CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia 1 CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia [Questo] è un momento in cui gli studiosi di macroeconomia si concentrano su nuove ipotesi riguardo i meccanismi che governano l’economia, e sono alla ricerca di un nuovo paradigma [...]. Il pluralismo è preferibile e comunque ricorrenti esplosioni di pluralismo sono inevitabili. Edmund S. Phelps, Seven Schools of Macroeconomic Thought Di fronte ai problemi reali che caratterizzano il mondo contemporaneo le chiavi interpretative, e i rimedi proposti, dagli economisti spesso divergono in modo sostanziale. Alcuni propongono di ridurre il disavanzo pubblico, mentre altri sostengono le necessità di tagli alle imposte per incentivare la crescita a lungo termine. Alcuni vogliono che lo Stato assuma un ruolo più attivo nella gestione dell’economia, mentre altri ritengono che sia preferibile uno “Stato minimo”. Ma guardando al di là degli argomenti oggetto di controversie, vedrete che esistono alcune questioni ricorrenti che vedono contrapposte le singole scuole: una è quella relativa alle diverse opinioni sui modi di determinare la domanda aggregata; un’altra riguarda il ruolo della flessibilità dei prezzi; un’altra ancora si occupa di come gli individui si creano delle aspettative e prendono decisioni. In questo manuale abbiamo seguito la strategia di prendere in considerazione le principali scuole di pensiero economico. Tendiamo a sottolineare che il metodo keynesiano convenzionale fornisce la miglior spiegazione del ciclo economico nelle economie di mercato, ma si comprendono meglio le forze alla base della crescita economica utilizzando il modello neoclassico. Anche se il nostro compito principale è quello di presentare il pensiero economico tradizionale, l’esperienza insegna quanto sia importante essere aperti a punti di vista alternativi. Gli storici hanno messo in evidenza la discontinuità del progresso scientifico. Possono sorgere nuove scuole di pensiero che allargano la propria influenza affermandosi anche tra i più scettici oppositori. 33.1 La scuola classica e la rivoluzione keynesiana 33.1.1 La tradizione classica Fin dagli albori della scienza economica una delle più laceranti controversie riguarda la capacità del sistema economico a procedere spontaneamente verso un equilibrio di lungo periodo con piena occupazione senza il bisogno dell’intervento pubblico. In termini moderni sono riconducibili all’economia classica tutti quegli approcci che sottolineano la forte capacità dell’economia di autocorreggersi grazie alla presenza di prezzi e salari flessibili. Nella discussione che segue utilizzeremo l’analisi della domanda e dell’offerta aggregata per spiegare i fondamenti scientifici e le implicazioni in termini di politiche economiche dell’approccio classico alla macroeconomia. La legge di Say o degli sbocchi Prima che Keynes elaborasse la sua teoria macroeconomica, i maggiori pensatori economici in genere seguivano la visione classica dell’economia, almeno nei periodi favorevoli. I primi economisti erano affascinati dalla Rivoluzione Industriale con la divisione del lavoro, l’accumulazione del capitale e il crescente commercio internazionale; conoscevano i cicli economici, ma li consideravano aberrazioni temporanee capaci di correggersi da sé. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche L’analisi classica era imperniata sulla legge di Say o degli sbocchi. Questa teoria, proposta nel 1803 dall’economista francese J.B. Say, afferma che la sovrapproduzione è impossibile per sua stessa natura. Oggi il concetto viene a volte formulato nei seguenti termini: “l’offerta crea la propria domanda”. Secondo il fondamento logico della legge di Say non vi sono differenze sostanziali tra un’economia monetaria e una fondata sullo scambio e, qualsiasi cosa producano le industrie, i lavoratori possono permettersi di acquistarla. Una lunga serie di eminenti economisti, compresi David Ricardo (1817), John Stuart Mill (1848) e Alfred Marshall (1890), ha condiviso la visione macroeconomica classica secondo cui la sovrapproduzione è impossibile. Il punto di vista classico è stato delineato chiaramente dal grande economista britannico A.C. Pigou, che durante la Grande Depressione scrisse: “Con una concorrenza assolutamente libera ci sarà sempre una forte tendenza alla piena occupazione. In qualsiasi momento, la disoccupazione esistente è dovuta interamente a resistenze frizionali [che] impediscono l’istantanea attuazione degli opportuni adeguamenti dei prezzi e dei salari”. Secondo la teoria classica è necessario che i prezzi e i salari siano abbastanza flessibili perché i mercati ritornino in equilibrio molto rapidamente, perciò l’economia opera sempre in condizioni di piena occupazione. Il nucleo centrale, valido e duraturo, della legge di Say e dell’approccio classico è illustrato nella Figura 33.1, che rappresenta un’economia in cui i prezzi e i salari reali vengono determinati in mercati concorrenziali, salendo o scendendo in modo flessibile per eliminare qualsiasi eccesso di domanda o offerta. In base allo schema DA-OA questo tipo di economia può essere descritto mediante una normale curva della domanda aggregata con pendenza decrescente insieme a un diagramma verticale dell’offerta aggregata. Supponete che la domanda aggregata diminuisca in seguito a una stretta creditizia o ad altre forze esogene. Di conseguenza la curva DA si sposta verso sinistra in DA⬘ come nella Figura 33.1. Al prezzo originario P, la spesa totale scenderebbe al punto B. In seguito all’eccedenza di offerta, il livello globale dei prezzi scenderebbe da P a P⬘. Quando il livello dei prezzi è calato, la piena occupazione viene ristabilita nel punto C. P OA Prodotto potenziale Livello dei prezzi 2 P B A E⬘⬘ P⬘ DA C DA⬘ Q Q = Q⬘ = Q p Prodotto reale Figura 33.1 Secondo la legge di Say, l’offerta crea la propria domanda mentre i prezzi variano per equilibrare la domanda e l’offerta