N°5 Dicembre 2013 Intervista al ministro Lorenzin: ecco la sanità ventura ISEE: tutti i conti per ogni famiglia Beatrice Lorenzin Romano Prodi: Quale riscatto per l’Africa Giorgio Torelli: Gesù Bambino alla ritirata di Russia Sommario Gian Guido Folloni è un politico e giornalista italiano, già Ministro della Repubblica per i Rapporti con il Parlamento. E’ stato direttore del quotidiano cattolico Avvenire dal 1983 al 1990. Successivamente ha lavorato alla Rai. Dal 2008 è Presidente di Isiamed (Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo). 3 Editoriale (Gigi Bonfanti) 4 Hanno scritto per noi 5 “La lettera” (Giuseppe Pipicella) 6 La posta del direttore 8 Tracce di conflitto generazionale (Giobbe) POLITICA 9 Intervista esclusiva a Beatrice Lorenzin ministro della Salute (Marco Iasevoli) 12 Legge di stabilità, le pensioni:che fare? (Marco Pederzoli) 14 Il Governo Letta,ponte verso il futuro 15 E’ ricambiata la politica (Guido Bossa) 16 Le sfide del lavoro e dello sviluppo (Paolo Raimondi) ATTUALITA’ E SOCIETA’ 18 Ospedali al nord, ospedali al sud (Simone Martarello) 20 Castegnato, il taxi sociale (Dino Della Casa) 21 Storie di origami: deficit di futuro (Elettra) 22 Il nuovo ISEE (Marco Iasevoli) CULTURA 24 Alain Touraine: serve una base etica (Mimmo Sacco) 26 Viaggio fotografico nei mercatini delle feste 28 Africa, il male oscuro (Folloni incontra Romano Prodi) 32 Il summit dei Brics di Durban (Marguerite Lottin Welly) 33 Gesù Bambino alla ritirata di Russia (Un racconto di Giorgio Torelli) 36 Alla ricerca dei significati perduti (Michelangelo Tagliaferri) 38 Niente “satana” niente “male” (Gianfranco Varvesi) SALUTE 40 Inverno: problemi alle articolazioni (dr. Alberto Costantini) 41 Sciare senza età (Stefano Della Casa) MAPPAMONDO 44 La “voce Fiume” dei nonni (Umberto Folena) 46 Il “Cenone” a 5o euro (Gian Paolo Galloni) 48 Tradizioni, costumi e solidarietà (Stefano Della Casa) 49 Libri e Web (Marco Pederzoli) 51 Il vagabolario (Dino Basili) 2 memoria, attualità, futuro Postatarget Magazine - tariffa pagata -DCB Centrale/PT Magazine ed/ aut.n.50/2004 - valida dal 07/04/2004 Contromano Magazine N°5 Ottobre 2013 Aut. Trib. Roma n 40 del 18/02/2013 Prezzo di copertina € 1,80 Abbonamento annuale € 9,048 Direttore responsabile: Gian Guido Folloni Proprietà: Federpensionati S.r.l. sede legale: Via Giovanni Nicotera 29 00195 Roma Editore delegato: Edizioni Della Casa S.r.l. Via Emilia Ovest 1014 41123 Modena Stampa: tipografia ARBE s.p.a Via Emilia Ovest 1014 Modena Redazione Coordinamento grafico: Edizioni Della Casa ArtWork: M. Barbieri Postproduzione immagini: Paolo Pignatti Comitato di redazione: Matteo De Gennaro Dino Della Casa Questo numero è stato chiuso il 15/12/2013 A norma dell’art.7 della legge n.196/2003 il destinatario può avere accesso ai suoi dati chiedendone la modifica o la cancellazione oppure opporsi al loro utilizzo scivendo a: Federpensionati S.r.l. sede amministrativa: Via Castelfidardo, 47 00185 Roma L’editore delegato è pronto a riconoscere eventuali diritti sul materiale fotografico di cui non è stato possibile risalire all’autore Editoriale Prossima fermata: Fnp di Gigi Bonfanti Il XVII Congresso nazionale ha affrontato la questione della nuova Fnp, come progetto riformatore della struttura organizzativa e funzionale. L’analisi attuale prende le mosse dalla fragilità che deriva dalla crisi generale ed acuta che pervade le organizzazioni di massa, ne mina il rapporto fiduciario, ne comprime il quadro della rappresentanza, ne attenua il processo di partecipazione, indebolendone il carattere democratico. La riflessione che la Fnp è tenuta a sviluppare, nel concreto dei fatti, si sviluppa sul ruolo e sugli strumenti dell’azione sindacale, affrontando alcuni aspetti prioritari quali la mutazione della concezione del lavoro ed il nesso fra la rappresentanza e la rappresentatività. L’Italia è fondata sul lavoro ed il sindacato è una organizzazione di lavoratori. Ed in funzione di questa relazione che si è compiuta l’ascesa delle masse popolari alla vita politica, alla diffusione della democrazia, alla generalizzazione dei diritti, all’uguaglianza rispetto ai beni primari della vita, come la salute, l’istruzione, la previdenza sociale ed il rigetto del privilegio. Il lavoro acquisisce un suo valore sociale che trasmette il senso della realizzazione della persona, l’espressione più matura dell’inclusione nella cittadinanza e nei suoi connessi diritti civili. Ma il lavoro muta nel tempo e nello spazio, assume contenuti che si modificano, esprime rapporti giuridici connessi al loro tempo, produce una fase di attesa del lavoro e di fragilità e precarietà del pre-lavoro e genera, al compimento del ciclo operativo, una ampia fase di post-lavoro, che si sostiene con il salario differito e si confonde con l’espressione della longevità della vita. Ed è in relazione a questa concezione ampia e costituzionale del lavoro, che condiziona la politica (e non viceversa), che assume rilevanza la nozione di rappresentanza, che diventa di conseguenza legittimazione a svolgere l’azione politico sociale ed il presupposto necessario per essere considerati soggetti aventi diritto ad orientare il percorso lungo della società. Il Congresso ha risolto la parabola del rinnovamento della Fnp chiamandola a diventare uno strumento rigenerativo di proposte e di prospettive verso una visione della società libera, riformista, equa ed solidale. La Fnp pertanto, dovrà reagire a quella lenta agonia che pervade tutti i corpi intermedi stritolati dalla forza della globalizzazione e dal potere occulto della finanza speculativa che, nella loro perversa integrazione, devitalizzano la tendenza partecipativa, la capacità attrattiva, la modernità dell’elaborazione collettiva ed anche il giacimento crescente dei saperi della Federazione. In questo contesto il carattere della confederalità connette il profilo negoziale, in particolare nei confronti di controparti istituzionali, ed orienta l’elaborazione programmatica verso i presidi del territorio, sede naturale della contrattazione sociale, rivolta alla tutela, allo sviluppo e alla rimodulazione del welfare, esaltando l’opportunità’ della conoscenza diretta dei problemi. Questa azione rigenerativa può consentire di disegnare un futuro sostenibile, con nuovi scenari, nuove speranze, con un rinnovamento di uomini e metodi, coinvolgendo il meglio della società civile e dei corpi intermedi, quali portatori di valori e di idealità. La nuova Fnp, a partire dal 2014, potrà diventare un atto di fede nella democrazia, persino nel cambiamento della politica, per quanto incerto ed erratico. La Fnp ha comunque nel tempo maturato la convinzione che per cambiare l’Italia bisogna cominciare da se stessi. In questo senso noi abbiamo le carte in regola in quanto siamo seduti su un patrimonio di potenzialità democratica, al servizio dei pensionati, dei nostri ideali, con un forte senso di responsabilità verso il Paese. Ma per far sì che la Fnp agisca efficacemente come soggetto collettivo sarà necessario rivedere i contenuti e gli strumenti dell’azione sindacale, per renderla adeguata ai mutati scenari politici, economici e sociali. Per tutelare gli interessi dei nostri associati e dell’area degli anziani in generale, occorrerà ripensare nuovi modelli organizzativi, nuovi strumenti di azione, fondati su relazioni fiduciarie e spirito di cooperazione, dove il negoziato si inscrive in una più vasta rete di accordi e di intese che coinvolgono i diversi soggetti pubblici e privati, i diversi livelli ed aspetti che rappresentano l’interconnessa struttura nel sistema socio economico italiano. Con l’inizio del nuovo anno dovremo esprimere tutto il nostro coraggio per concorrere a superare la crisi etica del Paese, per riavvolgere il nastro operativo della nostra azione in favore dei pensionati, intesi come un’area debole e depredata dalla barbarie di una classe dirigente inadeguata ed autoreferenziale che ha ridotto il Paese ad una realtà sciapa ed infelice, secondo l’interpretazione del Rapporto Censis. Occorre, per De Rita, un respiro più spontaneo della società, più fecondo rispetto alla prassi che ha prodotto solo illusioni. In questo scenario si delinea l’essenza della nuova Fnp, interprete disincantata della realtà, sede di un crescente processo associativo, luogo della amicizia e della solidarietà. *Segretario Generale Fnp Cisl 3 Hanno scritto per noi 4 Marco Pederzoli Giornalista e collaboratore di diverse testate. Scrive per La Gazzetta di Modena, Il Sole 24 ore. Gigi Bonfanti Segretario generale Fnp Cisl. Giuseppe Pipicella Studente universitario Bocconiano.Collabora con il periodico “Fili d’Argento e con il programma “Anti Aging project” Marco Iasevoli inviato del quotidiano L’Avvenire Simone Martarello giornalista professionista. Ha collaborato per Il Resto del Carlino e L’Informazione. Dino Della Casa Laureato in marketing e comunicazione. Editore Mimmo Sacco Giornalista RAI TV. Condirettore de Il Domani d’Italia, mensile di politica e cultura. Marguerite Lottin Welly Giornalista e conferenziera del Camerun, presidente dell’associazione Griot Camerun, presidente dell’associazione Griot Gianfranco Varvesi Diplomatico, ha ricoperto incarichi in Italia e all’estero. Ha prestato servizio nell’ufficio stampa del Quirinale. Alberto dr. Costantini Cardiologo.Ex medico cardiologo della Camera dei Deputati. Stefano Della Casa Giornalista Freelance e Direttore della rivista Jag Generation Umberto Folena Editorialista del quotidiano L’Avvenire. Consulente della CEI Guido Bossa Giornalista professionista. Presidente dell’Unione nazionale giornalisti pensionati Paolo Raimondi Economista Scrittore Giorgio Torelli per 40 anni inviato speciale dei più importanti quotidiani e settimanali italiani.Fondatore con Indro Montanelli de “Il Giornale” Michelangelo Tagliaferri Fondatore di Accademia di Comunicazione. Gian Paolo Galloni Per 25 anni direttore della comunicazione Michelin.Esperto gastronomo. Dino Basili Giornalista e scrittore, Direttore di Rai 2 e Capo ufficio Stampa del Senato Se, dopo il tramonto... Cari lettori di Contromano, mi chiamo Giuseppe e ho vent’anni. Nella vita mi occupo di tante cose ma, soprattutto, mi guardo intorno e vedo molte cose e così questa volta mi permetto di parlare degli anziani. Qualche numero fa, su questa rivista venne pubblicata la lettera aperta di un padre al figlio: vi si faceva riferimento a un remoto, eventuale, scongiurato futuro nel quale questo padre sarebbe stato “vecchio”. L’uso delle virgolette non serve a mitigare un aggettivo odiato fino al patetico dalla giovanilista società contemporanea, ma a evidenziarlo, a far capire che la vecchiaia non è un fattore cronologico, non si è vecchi nel momento in cui si è raggiunta una determinata età ma quando ci si rassegna. Non vi è per forza critica nella rassegnazione, lo spirito non può combattere in eterno con occhi che non vedono più i volti cari, orecchi che non sentono più le voci affettuose, gambe stanche perchè cariche di strada: è semplice umanità. La lettera merita una mia risposta, che non è, non può e non deve essere mai univoca. Come già detto, una persona anziana non sempre è anche una persona vecchia, come una persona vecchia non sempre è anziana: è anziano chi si sente anziano. Ormai l’aspettativa di vita si alza sempre di più; si può considerare una persona anziana quando ha raggiunto una determinata età? No, assolutamente. Tutti vogliamo vivere a lungo, immaginandoci di essere sani, giovani e gaudenti per sempre, molti poi si scontrano con la realtà dei fatti: la vita è bella se c’è la salute, se il nostro corpo ci permette di vivere. Per questo motivo penso che tutti, soprattutto dopo una certa età, dovrebbero avere il più possibile cura della propria salute: seguire una dieta equilibrata, fare regolare esercizio fisico e mantenere la mente allenata. Che fatica tutte queste cose! In effetti, dopo che si ha lavorato una vita e finalmente ci si potrebbe concedere il più che meritato riposo, pensare di vivere sotto una serie di “restrizioni”, anche se a fin di bene, non è il massimo. D’accordo. Guardiamo ora il rovescio della medaglia: immaginate di dovervi ricordare cinque pastiglie ogni giorno o di avere bisogno di qualcuno per potervi alzare...quale cosa è peggio? L’anti-aging è un aspetto estremamente importante della medicina; purtroppo viene spesso associato unicamente alla cosmetica e all’estetica, in realtà è la più grande forma di prevenzione. Sicuramente io, come molti dei miei coetanei, nonostante la diffidenza che ruota intorno alla nostra generazione, non farei mai mancare niente a un genitore o ad un nonno anziano ma, proprio per l’affetto che mi lega a loro, sono il primo a spronare le persone ad avere cura del proprio corpo e della propria mente: perchè io posso essere il più premuroso degli assistenti, il più competente degli infermieri e il più devoto dei badanti, ma tutti abbiamo il diritto alla nostra libertà ed indipendenza, nessuno può vivere la propria vita o respirare attraverso gli altri, anche se questi lo accettassero e lo volessero con tutto se stessi. Non dipendere da nessuno: ogni fase della vita riserva tesori per sé e per le altre persone. Quando viene meno l’energia, compensa l’esperienza. Quello che mi sta a cuore è che gli anziani non diventino mai vecchi! Nello stesso Vangelo è Gesù a insegnarci che al pescatore è meglio dare la canna da pesca e insegnare a pescare, anziché dare il pesce già pescato. la Lettera Giuseppe Pipicella studente 2° anno facoltà di giurisprudenza Università Bocconi di Milano.Vicepresidente dell’associazione BocconianaMente. BocconianaMente è un’associazione studentesca dell’università commerciale “Luigi Bocconi”. Ha come scopo la creazione di occasioni di dibattito culturale su vari argomenti. E’ attiva da quasi tre anni, ma ha registrato il suo periodo di maggior splendore nei primi mesi dell’anno accademico 2013-2014. I membri sono selezionati tra gli studenti della nota università milanese sulla base dell’attitudine personale a volersi mettere in gioco e voler imparare sia dalla teoria sia dalla pratica. 5 la posta del Direttore Perché siamo indifesi di fronte alla crisi Caro direttore, da qualche anno in modo crescente, anche a ragione della crisi economica, il rapporto tra anziani è giovani è diventato oggetto di confronto sociale. Si discute delle diverse opportunità che gli uni (giovani un tempo e oggi anziani) e gli altri (i giovani d’oggi) hanno avuto dalla vita. Ad esempio: si dice spesso che i primi sono riusciti a costruirsi una pensione mentre i secondi non sono certi che il futuro garantirà loro la stessa sorte. Ma non è solo questo. La sicurezza del lavoro, ad esempio, sembra oggi una chimera, soprattutto se messa confronto con gli anni del dopoguerra, quando gli anziani di oggi erano i giovani di allora. Più in generale appare sempre più evidente la fragilità dell’oggi, segnata da una grande precarietà. Tuttavia, questa condizione finisce per scontrarsi con un paradosso, almeno apparente. Gli anni passati, proprio quelli del dopoguerra, non erano certo di vacche grasse. Il Paese era uscito dalla guerra e le condizioni economiche delle famiglie non erano mediamente floride. Appare per questo singolare che non si possa oggi fare quel che fu fatto allora. E’ una considerazione che vale in generale per il Paese e, al tempo stesso, per le singole persone. Inventare il lavoro, costruire una socialità tutelata, ricostruire le infrastrutture distrutte e fatiscenti: in pochi anni fu fatto quel che oggi appare quasi impossibile. Come se gli italiani e l’Italia avessero perso la sapienza necessaria per uscire dalle difficoltà che, pur in modi e misure differenti, la storia presenta sempre a ogni generazione. Credo sia necessario riflettere su questa debolezza dell’oggi, 6 forse non solo “tecnica”, finanziaria e organizzativa, ma culturale e morale. Andrea Bontareggi Bari Concordo con lei, signor Andrea, a proposito della complessità dei fattori emersi da alcuni anni, tutti collegati alle insicurezze che la crisi finanziaria e di lavoro ci ha sbattuto in faccia. In sintesi possiamo dire – vale per tutto l’Occidente – che mentre fino a qualche anno fa i genitori pensavano che i figli avrebbero avuto una vita migliore della loro, oggi sono consapevoli che probabilmente non sarà così. Questo fatto è origine di grande ansietà, fino a far vacillare, negli USA, il mito della “american way of life”. Rimboccarsi le maniche è, probabilmente, l’atteggiamento giusto. Ma proprio qui sta, forse, il problema più grave da superare. Zygmunt Baumann, uno dei più grandi filosofi contemporanei, nel riflettere sul rapporto tra giovani e anziani considera tre fasce generazionali. La prima è quella di chi è nato durante, o appena dopo, la Seconda Guerra Mondiale. Costoro hanno conosciuto i lutti e i disagi del conflitto. Sono cresciuti in famiglie che si sono misurate con le ristrettezze proprie di quel tempo. Sanno – se non altro perché i loro genitori glielo hanno testimoniato concretamente – che solo la solerte dedizione al lavoro, la frugalità dei consumi e ogni possibile forma di solidarietà famigliare e sociale garantiscono – allora fu così – di uscire dai disagi e di non riprecipitarvi. La seconda è la generazione figlia della prima. Sono nati e cresciuti a valle del boom economico. Non hanno conosciuto le ristrettezze dei padri, ma ne hanno sentito parlare e, dunque, ne conservano una certa memoria. La terza fascia generazionale considerata da Bau- mann è quella dei ventenni di oggi. Questi non hanno conosciuto direttamente, e nemmeno ne hanno sentito parlare dai loro genitori, le difficoltà di fronte alle quali si trovano improvvisamente a misurarsi. E’ la generazione più indifesa e che con maggiori difficoltà rispetto ai loro nonni dovrà superare la crisi. Quei bambini così male educati Mi ha molto colpito la multa inflitta dal giudice sportivo alla Juventus per gli insulti urlati dagli spalti dello stadio contro il portiere della squadra avversaria, durante la partita Juve – Udinese. Il fatto è noto: sanzionata con l’interdizione di una curva dello stadio alla propria tifoseria, la Juventus ha aperto gratis le porte a 12 mila giovanissimi tifosi. L’idea era buona: sostituire i facinorosi con i ragazzini, per rendere più innocente il tifo. Peccato che sia accaduto il contrario e che gli “innocenti” abbiano subito adottato il linguaggio del trivio che, purtroppo, caratterizza troppo spesso le partite di casa nostra. “Emulazione”, ha dichiarato Guidolin, l’allenatore della squadra bersagliata degli insulti. L’episodio si presta a più di una riflessione e, tralasciando quelle che investono la società bianconera, su una desidero soffermarmi. Per dei ragazzini male educati ci devono certamente essere dei mal educatori. Sanzionata la Juve (5000 euro), messi alla gogna mediatica i ragazzini, chi sono e come giudicare i mal educatori? Roberto Cantone Milano Caro direttore, i blocchi stradali, gli scontri di piazza, la contestazione ai governanti e alla politica tutta mossa dai cosiddetti “Forconi”: da una parte sono un deprecabile problema d’ordine pubblico, dall’altra sono termometro del punto cui è arrivato il disagio sociale. Ciò che colpisce non è tanto la dinamica organizzativa (con gli strumenti mediatici attuali è fin troppo facile creare “movimento”), quanto la pronta presa tra la popolazione di un ennesimo movimento di protesta. Dopo la Lega, dopo il grillismo, dopo la meno piazzaiola ma efficace rivolta interna al PD (anche il renzismo è contestazione), i forconi sono un altro segnale. Credo che queste “rivoluzioni” – con radici non solo italiane – pongano a tutti grandi interrogativi. Non solo la politica, ma ogni forma associativa (e tra queste in prima linea i sindacati) sono chiamate in causa. Che cosa succede in Italia e in Occidente? I nostri giovani vedono il declino incipiente e nessuno che sappia orientare nuovamente la marcia di una società a rischio di disfacimento. La sola Chiesa, con papa Francesco, mi pare stia mandando messaggi costruttivi. Cresce la distanza tra ciò che la gente si aspetta dai suoi governanti (i desideri e le promesse fallaci di una stagione politica segnata dal berlusconismo e intessuta d’inganni) e la possibilità concreta di dare risposte. In questa condizione – già Antonio Rosmini nei suoi scritti politici l’aveva