Voce Fiume. E chiedete
consiglio in biblioteca, agli altri nonni, scavate nella vostra memoria. Alla ricerca di chi vi leggeva o
raccontava le storie, e della loro magia.
Filastrocca dei Nati per Leggere
(di Bruno Tognolini)
Leggimi subito, leggimi forte
Dimmi ogni nome che apre le porte
Chiama ogni cosa, così il mondo viene
Leggimi tutto, leggimi bene
Dimmi la rosa, dammi la rima
Leggimi in prosa, leggimi prima.
Le favole di oggi
Le favole non appartengono soltanto a un’antichità
più o meno imprecisata, ma continuano ancora
oggi ad essere scritte, oltre che raccontate.
Testimonianza evidente sono i tanti libri di fiabe di
autori contemporanei che si trovano nelle librerie o,
navigando in rete, nei portali che vendono e-book,
ovvero libri disponibili su formato digitale. Qualche
anno fa, e precisamente nel 2005, è stato pubblicato
da Rai-Eri il libro di Fabrizio Luciani dal titolo: “Il
mondo dei contrari. Nuove favole per comprendere
nuove realtà”. Si tratta di dieci favole nelle quali
ogni riferimento alla realtà non è per niente casuale.
I fondi ricavati da questa iniziativa contribuiranno
alla costruzione, da parte del VIS - Volontariato
internazionale per lo Sviluppo, della “Cité des
Jeunes” in Burundi. Nel 2012 è uscito invece il libro di
Tiziano Solignani dal titolo “9 storie mai raccontate
(più una)” (disponibile al momento solo in formato
elettronico) che punta a innovare l’universo della
fiaba. Le tematiche sono infatti in apparenza quelle
tipiche del repertorio fiabesco: buoni sentimenti e
azioni positive. Tuttavia, andando a ben guardare,
si scorge una certa vena di adulta inquietudine. E’
sempre comunque imprescindibile, ogni volta che
si tratta di fiabe, citare la grande raccolta (questa
volta tradizionale) di Italo Calvino, dal titolo “Fiabe
italiane raccolte dalla tradizione popolare durante
gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari
dialetti da Italo Calvino”, pubblicata nel 1956. Per
chi volesse invece studiare la struttura delle fiabe,
rimane necessario il celebre saggio di Vladimir
Propp, “Morfologia della fiaba”.
45
Il Cenone” per 4 persone a solo 50 euro
di Gian Paolo Galloni
Sembrava un’impresa
“impossibile” realizzare un
“cenone” di 5 portate per 4
persone con
un budget di 50 Euro.
Tuttavia la richiesta è stata
esaudita, e anche con prodotti
di qualità. Il menù che ho
pensato è così formato:
antipasto di salmone,
tortellini in brodo, bollito
misto con salsa verde, pollo
arrosto con patate, panettone
e torrone. Vini: prosecco con
antipasto e primo, lambrusco
con bollito e arrosto,
spumante dolce
con panettone e torrone.
Ecco la lista dei prodotti
acquistati nel dicembre
scorso in un supermercato
46
Salmone norvegese affumicato gr. 200
Grattuggiato 100gr
Sfogliavelo tortellini di vitello 2x125
Mezzo cappone
1 chilo di polpa reale
0,6 kg di biancostato
Salsa verde
Cotechino 0,8 kg
Pollo
0,8 kg di patate
Panettone 0,750 kg con spumante
Torrone friabile o morbido
Prosecco
Lambrusco
Totale
Questi prodotti, tutti di buona qualità, sono
acquistabili con gli stessi prezzi in tutte le catene di Supermercati o Iper presenti sul territorio italiano.
Alcuni consigli: per cucinare il bollito e avere un ottimo brodo ci vogliono almeno 4 ore.
Il biancostato e la polpa reale vanno messi in
pentola con acqua fredda, senza aggiungere
€ 3,09
€ 1,09
€ 3,04
€ 6,64
€ 10,65
€ 3,90
€ 0,60
€ 4,78
€ 2,66
€ 0,70
€ 4,48
€ 2,58
€ 2,89
€ 2,87
€ 49,97
verdure e sale. Il cappone va aggiunto dopo
un paio d’ore. Il brodo va filtrato e va salato
secondo gusto. Il prosecco va servito con le
tartine di salmone e i tortellini, mentre il lambrusco va bevuto con il bollito e l’arrosto. Lo
spumante dolce è l’ideale per accompagnare il
panettone (che prima di essere servito va scaldato) e il torrone.
47
Tradizioni, costumi e solidarietà
di Stefano Della Casa
Le festività natalizie hanno
sempre ricoperto un ruolo
importante nella cultura
italiana, si pensi che nascono
addirittura dall’Impero
Romano. Diffuse in tutto il
paese, anche se con qualche
sostanziale differenza
fra le diverse Regioni, le
tradizioni più conosciute sono
incentrate su Babbo Natale,
la Befana ed il Presepe.