aggregata. Gli economisti classici ritenevano che non si potessero verificare lunghi periodi di sovrapproduzione. Se DA o OA si fossero spostate, i prezzi avrebbero reagito con flessibilità per assicurare che il prodotto di piena occupazione fosse venduto. Qui si vede come l’intrinseca flessibilità assicuri che i prezzi stessi scendano quanto basta per bilanciare le spese reali, in condizioni di prodotto di piena occupazione, dopo una diminuzione della domanda aggregata. Secondo la visione classica, variazioni della domanda aggregata incidono sul livello dei prezzi, ma non hanno un effetto duraturo sul prodotto e sull’occupazione: la flessibilità dei prezzi e dei salari assicura che il livello reale della spesa sia sufficiente a mantenere la piena occupazione. Conseguenze in termini di politica economica La teoria classica presenta due conclusioni che sono di importanza vitale per la politica economica: innanzitutto l’economia ha solo intervalli brevi e temporanei in cui non sussistono la piena occupazione e la piena utilizzazione della capacità produttiva; non vi sono lunghe e protratte recessioni e depressioni e i lavoratori qualificati possono trovare impiego velocemente al salario corrente di mercato. Questo non significa che l’economia classica sia un paradiso in cui vige la concorrenza perfetta senza attriti. Si può infatti notare la disoccupazione frizionale di individui che passano da un lavoro all’altro o quella strutturale dei lavoratori sindacalizzati che hanno concordato salari al di sopra del tasso di equilibrio. Il potere di merca- P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia to può produrre sprechi a livello microeconomico, distorsioni e inefficienze. Ma nella visione classica un’economia non presenta sprechi diffusi e persistenti a livello macroeconomico, nel senso di risorse sottoutilizzate dovute all’insufficiente domanda aggregata. Il secondo elemento della teoria classica risulta ancora più notevole: le politiche macroeconomiche relative alla domanda aggregata non possono influenzare il livello di disoccupazione e di prodotto reale, mentre le politiche monetarie e fiscali possono incidere sul livello dei prezzi di un’economia, nonché sulla composizione del PIL reale. Questo secondo principio classico è illustrato chiaramente nella Figura 33.1. Considerate un’economia che si trovi in equilibrio nel punto A. Supponete che la Banca Centrale decida di contrarre l’offerta di moneta per ridurre l’inflazione. Per un breve momento, al livello iniziale dei prezzi P, vi sarà un eccesso di offerta, ma a mano a mano che i prezzi e i salari cominciano rapidamente a subire la pressione dell’offerta in eccesso, l’economia si sposta verso il nuovo equilibrio nel punto C. La politica economica restrittiva ha avuto l’effetto netto di ridurre il livello generale dei prezzi, ma il costo in termini di prodotto è stato trascurabile e la disoccupazione non è aumentata, perché la flessibilità dei prezzi e dei salari ha assicurato un passaggio senza scosse dal vecchio al nuovo equilibrio. Al centro della visione classica vi è la convinzione che i prezzi e i salari siano flessibili e che tale flessibilità fornisca un meccanismo di autocorrezione che ripristina rapidamente la piena occupazione e mantiene sempre il prodotto al livello potenziale. Quest’approccio è ben presente negli scritti della “nuova scuola classica”, che sarà esaminata in seguito in questo Capitolo. Gli economisti della nuova scuola classica fondano le loro convinzioni sui moderni sviluppi teorici, tenendo conto dell’informazione imperfetta, dell’esistenza di shock tecnologici e di frizioni derivanti da trasferimenti delle risorse da un settore all’altro: benché vestano panni moderni, le loro conclusioni in termini di politica economica sono strettamente connesse alle idee degli economisti classici del passato. 33.1.2 La rivoluzione keynesiana Mentre gli economisti classici predicavano che la disoccupazione persistente era impossibile, gli economisti degli anni ’30 difficilmente potevano ignorare il grande esercito di disoccupati che imploravano un posto di lavoro e vendevano matite agli angoli 3 delle strade. Come poteva l’economia spiegare tale massiccia e persistente disoccupazione? La General Theory of Employment, Interest and Money (1936) di Keynes fornì una teoria macroeconomica alternativa, un nuovo paio di “lenti” attraverso le quali osservare l’effetto delle politiche economiche nonché degli shock esterni. In effetti la rivoluzione keynesiana unì due elementi diversi: innanzitutto Keynes presentò il concetto di domanda aggregata, che è stato vagliato in modo approfondito nei Capitoli precedenti; poi, una seconda caratteristica ugualmente rivoluzionaria fu la teoria dell’offerta aggregata. Mentre nell’approccio classico si presupponevano prezzi e salari flessibili che determinavano implicitamente una curva OA verticale, il modello keynesiano insisteva sulla rigidità dei prezzi e dei salari e su una curva OA piatta o con pendenza crescente. Secondo l’approccio keynesiano l’offerta non crea la propria domanda e il prodotto può quindi divergere dal livello potenziale per periodi indefinitamente lunghi. Le sorprendenti conseguenze Combinando questi due nuovi elementi, Keynes determinò una vera rivoluzione nella macroeconomia; la sua essenziale argomentazione è illustrata nella Figura 33.2, che unisce una curva della domanda aggregata con una curva keynesiana dell’offerta aggregata con pendenza crescente. Secondo la prima osservazione di Keynes una moderna economia di mercato può essere intrappolata in un equilibrio di sottoccupazione, un equilibrio, cioè, di domanda e offerta aggregata nel quale il prodotto è ben al di sotto del livello potenziale e una porzione cospicua della forza lavoro è involontariamente disoccupata. Se, per esempio, la curva DA interseca quella OA all’estrema sinistra, come illustra il punto A, il prodotto di equilibrio può trovarsi ben al di sotto del livello