descritta – rischia di fallire anche la democrazia. Contromano, nell’anno trascorso, ha fornito alcuni interessanti spunti di riflessione. Spero che la rivista prosegua in quest’analisi dei mutamenti profondi oggi in atto. Ma spero anche che, da politici e sindacati, maturi qualcosa di più concreto delle ingannevoli promesse rottamatorie o della difesa di quel che non abbiamo già più. Se l’Italia è da re-industrializzare, il sindacato deve reinventare una politica di nuovo lavoro e di nuove tutele. Bruno Dovo Torino I meteorologi, le alluvioni e il silenzio dei tecnici Che non piova più come un tempo è ormai un fatto accertato. Non solo lo spiegano i meteorologi che hanno al riguardo coniato neologismi (“bombe d’acqua”, ad esempio), ma lo constatiamo di persona per il sempre più frequente pianto nazionale sulle vittime di torrenti in piena, sottopassaggi allagati, strade cittadine trasformate in fiumi, valli devastate da tonnellate di acqua che distruggono declivi e fondovalle. Preso atto del fatto che la meteorologia è cambiata, ci vuol poco a dedurre che il modo in cui furono costruiti negli anni passati centri abitati, alvei fluviali e torrentizi, argini e sistemi di regimentazione delle acque non reggono (anche nei casi in cui non sia stata data via libera all’incuria o all’abusivismo, alla colpa e al dolo) alle mutate condizioni climatiche. Ogni volta l’Italia piange i suoi morti. Mi chiedo però il perché del silenzio dei tecnici dai quali la pubblica opinione ha il diritto di aspettarsi indicazioni sul come adeguare il nostro territorio alle mutate e inclementi nuove stagioni. Rocco D’Altri Bari 7 TRACCE DI CONFLITTO GENERAZIONALE “Finalmente potevo diventare vecchio” è la frase finale con cui Michele Serra conclude il suo “Gli sdraiati”, una “storia di rabbia, amore e malinconia” che indaga sul rapporto fra i “dopo-padri” e una generazione “che si è allungata orizzontalmente nel mondo”, ma che da quella posizione forse vede cose che gli “eretti” non vedono più. I giovani appaiono “sdraiati” in senso letterale: distesi su un divano con le cuffiette sulle orecchie, o su un letto in un sonno comatoso, mentre il resto del mondo si arrabatta nel darsi da fare. In sostanza “Gli sdraiati” rappresenta il tormento del padre, l’invettiva e la rabbia di fronte a quel “groviglio interconnesso” che è il figlio, il quale in definitiva non conosce, mentre avverte l’esaurirsi dell’autorità e della capacità di un contatto tra generazioni, proprio nell’epoca del sistema relazionale diffuso. Il padre si rende conto, in sostanza, di essere una “parodia di padre”, che non sa confrontarsi con il figlio post-adolescente e i suoi coetanei. Condizione che coinvolge chiunque abbia un figlio di quell’età e ritrova nel monologo paterno le fotografie della propria vita, la difficoltà nello stabilire un rapporto con ragazzi che sembrano galleggiare in un’altra dimensione e che si chiede: ma come fa l’autore a conoscere così bene mio figlio? In realtà il padre vorrebbe solamente comunicare almeno una volta con il proprio figlio, ma non 8 ci riesce e si trova solo di fronte ad una alterità inaccessibile. Tuttavia, si chiede Antonio Polito, se l’universo sconosciuto fossimo noi? Noi padri, non i figli che appaiono incomprensibili, coinvolti in un’apocalisse solo apparente perché, come diceva De André, spesso “da letame nascono i fior”. Serra trasmette il nucleo fondante del senso comune della nostra generazione, di noi figli ribelli del baby boom, diventati genitori di figli per lo più unici, e solitamente viziati. Forse il fallimento genitoriale della nostra generazione di padri (secondo il modello di Serra di un padre “relativista etico” che non sa trasmettere i valori, cercare verità, parlare del bene e del male) deriva proprio dall’aver tentato di sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Il padre sente la lontananza del figlio, la passiva non condivisione verso le cose che il padre non riconosce come gusti personali (pertanto discutibili), ma concepisce come modello di vita, cui uniformarsi. Ed è per l’appunto questa “condizione umana” che il figlio sente come “estranea”. Non ci arrendiamo al fatto che, in concreto, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Se non abbiamo niente da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Forse abbiamo paura della loro libertà, temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da proporre in cambio. Noi della Fnp, anche attraverso il Festival delle Generazioni, potremo confrontarci con i giovani su questo rapporto fra generazioni che sta avanzando, in cui il ruolo del genitore tende ad alienarsi nel contesto di un disinteresse dei gusti culturali ed esistenziali dei giovani. Anche il libro di Serra si chiude nella riconciliazione con il figlio, in un giorno imprevisto in alta montagna, dove il padre si allontana dalla sua vita, rinunciando ad imporla al figlio, come autentica eredità. Giobbe Intervista al ministro Beatrice Lorenzin “VOGLIO MEDICI E CURE NELLE CASE DEGLI ANZIANI” Sanità buona in tutte le Regioni e conti in ordine. Strutture ospedaliere altamente specializzate e assistenza territoriale nelle 24 ore con strutture dedicate. Nel Patto nessun nuovo ticket e risorse certe fino al 2016. Le regole per i costi standard. Lotta a sprechi e malaffare. Risparmi dalle centrali di spesa regionali. Anagrafe elettronica, telemedicina e trasparenza: con un click si conoscerà l’intera storia clinica. Intervista esclusiva al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin (Di Marco Iasevoli) 9 “Sogni? Non sono stata nominata ministro della Salute per fare sogni o disegnare scenari immaginifici. Dobbiamo mettere in sicurezza la Sanità italiana e la salute degli italiani, riformandoci dall’interno, senza tagli lineari ma eliminando sprechi e reinvestendo le risorse in capitale umano, tecnologico e infrastrutture. La Sanità deve guardare l’orizzonte dei prossimi venti anni. Diventiamo un popolo sempre più longevo, per fortuna, grazie alle scoperte scientifiche. Cure sempre più appropriate e sempre più costose dovranno essere garantite a tutti. Possiamo farlo solo se miglioriamo e riorganizziamo il sistema attuale, che ha tante eccellenze ma anche zone grigie. Ecco, il mio obiettivo è una sanità buona in tutta Italia, conti in ordine in tutte le Regioni. In questi mesi ho verificato che il punto di partenza non può che essere la scelta di persone capaci per la governance di questioni così complesse. Dove ha funzionato questa scelta, funziona il sistema, si spende meno, si spende meglio, si garantiscono cure appropriate”. La vista del Lungotevere che domina il suo dicastero ormai intenerisce poco o nulla Beatrice Lorenzin. La vita da ministro l’ha spinta a chiudere in un cassetto qualche ideale troppo staccato dalla realtà. Il ‘giorno-dopogiorno’ è un calvario di problemi, bilanci in rosso, casi di mala sanità a volte intervallati – per fortuna - da eccellenze e piccoli grandi miracoli. 10 “Ora è il tempo della programmazione”, ripete con un sorriso inquieto. “Per anni, per troppi anni, non c’è stato un disegno generale. È questo il mio compito principale: mentre si tamponano le emergenze, vanno ricercate soluzioni nuove. Per me l’esempio che chiarisce tutto riguarda la domiciliarità delle cure: un malato che riceve le cure a casa costa al Sistema sanitario nazionale tra i 40 e i 200 euro circa; ricoverato in un’azienda ospedaliera, per la sola degenza, costa tra i 300 e gli 800 euro. Con il particolare per me di assoluta rilevanza che il malato curato a casa gode del conforto della famiglia e quindi dei vantaggi di un’umanizzazione delle cure. Non solo risparmio e qualità, ma anche umanizzazione delle cure. Chiaro il confronto?” Iasevoli: Vuole portare medici e infermieri in casa? Come? Lorenzin: “I governatori hanno capito che siamo a una svolta epocale e hanno mostrato grande sensibilità. Stanno lavorando per rimuovere le resistenze locali, il vero grande intoppo. Pensiamo di realizzare strutture ospedaliere di alta specializzazione e di garantire l’assistenza territoriale attraverso strutture dedicate. Le cure più complesse e in condizioni di emergenza dovranno svolgersi in ospedali sempre più sicuri. Questo non vuol dire chiudere alcuni settori di attività. I servizi dovranno raggiungere gli ammalati piuttosto che far muovere le persone verso gli ospedali. In questa chiave è evidente che ogni operatore sanitario sarà impegnato a garantire assistenza. Tutto questo va integrato con la riforma dei medici di famiglia, che prevede presidi territoriali aperti h24 in modo da dare risposta in ogni momento della giornata senza dovere ricorrere necessariamente al pronto soccorso, con un’attenzione particolare alle attività svolte anche dalle associazioni e dai volontari”. Iasevoli: Già si intravedono le manifestazioni guidate dai sindaci… Lorenzin: “Il lavoro che insieme alle Regioni faremo sui piccoli ospedali non è un taglio, non è una risorsa sottratta ai cittadini. La differenza tra ospedali di alta specializzazione e piccole strutture è già nei fatti, è già nelle scelte dei cittadini. Chi di noi si farebbe operare da un chirurgo che ha operato pochissimi casi solo perché l’ospedale è vicino a casa? Chi farebbe nascere il proprio bambino in un ospedale che non sarebbe in grado di gestire una minima complicazione neonatale o per la mamma? Gli utenti già scelgono, ogni giorno, di fare dei chilometri in più per andare dove sanno di trovare medici e personale bravi e aggiornati, dotati delle migliori tecnologie. È meglio per tutti che queste piccole strutture svolgano un lavoro diverso ma altrettanto utile per la comunità territoriale. Il personale dovrà essere utilizzato tutto, ma per uno scopo diverso. È una riorganizzazione che dovrebbe anche ridurre il fenomeno dei ricoveri fuori regione se, appunto, ogni territorio avrà un numero di ospedali di alta specializzazione piuttosto che una miriade di piccole realtà con standard insufficienti dal punto di vista della qualità e della sicurezza dell’assistenza erogata”. Iasevoli: Le risorse per una trasformazione del genere? Lorenzin: “Il Governo per la prima volta negli ultimi dieci anni ha evitato ulteriori tagli al fondo sanitario nazionale. Nel 2014 avremo 109.9 miliardi di euro e una certezza di risorse per almeno tre anni, fino al 2016. Abbiamo scongiurato anche l’introduzione di nuovi ticket, il cui aumento sarebbe stato molto pesante per i cittadini. Considerando la precarietà in cui viaggiavamo sino a ieri, non è poco. Le risorse ci sono, il Patto per la Salute fornirà il nuovo piano regolatore della sanità italiana. Siamo partiti con i costi standard, la cui introduzione è la vittoria di una battaglia culturale. Spero che il Patto si chiuda entro l’anno o al massimo entro Gennaio”. Iasevoli: A cosa servono i costi standard? Lorenzin: “Qualcuno confonde e allora meglio ribadire che i costi standard non nascono per unificare il prezzo d’acquisto della siringa in Veneto e Campania. Quella è un’altra cosa. Con i costi standard intendiamo fissare il criterio di ripartizione delle risorse tra le regioni. Ripartiremo il fondo utilizzando come riferimento i costi medi di Umbria, Emilia Romagna e Veneto, considerando i livelli di spesa pro capite di ognuna di queste regioni benchmark. Questo è solo il primo passo perché la norma che introduce i costi standard prevede che gli indicatori possano essere riconsiderati entro i due anni successivi”. Iasevoli: Quanti risparmi porta questa operazione? Lorenzin: “I risparmi saranno considerevoli, potremmo anche superare i 2 miliardi di euro, e le Regioni saranno impegnate a garantire i cambiamenti organizzativi e gestionali necessari per assicurare i livelli essenziali di assistenza allo stesso costo delle regioni di riferimento. È su questo che ci siamo impegnati con il ministero dell’Economia contro i tagli alla sanità, certi di poter portare alla casse dello Stato il risparmio richiesto ma senza penalizzare il sistema. Per quanto riguarda i tagli ho chiesto al commissario Cottarelli di consentire un gruppo di lavoro ad hoc per la revisione della spesa in Sanità e così è stato. Il gruppo di lavoro si è già insediato. Cottarelli ha individuato esattamente le nostre stesse fragilità, ma gli abbiamo detto che le forbici volevamo usarle noi. È proprio per questo sforzo di serietà che anche Saccomanni, dopo 10 anni di interventi ininterrotti sulle spese della Sanità, quest’anno ci ha graziato”. Iasevoli: Ma torniamo al costo delle siringe, o dei pasti, o dei servizi di pulizia… Lì non solo si annidano differenze clamorose tra Nord e Sud, ma si verificano scempi (mazzette, appalti truccati, corruzione, collusione con la malavita…) che occupano le procure di mezza Italia. Come rispondete? Lorenzin: Sprechi e malaffare sono terribili in ogni settore della vita pubblica, ma in sanità sono particolarmente odiosi perché noi ci confrontiamo con la vita e la morte delle persone. Su questo non avremo indugi, la lotta sarà durissima. Ho dato mandato al coordinatore del tavolo del ministero di approfondire tutti gli aspetti relativi alla prevenzione della corruzione nel sistema sanitario. Per i risparmi rafforzeremo il sistema delle centrali uniche d’acquisto regionali. E’ una strada intrapresa e che ha già portato risultati. Nel 2012, in Calabria, il risparmio è stato di 42 milioni, in Campania di 68. Iasevoli: L’altra grande battaglia che ha in mente? Lorenzin: Non è una battaglia ma una evoluzione del sistema attraverso la sua digitalizzazione. Siamo partiti con l’anagrafe nazionale degli assistiti, dobbiamo procedere col fascicolo sanitario elettronico. Ovunque vada un cittadino per ricevere e chiedere cure, dall’altra parte deve essere possibile, con un solo click, conoscere la sua storia clinica, i medicinali che prende, le patologie. L’e-health è la sfida del futuro, è telemedicina, è trasparenza, è uso appropriato dei farmaci, è il risparmio di tanti, tantissimi soldi da reinvestire per la salute degli italiani. 11 Legge di Stabilità, pagano sempre i pensionati Di Marco Pederzoli Chi pagherà il prossimo anno le decisioni prese con la nuova Legge di Stabilità (ex manovra finanziaria) che è in discussione proprio in questi giorni alla Camera dei Deputati, dopo essere stata licenziata dal Senato? Il pericolo ravvisato dai sindacati dei pensionati, tra cui in primis la stessa Fnp-Cisl, è che il documento definitivo non contenga un’adeguata rivalutazione delle pensioni e la tutela del loro potere d’acquisto rispetto al reale costo della vita, trova ampiaconferma. 12 Già l’Italia, di per sé, vive una situazione piuttosto anomala dal punto di vista pensionistico. Basti pensare che, secondo un’indagine Confesercenti, il prelievo fiscale dello Stato nei confronti delle pensioni erogate dall’Inps va dal 9 al 20%. Ad essere colpiti da questa scure, sono oltre 16,5 milioni di anziani. In particolare, Confercenti ha preso in esame le pensioni comprese tra 1,5 e 3 volte il trattamento minimo, che corrispondono a un importo lordo tra 9.661 e 19.322 euro all’anno (cioè tra 700 e 1.200 euro netti circa al mese). In questa fascia di reddito, il peso dell’Irpef (l’imposta sulle persone fisiche, comprese le addizionali) varia tra un minimo del 9,17% per chi guadagna meno e arriva sino al 20,7% per chi riceve invece un assegno Inps un po’ più alto. Succede tutt’altro, invece, nei principali Paesi europei. In Germania, per esempio, nella medesima fascia di reddito le pensioni sono praticamente esentasse, con un prelievo che varia tra lo 0 e lo 0,2%. In Spagna, Francia e Gran Bretagna, gli assegni previdenziali più bassi (pari a una volta e mezzo il trattamento minimo) non subiscono alcuna tassazione, mentre le rendite di medio importo (3 volte il trattamento Enrico Letta, Presidente del Consiglio dei Ministri minimo) sono soggette a un’aliquota fiscale tra il 5,2 e il 9,2%. Dunque, l’Italia parte già con un gap decisamente molto forte rispetto all’Europa. Se la Legge di Stabilità non sarà ritoccata dalla Camera sul fronte delle pensioni, ecco cosa cambia per il 2014. Sono previste nuove rivalutazioni delle rendite, con un leggero vantaggio per chi guadagna attorno a 1.500 – 2.000 euro lordi al mese (cioè tra 3 e 4 volte il trattamento minimo). La nuova manovra, infatti, ha ripristinato la rivalutazione delle pensioni in base al caro-vita dell’anno precedente, che era stata bloccata in parte dal governo Monti, per un periodo transitorio di un biennio (cioè tra il 2012 e il 2014). Da gennaio 2014, dovrebbero quindi ripartire gli adeguamenti, seppure parziali. Così, chi percepisce fino a 1.486 euro lordi mensili, vedrà la pensione crescere in base al caro-prezzi 2013, che dovrebbe attestarsi secondo l’Istat all1,5%. Per fare un esempio, chi percepisce un assegno mensile da 1.000 euro lordi, dovrebbe vedere un aumento di 15 – 16 euro, ovvero circa 11 euro netti. Le pensioni comprese tra 3 e 4 volte il trattamento minimo (tra 1.486 euro e 1.981 euro circa al mese), avranno un aumento pari al 95% dell’inflazione (e non più del 90%, come previsto invece dal testo iniziale della Legge di Stabilità). Gli assegni compresi tra 4 e 5 volte il minimo (cioè tra 1.981 e 2.475 euro circa) ci sarà invece un aumento del 75% dell’inflazione. La rivalutazione sarà poi del 50% dell’aumento Istat per le rendite tra 5 e 6 volte il minimo (ovvero tra 2.475 euro circa e 2.973 euro lordi), mentre per chi guadagna oltre 3.000 euro lordi (cioè più di 2.120 euro netti al mese), la rivalutazione sarà invece pari al 40% dell’inflazione. Per le pensioni oltre 6 volte la minima, invece, non ci sarà alcun adeguamento. Una decisione è invece ancora attesa sul contributo di solidarietà che riguarda le cosiddette “pensioni d’oro”, riproposto anche per il 2014 con l’obiettivo di finanziare un sussidio a favore dei più poveri. Tale finalità, secondo il Governo, dovrebbe peraltro consentire di superare i dubbi sulla costituzionalità di tale prelievo, già avanzato dalla Corte di Cassazione (perché colpiva solo una categoria specifica, n.d.r.). Il contributo è fissato nel 6% per la parte di pensione compresa fra 14 e 20 volte il minimo, nel 12% sugli importi fra 20 e 30 volte il minimo, nel 18% sulle quote oltre 30 volte. In tutto, le pensioni colpite dal nuovo contributo di solidarietà sarebbero, secondo i dati Inps, oltre 29.000. Ancora non si sa, tuttavia, quale sarà effettivamente questo prelievo e se in effetti sarà applicato. Nel frattempo, il vice ministro dell’Economia, Stefano Fassina, ha auspicato un miglioramento dell’indicizzazione al costo della vita, così come chiedono da tempo gli stessi sindacati. 