Untitled - RCS Libri

Armando Prieto Pèrez
Tutte le volte che vuoi
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07479-7
Prima edizione: maggio 2014
Tutte le volte che vuoi
Preliminari
Il profumo fa la differenza. Conosci una donna bellissi­
ma, sensuale, disponibile. Ti avvicini, muovi l’aria accanto a
lei, forse persino la baci. Ma finisce lì: era sbagliato il profu­
mo. Non sgradevole, o troppo forte, semplicemente sbaglia­
to. Come una nota fuori posto in un accordo, quello di due
corpi, che richiede soprattutto armonia.
Può succedere anche il contrario. Questa donna, quando
l’ho incontrata, non l’ho nemmeno guardata due volte. Poi si
è avvicinata per i convenevoli. E ho sentito il suo profumo.
Non sono il tipo che si perde in convenevoli.
È sul mio letto, braccia e gambe divaricate, legata per le
caviglie alle due gambe del letto e per i polsi alla testiera.
L’ho intagliata io stesso, questa testiera di un bel legno mas­
siccio, ai lati due donne nude scolpite in pose provocanti
rappresentano la Temperanza e la Castità... Nella mia per­
sonale interpretazione, naturalmente. Attorno alla vita del­
le due dee ho legato i lacci di seta rossa che stringono i polsi
della donna sdraiata sotto di me.
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«Ti prego, basta...» geme.
Non rispondo. Sto lavorando con il pennello, un pennel­
lo medio intinto in una miscela di oli aromatici: gelsomino,
patchouli e salvia, dal potere afrodisiaco garantito. Ho co­
minciato dai punti più sensibili del collo, poi sono sceso sui
seni, intorno ai capezzoli, sui fianchi, sull’ombelico. Quando
ho raggiunto il ventre l’olio si è mescolato con l’odore della
sua pelle.
Il profumo, la tensione delle sue membra imprigionate,
la dolce tortura del pennello. Dipingo il suo piacere a bre­
vi tocchi, facendola impazzire: si agita, solleva i fianchi, le
sue braccia tendono le corde. Ma i nodi che io stringo non
si sciolgono. Aumento la velocità con colpi abili del polso, la
sento ansimare, poi viene con un grido, il corpo inarcato, le
dita dei piedi contratte.
Allungo una mano sul comodino, afferro la bottiglia di rum
e prendo un sorso, poi incollo la bocca alla sua, mi sdraio
sopra di lei facendole sentire il caldo del liquore e del mio
corpo. Una donna desiderata è come un foglio bianco: incu­
te lo stesso timore, promette lo stesso piacere. Va scoperta e
poi presa. Bisogna ascoltarla, ma non chiederle il permesso.
Lanciarsi nella conquista, rinunciando però a ogni aspettati­
va: perché allora sentono la paura, la mancanza di libertà, l’at­
taccamento meschino. E fuggono.
Ma non da me.
Continuando a baciarla mi sollevo su di lei, le accarezzo
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il clitoride con la punta del mio membro, trattenendomi, ri­
fiutandole quello che chiede. Ha gli occhi pieni di lacrime di
frustrazione.
«Luis, ti prego...»
«Chiudi gli occhi.»
Obbedisce. Rimango immobile, sopra di lei. Fa per ria­
prirli.
«Tienili chiusi!» ruggisco. Si morde il labbro inferiore, de­
glutisce, completamente in mio potere.
Entro in lei fino in fondo con un colpo secco, sussulta per
la ferocia dell’assalto, le sfugge un mugolio. Poi un altro e un
altro, mentre il ritmo aumenta e il piacere sale, fino a che vie­
ne di nuovo, gridando.
«E ora» sussurro, «ricominciamo.»
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Un colpo secco fa traballare il tavolo. Afferro la mia pin­
ta di birra prima che si rovesci sul blocco di appunti. Alzo
gli occhi.
«Scusa, eh.» Il colosso rapato mi fa un sorriso ebbro, con­
tinuando a ondeggiare. Se si schianta da questa parte sono
finito, peserà centoventi chili. Lo fisso cercando di comuni­
cargli stabilità. Si ritrae appena, come se una mano invisibile
lo avesse preso per la collottola e spostato, e si allontana mal­
fermo verso il bancone, lasciandosi dietro una scia di piedi
pestati e bicchieri rovesciati.