potenziale. Keynes e i suoi seguaci sottolinearono che a causa della rigidità dei prezzi e dei salari non esiste meccanismo economico per ripristinare velocemente la piena occupazione e assicurare che l’economia produca alla piena capacità. Una Nazione potrebbe rimanere a lungo in condizioni di bassa produzione e grande miseria, in quanto non esistono né un meccanismo di autocorrezione né una mano invisibile che riportino l’economia alla piena occupazione. La seconda osservazione di Keynes discende dalla prima: mediante le politiche monetarie e fiscali lo Stato può stimolare l’economia e contribuire a mantenere livelli elevati di prodotto e oc- P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 4 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche Livello dei prezzi 33.1.3 Teorie e politica economica Prodotto potenziale OA P B OA A DA’ DA Q Q Q’ Prodotto reale Q p Figura 33.2 Nel modello keynesiano la domanda aggregata determina il prodotto. Nel modello keynesiano l’offerta aggregata ha pendenza crescente: ciò implica che, in presenza di una maggiore domanda aggregata, il prodotto aumenterà fino a quando vi sono risorse inutilizzate. Quando DA è depressa, il prodotto sarà in equilibrio nel punto A con elevata disoccupazione. Se la domanda aggregata sale da DA a DA’ il livello del prodotto reale aumenta da A a B, mentre anche i prezzi crescono. I keynesiani sottolineano che la stimolazione della domanda aggregata può riuscire ad aumentare il prodotto e l’occupazione. cupazione. Se, per esempio, dovesse aumentare la spesa pubblica, la domanda aggregata salirebbe, poniamo, da DA a DA⬘ nella Figura 33.2: l’effetto sarebbe un aumento del prodotto da Q a Q⬘, che riduce il divario tra PIL effettivo e potenziale. L’analisi di Keynes determinò una rivoluzione nella macroeconomia, soprattutto tra i giovani economisti che attraversarono la Grande Depressione degli anni ’30 ed ebbero la sensazione che vi fosse qualcosa di inapplicabile ed errato nel modello classico. Naturalmente la Grande Depressione non fu il primo evento che rivelò l’insostenibilità della sintesi classica: chiunque avrebbe potuto vedere anche con un occhio solo che vi era una massiccia disoccupazione involontaria durante le depressioni, ma per la prima volta l’approccio classico fu messo a confronto con un’analisi alternativa. Il metodo keynesiano presentava una nuova sintesi che investì l’economia e cambiò in modo sostanziale la visione dei cicli economici e della politica economica da parte degli economisti e delle Pubbliche Amministrazioni. In economia ciò che si vede dipende dalle “lenti” che si usano. Un capo di Stato o di governo, un senatore o un macroeconomista propendono per una visione classica o keynesiana? La risposta a questa domanda spesso spiegherà il modo di vedere della persona su molte delle principali controversie di politica economica. Gli esempi sono innumerevoli: gli economisti che propendono per la visione classica spesso saranno scettici sulla necessità di interventi pubblici tesi a stabilizzare i cicli economici, in quanto sostengono che una politica economica volta ad aumentare la domanda aggregata porterà invece alla crescita dell’inflazione. Quel che è peggio è che, secondo il loro punto di vista, i rimedi keynesiani rallentano la crescita economica di lungo periodo. Gli economisti che si ispirano alla dottrina classica tendono a preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine delle azioni pubbliche sugli investimenti e sulla crescita economica. Per esempio, secondo la visione classica i deficit pubblici possono spiazzare gli investimenti privati e una maggiore spesa pubblica per la sanità e la previdenza sociale distoglierà risorse dal consumo e dagli investimenti privati in fabbriche e macchinari. Gli economisti keynesiani assumono una posizione diversa, ritenendo che la macroeconomia tenda a cicli economici prolungati, con periodi alterni di elevata disoccupazione seguiti da speculazione e inflazione. Se l’economista classico si immagina l’economia come un uomo temperante che ha bisogno di un bicchiere d’acqua e di vitamine tutti i giorni, il keynesiano se la può raffigurare come un uomo che periodicamente eccede nel bere e in seguito deve smaltire i postumi della sbornia; in effetti un presidente della Federal Reserve disse che il ruolo di questa istituzione era di portare via gli alcolici appena la festa cominciava ad animarsi. I keynesiani ritengono che lo Stato possa incidere sull’attività economica reale prendendo misure monetarie o fiscali per variare la domanda aggregata. Un economista keynesiano moderno approverebbe le misure prese per ridurre la domanda aggregata quando sale l’inflazione o per aumentarla durante le recessioni. Negli Stati Uniti i keynesiani tendono sempre più a utilizzare la politica monetaria per stabilizzare i cicli economici, ma sostengono anche l’importanza di stabilizzatori fiscali automatici che riducano l’effetto di moltiplicatore di shock imprevisti e si scagliano violentemente contro misure (come l’emendamento costituzionale che esige un P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia budget equilibrato) che fanno sì che la politica fiscale amplifichi le oscillazioni del ciclo economico. Il dibattito tra economisti keynesiani e classici ruota sostanzialmente intorno alla capacità dell’economia di autocorreggersi grazie a forze che agiscono su salari e prezzi flessibili contribuendo a mantenere la piena occupazione. 5 In generale i metodi classici mettono in rilievo la crescita economica di lungo periodo e rinunciano a politiche di stabilizzazione dei cicli economici. Gli economisti keynesiani desiderano invece integrare le politiche di crescita con interventi monetari e fiscali appropriati per contenere le oscillazioni più estreme dei cicli economici. 