13 Dopo la sentenza della Corte Costituzionale IL GOVERNO LETTA PONTE VERSO IL FUTURO Finite le larghe intese ecco gli obiettivi: lavoro, credito, tutele sociali. Poi le riforme più che in fretta da fare bene. La Corte costituzionale che boccia la legge elettorale in vigore da otto anni e che ha battezzato ben tre legislature; le Camere che votano la fiducia al Governo Letta mentre i palazzi della politica, le piazze, gli snodi ferroviari, gli esercizi commerciali sono assediati da una protesta confusa quanto aggressiva. Istituzioni colte da un senso di vertigine; l’incertezza che domina sovrana in un corpo sociale abulico, sciapo, come l’ha descritto l’an14 nuale rapporto del Censis. Eppure, poiché nella politica il vuoto non esiste, ecco che il governo Letta ha la possibilità di gettare un ponte fra il bipolarismo in macerie e il nuovo assetto che verrà quando, sperabilmente, le acque si saranno calmate e i pezzi oggi dispersi del puzzle istituzionale saranno tornati, se tutti, in buona parte al loro posto. La scommessa, per quanto azzardata, può essere vinta a condizioni ben precise: che Matteo Renzi, il vincitore delle primarie del Pd, non ceda alla facile tentazione di riscuotere subito il dividendo del suo clamoroso successo ma preferisca darsi da fare per adeguare alle sue non nascoste ambizioni un partito ancora riottoso; che Enrico Letta, selezionando le numerose promesse fatte in Parlamento, si concentri su due-tre obiettivi importanti, riesca a spostare rapidamente risorse significative dai costi della politica e delle istituzioni al lavoro per i giovani, al credito alle imprese, alla riduzione della pressione fiscale; che Angelino Alfano abbia il tempo di regolare i suoi conti con la casa madre dalla quale è coraggiosamente uscito; infine che tutti tengano i nervi ben saldi. Il tempo a disposizione non è tanto, il compito non è agevole per nessuno, ma la pur ridotta maggioranza di cui il governo gode può farcela se darà rapidamente quei segnali di efficienza che finora sono in parte mancati. Se nel sommario elenco delle cose da fare non compare la nuova legge elettorale, non è per una banale dimenticanza, ma perché pur trattandosi di un adempimento urgen- te, non è assolutamente prioritario. Una volta modificato il sistema, la tentazione di andare al voto sarebbe forte, con il rischio di perdere altro tempo e di sciupare la preziosa occasione di portare al giudizio degli elettori un apprezzabile bottino di riforme. Per dire: se gli elettori chiamati alle urne sapessero che eleggeranno un parlamento meno pletorico, meno costoso, differenziato nei suoi compiti e quindi più moderno, è probabile che si sentano più invogliati ad entrare nei seggi. Ma, per presentarsi con un volto più accattivante, una maggioranza numericamente più ridotta di quella delle larghe intese (che le riforme non le ha fatte) ha bisogno di tutto il tempo che la doppia lettura fra Camera e Senato richiede. Dunque, al lavoro. g.b. L’elezione di Renzi ultimo atto della mutazione dei partiti E’ ricambiata la politica Finisce il ventennio del bipolarismo muscolare. Il sindaco di Firenze vince contro gli apparati. Dopo Fini, Meloni e La Russa, Alfano prova a far nascere la destra europea. di Guido Bossa L’elezione di Matteo Renzi alla segreteria del Partito democratico, imprevista per la misura del consenso riversatosi sul sindaco di Firenze, ma ancor più per il numero e la composizione del corpo elettorale, cioè dei cittadini che domenica 8 dicembre sono andati a votare nelle sezioni, nei circoli e nei gazebi, completa il processo di trasformazione dei partiti politici italiani avviatosi all’inizio degli anni Novanta quando nel giro di una breve stagione scomparvero dalla scena la Dc e il Partito socialista, mentre il Pci riusciva a sopravvivere ma solo al prezzo di un cambiamento non solo di nome ma anche in qualche misura di fisionomia. In quegli anni sorgeva anche l’astro politico di Silvio Berlusconi, e si imponeva sulla scena il suo partito, che tanto “di plastica” non doveva essere, se è vero che è sopravvissuto fino a ieri e ha governato a lungo, pur cambiando pelle, anch’esso come il Pci, diverse volte. Dalle elezioni del febbraio 2013, par di capire, la fase delle mutazioni, per le due principali formazioni del bipolarismo italiano, è arrivata ad un approdo che vedremo quanto sia stabile. Ciò appare evidente nel polo di centrodestra dove, dopo i velleitari tentativi di Fini e Meloni-La Russa e dopo l’insuccesso di Mario Monti, Angelino Alfano si è avviato lungo un percorso che, pur fra le incertezze e i compromessi tipici della vicenda politica di un paese come l’Italia segnato dal trasformismo fin dalle origini unitarie, dovrebbe concludersi con la nascita della famosa e tanto desiderata destra “europea”, “moderna”, “perbene” di cui nella storia patria si erano perse le tracce circa un secolo fa, quando Giolitti lasciò via libera al fascismo pensando di poterlo controllare facilmente. Vedremo gli sviluppi, che richiedono tempo, perché intanto l’altra destra, quella populista e demagogica guidata da Berlusconi, sta giocando spregiudicatamente la sua partita, contro Alfano e contro tutti, ammiccando a Grillo. Ma intanto conviene esaminare il punto di caduta della principale formazione dell’altro estremo dell’assetto bipolare, dove, con l’elezione in due tempi di Renzi – prima nelle sezioni (voto degli iscritti), poi nei gazebi (voto degli elettori) – si è consumata una vera e propria mutazione genetica, con i simpatizzanti, i cittadini, la gente comune, la cosiddetta società civile, che hanno preso il sopravvento sugli apparati e su una classe dirigente interamente formatasi nel ‘900: un terremoto politico nel quale si è subito rispecchiata la nuova segreteria di trentacinquenni, a maggioranza “rosa”, insediata nelle stanze lasciate libere da Epifani. Si è detto, giustamente, che con la scissione di Alfano e l’elezione di Renzi si è chiuso un ciclo politico ventennale, quello del maggioritario e del bipolarismo “muscolare”, che non ha fatto bene all’Italia (basta vedere l’affanno con cui rincorriamo la ripresa del ciclo economico). Ma forse c’è anche dell’altro, perché se il sindaco di Firenze manterrà le sue promesse, non solo nel Pd si potrà realizzare quell’amalgama fra culture riformiste diverse che finora non è riuscito a nessun segretario, ma il nuovo soggetto politico che nascerà, meno strutturato, meno “pesante” dell’attuale, potrà costituire il nucleo, o uno dei nuclei, di un diverso assetto, nel quale i politica e società tornino a parlarsi, a comprendersi, a contaminarsi. Sarebbe un bene per tutti. 15 Le tante incognite di una ripresa che tarda LE SFIDE DEL LAVORO E DELLO SVILUPPO Non è solo questione di carico fiscale, “spending rewiew” e consumi. L’assenza di un progetto per l’Azienda Italia. Nuove tecnologie e formazione. L’Agro industria e il turismo. Superare Maastricht. di Paolo Raimondi 16 La più difficile sfida di fronte a noi è quella di trasformare il principio etico del valore e della centralità del lavoro e della persona in una strategia operativa immediata. Altrimenti, i dati catastrofici che i sindacati e le varie associazioni di categoria continuano a sfornare sembrano non lasciare scampo. Dopo quelli sull’aumento della disoccupazione, in particolare quella giovanile (15 - 24 anni) al 41,2%, la Confcommercio riporta di un crollo del reddito pro capite al livello del 1986, mentre la pressione fiscale rimane ai livelli più alti in Europa con il 44,3%. Inevitabilmente, l’aumento della precarietà e della povertà si traduce in una drastica diminuzione nei consumi, che sarà del - 2,4% nel 2013 dopo il crollo del 4,2% nel 2012. Certamente il carico fiscale è troppo elevato e una detassazione sul lavoro e sugli investimenti è più che necessaria. Ma questi argomenti non devono diventare alibi per nascondere una mancanza più grave, e cioè l’assenza di una progettazione del “sistema Italia” e di idee e metodi per la sua realizzazione. Al riguardo, occorre innanzitutto sbarazzarsi dell’ideologia degli automatismi, siano essi della domanda e dell’offerta o del mercato più in generale. Lo si è visto nel settore del credito, e non solo in Italia. L’abbassamento fino allo 0% del tasso di interesse e l’elargizione di tanti soldi a bassissimo costo al sistema bancario non si sono tradotti in nuovi crediti agli investimenti e alle famiglie. Lo stesso vale per la teoria che il consumo possa essere da solo la molla della ripresa economica. Con ciò non si vuol dire che i livelli di vita della maggioranza della popolazione che vive in condizioni precarie, i salari dei lavoratori e le pensioni (che da anni non vedono alcuna indicizzazione in rapporto all’inflazione) non debbano aumentare e con essi anche i consumi. Tuttavia, in una situazione di prolungata recessione e depressione economica, simili misure non rimettono in moto il motore dello sviluppo. Ricordiamoci che gli Stati Uniti iniziarono ad uscire dalla Grande Depressione del ’29 quando, insieme ad una profonda riforma bancaria che sancì la separazione tra le banche commerciali e quelle di investimento, allo scopo di sottrarre i depositi bancari dei risparmiatori ad un utilizzo speculativo, il presidente Franklin D. Roosevelt lanciò il New Deal di grandi investimenti statali nelle infrastrutture e nella modernizzazione agro-industriale. Contrariamente a certe leggende, infatti, gli USA, tempio del liberismo e del libero mercato, rimangono ancora una grande economia dirigistica nei settori militari, delle nuove tecnologie, dello spazio, delle infrastrutture oltre che del settore amministrativo. Occorrerebbe perciò definire una strategia nazionale ed europea di rilancio economico, che faccia perno sulle nuove tecnologie e su un moderno comparto agro-industriale-turistico. Il primo cambiamento paradigmatico è quello di puntare sullo sviluppo invece che sulla crescita lineare. Quando si parla di crescita ci si riferisce sempre ad un aumento numerico di cose prodotte, non importa quali. L’importante è che abbiano un effetto positivo sul Pil. Lo sviluppo, invece, inglobando anche la crescita, coinvolge risorse, spazio, popolazione ed educazione-cultura, proiettandosi sul lungo periodo e per differenti generazioni. Tale approccio richiede tra l’altro la messa in sicurezza e la valorizzazione del territorio e dei beni culturali. Ne va della nostra agricoltura, delle nostre infrastrutture, delle nostre comunità sociali, del nostro turismo. Sono beni di primissima importanza e sono settori che necessitano di molto lavoro qualificato. Uno dei settori potrebbe essere quello della modernizzazione degli immobili pubblici e privati per ottenere, tra l’altro, una maggiore efficienza energetica. Si calcola che, oltre ad abbassare la bolletta nazionale del gas, con investimenti per 7 miliardi di euro si creerebbero alcune centinaia di migliaia di posti di lavoro. Nonostante gli effetti della crisi, molte nostre piccole medie industrie hanno saputo mantenere e sviluppare quote di mercato anche nei settori di alta tecnologia. Il loro sostegno e la loro modernizzazione saranno fondamentali perché l’Italia, che ancora si annovera tra le prime 10 economie industrializzate del mondo, mantenga un ruolo tecnologico di avanguardia. Guai se diventassimo una mera attrazione turistica. Molti si sono sorpresi che, nonostante la crisi, l’Italia sia stata capace di mantenere un elevato livello di esportazioni guadagnando addirittura un significativo surplus commerciale. Essa è infatti la quinta economia al mondo per surplus commerciale manifatturiero. Ciò è un bene importante che attesta la nostra capacità di resistere all’attrito tecnologico e di competere alla pari con gli altri Paesi in molti settori dei prodotti e dei macchinari innovativi. Le nostre industrie e le piccole medie industrie ad alta tecnologia creano lavoro specializzato, devono produrre e vendere sul mercato globale, quindi non possono dipendere soltanto dal mercato interno. Questa è la forza dell’economia tedesca e non è la causa, come alcuni vorrebbero, della crisi e dei rischi di deflazione nel mondo. Da questo punto di vista una grande opportunità tecnologica, industriale ed occupazionale per l’Italia e per l’intera Europa sta nello sviluppo dell’intero continente euro asiatico e nella realizzazione dei grandi corridoi infrastrutturali, le nuove Vie della Seta. I 28 contratti di cooperazione tra Italia e Russia siglati a Trieste alla fine di novembre finalmente vanno nella giusta direzione. Il “sistema Italia” deve guardare al futuro della ricerca e mirare a portare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo dall’attuale misero 1,2% almeno al 3% del Pil, come sostenuto dall’UE a Lisbona nel 2000. Per il lavoro giovanile è necessario ripensare a un efficiente sistema di istruzione professionale e di apprendistato. Come in Germania, dove con una disoccupazione giovanile sotto l’8%, riforme ben fatte permettono l’integrazione effettiva tra scuole professionali, università e industrie e integrano ogni anno centinaia di migliaia di giovani in nuovi posti di lavoro. Certo, in una situazione di “spending review” è doveroso ridurre gli sprechi e rendere più efficiente la spesa pubblica. Ma è necessario anche progettare nuove fonti di credito produttivo. Mentre le pressioni per privatizzare gli immobili statali si fanno sempre più asfissianti, di fatto a beneficio solo dei compratori più che dei conti pubblici, tale patrimonio potrebbe invece essere valorizzato e diventare il capitale di base di un grande fondo, di alcune decine di miliardi di euro, preposto al credito per lo sviluppo, per le infrastrutture e per le piccole medie industrie. Quindi per il lavoro. Una simile iniziativa sarebbe fuori da qualsiasi “fiscal compact” restrittivo. Stiamo provando sulla nostra pelle che “di solo rigore si muore”. E’ diventata improcrastinabile l’esigenza non solo di rafforzare, ma anche di cambiare l’Unione Europea. Pure Romano Prodi, uno dei costruttori dell’architettura europea, ha recentemente detto che i parametri di Maastricht dovrebbero essere ridefiniti. Oltre ai criteri di stabilità finanziaria non applicabili in situazioni di profonda crisi, come quella odierna, Maastricht purtroppo sostiene ancora l’incompetente e anti economica idea di annoverare i nuovi investimenti, le infrastrutture e la ricerca come costi di bilancio da limitare. 17 Ospedali al nord e ospedali al sud, la differenza continua di Simone Martarello Esiste in Italia la differenza tra ospedali del nord e ospedali del sud? La risposta, per molti versi desolante, è affermativa. 18 La situazione, peraltro, è atavica e confermata da più parti. In altri termini da anni, per non dire da sempre, gli ospedali del nord Italia risultano migliori di quelli del meridione, pur con le dovute e necessarie eccezioni, perché anche il sud può vantare alcune eccellenze che primeggiano in Europa. Venendo ai fatti, una recente indagine di Altroconsumo, una delle maggiori associazioni di consumatori presenti in Italia, riferisce: “Abbiamo chiesto a centinaia di medici di base e specialisti di indicarci i migliori ospedali italiani. Ancora una volta è fortissima la differenza tra nord e sud: quasi tutte le eccellenze si concentrano nelle regioni settentrionali, Lombardia in testa....Dei quarantasette ospedali presenti nelle nostre classifiche perché i più frequentemente citati come i migliori dai medici interpellati, ben 22 strutture mediche sono situate nel nord-ovest e solo 4 al Sud: la nostra inchiesta conferma quindi la scandalosa disparità esistente nelle strutture sanitarie del nostro territorio. Va meglio al centro e al nord est, che hanno rispettivamente dieci e undici ospedali tra i più segnalati...Per la cardiologia, è risultato primo l’Istituto cardiologico Monzino di Milano. Nella stessa città, la palma va al San Raffaele per diabetologia, nonché oculistica e urologia. Gastroenterologia vede in prima posizione il policlinico Malpighi di Bologna, mentre per ginecologia è in testa l’azienda ospedaliera San Gerardo di Monza, seguita a breve da un’altra struttura lombarda, la Mangiagalli di Milano. Ancora a Milano troviamo l’ospedale più reputato per la nefrologia: è l’Ospedale Maggiore Policlinico. Primo posto per l’Istituto europeo di oncologia di Milano nella specialità relativa, seguito a breve dall’Istituto Nazionale dei Tumori nella stessa città. Per l’ortopedia il primato va al Rizzoli di Bologna. Per la neurologia, spicca lo stacco con cui è in testa il Besta di Milano. Per otorinolaringoiatria (disturbi della gola e del naso) primeggia il policlinico Gemelli di Roma, tallonato dagli Spedali Civili di Brescia, mentre nella pediatria è in cima alla classifica il Gaslini di Genova. Quello della pneumologia è uno dei settori in cui il Sud ha la sua parte: è in testa il Monaldi di Napoli, seguito a breve distanza dal San Matteo di Pavia”. Resta da chiedersi, ora, se questa differenza nella sanità del Nord e del Sud sia ancora tollerabile. Non è un segreto, peraltro, che da anni esiste un forte fenomeno migratorio dal sud al nord della Penisola per andarsi a curare, con tutti i disagi che ne possono conseguire. Continuando a dare uno sguardo a ciò che non va nella sanità pubblica, un capitolo consistente riguarda ancora gli acquisti di farmaci. Un’altra indagine, questa volta condotta dall’Osservatorio dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di Lavori, Servizi e Forniture, la migliore capacità di acquistare un farmaco a uso ospedaliero a un prezzo relativamente vantaggioso è appannaggio di Veneto, Piemonte e Abruzzo, mentre in fondo a questa speciale classifica stanno Puglia, Lazio e Umbria. Oggetto di tale inchiesta sono stati 85 farmaci non coperti da brevetto, un set limitato che, se da un lato non permette di trarre conclusioni di portata generale, dall’altro è comunque significativo. Tanto che le conclusioni di tale studio affermano: “In generale, si rileva un’evidente difformità di risultati in termini geografici: non si può non rilevare come le regioni del Sud (Abruzzo a parte) mostrino risultati nettamente peggiori rispetto alle altre. Da notare infine come, dai dati analizzati, le performance relativamente peggiori siano associate, fatte alcune eccezioni, alle Regioni con piani di rientro”. Tuttavia, come ha scritto il 13 ottobre scorso su Repubblica Raffele Calabrò, ordinario di cardiologia presso la Seconda Università degli Studi di Napoli (e senatore Pdl), proprio nella differenza della sanità tra Nord e Sud si possono nascondere anche grandi affari. “Non voglio rivestire il ruolo di avvocato d’ufficio del nostro sistema sanitario dopo le polemiche dei giorni scorsi”, scrive Calabrò. “Restano senz’altro – continua - delle falle da tappare, si può e si deve ottimizzare la performance delle nostre strutture: sono, tra l’altro, in dirittura d’arrivo alcune linee guide indirizzate al miglioramento della qualità e dell’appropriatezza delle prestazioni; si potrebbero prevedere, inoltre, indicatori di esito nella valutazione dei direttori generali, come suggerito dall’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, n.d.r.). Epperò di tutto abbiamo bisogno, tranne che di incoraggiare i meridionali ad andare a curarsi fuori regione, aggiungendo un ulteriore danno alle casse regionali, senza alcun beneficio per la salute dei campani. Non vanifichiamo l’impegno della Campania nel contrastare una migrazione sanitaria che rappresenta un dato patologico e alla quale abbiamo posto un argine necessario, approvando un decreto che subordina in alcune condizioni la possibilità di curarsi in altre regioni alla previa autorizzazione dell’Asl. Il provvedimento - sia chiaro - fa salva la libertà del cittadino che migra fuori regione per interventi di alta complessità, o in presenza di liste di attesa non adeguate, ma pone regole e restrizioni per quegli interventi che possono essere effettuati dai nostri medici nei nostri nosocomi, che spesso, in quanto a professionalità ed esperienza, eguagliano se non superano i colleghi del Nord. Non a caso il decreto (tra l’altro, è cronaca di questi giorni, ha ottenuto il disco verde dalla giustizia amministrativa) ha suscitato polemiche e ricorsi da parte di quelle Regioni che finora si sono avvantaggiate ingiustamente e inappropriatamente del flusso di migrazione sanitaria. A scanso di equivoci, saranno negate richieste di rimborsi per alcuni tipi di intervento sulla retina: ci sono eccellenti oculisti napoletani; saranno concesse quelle per interventi complessi in centri di eccellenza. Quanto allo squilibrio di assistenza sanitaria tra Nord e Sud, in tutta coscienza, si può sostenere che le performance dei nostri ospedali sarebbero di gran lunga migliori se potessimo contare su una quota di risorse destinate alla sanità non più vincolata soltanto al dato anagrafico, che finora ha avvantaggiato il Settentrione; se finalmente potessimo disporre della libertà di assumere più medici e infermieri per offrire un’assistenza adeguata, se potessimo ottenere quei finanziamenti ex articolo 20 dedicati all’edilizia sanitaria per modernizzare e tecnologizzare le nostre strutture sanitarie. È, infatti, facilmente dimostrabile che questi fattori (blocco del turn over, riparto del fondo sanitario, articolo 20) di forte impatto politico-economico fanno una gran bella differenza tra l’assistenza sanitaria nostra e quella del Nord”. 19 Giuseppe Orizio A Castegnato, il Taxi è Sociale L’Italia, si sa, non è una repubblica fondata sul lavoro, ma sul servizio sociale ed il volontariato. Dove lo Stato non riesce ad arrivare ci pensano le amministrazioni locali ed i volontari che, animati da sana voglia di rendersi utili, sopperiscono alle carenze dei servizi assistenziali. 