48
Il presepe, come lo conosciamo oggi, ha origini antichissime e deriva dal culto dei Lari, diffuso fra
romani ed Etruschi, ed erano statuine rappresentanti gli antenati posti su un piccolo altare ai quali
venivano dedicate preghiere la notte del 20 dicembre. Nei secoli questa usanza divenne sempre più
popolare da quando le chiese utilizzarono statue e
rappresentazioni religiose al proprio interno, fino
al primo presepe vivente che fu realizzato da San
Francesco d’Assisi nel 1223, a Greccio. Da allora la
rappresentazione del presepe non ha subito cambiamenti sostanziali, se non per le statuine che, in
alcuni casi, sono vere e proprie opere d’arte. Altra
figura importantissima per gli italiani, equiparabile alla figura di Babbo Natale, è la Befana, che
per tradizione arriva la notte dell’epifania (tra il
5 e il 6 gennaio) e porta dolci ai bambini buoni e
carbone a quelli che, nell’arco dell’anno, si sono
comportati male. La Befana, rappresentata da una
vecchia signora che viaggia a bordo di una scopa,
viene festeggiata con moltissime iniziative a carattere locale a conferma della sua grande popolarità.
Un altro appuntamento del Natale sono i Mer-
catini. Nati nelle regioni del nord Italia e principalmente in Alto Adige, i più famosi e conosciuti
sono quelli di Bolzano e Merano, oggi sono ormai
diffusi in tutta Italia e rappresentano una tappa
obbligata per acquistare le decorazioni dell’albero,
statuine per il presepe e specialità alimentari per
la cena della vigilia che la tradizione vuole che sia
a base di pesce o comunque di magro perché la parola vigilia deriva dal latino “veglia”, caratterizzata
dal digiuno.
Le festività natalizie sono anche un momento di
riflessione, religiosa e laica, in cui si moltiplicano
le azioni di volontariato ed assistenza nei confronti dei più bisognosi. In ogni parte del nostro paese le associazioni organizzano mercatini, raccolte
di fondi ed alimenti o semplici distribuzioni di
doni per le persone in difficoltà, basti pensare alla
“Bottega del Natale” a Reggio Emilia, che da oltre
30 anni organizza un mercato di articoli natalizi,
oggettistica, arredamento e idee regalo per raccogliere fondi a favore delle popolazioni del Centro
America, oppure alla distribuzione gratuita dei panettoni alle persone bisognose a Fiumicino, ma di
azioni come queste, fortunatamente, se ne possono contare a centinaia in ogni città italiana, basta
avere la voglia di trovarle.
Prosegue come di consueto la rubrica “Libri e web”, che indica alcune novità editoriali
presenti in libreria e alcuni siti nati recentemente sul web.
Barbara Constantine
“E poi, Paulette...”
2012, Einaudi
Romanzo di Barbara Constantine edito da Einaudi. Racconta la storia di un gruppo di persone, alcune molto
anziane, altre più giovani, che per un motivo o per l’altro
si ritrovano tutte insieme a vivere nella fattoria di Ferdinand, vedovo settantenne, appena “abbandonato” dal
figlio, dalla nuora e dai nipoti che si sono trasferiti in
paese. Arriverà Marceline, vicina di casa dell’uomo, la
cui casa è stata danneggiata durante un temporale. Arriverà Guy, grande amico di Ferdinand, che ha da poco
perso la moglie malata. Arriveranno Hortense e Simone,
due anziane signore, cognate, che hanno sempre vissuto
insieme e che ora sono minacciate dal nipote che vuole metterle in un ricovero. Ma a vivere con loro entrerà
anche Muriel, che sta studiando da infermiera e a cui
Ferdinand offre vitto e alloggio in cambio di una mano
con Hortense. E poco dopo, al gruppo si aggiunge anche
Kim, giovane studente scapestrato con la passione per il
giardinaggio, che si unirà a Marceline nella cura dell’orto. E non dimentichiamo anche i due gatti, il cane e l’asino, che completano questa grande famiglia. Ognuno
dei personaggi ha una storia alle sue spalle, più o meno
triste, che a poco a poco viene svelata durante la convivenza. I più anziani aiutano i più giovani a capire la vita,
e i più giovani portano una ventata di freschezza e di
allegria. Un romanzo lieve ma capace di far riflettere sul
significato dell’amicizia e il dialogo tra le generazioni.
nuovo. Solo chi ci sta vince.
Flavio Pagano
“Perdutamente”
2013, Giunti editore.
“Quando uno di noi si ammala di Alzheimer, l’esistenza
di coloro che gli sono intorno non viene spinta verso gli
interrogativi della morte, ma della vita. Perché l’Alzheimer è la malattia che più di ogni altra appartiene alla
vita”. Ne possiede tutta la follia, l’energia brutale e misteriosa, l’imprevedibilità. Rende concreta l’immaginazione e dissolve la realtà. Rimescola il tempo”. Flavio
Pagano racconta l’Alzheimer di sua madre, e come lui
e tutta la famiglia si siano trasformati in “care giver”
estremi, capaci di accudirla con fantasia, inoltrandosi
anche nell’assurdo. E ridendo, ridendo fino alle lacrime.