33.2 La scuola monetarista L’inflazione è, sempre e ovunque, un fenomeno monetario, nel senso che è e può essere prodotta solo da un aumento più rapido della quantità di moneta rispetto al prodotto. Milton Friedman, The New Palgrave Dictionary of Economics 33.2.1 Le origini del monetarismo I sistemi finanziari e monetari non possono gestirsi da soli. Governo e Banca Centrale, devono prendere decisioni fondamentali per definire lo standard monetario, determinare l’offerta di moneta, fissare le norme di cambio, gestire i flussi finanziari internazionali e stabilire agevolazioni o restrizioni monetarie e creditizie. Oggi vi sono molte filosofie diverse sul modo migliore di gestire la politica monetaria: alcuni sostengono una politica attiva, che operi in direzione opposta a quella verso cui “spira il vento” rallentando la crescita della moneta quando l’inflazione minaccia l’economia e viceversa; altri sono scettici sulla capacità dei responsabili politici di usare la politica monetaria per “regolare con precisione” l’economia. All’altra estremità dello spettro vi sono i monetaristi, i quali ritengono che la politica monetaria discrezionale dovrebbe essere sostituita da una norma fissa. Il monetarismo può essere compreso meglio se si individuano innanzitutto le sue origini nella teoria quantitativa della moneta e dei prezzi (di solito definita semplicemente teoria quantitativa della moneta); si vedrà allora che ha stretti legami sia con il modello classico sia con quello keynesiano. Il monetarismo afferma che l’offerta di moneta è il principale fattore che determina le fluttuazioni di breve periodo del PIL nominale e quelle di lungo periodo dei prezzi. Naturalmente anche la macroeconomia keynesiana riconosce il ruolo fondamentale della moneta nella determinazione della domanda aggregata. La principale differenza tra i monetaristi e gli altri economisti sta nell’approccio alla determinazione della domanda aggregata: mentre le teorie keynesiane sostengono che molte forze diverse incidono sulla domanda aggregata, i monetaristi affermano che le fluttuazioni dell’offerta di moneta sono il principale fattore che determina le variazioni del prodotto e dei prezzi. Per comprendere il monetarismo è necessario introdurre una nuova equazione (l’equazione di scambio), un nuovo concetto (la velocità di circolazione della moneta) e descrivere un nuovo rapporto (la teoria quantitativa della moneta). L’equazione di scambio e la velocità di circolazione della moneta A volte la moneta si muove molto lentamente, rimane nei salvadanai o nei conti bancari per lunghi periodi tra una transazione e l’altra. In altri periodi, soprattutto in tempi di rapida inflazione, i cittadini si liberano velocemente del denaro e la moneta circola rapidamente di mano in mano. La rapidità di movimento della moneta viene descritta in modo più preciso dal concetto di velocità di circolazione della moneta, che fu introdotto a cavallo del XIX secolo da Alfred Marshall dell’Università di Cambridge e da Irving Fischer dell’Università di Yale, e misura quante volte in media il denaro che rientra nell’offerta di moneta viene speso per beni e servizi ogni anno. Quando la quantità di moneta è notevole rispetto al flusso di spese, la velocità di circolazione è bassa; quando la moneta si muove rapidamente, la velocità è elevata. Il concetto di velocità viene introdotto formalmente nell’equazione di scambio, la quale stabilisce che: MV ⬅ PQ ⬅ (p1q1 + p2q2 + …) P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 6 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche dove M è l’offerta di moneta, V la velocità di circolazione della moneta, P il livello dei prezzi e Q il prodotto reale. Questa equazione, divisa per M, può essere riformulata come definizione della velocità di circolazione della moneta: PQ V ⬅ ––– M In generale si misura PQ come reddito o prodotto totale, PIL, e il concetto connesso di velocità è la velocità di circolazione della moneta. La velocità è il tasso al quale la moneta circola nell’economia. La velocità di circolazione della moneta si misura come rapporto tra il PIL nominale e la quantità di moneta1. La velocità di circolazione della moneta può essere definita intuitivamente come la rapidità alla quale il denaro passa di mano in mano nell’economia. Per fare un esempio elementare, supponete che l’economia produca solo pane e che il PIL consista in 48 milioni di filoni di pane che si vendono al prezzo di 1 euro cadauno, per cui il PIL = PQ = 48 milioni di euro all’anno. Se l’offerta di moneta è 4 milioni di euro, allora per definizione V = 48 milioni/4 milioni di euro = 12 all’anno; questo significa che la moneta effettua una rotazione completa una volta al mese mentre i ricavi vengono utilizzati per comprare pane ogni mese2. Storicamente, la velocità di circolazione di M2 è rimasta stabile, mentre quella di M1 ha manifestato una tendenza alla crescita. La questione della stabilità e della prevedibilità della velocità di circolazione della moneta è fondamentale per la politica macroeconomica. 33.2.2 La teoria quantitativa dei prezzi Dopo aver definito questa nuova interessante variabile detta velocità di circolazione, è possibile 1 2 Le equazioni della definizione sono state scritte con il segno di equivalenza anziché con quello più comune di uguaglianza. Questo uso sottolinea il fatto che sono “identità”, affermazioni che non ci dicono nulla sulla realtà, ma che sono valide per definizione, anche se una Nazione attraversasse un periodo di iperinflazione o di profonda depressione. La velocità di circolazione della moneta è strettamente connessa alla domanda di moneta. Se si riscrive l’equazione della velocità, si ha M/PQ ⬅ 1/V. Il lato sinistro dell’equazione rappresenta la domanda di moneta per unità di PIL. Lo studio della domanda di moneta presentato in precedenza si adatta altrettanto bene all’analisi della velocità di circolazione. descrivere ora come alcuni economisti utilizzino questo concetto per spiegare i movimenti del livello generale dei prezzi. Il presupposto fondamentale è che la velocità di circolazione della moneta è relativamente