20 Ennesima prova di questo moto popolare “solidale”, la si trova a Castegnato, in provincia di Brescia, comune di 8.000 anime dove, grazie ad una amministrazione locale particolarmente attenta alle esigenze dei propri abitanti, con l’impegno delle associazioni di volontariato locali e dell’Associazione Pensionati e Anziani in prima fila, ha dato vita al “Taxi sociale”. Il servizio predisposto è semplice, efficace e, soprattutto, gratuito. Il Comune mette a disposizione i propri mezzi, donati dalle Aziende locali, ed il carburante, i pensionati ed i volontari ci mettono il tempo. Nasce così il Taxi sociale, non un vero e proprio taxi, ma un servizio rivolto a chi si trova nella momentanea impossibilità di recarsi ad una visita medica o a fare terapie presso cliniche o case di cura nella zona di Brescia. Per poterne usufruire si deve fare richiesta ad un numero dedicato o all’Ufficio Servizi Sociali del Comune, nulla di più semplice. Giuseppe Orizio, Sindaco di Castegnato ed ex dirigente della Cisl Bancari (Fiba) a Brescia, Milano e Roma, ha dichiarato di essere particolarmente soddisfatto di come questo servizio si sta sviluppando. “Sono sempre di più le persone che trovano difficoltà ad utilizzare le strutture sanitarie nel circondario di Castegnato – afferma Orizio – anche perché i trasporti pubblici sono particolarmente carenti nei collegamenti con i paesi limitrofi. I mezzi a disposizione effettuano servizi giornalieri e la priorità di prenotazione è rivolta principalmente ad anziani, bambini accompagnati e persone che hanno motivati e particolari problemi”. “Il Taxi Sociale – prosegue il Sindaco – non è un servizio sostitutivo rispetto a quello proposto dalla Croce Verde, con la quale abbiamo una convenzione per il trasporto di persone che hanno problemi più seri, ma serve a coprire quelle situazioni che per necessità o per urgenza non possono essere svolte dalla normale attività degli organi preposti. L’Amministrazione comunale, dal canto suo, svolge un’azione di controllo mirata ad evitare che accadano abusi a discapito di chi ne deve usufruire per reale necessità”. Dino Della Casa Deficit di futuro Origami vuole essere uno spazio per raccontare il dialogo tra le generazioni, un raccoglitore di domande e storie Nelle famiglie giapponesi l’arte degli origami veniva trasmessa dalla madre ai figlii non solo per insegnar loro ad ottenere oggetti utili dalla carta, ma per far comprendere il concetto della trasformazione della materia, un momento, una pausa della continua trasformazione della materia e dell’energia. Per i giapponesi la bellezza non risiede nell’umile foglio di carta, ma nella forma che viene ricreata e così rinasce, in un eterno ciclo vitale che il rispetto delle tradizioni mantiene vivo. Gli interessi degli anziani e dei giovani sono in contraddizione fra loro o invece possono conciliarsi? I prossimi anni, saranno ancora caratterizzati dalle forti difficoltà economiche del Paese, porteranno difficoltà e rischi per tutte le fasce generazionali, un cammino più ostico e faticoso per tutto il mondo del lavoro italiano? A questi interrogativi a cercato di dare una risposta la ricerca previsionale che la FNP ha realizzato. a seguito dell’ ulteriore riforma previdenziale e del progressivo allungarsi della speranza di vita, si troveranno a sopportare carichi crescenti: lavoro prolungato, assistenza dei grandi anziani, ma anche supporto familiare ai propri figli. Nel lavoro, invece, la “crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro” provocherà un evidente contrasto di interessi fra le generazioni che disporranno di posizioni più consolidate, maggiori certezze, ma che faranno sempre più fatica ad acquisire le nuove competenze che il lavoro richiederà, e le generazioni più giovani, più qualificate e dinamiche ma prive di prospettive di carriera, di sicurezza previdenziale, di possibilità di rendersi economicamente autonomi. Il rischio di conflitti generazionali “sarà nei prossimi anni rilevante”: in tal senso sarà importante il “ruolo che le parti sociali” potranno avere per evitare che nel mondo del lavoro prevalgano criteri allocativi poco trasparenti. Infine, nella sfera sociale, la condizione degli anziani e dei giovani sarà in larga misura destinata a divaricarsi. I primi crescendo progressivamente di numero, acquisiranno un peso sociale e politico crescente. Il maggiore attivismo, consentito dal miglioramento della loro qualità di vita, accentuerà questa tendenza. I giovani, viceversa, percependo la difficoltà di modificare la propria condizione sociale prendendo in mano il proprio destino, tenderanno ad essere poco coesi con il resto della società, organizzandosi autonomamente per rivendicare una diversa organizzazione sociale. Il rapporto fra le generazioni più giovani e quelle più anziane è un tema centrale del dibattito pubblico di questo paese. Da molti anni a questa parte, un discorso ricorrente riguarda la (presunta) contrapposizione fra gli interessi economici e sociali dei giovani (gli attuali 20enni e 30enni) e quelli delle generazioni precedenti che, per motivi anagrafici, hanno potuto usufruire di un sistema pensionistico più favorevole dell’attuale. Alcune riflessioni possiamo trarle dall’indagine previsionale Generazioni – Giovani e anziani nel 2020, che tratteggia un quadro articolato ed organico degli aspetti tecnologici, economici, sociali, culturali e politici della relazione fra anziani e giovani ed evidenzia alcune tendenze di particolare interesse. Nel contesto familiare, le relazioni generazionali saranno infatti proficue e solidali: i flussi di aiuto andranno in tutte le direzioni, consentendo tanto ai giovani quanto agli anziani di trovare supporto, tanto pratico ed economico, quanto umano e affettivo. “Elemento di vulnerabilità” che spicca è la condizione della “fascia d’età attorno ai 60 anni” che, Gli anziani andranno assumendo una crescente importanza sociale il motivo è costituito dalle loro capacità professionali. Oggi, a sessant’anni, si è ancora forti, sani e lucidi; eppure le aziende continuano a disfarsi dei sessantenni, benché formati professionalmente, dotati di una vasta rete di conoscenze, gran parte dei pensionati costituisce una preziosa riserva professionale, molti avviano imprese e svolgono mansioni intellettuali. Infine un’altra questione di particolare rilevanza che l’indagine propone è l’intreccio fra la questione generazionale e la questione etnica. Ai cittadini, che vivono il disagio quotidiano della depressione economica, psicologica e sociale, occorre aggiungere gli immigrati, che a queste insicurezze sommano l’emarginazione razziale e culturale. In funzioni di badanti, molti di questi immigrati sono a contatto diretto con gli anziani e ne assicurano la sopravvivenza. Inoltre è da considerare che gli immigrati, avendo accettato lavori sottopagati e spesso irregolari, giungeranno all’età anziana senza alcuna rete di sicurezza previdenziale. Mentre sarà inevitabile il conflitto per i giovani e quindi le seconde generazioni nate e cresciute in Italia e le famiglie di prima immigrazione. Dunque la presenza crescente di pensionati e di giovani inoccupati impone una svolta epocale nell’organizzazione della società. Sono gli anziani stessi, insieme ai giovani, che debbono pretenderla. Elettra 21 Cosa prevede, come opera, quando funzionerà Il nuovo ISEE, anti evasione Nel calcolo entra tutto quanto fa cassa in famiglia. Molti dati saranno acquisiti alla fonte. La casa pesa molto e può diventare penalizzante per i nuclei disagiati. In preparazione il nuovo modello di dichiarazione. Isee più severo se si possiedono case di proprietà, conti correnti e titoli e altre forme di reddito, anche se fiscalmente esenti. Ma più attento famiglie numerose e con disabili (attraverso detrazioni e franchigie ad hoc che si accompagnano alla sottrazione standard sino a 3mila euro di reddito dipendente e mille di pensione). Anche se poi, a ben vedere, la novità più forte del nuovo “Indicatore della situazione economica equivalente (vero e proprio “pass” per numerose prestazioni sociali: asilo, università, borse di studio, libri di testo, bollette telefoniche, social card…) è il filtro antievasione: solo una parte dei dati utili sarà autocertificata, alcuni dati di reddito saranno invece forniti in automatico dalle amministrazioni che già li possiedono, Inps in primis. Una misura preventiva: i controlli sono scarsi, ma quando avvengono restituiscono cifre imbarazzanti, addirittura sino al 60 per cento di certificati falsi come verificato in alcune inchieste sulle tasse universitarie e il diritto allo studio. La filosofia è dunque chiara: nel certificato entra tutto quanto fa cassa in una famiglia, poi si ragiona caso per caso, nucleo per nucleo. Con minori margini discrezionali che spesso hanno indotto il contribuente a “truccare” le carte. Il cittadino deve immaginare di trovarsi davanti non più un modulo vuoto, ma in parte precompilato, con informazioni date dall’Istituto di previdenza o dal Fisco. Una forte stretta ci sarà anche sull’elusione relativa alla 22 dichiarazione dei conti correnti: l’80 per cento di chi si avvale dell’Isee dice di non averne uno, contro ogni statistica di Bankitalia. Perciò il patrimonio mobiliare verrà controllato ex ante con riferimento all’esistenza di conti non dichiarati ed ex post con la creazione di liste selettive per controlli sostanziali della Guardia di Finanza. Insomma, per i furbetti la vita è più dura. Ma forse sarà più dura anche per chi, non navigando nell’oro, ha comunque la sicurezza della propria abitazione. Che varrà di più nel calcolo complessivo, con gli stessi valori Imu del 60 per cento superiori a quelli della vecchia Ici. La stretta sulla parte reddituale e patrimoniale dovrebbe essere compensata da una serie di sottrazioni e detrazioni ad hoc per famiglie numerose e con disabili. Ma qui i calcoli si fanno abbastanza difficili e tendenziali. Già diversi parlamentari e associazioni a tutela di famiglie numerose e disabili hanno fornito stime allarmanti: colpendo la casa, è il ragionamento, di fatto si colpisce una delle prime necessità cui vanno incontro diversi nuclei disagiati per definizione, quelli con famigliari non autosufficienti e molti bambini. L’equazione “problema grande – casa necessariamente grande” potrebbe dunque diventare una beffa ai fini dell’accesso a importanti prestazioni sociali. Sul punto occorrerà monitorare l’applicazione concreta del nuovo strumento. Infatti, gli enti erogatori possono utilizzare, accan- to all’Isee, altri criteri di selezione. E soprattutto, determinano le soglie per l’accesso alle prestazioni sociali o la compartecipazione ai costi. Il Dpcm in ogni caso non rende il nuovo Isee immediatamente operativo. Dopo la pubblicazione in Gazzetta, serviranno altri provvedimenti: in primis la stesura del Dsu (Dichiarazione sostitutiva unica), in pratica il nuovo modello con istruzioni per la compilazione. Insieme al Dsu dovrebbero anche specificati due elementi fondamentali: come l’ente erogatore può reperire in automatico le informazioni reddituali già disponibili, e come può integrarle se insufficienti. Il quadro attuativo prevede, inoltre, anche una convenzione Inps – Agenzia delle entrate per lo scambio di dati, e apre alla possibilità di convenzioni ad hoc tra Inps ed enti erogatori. Tra un anno, inoltre, è prevista l’automatizzazione anche dei dati relativi all’anagrafe tributaria e le operazioni di natura finanziaria. A futura memoria e senza una scadenza già fissata, il ministero del Lavoro dovrà poi istituire una commissione di monitoraggio. Tutto quello che è bene sapere Cosa cambia per le famiglie Casa di proprietà, la stangatina. Nell’indicatore si contano i valori Imu dell’abitazione di proprietà, superiori del 60 per cento rispetto ai vecchi valori Ici. A questo valore si sottrae un terzo, ma resta più alto delle cifre precedenti. Confermato il meccanismo del vecchio sistema per cui viene sottratta la restante parte di mutuo da pagare. Cancellata invece la possibilità di detrarre 51.645 euro. La casa fino a 52.500 euro non va messa nei conti (con ulteriore franchigia di 2500 euro per ogni figlio). convinvente in poi, si aggiunge un’ulteriore detrazione da 500 euro pro-capite. Immobili, sconto molto più basso. La detrazione riferita al patrimonio mobiliare passa da 15493,7 euro a 6mila euro. Per le famiglie numerose ci sono due norme aggiuntive: una detrazione extra di 2mila euro per ogni componente dopo il primo e di ulteriori mille per ogni figlio dopo il secondo. In ogni caso non si possono superare i 10mila euro. Due nuove detrazioni fisse. Il reddito da lavoro e da pensione può essere detratto per il 20 per cento. Ma senza superare la soglia di 3mila euro per i dipendenti e di mille per chi ha cessato dalle attività lavorative. Più redditi conteggiati. Non andrà indicato solo il reddito da lavoro o da pensione, ma tutti quelli soggetti a imposta sostitutiva (come l’affitto con la cedolare), i redditi tassati all’estero, gli assegni di mantenimento per i figli, i trattamenti assistenziali, le indennità… ll calcolo si estende anche al Tfr. Tutto va messo nel calderone, poi, sul totale, si può iniziare a ragionare di detrazioni. Conti correnti pesano di più. Il vecchio sistema conteggiava il valore dei conti correnti e dei depositi al 31 dicembre. Ora si adotta la consistenza media annua, se superiore al valore di fine anno. Altri bonus con occhio a disabili e malati. Se chi riceva l’assegno di mantenimento lo deve dichiarare nel nuovo Isee, chi lo emette lo può sottrarre. Maxisconto sino a 5mila euro per spese mediche e di assistenza specifica per disabili, acquisto di cani-guida e servizi di interpretariato per non udenti. Casa in affitto, un po’ di sollievo. Arriva sino a 7mila euro (prima era 5164,6) la detrazione per le spese di affitto, ammesso però che ci sia un contratto regolarmente registrato. Dal terzo figlio Franchigia ad hoc per l’handicap. Sino a 4mila euro per famiglia (5500 se il componente disabile è minorenne) nel caso di handicap medio. La franchigia sale a 5500 (7500 se minorenne) per disabilità grave, a 7000 (9500 minorenne) per non autosufficienza totale. Sottratte all’Isee tutte le spese per collaboratori domestici legati alle persone non autosufficienti. L’Isee corrente, un’opportunità per chi perde reddito in una fase della vita. Se si verifica una consistente contrazione del reddito (fine di un rapporto temporaneo di lavoro, ad esempio…) si può modificare in corsa l’Isee. Ma ci vogliono alcuni criteri: nei 18 mesi precedenti la richiesta della prestazione sociale, almeno uno dei componenti deve essersi trovato in una situazione di licenziamento, sospensione o riduzione di lavoro a tempo determinato, lavoratori autonomi che hanno cessato l’attività per almeno 12 mesi, contratti a tempo determinato o flessibili non rinnovati che hanno ridotto la persona in disoccupazione al momento della presentazione della domanda (purché abbiano lavorato almeno 120 giorni nei 12 mesi precedenti la conclusione dell’ultimo rapporto di lavoro). Ovviamente la “deroga” all’Isee standard va valutata alla luce delle altre fonti di reddito della famiglia. Marco Iasevoli 23 La crisi e la riscoperta di diritti non negoziabili “Serve una base etica contro il populismo” Alain Touraine: “La politica non parla più alla gente e la finanza speculativa ha provocato diversi guasti. Ma resto ottimista. Vedo i segni di molte opposizioni a disuguaglianze e autoritarismi”. Intervista di Mimmo Sacco al sociologo Alain Touraine Alain Touraine 24 Sacco: Professore, di fronte alla preoccupante crisi sociale, politica e anche morale della nostra società (mi riferisco alla corruzione), Lei pone (come una sorta d’imperativo categorico) di riscoprire il concetto di etica. Ma in concreto da dove si può e si deve ripartire? Touraine: La sua è una domanda che ha una valenza generale, ma la ritengo, al tempo stesso, assolutamente importante. Direi che proprio perché stiamo vivendo un periodo dominato sia dal capitalismo finanziario sia anche, in molti paesi, da regimi totalitari, avvertiamo la necessità di una resistenza che definirei globale. Cioè non negoziare dei diritti ma porre in atto il principio che, al di sopra delle leggi e dei poteri (qualunque essi siano) ci siano dei valori assoluti, direi universali, contenuti nella Carta dei Diritti dell’uomo. Il diritto alla libertà, all’uguaglianza e il diritto di ogni persona di essere padrona della propria vita. In sintesi direi, in particolare, che dagli Anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società industriale. Ecco perché non ci resta che affidarci alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo. Da qui bisogna ripartire. Sacco: Professore, ma promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l’etica alla politica? Touraine: La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo “politica“ è ormai una realtà molto degradata e travisata. Il carattere nobile dell’azione politica può rinascere solo dall’etica. Non da una politica di classe, non da una politica degli interessi. Utilizzando categorie del passato la politica non sa e non riesce più a parlare alla gente. Diventa afasica. Sacco: Lei considera i diritti civili (libertà, uguaglianza, dignità) fondamentali per ripensare la società. Ma non avverte piuttosto la tendenza o la tentazione di limitarli, questi diritti, e comprimerli? Touraine: È vero. Ma il problema dei diritti è fondamentale per ripensare la società. Non c’è democrazia se non ci sono convinzioni democra- tiche. Noi abbiamo lottato, in passato, per i diritti di categorie particolari: i diritti sociali di varie categorie di operai, delle minoranze, ecc... Ma oggi, di fronte all’espansione del potere autoritario o del capitalismo speculativo, dobbiamo insistere perché ci sia un movimento di democratizzazione. Noi abbiamo un compito urgente perché oggi le convinzioni democratiche mi sembrano sempre meno diffuse. Occorre partire da un’esigenza etica che si trasformi in azioni e in istituzioni. In questo contesto si pensi, per esempio, ai diritti delle donne. La condizione femminile è diventata uno degli elementi determinanti per valutare il grado di sviluppo di una società. Sacco: La ricostruzione di un tessuto etico non passa anche attraverso una rinnovata solidarietà tra generazioni (anziani e giovani) che un diffuso individualismo rischia di ostacolare? Touraine: Condivido a pieno la sua opinione. Noi viviamo in una società individualista e competitiva che spinge gli anziani verso l’emarginazione, con tutti i danni che questo comporta e che quindi non aiuta a far ritrovare le basi per una rinnovata solidarietà intergenerazionale. E contro questo individualismo ho sempre combattuto. Sacco: Lei che può guardare la realtà che ci circonda da un osservatorio privilegiato, nota un nuovo linguaggio “etico – sociale” da parte di Papa Francesco? Touraine: È un segnale tra molti che è importante. Ratzinger è un teologo intelligente, un intellettuale. Il nuovo Papa (che si colloca nella tradizione francescana) è molto interessato alle molteplici e serie esperienze vissute delle persone. Allargando poi il discorso, sono colpito nel vedere che le rivendicazioni si stanno spostando sempre di più su un piano morale. Quando vediamo nel mondo di oggi gente morire per mancanza di aiuto, il carattere estremo delle prove subite da molte persone porta il linguaggio (che era di difesa degli interessi) a diventare un linguaggio di difesa dei diritti e dei principi, in ultima analisi etico. Sacco: Veniamo al rapporto tra capitalismo industriale e finanziario, un campo di ricerca del quale Lei si è occupato a lungo. Lei avverte che ci avviamo verso un declino, verso un tramonto del capitalismo industriale. Quali i guasti più vistosi prodotti dal capitalismo finanziario? Touraine: Noi stiamo vivendo una serie di crisi finanziarie che sono sfociate in una crisi mondiale. Numerosi esempi ci mostrano degli scandali finanziari massicci, migliaia di miliardi di dollari andati in fumo, l’equivalente delle risorse delle due più grandi potenze mondiali si ritrova nei paradisi fiscali, e ancora violenza, traffici di droga e di armi, etc.