«Ehi, guarda dove vai!»
«Ah! Attento con quella birra!»
«Non è colpa mia, mi è venuto addosso quello!»
Seguo l’avanzata del colosso con un certo divertimento.
Mi domando se davvero si fermerà al bancone o se ci si ri­
balterà sopra, senza riuscire a frenare. Leo mi chiede sempre
come faccio a studiare per il mio lavoro proprio al Birrificio
Lambrate, in mezzo a tutto questo casino, ma è proprio per
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via del casino che vengo qui. Ho cominciato quando abita­
vamo da queste parti, in via Desiderio. Scendevo verso sera,
con il mio blocco di appunti o i testi da leggere, e mi met­
tevo all’opera sulla sceneggiatura del mio ultimo documen­
tario, mentre intorno a me la serata si scaldava. Anche ora
che abito dall’altra parte di Milano mi piace ritornarci, ogni
tanto, mi ricorda i vecchi tempi. E anche ora, quando entro,
stranamente c’è quasi sempre un tavolo libero, come se mi
stesse aspettando.
Il colosso calvo si è schiantato contro il bancone, sbara­
gliando la concorrenza degli altri avventori che si accalcano
per una birra. Due ragazze sedute sugli sgabelli si ritraggono
per non essere investite.
Mica male, quella di destra.
Ha appoggiato un piede a terra per spostare lo sgabello
più vicino a quello della sua amica, e più lontano dal colos­
so. Lo spacco della gonna, lunga e scura, si è aperto rivelan­
do un bel pezzo di gamba, i muscoli della coscia in tensione
mentre tira in avanti il sedile. Si riaccomoda, e seguo la curva
del fianco che si rilassa, morbido, poi salgo con lo sguardo ai
capelli che finiscono in boccoli sinuosi a metà schiena, lucidi
e bruni. Le tempie. Gli zigomi alti, marcati. La bocca rossa.
Tutto in lei mostra la donna a proprio agio con il suo cor­
po. La sicurezza le cola addosso come un fluido sulla pelle
ambrata, sulla camicetta arancione bruciato con tre bottoni
aperti, sulla gonna nera, sui piedi calzati in un paio di sanda­
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li dorati con la zeppa. Sembra una zingara, pronta a metter­
si a danzare. La guardo gesticolare con mani dalle dita lun­
ghe, rivolta alla sua amica. Di sicuro sta raccontando qualche
aneddoto. L’altra l’ascolta intenta, rigida sullo sgabello e un
po’ curva in avanti, le gambe unite come una scolaretta, una
mano infilata tra le cosce fasciate dai jeans, l’altra che pende
floscia dal bancone su cui ha appoggiato il gomito.
La vitalità e l’apatia, penso, immaginandole trasformate in
un quadro allegorico. La turgida Estate e il mite Autunno.
Poi, mentre le osservo intrigato, l’aneddoto finisce e Au­
tunno mi sorprende. Ride, a piena gola. La testa coronata di
corti capelli castani si tuffa all’indietro, in un gesto di com­
pleto abbandono, e dalla fronte alle guance tirate nel sorri­
so, al piccolo mento, al collo esposto, il suo profilo diventa
un unico, perfetto arco di grazia. Un attimo, ed è Primavera.
Ma è solo un attimo. Poi si spegne.
Intanto, Estate si volta nella mia direzione, incrocia i miei
occhi, e tutta la conversazione delle ore che ci separano
dall’alba passa fra di noi in meno di un secondo.
È sempre così, quando incontro qualcuna in un bar. O la
connessione è immediata, e so esattamente che ci sarà un con­
tatto, oppure è meglio lasciar perdere. Non mi piace sprecare
tempo. Vogliamo tutti e due passare una bella serata, e allora
perché buttare energie in strategie, complimenti e mossette?
Meglio andare dritti alla meta. Nessuna si è mai lamentata.
Chiudo il blocco per gli appunti, infilo la penna nella spi­
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