stabile e prevedibile. Secondo i monetaristi la stabilità è motivata dal fatto che la velocità di circolazione riflette principalmente gli schemi basilari di determinazione dei tempi inerenti a reddito e spesa: se i cittadini vengono pagati una volta al mese e tendono a spendere tutto il proprio reddito uniformemente nel corso del mese, la velocità di circolazione sarà di 12 all’anno. I redditi potrebbero raddoppiare, i prezzi salire del 20% e il PIL moltiplicarsi più volte, ma con modelli di spesa invariati la velocità di circolazione della moneta rimarrebbe invariata; solo quando i cittadini o le imprese modificano il proprio portafoglio o il modo in cui pagano i conti, la velocità di circolazione varia. In base a questa nozione della relativa stabilità della velocità alcuni economisti del passato, soprattutto quelli classici, utilizzavano il concetto per spiegare le variazioni del livello dei prezzi. Secondo questo approccio, detto teoria quantitativa della moneta e dei prezzi, la definizione di velocità di circolazione viene riscritta come segue: MV V P ⬅ ––– ⬅ –– M ⬅ kM Q Q Questa equazione si ottiene dalla precedente definizione di velocità, introducendo la variabile k come forma abbreviata di V/Q e risolvendo rispetto a P; viene scritta in questo modo perché molti economisti classici ritengono che, se le transazioni si svolgessero secondo schemi stabili, k sarebbe costante; inoltre, in generale, presuppongono la piena occupazione, il che significa che il prodotto reale aumenterebbe in modo costante e uguaglierebbe il PIL potenziale. Unendo questi due presupposti, k (= V/Q) sarebbe pressoché costante nel breve periodo e tenderebbe a crescere costantemente nel lungo periodo. Quali sono le implicazioni della teoria quantitativa? Come si può vedere dall’equazione, se k fosse costante il livello dei prezzi varierebbe proporzionalmente all’offerta di moneta. Un’offerta di moneta stabile produrrebbe prezzi stabili; se salisse rapidamente, lo farebbero anche i prezzi; analogamente, se venisse moltiplicata per 10 o per 100, l’economia sperimenterebbe un’inflazione galoppante o l’iperinflazione e, in effetti, le prove più convincenti della teoria quantitativa della moneta si possono rintracciare nei periodi di iperinflazione. 冢冣 P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia Ritornando alla Figura 32.5, notate come i prezzi fossero saliti di miliardi di volte nella Germania di Weimar, dopo che la Banca Centrale aveva eliminato qualsiasi freno alla stampa di cartamoneta: questa è la teoria quantitativa nel vero senso della parola. Per comprendere la teoria quantitativa della moneta è essenziale ricordare che la moneta differisce in modo sostanziale da beni comuni quali il pane o le automobili. Vogliamo il pane da mangiare e le auto da guidare, ma vogliamo il denaro solo perché ci serve per comprare pane o automobili. Se i prezzi in Russia oggi sono 1 000 volte quello che erano un anno fa, è naturale che i cittadini, rispetto all’anno scorso, abbiano bisogno di una quantità di moneta circa 1 000 volte maggiore per gli acquisti. Il nocciolo della teoria quantitativa della moneta sta proprio qui: la domanda di moneta aumenta proporzionalmente al livello dei prezzi. La teoria quantitativa della moneta e dei prezzi afferma che i prezzi variano proporzionalmente all’offerta di moneta; benché sia solo una grossolana approssimazione, contribuisce a spiegare perché i Paesi con una crescita lenta della moneta abbiano un’inflazione moderata, mentre quelli con una crescita rapida riscontrino aumenti vertiginosi dei prezzi. 33.2.3 Il monetarismo moderno La moderna economia monetaria fu elaborata dopo la Seconda Guerra Mondiale da Milton Friedman della scuola di Chicago e dai numerosi suoi colleghi e seguaci. Sotto la guida di Friedman i monetaristi contestarono l’approccio keynesiano alla macroeconomia e rilevarono l’importanza della politica monetaria per la stabilizzazione macroeconomica. Il modello monetarista postula che la crescita della moneta determini il PIL nominale nel breve e i prezzi nel lungo periodo. Quest’analisi opera nell’ambito della teoria quantitativa della moneta e dei prezzi e si fonda sull’esame delle tendenze della velocità di circolazione. I monetaristi sostengono che quest’ultima sia stabile (o, in casi estremi, costante): se ciò è esatto, questa è una nozione importante, perché l’equazione della quantità mostra che, se V è costante, le variazioni di M influiranno proporzionalmente su PQ (o PIL nominale). Come tutte le vere scuole di pensiero, il monetarismo presenta al proprio interno esponenti che attribuiscono vario rilievo a elementi diversi della teoria e assumono posizioni più o meno radicali rispetto a vari problemi. 7 Questi sono i punti fondamentali del pensiero monetarista. 1. La crescita dell’offerta di moneta è il principale fattore che determina l’incremento del PIL nominale. Il monetarismo afferma che la domanda aggregata nominale viene influenzata principalmente da variazioni dell’offerta di moneta. La politica fiscale non incide sulla domanda aggregata. Questo concetto è stato espresso chiaramente, anche se in modo troppo semplicistico, nei seguenti termini: “solo la moneta conta”. Le teorie monetariste si fondano su due assunti fondamentali: innanzitutto, come ha affermato Friedman, “Esistono una straordinaria stabilità e regolarità empirica in grandezze come la velocità di circolazione, che non possono che colpire coloro che si occupano a fondo dei dati monetari”; secondariamente, molti monetaristi sostenevano un tempo che la domanda di moneta è del tutto insensibile ai tassi di interesse3. Perché questi presupposti conducono alla teoria monetarista? Dall’equazione quantitativa di scambio, se la velocità di circolazione V è stabile, M determinerà il PIL nominale; analogamente, la politica fiscale secondo i monetaristi è irrilevante perché, se V è stabile, l’unica forza che può influire su PQ è M: con V costante, semplicemente non esiste spiraglio per far entrare in scena le imposte o la spesa pubblica. 