… Ma assistiamo anche all’aggravarsi delle situazioni in generale: aumentano le disuguaglianze, in particolare a favore dei più ricchi. In altre parole c’è una sorta di estremizzazioni delle crisi che ci obbliga a reagire in termini universalisti, cioè in termini morali. Sacco: Ora, Professore, veniamo a un tema di grande attualità. Un’ondata di populismo sta attraversando varie zone dell’Europa. Si può contrastare questo preoccupante fenomeno che rischia di minare le basi stesse della democrazia? Touraine: È sotto gli occhi di tutti la constatazione che questo spettro si aggira in vari Paesi. Si nota dappertutto in Europa (come lei accennava), dall’Italia, alla Francia, all’Austria, ad altri Paesi del Nord Europa. Notiamo un vuoto politico che fa sì che non ci sia più comunicazione tra governo e popolazione. Per questo assistiamo alla crescita del populismo. Il populismo non è che il rifiuto della democrazia rappresentativa e, molto spesso, sfocia in ondate reazionarie o addirittura in regimi autoritari. Può accadere da noi in Francia con il Fronte Popolare di Marine Le Pen, ma anche in Austria, in Grecia, in Russia o altrove. E questo rischio potrebbe esserci anche da voi in Italia. Sacco: Professore, avviandomi alla conclusione di questa nostra conversazione le chiedo: di fronte ad una situazione così complessa nella quale noi ci troviamo (crisi politica e sociale, crisi della società industriale, guasti prodotti dal capitalismo finanziario) quale deve essere il nostro atteggiamento? Touraine: Ovviamente io ho un atteggiamento ottimista perché non vedo nessun motivo per credere che la fine della società industriale, la crisi delle forze sociali, politiche o ideologiche segni il trionfo della violenza e delle brutalità dei regimi autoritari. Noto, al contrario, che già in molte zone del mondo si sviluppano movimenti contro questo tipo di regimi: la Primavera araba, movimenti contro il potere assoluto del partito comunista in Cina… Anche qui mi limito solo ad alcuni esempi. Anche quando ci sono dei fallimenti, come la violenza oggi in Siria, vediamo dei movimenti democratici nascere e diffondersi ovunque nel mondo. Ci sono gli Indignados in Spagna, Occupy Wall Street negli Stati Uniti, dei movimenti coraggiosi di gente che ha corso rischi importanti per manifestare contro Putin a Mosca, per esempio. Perciò, per questi motivi ci sono molte ragioni per essere ottimisti. L’ottimismo vuol dire, però, la necessità di impegnarsi in questi movimenti che hanno una base etica che deve concretizzarsi in azioni politiche. Alain Touraine è uno dei massimi esponenti della sociologia mondiale. Si è imposto come uno dei più attenti e fini osservatori della società contemporanea. Dura la sua critica al capitalismo finanziario. 25 VIAGGIO FOTOGRAFICO NEI MERCATINI DELLE FESTE. 26 27 Puntare sull’Unione del Continente e avviare una concorrenza virtuosa AFRICA: IL MALE OSCURO SI PUO’ BATTERE Le “primavere” fallite. Il fondamentalismo. La pressione dei cinesi. La fragile politica dell’Europa e la quasi assenza dell’Italia. Il Sahel, la fame, le guerre intestine. Una proposta: offrire cooperazione internazionale costruendo infrastrutture e ospedali su priorità fissate dall’ONU e realizzate sotto controllo della Banca Africana. Gian Guido Folloni incontra Romano Prodi Romano Prodi 28 Il professore, il presidente della Commissione Europea, il due volte presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia e, oggi, il delegato delle Nazioni Unite per l’Africa: Romano Prodi è statista a 360 gradi. Uno dei pochi italiani, forse il solo, che può essere considerato tale. Ma il provincialismo della politica italiana non riesce a mettere a valore la stima, il prestigio, l’autorevolezza e la competenza che il mondo gli riconosce. Trovarlo al telefono è stato semplice, perché è persona che non alza barriere a chi vuole raggiungerlo. Fissare il momento dell’intervista è stato, al contrario, una difficile partita. L’Africa, la Cina, la Russia, le repubbliche dell’Asia centrale e ovviamente, oltre Atlantico, le Americhe: il professore è globe trotter. Bisogna pazientare, ma la cordialità dell’accoglienza ripaga. Non parleremo d’Italia. Non di Europa. Mettendo il registratore sul tavolo sappiamo che l’incarico dell’ONU di cui oggi è titolare è tra i più gravosi. Nel mondo che cambia, l’Africa è turbolenta e inquieta. E’ anche un enigma: ricca di ogni risorsa, è però rimasta la regione meno sviluppata. Folloni: Partiamo da un dato: nel passaggio dal G7 al G20 tutti i continenti sono ampiamente rappresentati nel nuovo club dei potenti del mondo. Ma l’Africa vi partecipa con una sola nazione: il Sudafrica. Quale male oscuro avvolge questo immenso e ricco territorio? Prodi: Questo rispecchia il peso specifico del mondo di oggi. Devo però specificare che non ritengo che i G20 abbiano alcun ruolo nel futuro del mondo. E’ una struttura importante per il confronto delle idee, ma dal punto di vista decisionale non lo è. Se invece lo fosse, forse l’Africa sarebbe ugualmente trattata male. Mi consola che non è questo il punto. Detto ciò, il male oscuro esiste. In primis per un motivo storico e oggettivo: il livello di povertà. L’Africa rappresenta solo il 3-4 per cento del prodotto mondiale. Qualsiasi conto si faccia non supera comunque il cinque. Però l’Africa non è solo il suo livello di povertà. Non è solo la sua eredità coloniale. Il problema è la sua frammentazione: sono 54 Paesi. Il lavoro della Fondazione che io presiedo ha un solo tema: cinquantaquattro paesi ma un’unica realtà. Finché l’Africa non ha forza di rappresentazione, rimarrà sempre emarginata nella storia del mondo. Nonostante tutto, io penso che l’Africa abbia aperto un nuovo capitolo. Da qualche anno si è svegliata. E’ ancora a un livello di povertà estrema, ma è cominciata la fermentazione. Da sei - sette anni lo sviluppo africano è molto superiore a quello della media mondiale. Le sue città, da orizzontali diventano verticali. C’è una nuova gioventù africana che ha come orizzonte il mondo e adotta le nuove tecnologie. La diffusione de telefonini è a livello di centinaia di milioni: una piccola cosa, segno tuttavia di un movimento. Oggi l’Africa è ancora il buco nero del mondo, ma perlomeno a me offre la speranza. Folloni: Il Nord Africa e le fallite primavere. C’è una domanda di democrazia che non ha avuto risposta? Prodi: Difficile a dirsi. La domanda di democrazia c’è stata, ma molto fragile; senza le istituzioni partitiche, senza tradizioni, senza consapevolezza della po- polazione, senza esperienze precedenti diffuse. Nello stesso tempo, in Paesi profondamente divisi al loro interno da fattori religiosi, etnici e storici. Folloni: Chiamandole primavere ci aspettavamo l’adozione del modello occidentale. L’esportazione democratica pare non funzionare nemmeno in questo caso. Perché? Prodi: Non è che me lo aspettassi – sapevo le difficoltà – ma ci speravo. Speravo che le elezioni, con i tanti partecipanti, dopo una vera campagna, avrebbero prodotto cambiamenti. Parlo dell’Egitto, che ritengo la chiave di questa rivoluzione mancata. Non solo è il Paese più numeroso del Nord Africa, ma è il centro intellettuale di tutto l’islamismo moderno. Dalle università egiziane partono le idee, le condensazioni intellettuali, quelle che poi fanno breccia nel resto del continente africano, soprattutto nel Sub Sahara. E’ stato un fallimento, ma attenzione a non generalizzare. In ogni nazione il fallimento della cosiddetta primavera democratica ha avuto una sua ragione specifica. In Egitto la tradizione e il costume hanno sempre avuto quale punto di riferimento e di comando del Paese il blocco tra l’esercito e l’economia. Sì. La forza è sempre stata l’esercito, ma alleato con duemila grandi famiglie economiche, che assieme possiedono quasi un terzo dell’economia egiziana. Se uno va in un albergo a Sharm-el-Sheik gestito da qualche compagnia internazionale, scopre probabilmente che la proprietà è dell’esercito, gestita maga- ri da qualche generale in pensione. L’establishment egiziano è sempre stato estremamente forte intorno all’esercito. Le elezioni sono state una grande rivoluzione. Sarebbe andata avanti se il governo avesse risposto alle attese e alle richieste del Paese. Di fronte ad una risposta governativa ritenuta insufficiente, la controrivoluzione è diventata inevitabile. In Libia non si è trattato di rivoluzione democratica. In Tunisia ho ancora speranza che la struttura democratica persista e si rafforzi. In Marocco c’è l’unica lezione positiva. Sentiti gli echi di questa scossa democratica, il re – identità molto forte della nazione – ha capito di dover precedere con le riforme ogni possibilità di rivoluzione. L’Algeria non si è mossa a causa della terribile traccia del recente passato. Folloni: L’Italia che vive nel mezzo del Mediterraneo si pone la domanda: dove vanno le nazioni arabe africane, punto di riferimento per una nazione europea così proiettata a Sud? Prodi: No. L’Italia non si pone questi problemi, purtroppo. Folloni: Dovrebbe… Prodi: Se li dovrebbe porre! Perché poi ci vogliono bene. Non è retorica. Mi sono sempre sentito dire: ma l’Italia dov’è? Non mi hanno mai detto: vergognatevi! La chiave di questo è la guerra libica. Abbiamo seguito decisioni altrui, senza pensare ai nostri interessi. Si potrebbe dire: siamo stati grandiosi, democratici e generosi. Ma non abbiamo nemmeno pensato a quello che sarebbe avvenuto dopo. Chiunque conoscesse la Libia sapeva che costituiva l’equilibrio di tutto il Sud Sahara. Quando Gheddafi ha smesso di creare turbolenze, e ha voluto essere il padre protettore dell’Africa, per mantenere un suo esercito versava una quantità grande di risorse a sud del deserto. Lo sapevano tutti. Distrutta la struttura libica, quello che è poi successo è stato fatale. Gheddafi era un dittatore. All’interno del Paese era di una durezza estrema. All’esterno aveva capito che sarebbe stato schiacciato se continuava a portare problemi in Ciad, eccetera. Questo è il motivo per cui lo invitai a Bru29 xelles, acquistandomi prima l’attenzione degli americani e degli inglesi e poi la loro gratitudine. Era venuto a mancare un elemento di turbamento. Folloni: Dopo quella visita fu ammesso in tutte le sedi internazionali Prodi: Non c’era conferenza africana in cui non ci fosse la coda dei leader occidentali per essere ricevuti da Gheddafi. Mi ricordo: una volta dovetti aspettare perché c’era il primo ministro irlandese che doveva vendere la carne, bovina naturalmente; il primo ministro inglese aveva dei contratti petroliferi, e così via. Rotto quell’equilibrio, il Sud Sahara è andato in mano all’economia illegale: la droga, i rapimenti; è crollato il turismo e di conseguenza l’artigianato. E’ diventata una zona drammatica. Folloni: La regione sub sahariana e le nazioni centro africane, il Sahel, il corno d’Africa. A distanza di molti lustri, l’indipendenza post coloniale non ha stabilizzato queste nazioni. Prodi: La divisione dei Paesi era completamente artificiale. Per questo quando Ban Ki Moon ha detto “cerchiamo di fare una politica che consideri finalmente questi Paesi in rapporto fra loro”, ha avuto un’idea giusta. Tutti parlano francese, hanno cose in comune, ma non si sono mai trovati assieme. Non ci sono comunicazioni. Innovando, ho voluto che i progetti di sviluppo partissero dalle università locali e ho trovato che quei professori non si conoscevano assolutamente. Tutti avevano studiato a Parigi, ma nessuno conosceva l’altro. Ban Ki Moon ha avuto una 30 grossa intuizione, e spero vada avanti anche dopo la fine del mio mandato. A fine gennaio consegnerò il mio rapporto. Gli “inviati speciali”, per essere tali, devono stare poco tempo: fare le cose che devono e poi lasciare che le strutture dell’ONU le portino avanti. Per questo do tanta importanza e giudico negativa la guerra in Libia. I dittatori sono nemici della democrazia, ma prima di abbatterli bisogna pensare al dopo. Folloni: La penetrazione fondamentalista. E’ accertato che elementi dell’islamismo radicale operano da detonatore in molti territori africani. Sono rinati califfati che si pongono in alternativa ai governi sorti dopo la stagione dell’indipendenza. Chi governerà l’Africa? Prodi: Il terrorismo si sta spargendo senza confini; è finanziato anche dall’esterno e stiamo parlando di paesi che hanno frontiere porose. E’ un gravissimo problema. Non pensiamo però che la maggioranza degli africani sia fondamentalista o sia amica di questi terroristi. Posso raccontare un episodio. Quando andai a trovare Morsi, fu l’unico leader da me incontrato a dimostrarsi molto contrario all’argine che i francesi avevano posto all’attacco terrorista dal nord. Il giorno dell’attacco io ero a Bamako. Non c’era alcuno che non ritenesse provvidenziale la reazione francese. Il problema guerra giusta o ingiusta non si poneva: la si considerava indispensabile, obbligata. L’unico leader internazionale – in tutto il mondo non c’è stata opposizione alcuna – che mi ha fatto un attacco su questo è stato l’egiziano Morsi. Però alla fine del colloquio mi ha chiesto, quasi con angoscia, se il terrorismo del Sahel avrebbe potuto raggiungere il Sinai. Ritengo che il problema del terrorismo sia avvertito da tutti. E’ un grave problema, ma ci sono anche gli antidoti. Il terrorismo è senza regole. Destabilizza tutto. Anche i governanti – sciiti, sunniti, destra, sinistra, centro – hanno paura di questa destabilizzazione. Anzi, la maggioranza assoluta dei popoli ne ha paura. Folloni: D’altra parte, la penetrazione cinese da oriente potrebbe diventare una nuova e dolce forma di colonialismo? Prodi: La penetrazione cinese è profondamente diversa dalle altre. Le altre avevano un forte connotato politico; quella cinese è economica, con una caratteristica straordinariamente diversa da quanto accaduto in passato. I cinesi esportano in Africa beni, capitali, tecnologia e persone: tecnici, operai. È la prima volta nella storia – salvo il limitato caso dell’Algeria – in cui c’è questo modo del tutto nuovo di penetrare in Africa. E poi c’è una grave differenza, che può rendere il problema più serio. I francesi lo fanno con i francofoni; gli anglofoni con la costa dell’Ovest e con i paesi “amici”. Ma i cinesi lo fanno per tutto il continente. Folloni: La Cina è ben accolta? Prodi: In generale il giudizio è positivo, con momenti di forte tensione soprattutto in zone minerarie, come protesta per l’eccessiva presenza di lavoratori stranieri o per la concorrenza alle industrie di basso livello. Tuttavia…Quattro anni fa chiesi al presidente algerino Buteflika come andava con i cinesi. Mi disse: “Abbiamo grandi appalti sia per le strade sia per le case popolari. I cinesi le fanno a metà prezzo rispetto a italiani e francesi. Sono venuti 25 mila cinesi. Consegnano con puntualità svizzera. Inoltre, ogni anno cinquemila smettono di fare i muratori. Altri cinesi li sostituiscono. E quelli sposano ragazze algerine e danno vita alla piccola imprenditorialità di cui ho bisogno”. La domanda gliel’ho rifatta quest’anno, appena prima che si ammalasse, e ha risposto: “Va come le dissi quattro anni fa; adesso abbiamo trentamila cinesi diventati in sostanza algerini”. Al momento della guerra in Libia sono stati rimpatriati 38 mila tecnici e operai cinesi. La Cina ha aiutato lo sviluppo dell’Africa. Lei sola ha bisogno dell’Africa per la propria sopravvivenza: cibo, materie prime ed energia. Le trova in Africa e in America Latina. Folloni: I vecchi colonialisti hanno smesso di saccheggiare il continente? Prodi: Il saccheggio dipende molto dal governo africano. Servirebbero governi forti e non corrotti. Devono vendere le loro risorse, ma a beneficio delle loro popolazioni. Turba che tante terre vengano comprate dai cinesi, ma sono gli africani che le vendono. Oggi la concorrenza cinese ha svegliato l’Occidente. Folloni: E l’Unione africana? E’ una speranza o un’illusione? Prodi: Una speranza, ne sono convinto. Sono stato il primo presidente della Commissione Europea che ha deciso di finanziare le truppe di pace dell’Unione africana. Non con le armi, ma con la formazione. Sulla facciata del Palazzo dell’Unione africana – più bello e più grande di quello ONU – c’è una piccola placca con scritto: “Dono del popolo cinese al popolo africano”. Quando entri, trovi giovani tecnici cinesi che per due anni insegnano come gestire il Palazzo. Di fronte alla nostra lentezza presenterò, approvato dal Consiglio di Sicurezza, un progetto rivoluzionario. Dobbiamo organizzare lo sviluppo del Sahel non solo come progetto in comune ma rendendo possibile donazioni sia in denaro sia in generi. Affinché si possano costruire direttamente strade e ospedali sui quali mettere la bandiera: cinese, tedesca, eccetera. E si possa fare in fretta. E tra le nazioni ci sia una concorrenza virtuosa: nelle gerarchie stabilite dall’ONU e sotto il controllo della Banca africana di sviluppo. Non è stato facile. L’idea è matura. Anche se adesso – a fronte di problemi come quello siriano – parlare del Sahel è diventato faticosissimo. Per l’Africa la concorrenza, prima viziosa, deve diventare virtuosa. Non più sulle armi, ma sulla crescita. Folloni: Dov’è finito il partenariato che l’Europa immaginò fin dalla Convenzione di Lomé? Prodi: L’Europa è ancora il maggior donatore, ma l’idea politica non c’è. L’Europa non riesce ad avere un’idea politica per nessuna parte del mondo. Quando vado in Medio Oriente mi domando: dov’è l’Europa? Folloni: Torniamo al Sahel, alla fame e alla sete, a malattie, morti e guerre. Campagne di aiuto, missioni internazionali e volontariato non hanno abbattuto queste piaghe? Prodi: No. Però questi paesi disperati cominciano a crescere. Dicendo “crescere” mi viene quasi vergogna. Si parte da livelli così tragici ed elementari… Dove non ci sono guerre ci si muove. Le guerre sono terribili. Vent’anni fa un modello era la Costa d’Avorio. La tragica guerra civile l’ha devastata. Folloni: Sono guerre endogene o esogene? Prodi: Sono sempre più endogene. E non sono nemmeno più fra stati e potenze, ma etniche, religiose, anche se interessi di singoli e gruppi soffiano su di esse. Ma fra stati rimane solo il residuo della guerra tra Eritrea ed Etiopia. Oggi, sulle guerre pesa l’artificialità dei confini fissati a Berlino o in altre conferenze internazionali. Folloni: Che cosa non ha funzionato e cosa di diverso si deve fare? Prodi: Primo: il rafforzamento dell’Unione africana e, in chiave economica, delle varie Unioni regionali. Nulla avviene tutto in una volta. Folloni: Europa e Italia possono o devono fare qualcosa? Prodi: Mentre – come in Siria – l’ONU ha molte difficoltà a risolvere i grandi conflitti, all’interno dei Paesi le truppe ONU hanno svolto un ruolo di crescente stabilizzazione. Ci sono molte complicazioni e inefficienze, i mezzi sono scarsi, però nel mondo e specialmente in Africa sono più di centomila i soldati con il casco blu. Questo è un progresso dell’umanità. Nel Mali, i francesi si ritirano e ovunque vedi l’ONU. Io auspico la politica estera dell’Europa. In tutti i casi citati l’Europa è stata sempre divisa. In Libia la Germania non ha partecipato. In Medio Oriente l’Europa non ha mai avuto una posizione unitaria. Altrimenti noi e non gli americani avremmo gestito i rapporti. E si sarebbe potuto parlare di “Colosseo”, invece che di “Camp David”. Pur con tutti i cinesi del mondo, in Africa l’Europa resta ancora primo investitore e commerciante e colei che ha i rapporti culturali più forti. Folloni: In Africa, allora, c’è domanda d’Europa… Prodi: Non c’è dubbio. La desiderano. Ma c’è sempre più delusione. Chi era Nelson Mandela Nelson Rolihlahla Mandela nacque a Mvezo, in Sudafrica, il 18 luglio 1918, ed è morto a Johannesburg il 5 dicembre scorso. E’ stato il primo presidente nero a essere eletto dopo la fine dell’apartheid nel suo Paese e premio Nobel per la pace nel 1993. A lungo leader del movimento anti-apartheid (ovvero la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca del Sudafrica nel dopoguerra e rimasta in vigore fino al 1993), ebbe un ruolo determinante nella caduta di tale regime, pur passando in carcere gran parte degli anni dell’attivismo anti-segregazionista. Fu eletto presidente del Sudafrica nel 1994, rimanendo in carica fino al 1999. Il suo partito, l’African National Congress, è rimasto da allora ininterrottamente al governo del paese. Il 15 dicembre scorso, Mandela è stato sepolto nella tomba di famiglia presso il cimitero della cittadina di Qunu, dove ha passato l’infanzia. 