Con napoletana inclinazione a sceneggiare la vita e a
farne teatro dell’assurdo, Flavio Pagano racconta come
lui e la sua famiglia si siano dedicati con fantasiosa abnegazione alla madre indementita: decisi ad accudirla
attivamente, a stimolarla nelle attività che ancora le erano possibili, giocare a carte, cantare. Stare al gioco dei
suoi scambi di persona, delle bizzarre ricostruzioni, dei
suoi umori ballerini, dei suoi bisogni mistici. Il libro di
Flavio Pagano è un capolavoro di intelligenza del cuore.
“Perdutamente”, s’intitola, ed è già grandioso. Non c’è
avverbio più dolce, nell’amarezza. Si ama perdutamente, ed è questo che accade se riesci a capire che il malato
di Alzheimer non è malato: è un rifugiato. Un folle, forse. Un visionario. Uno che ha “deciso” che della vita ne
ha avuto abbastanza. De hoc satis. E allora lanciamo in
aria le carte, scombiniamo tutto, giochiamo a un gioco
Cristiana Ottaviano
“Ri-nascere:
nonni e nonne domani.
Legami intergenerazionali
nella società complessa”
2012, Liguori editore.
In una visione ampia del benessere delle generazioni
meno giovani, una particolare attenzione merita l’esperienza della “nonnità”. Il legame intergenerazionale
nonni/nipoti offre infatti prospettive interessanti anche
dal punto di vista dell’invecchiamento attivo. Il contatto
con l’infanzia, l’assunzione di responsabilità educativa
e/o di cura, accompagnare la crescita evolutiva dei bambini e delle bambine, improvvisare creativamente situazioni e soluzioni che i minori richiedono, non può che
rivitalizzare l’esistenza quotidiana di un anziano e consegnargli possibilità di futuro. Da una ricerca sul campo
emerge che si sta affacciando una nuova generazione di
nonni/e: fortunati perché in buona salute, con pensioni sicure, tempo a disposizione, ma soprattutto perché
sono stati giovani in un tempo di grandi trasformazioni
culturali, di movimenti, sogni, utopie e con un acceso
desiderio di cambiare il mondo. A loro la sfida di inventare un nuovo modo di essere nonni e divenire adulti
significativi per le nuove generazioni, anche per poter
aiutare genitori che in questo clima socio-economico di
sfiducia e paura si sentono spesso in difficoltà.
49
Michele Serra
“Gli sdraiati”
2013, Feltrinelli editore.
Loro ci sono. Loro sono di là. O forse sono altrove. Se
li chiami, c’è anche il rischio che rispondano. Ma con
che risultato? Loro sono riconoscibilissimi, ma chi li ha
visti crescere teme sempre che possano essere stati sostituiti. Inquietanti o inquieti? Loro passano gran parte
del tempo in una posizione orizzontale, che non è necessariamente quella del sonno. Ma certamente dormono
quando gran parte del mondo è sveglia. Loro sono gli
adolescenti, anzi i figli adolescenti. Così se li immagina
Michele Serra: sdraiati. Gli sdraiati fanno paura, fanno
tenerezza, fanno incazzare. Eppure, se interrogati, a volte sorprendono per intelligenza, buon senso, pertinenza. E allora? Bisogna raccontarli, guardarli, spiarli. Cosa
che Michele Serra fa con l’ansia del padre, con lo spirito
del moralista, con l’acutezza del comico. Gli sdraiati è un
romanzo, un saggio, un’avventura. Ed è anche il “monumento” a una lunga generazione che si è allungata orizzontalmente nel mondo, nella società, e forse da quella
posizione sta riuscendo a vedere cose che gli “eretti” non
vedono più, non vedono ancora, hanno smesso di vedere.
Luis Sepùlveda
“Storia di una lumaca
che scoprì l’importanza
della lentezza”
2013, Feltrinelli editore.
50
Luis Sepùlveda ha saputo creare storie che hanno la
grazia delle fiabe e la forza delle parabole, storie apparentemente semplici che trattano temi importanti con
un linguaggio e dei personaggi capaci di coinvolgere i
lettori più piccoli e di parlare al cuore e alla mente anche di quelli più grandi. Così è stato per “Storia di una
gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, che ha
raccontato l’amore per la natura, la generosità disinteressata e la solidarietà, anche fra “diversi”, e per la sua
seconda favola, “Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico”, un’altra commovente e tenera storia di
amicizia nella differenza. Ora un nuovo “animale” entra
nella galleria personale del grande scrittore cileno, una
lumaca che, in un mondo che ha perso la dimensione del tempo, in una società dominata dalla velocità e
dall’ansia, insegnerà a riscoprire il valore della lentezza,
a ristabilire uno spazio per la riflessione, a creare la dimensione in cui apprezzare nuovamente le persone e le
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