2. I prezzi e i salari sono relativamente flessibili. Ricordate che uno dei precetti dell’economia keynesiana è che i prezzi e i salari sono rigidi. Pur accettando in generale l’idea che vi sia una certa inerzia nella fissazione dei prezzi e dei salari, i monetaristi sostengono che la curva di Phillips è relativamente ripida perfino nel breve periodo e insistono che quella di lungo periodo è verticale; affermano inoltre che nel diagramma DA-OA la curva OA è piuttosto ripida. I monetaristi collegano i punti 1 e 2: poiché (1) la moneta è il principale fattore che determina il PIL nominale e (2) i prezzi e i salari sono piuttosto flessibili in prossimità del prodotto potenziale, ne consegue che la moneta fa variare il pro3 Se la velocità è costante, è insensibile al tasso di interesse; se invece reagisce al tasso di interesse, consente alla politica fiscale e ad altre politiche non monetarie di influire sul prodotto variando la velocità stessa. La tesi che la domanda di moneta sia insensibile al tasso di interesse è stata screditata e in genere ha perso di favore. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 8 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche dotto reale solo di poco e per un breve periodo. M agisce principalmente su P. Di conseguenza la moneta può influire sia sul prodotto sia sui prezzi a breve termine; ma nel lungo periodo, poiché l’economia tende a operare a un livello prossimo alla piena occupazione, il principale effetto della moneta si ha sul livello dei prezzi. La politica fiscale agisce in modo trascurabile sul prodotto e su prezzi sia nel breve sia nel lungo periodo. Questa è l’essenza della dottrina monetarista. 3. Il settore privato è stabile. I monetaristi ritengono infine che l’economia privata, abbandonata a se stessa, non è incline all’instabilità. La maggior parte delle fluttuazioni del PIL nominale deriva invece dall’intervento dello Stato, in particolare dalle variazioni dell’offerta di moneta, che dipendono dalle politiche seguite dalla Banca Centrale. scuole negli ultimi trent’anni, e le controversie oggi vertono piuttosto sul diverso rilievo attribuito ai singoli fattori che sulle convinzioni di fondo. Le principali divergenze tra i monetaristi e i moderni keynesiani sono illustrate nella Figura 33.3, che mostra le posizioni di entrambe le scuole rispetto al comportamento della domanda e dell’offerta aggregata, dalle quali emergono due differenze sostanziali. Innanzitutto le due scuole non concordano sulle forze che agiscono sulla domanda aggregata: i monetaristi ritengono che la domanda sia influenzata unicamente (o principalmente) dall’offerta di moneta, che l’effetto di quest’ultima su di essa sia stabile e prevedibile, e che la politica fiscale o variazioni indipendenti della spesa, se non sono accompagnate da oscillazioni della moneta, abbiano effetti trascurabili sul prodotto e sui prezzi4. Confronto tra l’approccio keynesiano e quello monetarista Che differenze vi sono tra l’approccio monetarista e quello keynesiano moderno? In effetti c’è stata una notevole convergenza d’opinioni tra le due 4 Notate inoltre che, secondo l’ipotesi monetarista, la curva DA viene tracciata come un’iperbole equilatera. Ricordate che un’equazione xy = costante descrive un’iperbole equilatera in un grafico xy. Con M e V dati, la curva della domanda aggregata è data da PQ = costante, perciò la curva DA è un’iperbole equilatera. Figura 33.3 Confronto tra le posizioni keynesiane e quelle monetariste. In sostanza i monetaristi sostengono che ai fini della determinazione della domanda aggregata conta solo la moneta, mentre i macroeconomisti tradizionali ribattono che la moneta conta quanto la politica fiscale. Una seconda differenza riguarda l’offerta aggregata: gli economisti keynesiani sottolineano che la curva OA è relativamente piatta mentre i monetaristi ritengono che, se i prezzi e i salari sono relativamente flessibili, il prodotto sarà prossimo al livello potenziale. (a) Approccio monetarista (b) Approccio keynesiano P P OA Livello dei prezzi Livello dei prezzi Solo M OA Prodotto potenziale DA Prodotto potenziale DA M, G, – T, X DA DA Q 0 Prodotto reale Q 0 Prodotto reale P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia Gli economisti keynesiani, invece, sostengono che il mondo è più complesso. Pur concordando che la moneta ha un effetto rilevante su domanda aggregata, prodotto e prezzi, sostengono che anche altri fattori sono importanti. I keynesiani indicano inoltre come prova conclusiva il fatto che la velocità (V) aumenta sistematicamente al salire dei tassi di interesse, per cui mantenere costante la moneta (M) non basta per mantenere costante il PIL nominale o reale. In uno dei più notevoli esempi di convergenza d’opinioni, sia i monetaristi sia i keynesiani sono attualmente propensi a ritenere che la politica di stabilizzazione degli Stati Uniti dovrebbe essere condotta principalmente mediante misure monetarie. La seconda principale differenza tra le due scuole riguarda il comportamento dell’offerta aggregata: i keynesiani sottolineano l’inerzia dei prezzi e dei salari; i monetaristi ritengono che i keynesiani esagerino la vischiosità dei prezzi e dei salari e che la curva OA di breve periodo sia piuttosto ripida, non verticale forse, ma molto più ripida di quanto ammetterebbe un keynesiano. Poiché hanno opinioni diverse sulla pendenza della curva OA, i keynesiani e i monetaristi non concordano sull’effetto di breve periodo di variazioni della domanda aggregata: i primi ritengono che una variazione della domanda (nominale) determini un’oscillazione significativa del prodotto, con scarso effetto sui prezzi a breve termine; i monetaristi sostengono che uno spostamento della domanda finirà per variare principalmente i prezzi più che le quantità. In sostanza, il monetarismo nel pensiero macroeconomico si incentra essenzialmente sull’importanza della moneta nella determinazione della domanda aggregata e sulla relativa flessibilità di prezzi e salari. 