31 Il summit dei BRICS di Durban: la speranza dell’Africa, infrastrutture e sviluppo di Marguerite Lottin Welly Mentre in Europa gli scenari di disintegrazione dell’euro diventano sempre più allarmanti, i Paesi BRICS lavorano alacremente per creare un “nuovo asse dello sviluppo globale” e propongono profondi cambiamenti nell’ordine economico e nell’equilibrio dei poteri mondiali. In quest’ottica, il Quinto Summit dei BRICS tenutosi a Durban nel mese di aprile può essere definito un avvenimento storico in quanto, per la prima volta, lo sviluppo delle infrastrutture, delle manifatture e di una moderna agricoltura di tutto il continente africano è stato posto al centro della discussione. Ciò rappresenta una profonda rottura con la vecchia politica colonialista. Per i partecipanti al summit, l’Africa è e deve diventare lo spartiacque morale del mondo moderno. A Durban è stato deciso di creare una Banca di Sviluppo per finanziare le grandi infrastrutture e gli altri progetti di sviluppo con un contributo iniziale di 10 miliardi di dollari da parte di ciascun Paese partecipante. Essa sarà un’istituzione sovrana e indipendente dai controlli del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. E’ stato anche creato un Fondo di riserva di 100 miliardi di dollari per garantire la stabilità delle economie dei BRICS contro la speculazione sulle materie prime e sui prodotti alimentari e contro gli effetti negativi della crisi globale e dell’instabilità prodotta dalla tanta liquidità a buon mercato dei “quantiative easing” negli Usa e negli altri Paesi occidentali. Oggi i BRICS rappresentano già il 20% del Pil mondiale. Nella logica di un mondo multipolare essi chiedono di andare oltre l’attuale architettura di governance globale e di “esplorare nuovi e più giusti modelli di sviluppo”. Per l’Africa tutto ciò è una ragione di speranza. L’Africa oggi conta più di un miliardo di abitanti. Nel 2000 la Nazioni Unite avevano presentato gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio allo scopo di dimezzare la povertà entro il 2015. Ma non sono stati raggiunti. E’ vero 32 che le statistiche di alcuni Paesi africani parlano di una crescita annuale anche del 10%, ma in molte regioni il 40% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà estrema con un dollaro al giorno. In Nigeria, per esempio, che è un Paese di 170 milioni di persone, 50 anni dopo l’indipendenza le infrastrutture non funzionano ancora. Nel settore dell’energia le poche raffinerie operano raramente. Pur essendo il più grande produttore di petrolio dell’Africa, la Nigeria è costretta a importare carburante. Dopo l’indipendenza dal potere coloniale i leader africani avevano iniziato dei programmi importanti per la realizzazione di un sistema sanitario, di istruzione e di sostegno all’agricoltura. Anta Diop, un noto intellettuale senegalese, nel 1974 scrisse il libro “L’Africa Nera. La base economica per lo Stato federale” in cui indicava un piano di industrializzazione attraverso l’utilizzo delle risorse idriche, energetiche e naturali. In seguito, nel 1980 a Lagos, l’Assemblea dell’Unione dei capi di stato e di governo africani presentarono un dettagliato programma di sviluppo per l’intero continente. Ma al posto dello sviluppo è arrivata la politica di “aggiustamenti strutturali” del FMI che è diventata un modello per l’austerità, per il pagamento dei debiti esteri, per la deregulation, la liberalizzazione del commercio e le privatizzazioni. Ciò si è combinato con la corruzione e le dittature politiche locali. Guerre regionali sono state combattute e si combattono per il controllo delle materie prime nell’interesse di potenze straniere e più precisamente di multinazionali private. Il Congo è uno dei bersagli principali di tale politica. A partire dal 1990 le regioni del Centro Africa e dei Grandi Laghi sono state catapultate in una “guerra dei 30 anni”. Alcuni la chiamano la “Prima Guerra Mondiale dell’Africa”. Tra 5 e 10 milioni di persone hanno perso la vita. Dal 1999 l’ONU spende più di 1,3 miliardi di dollari l’anno per le missioni militari e per la stabilità. Ma non c’è pace nella regione in quanto ci sono troppi e grandi interessi neocoloniali. Il problema dell’Africa è la sua ricchezza. Durante il periodo coloniale i Paesi africani sono stati condannati a vendere le loro risorse sottoprezzo e, in cambio, a comprare i prodotti finiti a prezzi salati. Il sottosviluppo è la causa dell’instabilità politica e di ogni tipo di estremismo, come accade in Mali e in molti altri Paesi. Per questa ragione è sempre più valido l’appello di Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum Progressio: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. L’alleanza dei BRICS è l’unica speranza per l’Africa. A condizione che la sua indipendenza e la sua sovranità siano rispettate da tutti, a cominciare dai BRICS stessi. Il Brasile è l’amico e l’alleato più vicino. Si può considerare la seconda “nazione africana” per il numero di cittadini neri. Può condividere con l’Africa l’esperienza nella costruzione di reti di comunicazione e di trasporto realizzate nel continente latino americano. Una priorità è la creazione di grandi bacini idrografici. Il Brasile e l’America del Sud hanno grandi fiumi, come in Africa. I fiumi e l’acqua possono diventare la base per la produzione di cibo e di energia anche in Africa, per il trasporto e lo sviluppo regionale, per la creazione di nuove città, nel rispetto della vita e della natura. Non è più tollerabile che, 65 anni dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la dignità dell’uomo sia ancora calpestata e venga negata a milioni di persone in tante parti dell’Africa. Chi è Marguerite Lottin Welly Marguerite Lottin Welly, cittadina del Camerun, è presidente dell’Associazione Interculturale Griot e membro della Consulta Immigrati di Roma Capitale. Dal 2 al 6 ottobre scorsi, nella città greca di Rodi, ha rappresentato l’Africa alla conferenza annuale del World Public Forum “Dialogue of Civilization”. Un racconto di Giorgio Torelli lasciate che vi confidi questa storia vera di Natale: GESU’ BAMBINO ALLA RITIRATA DI RUSSIA Su un quotidiano che ho motivo di stimare, non mi imbatto nelle sdrucite divagazioni sul Natale. Ma incontro una frase che subito si fa luce. La frase suona : “ Natale è lasciarsi incontrare dal Signore”. È il Signore – riprendo a dirmi - che arriva tra noi e storna il corso della Storia. Siamo noi a volerlo, a desiderarlo, a sentirlo nella cripta di noi stessi ed a rivederlo in un qualunque presepe dove è nato povero, ma tra gli angeli; dentro una stalla con i fiati, i topi e il lezzo, ma con i pastori a inginocchiarsi tutt’ attorno come primissimi cristiani, già pervasi della luce che da quella capanna ha sempre continuato a sprigionarsi. Il presepe è una boîte à musi- que. Quell’ insieme sacro, composto come ciascuno crede, immagina o fantastica, soffonde voci e suoni che rappresentano l’Ouverture dei Vangeli, e sono il grandioso esordio del Fatto senza eguali, il Fatto più fatto di tutti. Ripeto dunque e ripropongo la frase che ormai mi fronteggia: “Natale è lasciarsi incontrare dal Signore”. E allora eccomi pronto a narrare proprio la storia mirabile di un incontro che, a tutt’oggiquando lo ripenso-mi appare insieme misterioso, supremo, divino e dunque folgorante. Siamo in Russia nell’anno di guerra 1942. Neve e orizzon- ti di spietato candore. Distanze siderali tra infime cerchie di villaggi con misere isbe dove cercar rifugio dallo strazio dei 42° sottozero. I nostri soldati, spediti in Russia da Mussolini per schierarsi a fianco dei tedeschi, non hanno potuto reggere all’urto del nemico. Le divisioni sovietiche hanno traversato a cingoli unanimi lo spessore di ghiaccio del Don e stretto in larghissima cerchia gli schieramenti italiani del poco dispiegato: poche armi di grande affidamento, pochi rifornimenti, pochezza del vestiario militare (pastranetti, scarponi di cuoio matto, lana risicata nelle uniformi), scarso criterio delle alte sfere per convincersi che in quelle condizioni di estrema indigenza combattiva mai si sarebbero potute tenere le posizioni trincerate. La spinta dell’armata Rossa a tutto rombo, ha imposto la ritirata delle divisioni italiane di Fanteria, ormai completamente circondate. L’ho detto prima: è il dicembre dell’anno tragico 1942. Solo i reparti alpini reggono da par loro. Ma i fantaccini vanno formando colonne umane, nereggianti nel subdolo biancore di sterminate prospettive da traversare a piedi e con slitte di fortuna, trascinate da muli inebetiti. Le slitte, cigolanti sulla neve gelata, sono gravate di feriti, malati, masserizie militari e armi superstiti e spaiate. Ci sono tanti episodi di prossimità, anche gesti generosi e fraterni. Ma è la disperazione ad addentare i fianchi dei derelitti in colonna, alla cerca di una salvezza chissà dove e muovendosi drammaticamente nella neve in direzione di un punto qualsiasi, comunque valido per sottrarsi alle vampe delle artiglierie a razzo, alla tenaglia dei carri armati che sanno irrompere a sorpresa dai boschi di betulle e all’improvviso comparire dei partigiani sciatori, rapidissimi a sparare sul grosso coi Kalashnikov e svanire per mordere appena oltre. In quel cruento desolarsi, chi sa combattere contro le incursioni russe- e ce n’è ancora di soldati che pur in rotta non vogliono cedere- ignora dove troverà munizioni per ar33 ginare il prossimo attacco, né se potrà imbattersi in qualcosa per tacitare l’urlo della fame, magari scalzando con le baionette le sementi finite nei letamai dei villaggi, dove, notte dopo notte, tutte le isbe vengono invase dai naufraghi dell’oceano di neve, avidi di un alito di calore. Si penetra nelle isbe armi in pugno, contendendosi il passo, poi addossandosi a terra attorno al bene supremo di una stufa contadina. Non c’è soldato senza una personale odissea in svolgimento lancinante. Gli eroi e i disperati, gli audaci e i sopraffatti si sommano e confondono in un collettivo dilagante, umiliato, percosso, stranito, desolato, e tuttavia in perenne movimento -dolentissimo e allucinato- verso l’ipotesi di una salvezza senza punti cardinali né approdi di certezza. Moltissimi si perderanno nelle tormente, pensando a casa, alle famiglie, agli amori, agli affetti così remoti e taluno chiamando Dio a voce rotta e quasi stroncata. Altri si assopiranno diventando tragiche mummie di ghiaccio, pupazzi di gelo col fucile scheletrito nei pressi e l’ultimo addio congelato sul taglio delle labbra, ormai una fessura livida dentro la doppia maschera di brina che ha stralunato ogni fisionomia, illividito nei piedi, arpionato in fine il cuore. Ed è quasi Natale. Rinascita di Gesù Nazareno, al gelo anche lui, quel piccolino di Maria, partorito per amor delle creature sul fieno immondo di un capanno, o una stamberga, o una grotta,un rudere, o un’isba di Palestina. Il serpentone dei derelitti, addensati in un grigioverde che non si vede più - tutto è spietato biancore - procede nell’orrore improvviso di salve che schiantano, sgominano, straziano uomini a caso, devastano slitte di moribondi e feriti accatastati, squartano gli ultimi muli, insordiscono per poi ricominciare a maledire col fuoco chi ha osato attaccare la Santa Russia e adesso ha da essere brado e ramingo, arrancando con le tempie a martello. Tra i fanti italiani, nella eterna Via Crucis della ritirata, c’è anche un fante siciliano di vent’anni. Apparteneva a una Divisione presa a spallate in vista del Don ibernato. E adesso spasima nel farsi e disfarsi delle colonne umane che le batterie sovietiche decimano. Da borghese, faceva il giovane di sartoria in un punto assolato della Sicilia. E, prima che l’inverno russo ingoiasse i soldati italiani, avventurati in fronte al nemico e stipati nei 34 camminamenti sotterranei per reggere la provocazione intransigente dell’inverno cirillico, aveva intuito che il gelo avrebbe annichilito gli uomini dello schieramento, fermi là per subire confronti impari. Così, s’era cucito un doppio giustacuore di pelliccia da tener sotto il pastranello del Regio Esercito. E aveva scambiato i poveri scarponi della naja con scarponacci di tempra, imbottendoli di pelo. Anche i guanti, il passamontagna triplo e un gran giro di sciarpe se li era procurati con metodo proprio lui, siciliano delle piane di aranci, finito nel gironi bianchi di un inferno come i soldati di Napoleone nel 1812. Di Napoleone, il ventenne siciliano sapeva quasi niente. Ma adesso, toccava a lui vivere la Beresina. E restar dentro l’ angosciato dilungarsi della ritirata con una sola ardente determinazione: farcela, salvarsi, scampare. L’accerchiata colonna dei profughi procedeva. Si sommavano i giorni, le notti, le raffiche, la penuria assoluta. Fin quando, per un improvviso venir di nebbia, toccò proprio al siciliano smarrire l’orientamento, perdersi nei vortici impalpabili delle fumare e, un tragico momento, accorgersi d’essere rimasto solo nel mezzo dell’inverosimile raggelato. Il serpentone aveva deviato a caso e il ragazzo italiano - frastornato dalla pena di procedere- era stato reciso dal grosso. Appariva ormai solo, solissimo, in un punto insensato dello sterminarsi russo. Disperso sul far del Natale, barcollava infagottato, ancora col fucile Novantuno carico, le giberne quasi vuote e nessuna carta topografica che, da soldato semplice, mai avrebbe saputo interpretare. La nebbia bendava ogni lontananza. Il gelo l’afferrava per il bavero, trapunto dalle stellette ghiacce. Morire così. Morire a vent’anni sul palcoscenico della pochezza. Ansimava, col groppo alla gola riarsa, che la neve non poteva lenire. Rimaneva fermo lì senza saper dove muoversi dentro l’incorrotta maestà del nulla. Batteva i denti. Il tremito lo possedeva. Fin quando, chissà come, ecco un improvviso refolo di vento - quasi l’ affermarsi di un prodigio senza perché - diradare qualche attimo le fasciature di nebbia e qualcosa di impreciso volare alto e ben visibile. Poi, lentamente, planargli ai piedi, giusto davanti agli scarponi marmorizzati. Un pezzo di carta? Un rettangolo di carta in quella steppa insensata? Osando farlo, il fante rimosse un guantone rattrappito e si piegò, con gran pena,a raccogliere quel “coso” che il vento quasi siberiano aveva recapitato. Lo alzò fin sotto gli occhi abbacinati. E vide, proprio vide - dapprima senza crederlo possibile - che l’immagine di quella che era una cartolina vagante raffigurava un minuscolo presepio dei nostri, il più ingenuo forse, il più amato. E sul rovescio c’era anche una scritta leggibile, che i barbagli dello sfinimento non impedivano di compitare. Il cartoncino volante era stato inviato da Lodi a un artigliere. E il vento doveva averlo sollevato, mandandolo in turbine chissà per quante miglia, da un magazzino della Sussistenza dove i viveri, i rifornimenti e anche la posta erano stati stivati dagl’ italiani e mandati in fiamme subito prima della ritirata. Gli insulti del vento avevano eccitato le fiamme, ma anche spedito in aria le poche carte sfuggite al rogo, dunque anche la cartolina con gli auguri di un “Natale sereno”. Il fante siciliano sbalordì. C’era Gesù bambino su quella carta vorticata. C’erano Maria e Giuseppe. E il si- ciliano li invocò tutti e tre. Parlò con loro nell’accento della sua isola, li stordì con la frase ripetuta senza più pause né requie: “ Gesù, portami a casa! Maria, fammi salvo! Giuseppe, non lasciarmi solo!”. Di più. Con la mano denudata dal guanto infilò la cartolina (dove gli angeli cantavano in gloria) sotto il pastrano incartonato, sotto la pelliccia interna, sotto la giubba, sotto i tre maglioni, sotto la camicia grigioverde, fin sulla nuda pelle che era sudata per la fatica del disperarsi e percorsa da pidocchi mai sazi. Ora, la cartolina abitava sul cuore. Ed era tempo di stringersi i panni addosso con una forza nuova per non lasciarsi più andare, tentando il raccordo con tutti gli altri dispersi, ingoiati dalla nebbia. Ricominciarono i passi, uno dopo l’altro, nella neve tumefatta. E, ad ogni sollevarsi di scarponi riscossi, l’invocazione ripetuta, ribadita, replicata, rigonfiata a voce alta nel mezzo dello svasato silenzio: “ Gesù, portami a casa! “. Voi dite che Gesù sente chi lo invoca? Gesù sentì. Il fante siciliano, emerso dall’addio, ritrovò l’ultimo spuntone della colonna perduta. E si rimescolò ai suoi che procedevano minuti, piegati, ognuno interprete del proprio destino. Furono più forti o i più fortunati della colonna mutilata – il siciliano tra loro - a trarsi fuori dalla sacca e raggiungere stremati una tradotta italiana di vagoni merci per cominciare il lunghissimo, sfibrante, impervio viaggio di ritorno verso l’Italia così remota. E tuttavia sempre più vicina, di tappa in tappa, su quei binari assordanti, dove tantissimi avevano imparato a pregare e il fante siciliano più di tutti. Io ho conosciuto il fante della cartolina. Negli anni ‘50 e ‘60, faceva il sarto a Milano, un piccolo atelier dove la bravura era legge. E la cartolina? Gli chiesi di vederla quando mi narrò -fidandosene e con gli occhi pieni di lacrime- la sua gelida storia di scampato. La cartolina non c’era più. L’atroce sudore del continuo affannarsi e i brulicanti pidocchi l’ avevano macerata sotto gl’ indumenti lerci. C’era il pensoso silenzio, però, in luogo della cartolina sbriciolata. E nel volgere di ogni dicembre, giusto in quegli stessi giorni del ritirarsi senza tregua con Gesù bambino in petto, il sarto continuava a cucire le belle giacche per i clienti. Ma intanto ripercorreva, con la mente e col cuore, le immensità di Russia traversate a senso. E diceva a se stesso che il suo, l’ormai e per sempre suo Gesù bambino, quello stesso del presepe fatto in famiglia (moglie e due belle figlie) stava proprio seduto accanto a lui mentre tagliava e cuciva, stirava e metteva in prova. Tacevano insieme perché avevano tanto, tantissimo da dirsi. 35 Perdere la parola: notazioni leggere a proposito di una pandemia del nostro tempo Sempre di più arrivano segnali di confusione e smarrimento sul significato delle parole che usiamo o sono usate. Questo fatto ci lascia sorpresi e preoccupati. di Michelangelo Tagliaferri 36 Quando parliamo con gli altri, ci siamo intesi veramente? Quante volte abbiamo posto la domanda petulante: “Scusa, ma tu per mela che cosa intendi o a che cosa ti riferisci….di cosa parli?” Molti si stanno domandando se non sia il caso di intervenire ripristinando grammatica e sintassi, uso corretto del vocabolario e dei sinonimi, altri ancora lasciano perdere per superficialità, tanto la cosa più importante è intendersi, come quando non si conosce bene una lingua straniera. Il fenomeno, al di là dei giochi d’ironia, è preoccupante e ricorda quanto è avvenuto a Babele con quel che ne segue, quindi vale la pena di parlarne seriamente, anche se gioiosamente, come quando parliamo di un bambino che ha appena cominciato a balbettare i primi suoni delle parole. Le cose di per sé non hanno alcun nome. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi a esse. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome. È tanto forte l’abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell’animale ci sembra che debba chiamarsi così. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama “perro”, in francese “chien”, in inglese “dog”, in tedesco “Hund”…; quale sarebbe allora il “vero” nome del cane? Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i “veri” nomi del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue. Gli uomini cominciarono a dare i nomi alle cose nella notte dei tempi, con sistemi che ignoriamo totalmente. Ogni tribù avrà avuto i suoi motivi per dare al cane, al sole, all’albero e a tutto ciò che vedeva e immaginava certi nomi, che furono diversi da quelli dati da altre tribù. Noi oggi non conosciamo più quei motivi; accettiamo e usiamo le parole così come ci sono arrivate. Su di noi, invece, influisce molto l’abitudine. È questa che ci fa sentire i nomi strettamente legati alle cose, concrete o astratte che siano. Le parole, anche se sono nate per caso, possono dunque suggestionare la nostra mente e i nostri sensi; proprio per questa suggestione noi impariamo facilmente le parole e ci abituiamo a usare la lingua con prontezza ed efficacia. Alcune parole, per la verità, non ci sembrano formate proprio a caso. Ad esempio, rimbombo, ùlulo, scricchiolìo, abbaiare, miagolare, tintinnare, sono parole che chiaramente imitano un suono o un rumore esterno. Eppure, anche queste parole sono diverse da una lingua all’altra: gli studiosi che si sono occupati attentamente di questo fenomeno, hanno notato che per gli italiani il gallo fa chicchirichì e l’oca qua-qua; mentre per i Francesi il gallo fa cocoricò e l’oca muàcmuàc o cuèn-cuèn; per gli Italiani lo sparo faceva pum e il bussare toc-toc. Ma da quando si sono diffusi i fumetti, soprattutto Topolino che viene dall’America, lo sparo fa bang e il bussare fa knock, perché gli Inglesi e gli Americani riproducono così questi rumori. Gli uomini, a quanto pare, hanno una sensazione diversa perfino dei rumori che colpiscono le loro orecchie. Questo conferma che le cose sono quello che sono e che noi cerchiamo di dare a esse dei nomi secondo le nostre impressioni. Ma certo la stragrande maggioranza delle parole che oggi usiamo (del tipo sole, cane, strada, alto, bello, coraggio, attenzione, perché, sì, no), per noi non imitano proprio nulla. Se queste parole ci sembrano così adatte a esprimere quei concetti, questo è dovuto solo all’abitudine. Il chiamare una cosa sempre con quel nome ci fa sentire nel nome quasi la “presenza” della cosa stessa. La lingua, prima ancora dei linguaggi formalizzati, risente oggi di un’inconsistenza nella relazione tra significante e significato, tra ciò che designa il concetto con ciò che è designato. “Mela”, prima ancora di essere un frutto, è New York o il peccato o la tentazione. Ma questo vale anche per la mela OGM? E’ questa ancora una mela? La questione è semplice: gli uomini hanno inventato differenti suoni per lo stesso oggetto e utilizzano lo stesso suono per oggetti differenti. Se moltiplichiamo tutto questo per tutte le lingue e i linguaggi, ci troviamo di fronte a una confusione di suoni e di parole che apparentemente hanno referenti diversi ma alla fine vogliono dire una cosa sola. Bene, io credo che tutto questo appartenga a un passato che sta per essere liquidato esattamente come la storia. Nel gioco della complessità, cercare di rincorrere il referente appare vano e dotato di poca possibilità di successo. Le parole fluttuano come i capitali dei derivati, lontani, molto lontani o quasi estranei all’economia reale. Non sono più gli avvenimenti che generano l’informazione, ma è l’informazione che genera gli avvenimenti, con conseguenze incalcolabili per la vita concreta. E così, come il lavoro sparisce all’orizzonte del capitale, così scompare il negativo dall’orizzonte dei media che legittimano sempre di più ciò che è convenzionale. Una mela in fin dei conti è una mela perché non è una pera. In tal modo classifichiamo e distinguiamo e quindi diamo un’identità all’oggetto o al concetto. Non è più così. Non è più il lavoro che serve alla riproduzione del capitale, ma è il capitale che produce e riproduce a sua misura il lavoro. Motivo per cui, se il capitale riproduce se stesso senza lavoro attraverso l’illusione finanziaria, è inutile cercare quest’ultimo a questo livello. Gli impegni a favore della piena occupazione fanno parte di una rappresentazione falsa e criminale, se si rimane all’interno di queste regole. Sono la copertura che legittima il baro a continuare a giocare. Effetti e cause si mischiano e non è possibile più rappresentarne i nessi, se non essendo accusati di nostalgia o utopia. L’iper informazione dell’iper realtà che stiamo costruendo non vuole referenzialità né nostalgiche né utopistiche e, se mai identifica una fine, essa è una fiction con fotogrammi di deja-vu. Il presente immanente finalizza già le cose che avverranno, le programma, le pianifica, le calcola e alla fine le rappresenta ed esse ci sembra che avvengano e, in effetti, avvengono lasciando morti e sofferenze sul campo….scarti da mandare al macero con tutto il loro carico di umanità che non serve più o non serve ancora. Ma se non serve l’uomo “umano” a costruire la sua storia, a cosa possono servire le parole che la vogliono rappresentare? Esse, come nella struttura della meccanica dei quanti, si aggregano e disgregano secondo regole probabilistiche che nulla hanno a che fare con la nostra emozione o con il suono delle nostre parole e, soprattutto, con la necessità di non generare equivoci. La referenza non serve: come nella musica che ormai è vincolata al sapere tecnologico e tecnico e svincolata dalle regole dell’armonia e della composizione, abbiamo la fluttuazione dei segni nel vuoto. Google realizza con successo una vendita e un apprezzamento di parole all’asta. Datemi un milione di euro e vi faccio sparire D-IO dalla classifica dei termini più ricercati. Ora, qualcuno potrebbe dire che questo non va bene e che bisogna ribellarsi, ma lo spazio di manovra è molto esiguo. O tutto il mondo interpreta a grado zero le differenze per cui il codice è quello della dittatura, o richiede la libertà di rappresentare correndo il rischio di generare confusione. D-IO ci ha dato il potere di nominare le cose e noi dobbiamo continuare a farlo, costi quel che costi, modificando il suono e il significato, magari confondendoci ma sempre con l’intento di fonderci in un’unica famiglia che è capace di generare lingue e linguaggi. Ma attenti, come dice un vecchio detto ebraico…talora D-IO confonde gli uomini perché li vuole perdere! 37 Ali Khamenei Storico passo tra Teheran e l’Occidente NIENTE “SATANA”, NIENTE MALE Primo passo sull’uso pacifico del nucleare in Iran. L’accordo può far per superare gli equilibri critici del Medio Oriente. di Gianfranco Varvesi 38 Dopo ben 34 anni, “Satana” e “l’impero del male”, questi gli epiteti che Stati Uniti e Iran si sono scambiati dopo il sequestro di 52 diplomatici americani, hanno concluso un accordo. E’ solo un primo passo nella giusta direzione, ma le implicazioni e le conseguenze possono essere di grandissima portata per gli equilibri in tutto il Medio Oriente e per gli interessi dell’industria italiana. Nel 2002, la crisi fra Stati Uniti e Repubblica Islamica dell’Iran si è trasformata in un contenzioso internazionale, quando l’Agenzia delle Nazioni Unite per il controllo dell’energia nucleare ha scoperto che il Paese mediorientale aveva avviato un programma per dotarsi della bomba atomica. Alla richiesta di spiegazioni, però, Teheran ha risposto evasivamente, confermando in pratica i peggiori sospetti. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha pertanto varato numerose e sempre più severe sanzioni, cui si sono aggiunte quelle da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Si è così pervenuti al divieto di vendere all’Iran non solo armi pesanti e tecnologie legate al nucleare, ma anche strumenti per l’estrazione del gas e del petrolio, non consentendo l’aggiornamento, e nemmeno il ricambio, dei macchinari essenziali alla principale industria e fonte di ricchezza del Paese. Inoltre, sono state bloccate nei Paesi occidentali le importazioni di petrolio e le attività bancarie dell’Iran. Questo complesso di misure ha gradualmente penalizzato l’economia e la società iraniana, alla quale è stato sempre più difficile spiegare le ristrettezze cui il sistema la stava condannando. Con coraggio e pragmatismo, il Presidente Rouhani ha finalmente deciso di cogliere quei segnali di disponibilità che il Presidente Obama, già dai tempi della sua prima campagna elettorale, aveva lanciato e segretamente rinnovato in questi ultimi anni. Non è stato facile giungere all’accordo di novembre, essendovi in primo luogo difficoltà all’interno di ciascun schieramento. In Iran si è svolto uno scontro fra intransigenti e pragmatici, anche se questi ultimi hanno avuto l’appoggio cauto della Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei. Nel gruppo dei 5+1 (costituito dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) le posizioni del fronte occidentale hanno conosciuto una breve crisi nel bel mezzo del negoziato. USA e Gran Bretagna sono state come sempre vicine, con la Germania felice di aver saputo cogliere il momento della sua presidenza semestrale dell’Unione Europea quando è nato il Gruppo e di inserirsi nel grande gioco; la Francia, però, ha impresso ai negoziati un’improvvisa sospensione, quando il suo Ministro degli Esteri si è pubblicamente dichiarato insoddisfatto dei risultati che si stavano conseguendo. Un tentativo di mostrare al proprio corpo elettorale, deluso da Hollande e dalla sua politica inopportunamente aggressiva nei confronti della Siria, che Parigi ha tuttora un peso internazionale? Interessi economici con l’Arabia Saudita e alcuni Emirati del Golfo? Comunque, si è trattato di una mossa inutile sul piano della politica interna ed errata sul piano internazionale. La Russia ha voluto consolidare, dopo il successo ottenuto nella questione siriana, la sua posizione nel Medio Oriente. Più importante ancora per Mosca è stato l’obiettivo di denuclearizzare l’Iran al fine di eliminare ogni pretesto della NATO di sistemare missili in Romania e Polonia, formalmente a difesa di eventuali attacchi nucleari dall’Iran, ma sostanzialmente proprio ai suoi confini. Dal canto suo, infine, la Cina ha dovuto conciliare il suo ruolo di grande potenza con il suo interesse commerciale di principale cliente del petrolio iraniano a prezzi di favore. Oltre ai problemi interni delle varie delegazioni, é stato questo un negoziato dalla rara complessità politica e tecnica. Il risultato raggiunto alle 3 di notte del 23 novembre rappresenta un evento che potrebbe definirsi storico, se questa prima fase, che rappresenta una “prova generale”, risultasse positiva. In sintesi, per i prossimi sei mesi l’Iran si è impegnato a non arricchire il suo uranio oltre la soglia del 5%, a sospendere la costruzione sia di impianti per l’estrazione del plutonio dalle scorie del combustibile, sia di nuove centrifughe e del reattore ad acqua pesante di Arak (quello destinato alla produzione di uranio per fini bellici). La Repubblica Islamica deve inoltre neutralizzare le riserve che già possiede di uranio arricchito al 20%. Tutti questi divieti devono essere verificabili da ispezioni anche quotidiane degli esperti dell’Agenzia atomica delle Nazioni Unite. In compenso, sono contemporaneamente sospese le sanzioni all’Iran, che potrà recuperare gli oltre 4 miliardi di dollari dalla vendita di petrolio, congelati nelle banche americane ed europee, e sviluppare alcune esportazioni di materiale industriale. Sul piano internazionale, con questo accordo gli Stati Uniti rischiano di compromettere i loro ottimi rapporti con Israele e l’Arabia Saudita, i due pilastri della politica estera di Washington nella regione. Nel corso dei negoziati abbiamo assistito alla formazione di una “strana coppia”, con la convergenza di posizioni fortemente contrarie all’accordo fra due nemici storici, come le monarchie del Golfo e Israele; altra conseguenza potrebbe essere l’indebolimento del sostegno iraniano alla Siria. Potremmo quindi trovarci alla vigilia di profondi cambiamenti di alleanze nello scacchiere mediorientale. Quali i vantaggi per l’Italia da questi primi passi? Ricordiamo che i rapporti commerciali fra i due Paesi sono stati di altissimo livello. Fino al 2010, all’ulteriore inasprimento delle sanzioni, l’Italia era il terzo partner dell’Iran, ed il primo fra i quelli europei, con un giro d’affari di 7 miliardi di euro. Nel 2012, per effetto delle sanzioni, l’interscambio è crollato a 3,2 miliardi. Ma le prospettive future lasciano ben sperare. Riguardano in particolar modo la ripresa dei pagamenti congelati che, nel complesso, superano i 10 miliardi, anche se la cifra è difficile da calcolare; basti pensare che l’ENI deve recuperare crediti per oltre 2 miliardi e che vi sono grandi e piccole imprese con pagamenti in sofferenza. Vi è poi da considerare che la ripresa dell’estrazione del petrolio iraniano dovrebbe di molto aumentarne le disponibilità sul mercato internazionale, con una riduzione del prezzo. Più problematiche sono le prospettive di un recupero dell’interscambio commerciale ai livelli precedenti. Le posizioni conquistate dalle industrie italiane sono state occupate nel frattempo da quelle dei Paesi asiatici, sottoposti solo alle limitazioni imposte dalle Nazioni Unite e non dall’Unione Europea, con vantaggio quindi della Turchia, di alcuni Paesi arabi e soprattutto della Corea, del Giappone e della Cina. Proprio per assicurarsi nel prossimo futuro uno spazio politico ed economico, il nostro Ministro degli esteri ha invitato l’omologo iraniano a Roma e la visita sembra essersi svolta in un clima molto positivo. In conclusione, i prossimi sei mesi saranno il banco di prova di nuovi equilibri in cui si intrecceranno e scontreranno legami diplomatici ed economici. I tentativi di sabotare gli accordi saranno forti perché minacciano molti interessi precostituiti, ma la determinazione delle parti che lo hanno sottoscritto è sostenuta da una visione politica di lungo termine che fa sperare nel superamento di questi ultimi travagliati decenni. Un nuovo equilibrio nel Medio Oriente lascia sperare in una pacificazione anche delle crisi del Nord Africa e in un mondo multipolare, nel quale però l’Unione Europea dovrà rafforzarsi per trovare il suo ruolo. 39 Dolori articolari, l’importante è la prevenzione di Alberto Costantini Il dolore alle articolazioni è un disturbo molto frequente nella popolazione sopra i 60 anni. In Italia interessa addirittura qualche decina di milioni di persone. 40 Il freddo, l’umidità, l’obesità e il tipo di attività fisica peggiorano la sintomatologia. Molto spesso ci curiamo a modo nostro: quando il dolore è più acuto, non esitiamo a prendere la compressa antidolorifica o antinfiammatoria e, con il beneficio della scomparsa del dolore, pensiamo di aver risolto il problema. Invece, quel dolore iniziale lentamente, ma progressivamente, andrà ad aumentare fino a che avremo difficoltà a chiudere le dita delle mani, a muovere le spalle, a girare il collo, a inchinarci al ginocchio e all’anca. Questi sintomi segnano l’inizio dell’artrosi. Per avere un quadro più chiaro di come questa malattia si forma, descriviamo come è costituita anatomicamente un’articolazione normale (vedi figura). L’artrosi è una patologia degenerativa delle cartilagini articolari. Se le estremità delle ossa rimangono compresse, ad esempio dal peso del corpo, dalla tensione muscolare, soprattutto quando si rimane nella stessa posizione per giorni, mesi ed anche anni, le cartilagini non riescono più a ricevere il nutrimento dal liquido sinoviale, si ammalano, fissurandosi, producendo osteofiti (piccole protuberanze ossee intrarticolari) e infiammandosi con conseguente edema e dolore. Come abbiamo già detto, l’artrosi in genere colpisce all’età media di 50-60 anni, ma vi sono moltissimi casi in cui si può presentare prima, specialmente in chi ha dovuto nella vita, per anni, tenere posizioni posturali ripetitive e costrittive delle articolazioni, come ad esempio tennisti, calciatori, ballerini, musicisti, impiegati e operai addetti alle catene di montaggio, artigiani, agricoltori, etc, senza dimenticare tutti coloro che hanno subito incidenti stradali e sul lavoro. Per evitare che la malattia progredisca nella sua evoluzione, non dobbiamo accontentarci di prendere la solita compressa antidolorifica, perché, se è vero che con questa ci sentiamo meglio per qualche ora, di sicuro, poi, non solo non abbiamo risolto la patologia, ma anzi l’abbiamo allungata nel tempo peggiorando e danneggiando ulteriormente l’articolazione. È consigliabile invece consultare un medico specialista, il quale farà una diagnosi circostanziata, anche con l’ausilio di indagini strumentali come esami RX – TAC – RMN, e metterà a punto un programma terapeutico volto a riattivare al meglio l’articolazione. In genere il programma riabilitativo ha vari indirizzi: il massaggio decontratturante per favorire la mobilità articolare; la kinesiterapia e la ginnastica per potenziare la muscolatura che protegge le articolazioni vicine. In alcuni casi, poi, sono indicate infiltrazioni di acido ialuronico, che ha una funzione lubrificante e rigenerante sulla cartilagine, oppure infiltrazioni di cortisone. Da parte nostra, dobbiamo non essere pigri e tenere uno stile di vita che comprenda molto movimento, come camminate, nuoto, ginnastica varia. Dobbiamo ridurre l’obesità, responsabile di un carico eccessivo sull’articolazione; dobbiamo modificare le posizioni viziate del corpo, come dormire o stare seduti a lungo nella stessa posizione. Infine, vi è la terapia chirurgica, che può essere preventiva (decomprime le articolazioni ripristinando il corretto movimento), riparativa (ha lo scopo di riparare le strutture articolari) o sostitutiva (ha lo scopo di sostituire l’articolazione usurata con una protesi artificiale). Dr. Alberto Costantini 41 Sciare fino a cento anni? Il limite è solo dentro di noi Non me ne voglia il collega Vitaliano Damioli se ho preso in prestito il titolo del suo libro per iniziare questo articolo, ma non ho trovato una frase più indicata per presentare la storia di Giacomo Fedriani, ingegnere, scultore, pittore, pluricampione italiano e mondiale di sci ed imprenditore di successo. Non basterebbero tutte 42 le pagine di questa rivista per raccontare la vita di questo uomo, io mi limiterò a descrivere quello che ha fatto in quella fase di età in cui, dopo una vita passata a lavorare come progettista, scrittore di importanti libri come “Neve e urbanistica”, considerato ancora oggi la pietra miliare della letteratura specifica, presidente di associazioni Giacomo Fedriani ed infine imprenditore nel campo dell’enologia, invece di godersi un meritato riposo ha ripreso l’attività a cui è sempre stato legato, il mondo dello sci. E’ infatti nel 1991, all’età di 61 anni (il “giovanotto” in questione è nato a Genova nel 1929), che Fedriani torna a dedicarsi allo sci agonistico nel settore “Master”, dopo una pausa di 37 anni durante le quali si era dedicato al lavoro e alla famiglia. In questi 22 anni ha collezionato un numero di medaglie e titoli impressionanti vincendo 40 volte un titolo nazionale e 14 volte è arrivato secondo, raggiungendo un totale di oltre duecento podi. In campo internazionale è diventato campione olimpico in Super G e medaglia di bronzo nel gigante, all’età di 79 anni! E, sempre nel 2010, si è laureato Campione del Mondo in Super G, Vicecampione in Gigante e terzo in slalom, collezionando 125 podi in gare internazionali, ed il curriculum potrebbe continuare per pagine e pagine. Inoltre, non pago della sua attività “agonistica”, Fedriani si è dedicato alla ristrutturazione e valorizzazione del podere “Il Galampio”, situato nella splendida valle di Montalcino, creando una fiorente azienda vinicola oggi condotta dal figlio Filippo ma nella quale il Sig. Giacomo partecipa ancora attivamente, vendemmiando ed allenandosi nel percorso appositamente realizzato all’interno del podere. Ma qual è il segreto per mantenere una longevità atletica e psicologica così vincente? Sembra scontato, ma le indicazioni sono quelle di sempre, impegnarsi in quello che più piace, condurre una vita sana e dedicare parte della giornata ad una attività fisica, quella che più si addice alle condizioni psicofisiche del soggetto. Ma questi semplici consigli, scontati tra l’altro, non possono bastare per spiegare fenomeni della natura come Giacomo Fedriani, capaci di fare quello che ai più non riesce in tutta una vita, e capaci anche di stupirsi se gli si chiede come sia possibile arrivare a tanto, dichiarando serenamente che non esiste un segreto ma la chiave di tutto è quella di mantenersi impegnati con un’attività che richieda cuore e cervello, perché se è vero che non è possibile evitare il deterioramento dei principali meccanismi bioenergetici per effetto dell’invecchiamento, è anche vero che questo effetto può essere limitato e ritardato con uno stile di vita appropriato, per passare dal concetto di terza età a quello di “Grande età”, un concetto coniato dal Prof. Paolo Cerretelli, illustre cattedratico dell’Università di Milano e di Ginevra, che si sposa perfettamente con figure come quella di Giacomo Fedriani. Stefano Della Casa 43 La “Voce Fiume” dei nonni, un patrimonio da difendere di Umberto Folena Lettori lo siam tutti. Lettori appassionati o pigri, divoratori di pagine o parchi assaggiatori subito sazi. Lettori di gazzette color rosa o rotocalchi con i racconti improbabili dei vip; di romanzoni russi così lunghi e densi che ti fan venire freddo e van 44 letti con lo scialle e la coperta sulle ginocchia; lettori di poesie (e quindi scrittori di poesie, è fatale), lettori di romanzi avventurosi che ti afferrano le viscere e non te le mollano fino all’ultima pagina. Lettori di pagine romantiche che fan scivolare la- crime e sospiri…Lettori, insomma. Lettori silenziosi. Molti