33.2.4 L’esperimento monetarista: la crescita costante della moneta Negli ultimi quarant’anni il monetarismo ha svolto un ruolo significativo nel determinare la politica economica. I monetaristi spesso sposano le strategie microeconomiche dei liberi mercati e del laissez-faire, ma il loro principale contributo alla politica macroeconomica è stato la propugnazione di norme monetarie fisse rispetto a politiche fiscali e monetarie discrezionali. In linea di principio, i monetaristi potrebbero raccomandare l’uso della politica monetaria per re- 9 golare con precisione l’economia, ma in realtà hanno preso una strada diversa, sostenendo che l’economia privata è stabile e che l’intervento pubblico tende a destabilizzare l’economia; ritengono inoltre che la moneta influisca sul prodotto solo dopo intervalli lunghi e variabili, per cui l’elaborazione di politiche di stabilizzazione efficaci è un compito estremamente difficile. Per questo un cardine della filosofia economica monetarista è una norma monetaria: la politica monetaria ottimale pone la crescita dell’offerta di moneta a un tasso fisso e la mantiene a quel livello in tutte le condizioni economiche. Qual è il fondamento logico di questo punto di vista? I monetaristi ritengono che un tasso di crescita fisso della moneta (al 3 o 5% annuo) eliminerebbe la fonte principale di instabilità in un’economia moderna, che sono le variazioni umorali e inaffidabili della politica monetaria. Se si sostituisse la Banca Centrale con un programma computerizzato che produca sempre un tasso di crescita fisso di M, non vi sarebbero improvvise accelerazioni nella crescita della moneta: con una velocità di circolazione stabile, il PIL monetario aumenterebbe a un tasso costante e, se la moneta salisse pressappoco al tasso di crescita del PIL potenziale, l’economia raggiungerebbe presto la stabilità dei prezzi. Le tesi monetariste giunsero a esercitare un notevole influsso alla fine degli anni ’70. Negli Stati Uniti molti ritenevano che le politiche keynesiane di stabilizzazione non fossero riuscite a contenere l’inflazione e, quando questa raggiunse le due cifre nel 1979, gli economisti e i responsabili politici ritennero che le misure monetarie fossero l’unica speranza per realizzare una politica antinflazionistica efficace. Nell’ottobre 1979, il presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, sferrò un feroce attacco all’inflazione in quello che è stato definito un esperimento monetarista. Con un netto cambiamento delle proprie procedure operative, la Federal Reserve decise di smettere di concentrarsi sui tassi di interesse e tentò invece di tenere le riserve bancarie e l’offerta di moneta su binari di crescita prestabiliti5. La Federal Reserve sperava che un approccio rigorosamente quantitativo alla gestione monetaria sortisse due effetti: innanzitutto, che consentisse ai tassi di interesse di salire con una rapidità 5 Ricordate l’analisi dell’esperimento monetarista del Capitolo 26. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 10 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche sufficiente a frenare l’economia in rapida crescita, aumentando la disoccupazione e rallentando la crescita dei salari e dei prezzi mediante il meccanismo della curva di Phillips; alcuni ritenevano inoltre che una politica monetaria dura e credibile avrebbe ridotto le aspettative inflazionistiche, soprattutto nei contratti di lavoro, e avrebbe dimostrato che il periodo di elevata inflazione era finito. Una volta ridimensionate le attese dei cittadini, l’economia avrebbe potuto registrare una riduzione relativamente indolore del tasso di inflazione. Con questo esperimento si riuscì effettivamente a rallentare l’economia e a ridurre l’inflazione: in seguito agli elevati tassi di interesse indotti dalla stretta monetaria, la spesa sensibile ai tassi di interesse rallentò; di conseguenza, la crescita del PIL nominale rallentò dal 13% al 4% nel 1982 e il tasso di disoccupazione salì da meno del 6% a un massimo del 10% alla fine del 1982. L’inflazione diminuì rapidamente. Qualsiasi dubbio potesse permanere sull’efficacia della politica monetaria fu placato: la moneta funziona; la moneta conta; ma naturalmente ciò non equivale a dire che solo la moneta conta! Questo esperimento avvalora la tesi dei monetaristi secondo cui una politica monetaria dura e credibile potrebbe ridurre l’inflazione in modo relativamente indolore? Numerosi studi economici sull’argomento effettuati nel corso dell’ultimo decennio indicano che la dura politica monetarista funzionò, ma ebbe un certo costo: in termini di disoccupazione e di perdita di prodotto, i sacrifici economici della politica monetarista di disinflazione furono equivalenti, per ogni punto di disinflazione, alle politiche antinflazione dei periodi precedenti. La moneta funziona, ma non fa miracoli: non esistono pasti gratis nel menu del monetarista. Il declino del monetarismo Proprio dopo il successo dell’esperimento monetarista nello sradicare l’inflazione dall’economia americana (o forse proprio a causa del successo ottenuto), variazioni nei mercati finanziari portarono Figura 33.4 Il tasso di variazione della velocità di circolazione di M1. I monetaristi fanno affidamento sulla velocità di circolazione della moneta per sostenere un tasso di crescita costante dell’offerta di moneta. La velocità di circolazione della moneta era relativamente costante fino ai primi anni ’80; in seguito un’attiva politica monetaria, tassi di interesse più mutevoli e innovazioni finanziarie ne determinarono l’estrema instabilità. (Fonti: la velocità è definita quale rapporto tra il PIL e M1; l’offerta di moneta è tratta dai dati del Federal Reserve Board; il PIL da quelli del Commerce Department, con una differenza di due anni.) 20 15 Gli obiettivi monetari non hanno più la stessa importanza 10 0 Esperimento