siamo, o siamo stati, anche lettori “rumorosi”. Lettori ad alta voce. Per i nostri figli, un tempo. Per i nipoti, oggi. Lettori di fiabe, storie, racconti per bambini. Narratori di storie mai scritte ma tramandate oralmente, o inventate; raccontatori delle proprie “avventure”, perché ai nipoti piace tantissimo sapere che cosa i nonni, e ancor più i genitori, combinavano da piccoli. Il passo avanti è diventare lettori ad alta voce. Professionali…o quasi. Ci sono bambini che non hanno né genitori né nonni che leggano loro ad alta voce; perché non ci sono, perché non hanno tempo, perché (ahinoi) non ne hanno voglia o non lo ritengono importante. I nonni lettori allora si organizzano. Ecco come. Andate nella biblioteca del quartiere, o del paese. Con un po’ di fortuna troverete un gruppo di nonni lettori già esistente e attivo, come una cellula guerrigliera. Con un altro po’ di fortuna troverete una bibliotecaria complice. Se non avete fortuna, la cellula potrete costruirla voi, basta essere in due o tre. I nonni lettori si scambiano idee, libri, impressioni. Fanno progetti. E poi, come ogni cellula guerrigliera, passano all’azione. Si propongono in biblioteca, nelle scuole dell’infanzia. Nei salotti, ai nipoti e ai loro amici. E leggono. Non occorre essere attori, anche se esistono corsi di lettura (attenti però alle fregature). Serve soprattutto divertirsi e commuovere, spaventare, rassicurare. La voce? Non è un problema. Bruno Tognolini, scrittore per bambini (fu tra gli autori della celebre “Melevisione”), nel libro Leggimi forte, scritto con Rita Valentina Meletti, edito da Salani sette anni fa e giunto ormai alla quinta edizione, scrive: “Quando si legge un libro a un bambino, la voce è la storia: dà corpo alla storia, la riempie, come l’acqua riempie il letto del fiume. La voce è la storia come l’acqua è il fiume. È la “Voce Fiume”. È una voce che s’infiltra nella storia e scorre do- cile dentro di lei, gira serena nelle anse delle frasi, frulla nei gorghi delle esclamazioni, si allarga nei laghi delle descrizioni, spumeggia nelle rapide dei dialoghi: insomma, è un bel fiume che va. E attenzione, non sto parlando di “leggere bene”, di dizione corretta e interpretazione brillante: io non ne ero e non ne sono capace. Son stato addirittura balbuziente, e spesso mi accade ancora d’incespicare: passetti di danza… No, la Voce Fiume non ha niente a che fare con la buona dizione. La Voce Fiume è una voce personale, che può ben essere nasale, piatta, chioccia, colorita da cantate dialettali, da erre mosce e vizi e vezzi di pronuncia. Ma è la voce nostra, quella che c’è toccata in sorte, unica e irripetibile”. Organizzatevi, nonni lettori guerriglieri delle parole. Togliete potere alla televisione più sciocca e divertite voi stessi per primi. Spiega Tognolini: “Siamo sempre spettatori… ma con la “scusa” dei bambini, noi adulti possiamo riprenderci un attivo ruolo culturale che altrove ci è negato. Il numero di “spettatori” non conta”. E allora, cari nonni lettori, cominciate. Magari dal vostro libro preferito dell’infanzia. Pinocchio? Anche lui. Scoprite la vostra Voce Fiume. E chiedete consiglio in biblioteca, agli altri nonni, scavate nella vostra memoria. Alla ricerca di chi vi leggeva o raccontava le storie, e della loro magia. Filastrocca dei Nati per Leggere (di Bruno Tognolini) Leggimi subito, leggimi forte Dimmi ogni nome che apre le porte Chiama ogni cosa, così il mondo viene Leggimi tutto, leggimi bene Dimmi la rosa, dammi la rima Leggimi in prosa, leggimi prima. Le favole di oggi Le favole non appartengono soltanto a un’antichità più o meno imprecisata, ma continuano ancora oggi ad essere scritte, oltre che raccontate. Testimonianza evidente sono i tanti libri di fiabe di autori contemporanei che si trovano nelle librerie o, navigando in rete, nei portali che vendono e-book, ovvero libri disponibili su formato digitale. Qualche anno fa, e precisamente nel 2005, è stato pubblicato da Rai-Eri il libro di Fabrizio Luciani dal titolo: “Il mondo dei contrari. Nuove favole per comprendere nuove realtà”. Si tratta di dieci favole nelle quali ogni riferimento alla realtà non è per niente casuale. I fondi ricavati da questa iniziativa contribuiranno alla costruzione, da parte del VIS - Volontariato internazionale per lo Sviluppo, della “Cité des Jeunes” in Burundi. Nel 2012 è uscito invece il libro di Tiziano Solignani dal titolo “9 storie mai raccontate (più una)” (disponibile al momento solo in formato elettronico) che punta a innovare l’universo della fiaba. Le tematiche sono infatti in apparenza quelle tipiche del repertorio fiabesco: buoni sentimenti e azioni positive. Tuttavia, andando a ben guardare, si scorge una certa vena di adulta inquietudine. E’ sempre comunque imprescindibile, ogni volta che si tratta di fiabe, citare la grande raccolta (questa volta tradizionale) di Italo Calvino, dal titolo “Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino”, pubblicata nel 1956. Per chi volesse invece studiare la struttura delle fiabe, rimane necessario il celebre saggio di Vladimir Propp, “Morfologia della fiaba”. 45 Il Cenone” per 4 persone a solo 50 euro di Gian Paolo Galloni Sembrava un’impresa “impossibile” realizzare un “cenone” di 5 portate per 4 persone con un budget di 50 Euro. Tuttavia la richiesta è stata esaudita, e anche con prodotti di qualità. Il menù che ho pensato è così formato: antipasto di salmone, tortellini in brodo, bollito misto con salsa verde, pollo arrosto con patate, panettone e torrone. Vini: prosecco con antipasto e primo, lambrusco con bollito e arrosto, spumante dolce con panettone e torrone. Ecco la lista dei prodotti acquistati nel dicembre scorso in un supermercato 46 Salmone norvegese affumicato gr. 200 Grattuggiato 100gr Sfogliavelo tortellini di vitello 2x125 Mezzo cappone 1 chilo di polpa reale 0,6 kg di biancostato Salsa verde Cotechino 0,8 kg Pollo 0,8 kg di patate Panettone 0,750 kg con spumante Torrone friabile o morbido Prosecco Lambrusco Totale Questi prodotti, tutti di buona qualità, sono acquistabili con gli stessi prezzi in tutte le catene di Supermercati o Iper presenti sul territorio italiano. Alcuni consigli: per cucinare il bollito e avere un ottimo brodo ci vogliono almeno 4 ore. Il biancostato e la polpa reale vanno messi in pentola con acqua fredda, senza aggiungere € 3,09 € 1,09 € 3,04 € 6,64 € 10,65 € 3,90 € 0,60 € 4,78 € 2,66 € 0,70 € 4,48 € 2,58 € 2,89 € 2,87 € 49,97 verdure e sale. Il cappone va aggiunto dopo un paio d’ore. Il brodo va filtrato e va salato secondo gusto. Il prosecco va servito con le tartine di salmone e i tortellini, mentre il lambrusco va bevuto con il bollito e l’arrosto. Lo spumante dolce è l’ideale per accompagnare il panettone (che prima di essere servito va scaldato) e il torrone. 47 Tradizioni, costumi e solidarietà di Stefano Della Casa Le festività natalizie hanno sempre ricoperto un ruolo importante nella cultura italiana, si pensi che nascono addirittura dall’Impero Romano. Diffuse in tutto il paese, anche se con qualche sostanziale differenza fra le diverse Regioni, le tradizioni più conosciute sono incentrate su Babbo Natale, la Befana ed il Presepe. 48 Il presepe, come lo conosciamo oggi, ha origini antichissime e deriva dal culto dei Lari, diffuso fra romani ed Etruschi, ed erano statuine rappresentanti gli antenati posti su un piccolo altare ai quali venivano dedicate preghiere la notte del 20 dicembre. Nei secoli questa usanza divenne sempre più popolare da quando le chiese utilizzarono statue e rappresentazioni religiose al proprio interno, fino al primo presepe vivente che fu realizzato da San Francesco d’Assisi nel 1223, a Greccio. Da allora la rappresentazione del presepe non ha subito cambiamenti sostanziali, se non per le statuine che, in alcuni casi, sono vere e proprie opere d’arte. Altra figura importantissima per gli italiani, equiparabile alla figura di Babbo Natale, è la Befana, che per tradizione arriva la notte dell’epifania (tra il 5 e il 6 gennaio) e porta dolci ai bambini buoni e carbone a quelli che, nell’arco dell’anno, si sono comportati male. La Befana, rappresentata da una vecchia signora che viaggia a bordo di una scopa, viene festeggiata con moltissime iniziative a carattere locale a conferma della sua grande popolarità. Un altro appuntamento del Natale sono i Mer- catini. Nati nelle regioni del nord Italia e principalmente in Alto Adige, i più famosi e conosciuti sono quelli di Bolzano e Merano, oggi sono ormai diffusi in tutta Italia e rappresentano una tappa obbligata per acquistare le decorazioni dell’albero, statuine per il presepe e specialità alimentari per la cena della vigilia che la tradizione vuole che sia a base di pesce o comunque di magro perché la parola vigilia deriva dal latino “veglia”, caratterizzata dal digiuno. Le festività natalizie sono anche un momento di riflessione, religiosa e laica, in cui si moltiplicano le azioni di volontariato ed assistenza nei confronti dei più bisognosi. In ogni parte del nostro paese le associazioni organizzano mercatini, raccolte di fondi ed alimenti o semplici distribuzioni di doni per le persone in difficoltà, basti pensare alla “Bottega del Natale” a Reggio Emilia, che da oltre 30 anni organizza un mercato di articoli natalizi, oggettistica, arredamento e idee regalo per raccogliere fondi a favore delle popolazioni del Centro America, oppure alla distribuzione gratuita dei panettoni alle persone bisognose a Fiumicino, ma di azioni come queste, fortunatamente, se ne possono contare a centinaia in ogni città italiana, basta avere la voglia di trovarle. Prosegue come di consueto la rubrica “Libri e web”, che indica alcune novità editoriali presenti in libreria e alcuni siti nati recentemente sul web. Barbara Constantine “E poi, Paulette...” 2012, Einaudi Romanzo di Barbara Constantine edito da Einaudi. Racconta la storia di un gruppo di persone, alcune molto anziane, altre più giovani, che per un motivo o per l’altro si ritrovano tutte insieme a vivere nella fattoria di Ferdinand, vedovo settantenne, appena “abbandonato” dal figlio, dalla nuora e dai nipoti che si sono trasferiti in paese. Arriverà Marceline, vicina di casa dell’uomo, la cui casa è stata danneggiata durante un temporale. Arriverà Guy, grande amico di Ferdinand, che ha da poco perso la moglie malata. Arriveranno Hortense e Simone, due anziane signore, cognate, che hanno sempre vissuto insieme e che ora sono minacciate dal nipote che vuole metterle in un ricovero. Ma a vivere con loro entrerà anche Muriel, che sta studiando da infermiera e a cui Ferdinand offre vitto e alloggio in cambio di una mano con Hortense. E poco dopo, al gruppo si aggiunge anche Kim, giovane studente scapestrato con la passione per il giardinaggio, che si unirà a Marceline nella cura dell’orto. E non dimentichiamo anche i due gatti, il cane e l’asino, che completano questa grande famiglia. Ognuno dei personaggi ha una storia alle sue spalle, più o meno triste, che a poco a poco viene svelata durante la convivenza. I più anziani aiutano i più giovani a capire la vita, e i più giovani portano una ventata di freschezza e di allegria. Un romanzo lieve ma capace di far riflettere sul significato dell’amicizia e il dialogo tra le generazioni. nuovo. Solo chi ci sta vince. Flavio Pagano “Perdutamente” 2013, Giunti editore. “Quando uno di noi si ammala di Alzheimer, l’esistenza di coloro che gli sono intorno non viene spinta verso gli interrogativi della morte, ma della vita. Perché l’Alzheimer è la malattia che più di ogni altra appartiene alla vita”. Ne possiede tutta la follia, l’energia brutale e misteriosa, l’imprevedibilità. Rende concreta l’immaginazione e dissolve la realtà. Rimescola il tempo”. Flavio Pagano racconta l’Alzheimer di sua madre, e come lui e tutta la famiglia si siano trasformati in “care giver” estremi, capaci di accudirla con fantasia, inoltrandosi anche nell’assurdo. E ridendo, ridendo fino alle lacrime. Con napoletana inclinazione a sceneggiare la vita e a farne teatro dell’assurdo, Flavio Pagano racconta come lui e la sua famiglia si siano dedicati con fantasiosa abnegazione alla madre indementita: decisi ad accudirla attivamente, a stimolarla nelle attività che ancora le erano possibili, giocare a carte, cantare. Stare al gioco dei suoi scambi di persona, delle bizzarre ricostruzioni, dei suoi umori ballerini, dei suoi bisogni mistici. Il libro di Flavio Pagano è un capolavoro di intelligenza del cuore. “Perdutamente”, s’intitola, ed è già grandioso. Non c’è avverbio più dolce, nell’amarezza. Si ama perdutamente, ed è questo che accade se riesci a capire che il malato di Alzheimer non è malato: è un rifugiato. Un folle, forse. Un visionario. Uno che ha “deciso” che della vita ne ha avuto abbastanza. De hoc satis. E allora lanciamo in aria le carte, scombiniamo tutto, giochiamo a un gioco Cristiana Ottaviano “Ri-nascere: nonni e nonne domani. Legami intergenerazionali nella società complessa” 2012, Liguori editore. In una visione ampia del benessere delle generazioni meno giovani, una particolare attenzione merita l’esperienza della “nonnità”. Il legame intergenerazionale nonni/nipoti offre infatti prospettive interessanti anche dal punto di vista dell’invecchiamento attivo. Il contatto con l’infanzia, l’assunzione di responsabilità educativa e/o di cura, accompagnare la crescita evolutiva dei bambini e delle bambine, improvvisare creativamente situazioni e soluzioni che i minori richiedono, non può che rivitalizzare l’esistenza quotidiana di un anziano e consegnargli possibilità di futuro. Da una ricerca sul campo emerge che si sta affacciando una nuova generazione di nonni/e: fortunati perché in buona salute, con pensioni sicure, tempo a disposizione, ma soprattutto perché sono stati giovani in un tempo di grandi trasformazioni culturali, di movimenti, sogni, utopie e con un acceso desiderio di cambiare il mondo. A loro la sfida di inventare un nuovo modo di essere nonni e divenire adulti significativi per le nuove generazioni, anche per poter aiutare genitori che in questo clima socio-economico di sfiducia e paura si sentono spesso in difficoltà. 49 Michele Serra “Gli sdraiati” 2013, Feltrinelli editore. Loro ci sono. Loro sono di là. O forse sono altrove. Se li chiami, c’è anche il rischio che rispondano. Ma con che risultato? Loro sono riconoscibilissimi, ma chi li ha visti crescere teme sempre che possano essere stati sostituiti. Inquietanti o inquieti? Loro passano gran parte del tempo in una posizione orizzontale, che non è necessariamente quella del sonno. Ma certamente dormono quando gran parte del mondo è sveglia. Loro sono gli adolescenti, anzi i figli adolescenti. Così se li immagina Michele Serra: sdraiati. Gli sdraiati fanno paura, fanno tenerezza, fanno incazzare. Eppure, se interrogati, a volte sorprendono per intelligenza, buon senso, pertinenza. E allora? Bisogna raccontarli, guardarli, spiarli. Cosa che Michele Serra fa con l’ansia del padre, con lo spirito del moralista, con l’acutezza del comico. Gli sdraiati è un romanzo, un saggio, un’avventura. Ed è anche il “monumento” a una lunga generazione che si è allungata orizzontalmente nel mondo, nella società, e forse da quella posizione sta riuscendo a vedere cose che gli “eretti” non vedono più, non vedono ancora, hanno smesso di vedere. Luis Sepùlveda “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza” 2013, Feltrinelli editore. 50 Luis Sepùlveda ha saputo creare storie che hanno la grazia delle fiabe e la forza delle parabole, storie apparentemente semplici che trattano temi importanti con un linguaggio e dei personaggi capaci di coinvolgere i lettori più piccoli e di parlare al cuore e alla mente anche di quelli più grandi. Così è stato per “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, che ha raccontato l’amore per la natura, la generosità disinteressata e la solidarietà, anche fra “diversi”, e per la sua seconda favola, “Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico”, un’altra commovente e tenera storia di amicizia nella differenza. Ora un nuovo “animale” entra nella galleria personale del grande scrittore cileno, una lumaca che, in un mondo che ha perso la dimensione del tempo, in una società dominata dalla velocità e dall’ansia, insegnerà a riscoprire il valore della lentezza, a ristabilire uno spazio per la riflessione, a creare la dimensione in cui apprezzare nuovamente le persone e le cose che ci stanno attorno. www.saporigourmet.it paypal, assolutamente sicuri perchè tutti i dati verranno trasmessi tramite connessioni protette. www.giardininelmondo.it Da un vecchio sito amatoriale, nasce www.giardininelmondo.it, il nuovo sito dedicato agli appassionati del giardino di tutto il mondo. Se la cura di prati e giardini un tempo era dedicata ai professionisti del verde, oggi la passione per il verde e la natura spinge migliaia di appassionati a prendersi cura del proprio giardino. 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Basta el ta illumin to dell’anti come la s is n a ca im it Apostrofo s e n s lc fi e o p in d netti, bbia al ri un’im ati di ogni uido Cero iando sui cadave fio, dalla ra d G o n o a d it n ec o lasc e soll mo. Sec arbonio, to (dall’Orogni gener Ottimis . Uffici di ssido di c po certifica o. o o ia l’ z sc a e r ro c m o o l’ o r c Bu ieste: belic uccide ssime rich uo internza dell’om rché, al s genere. Pro spici) e la circonfere e nta rosa. p ro à s p is h C Aru è gentile. Verbo che dine degli almente re comico. rm o o tt N a a , . a m a , z zz o zio Cro n attim Pruden de”. teggerle . Da Mauri o ridere”. Almeno u utile pro viamo “ru o in Crozzare d tr n è o , ce n a fa n ozzare rima. a capri significa “c . Meglio p no di lan o ra s o o iv d d n a le . oi a ni. Qu gari amaro prima o p ; il populist Questio bro e il Il tempo, n la pancia i. co a id rl ic a p a il maca rm o u tr ta q o o n il n o tr c g e en p e. Il v bara”. Im Differenz o dritta la no. la gente). m el e (d rr o a e n ci o n “T d a . alla p , capita se: ci ca Refuso ncerta e”. Barra ice alle inte rr d d “e a a si ll ana, nell’i n e li o d n ta o e ’i lt in ll a a s , rm cciata ge. Il te te e pasti Extra lar ”. onvolgen c s ese “choc c a o n s s a er o . fr st c o u S il a . l’ e k , ” dentr o k io ll c c a o S camee “sh te un b dalle tele ega l’ingles biziosa. tr rgo, duran ta m a u a ra b lt i o d e a c a tr ss s u ie a q P ard , in San gazza freccia. D i dissente Klatura, ra klatura. Fabula. A ire come ccia di ch in moglie l’arco. lp fa o en n a se c o m L ie c e o . v ch N e w ro a d o Nomen ione e ti alk sh rsario, te famigli z e T n a v te v it o c a p l’ re a la i sì id reto, e parl Nacque co omati cors re mentr da, per dec etoscano liabili rin ig ica doman s m ss n i a o d cl C zi n eremo . a a u L re sp ? ia li in ”. g g to a o ta n li a g sba ritrov e è inutile uanti so Giusto o fferma ch rgamena est’altra: q o a e u n q p a u a s s a d o s L c e a it a . u tile nde un inese: “N c re p a viene sostit z m tile/inu z o e U c g g n a : “Chi no lenaria s le si legdiazione? sentenzia echeggia una mil nde giorna ra g n la u ri e i d e le”. pagina tico. Fors Frase ch he dodell’inuti ulla prima stro linguis grafico, c all’aue l’utilità o c ta s n es o Horror. S ontroversialità”. Mo g e n ig s o d l c in e neologi“c qui) d , molto ppure ai lumore. o (anche O a e era molto ge la parola . iv n m s li o i s a ti. d ti e c tu es to c s u e q a in momen . Uso ammoscia zioni te controversi tutto in un vocaboli irgolette riservato alle cita re o V lt n O a . g lo ro o ic otte d sere tore dell’art nche al curi vrebbe es . A volte, le virgole e. Grazie a li a g v o v ro e p im in ” le ult smi . ziali “uau Fa cadere re. i…stabilità Inverno. adolescen virgoletta ella legge d o S d n o to tt en e m gia eti em so favoreg ssante e in i rottama ire. o anche di un ince s s a rinverd to e o ta d n n A o ta . sc iu w o a o tt n ti fe o W ef n l’ i complica Dices a. Però dei suoi Logorìo. meravigli i o a d n n u u i d in . o rìo elle l doss sibisce sperto lavo in abuso n davanti a ader si e e le to m za il o iz o g C d . lo eo diuan tare torico o id uantità di Zelig. Q no rallen e. Tritume re una gran q è opportu icolare attenzion re a i, s ss s la o g d Melassa. er ra p a rt a p e p es e ch d ti poli e richie cucine del strada ch i. 51 rs sco
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