monetarista Tasso di crescita della velocità di circolazione della moneta M1 (percentuale annuale) 25 –10 –15 1960 1965 1970 1975 1980 Anno 1985 1990 1995 2000 P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia però, paradossalmente, a cambiamenti di comportamento che minarono il sistema monetarista. La principale variazione durante e dopo l’esperimento monetarista riguarda l’andamento della velocità di circolazione che, come ricorderete, è relativamente stabile e prevedibile, secondo i monetaristi. Data una velocità costante, le variazioni di offerta di moneta si tradurrebbero gradatamente in variazioni del PIL nominale. Ma mentre la dottrina monetarista veniva adeguata, la velocità di circolazione negli Stati Uniti divenne estremamente instabile. La Figura 33.4 mostra il tasso di variazione della velocità nel periodo 1960-2002 mostrando come la velocità di M1 fosse stabile nel periodo 1960-1980 man mano che il monetarismo diventava influente. La velocità divenne molto più instabile dopo il 1980 e soprattutto dalla metà degli anni ’90. Mentre la velocità di circolazione della moneta diventava sempre più instabile la Federal Reserve smise gradualmente di utilizzarla come guida per la politica monetaria. Nei primi anni ’90 la Banca 11 Centrale statunitense guardava ormai principalmente alle tendenze in termini di prodotto, inflazione, occupazione e disoccupazione per individuare gli indicatori fondamentali dello stato dell’economia. In effetti nel 1999 i verbali del Federal Open Market Committee non contenevano alcun riferimento al termine “velocità” per descrivere lo stato dell’economia o spiegare le ragioni delle misure di breve periodo adottate. Nessuno di questi sviluppi sminuisce l’importanza della moneta nella conduzione della politica macroeconomica. In realtà la politica monetaria è attualmente il principale strumento di politica macroeconomica utilizzato per la gestione del ciclo economico negli Stati Uniti e in Europa: è stata la velocità di circolazione della moneta e non la moneta stessa a essere declassata dai responsabili delle politiche economiche. Possiamo concludere che la politica monetaria è lo strumento fondamentale per la stabilizzazione dell’economia. 33.3 La nuova macroeconomia classica I modelli keynesiani esistenti non possono fornire una guida affidabile nella formulazione della politica monetaria, fiscale o di altro tipo [...]. Non c’è speranza che modifiche piccole o persino grandi di questi modelli portino a miglioramenti significativi della loro affidabilità. Robert E. Lucas, Thomas J. Sargent, After Keynesian Macroeconomics Benché la maggior parte degli economisti convenga che la politica monetaria possa influire sulla disoccupazione e sul prodotto, almeno nel breve periodo, esiste una visione radicalmente nuova che si discosta da quella tradizionale: questa teoria, detta nuova macroeconomia classica, fu elaborata da Robert Lucas (di Chicago), Thomas Sargent (di Stanford) e Robert Barro (di Harvard). Tale approccio prosegue nello spirito della scuola classica discusso in precedenza, in quanto sottolinea il ruolo dei salari e dei prezzi flessibili, ma aggiunge un nuovo elemento, definito aspettative razionali, per spiegare osservazioni come quelle desunte dalla curva di Phillips. Per i suoi contributi alla nuova macroeconomia classica e soprattutto alla visione moderna delle aspettative razionali Robert Lucas è stato insignito del premio Nobel per l’economia nel 1996. 33.3.1 Fondamenti La nuova macroeconomia classica afferma che (1) i prezzi e i salari sono flessibili e (2) i cittadini usano tutte le informazioni disponibili. Questi due postulati costituiscono l’essenza dell’approccio alla macroeconomia elaborato dalla nuova scuola classica. La prima parte della teoria si fonda sul presupposto classico secondo cui i prezzi e i salari si adeguano rapidamente per bilanciare la domanda e l’offerta. Il secondo presupposto è del tutto nuovo, in quanto si fonda su moderni sviluppi in settori come la statistica e lo studio del comportamento in condizioni di incertezza. Secondo questa ipotesi, gli individui costruiscono le proprie aspettative P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 12 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche utilizzando le migliori informazioni disponibili: partendo da questo presupposto, lo Stato non può prendersi gioco dei cittadini, perché questi sono ben informati e hanno accesso alle stesse informazioni in possesso dei responsabili di politica economica. L’importanza della flessibilità dei prezzi e dei salari per la macroeconomia è stata discussa in precedenza nel corso del Capitolo. È opportuno considerare ora il significato dell’ipotesi delle aspettative razionali. Aspettative razionali Le aspettative sono importanti nella vita economica: influiscono sulla quota riservata dagli investitori ai beni di investimento, e sulla spesa o sul risparmio futuro dei consumatori. Ma qual è il modo più sensato di trattare le aspettative in economia? I macroeconomisti della nuova scuola rispondono a questa domanda con l’ipotesi delle aspettative razionali, secondo la quale le previsioni non sono distorte e sono basate su tutte le informazioni disponibili6. Innanzitutto, secondo l’ipotesi delle aspettative razionali gli individui fanno previsioni non distorte7. Un presupposto più controverso è che i cittadini usino tutte le informazioni disponibili e utilizzino la teoria economica; ciò implica che capiscano il funzionamento dell’economia e l’operato dello Stato. Supponete che le amministrazioni locali aumentino sempre le spese per opere pubbliche quando si avvicinano le elezioni: la teoria delle aspettative razionali ipotizza che i cittadini prevedano questo tipo di comportamento e agiscano di conseguenza. Il presupposto fondamentale della nuova macroeconomia classica è che, a causa delle aspettative razionali, lo Stato non può sorprendere i cittadini sistematicamente con le proprie politiche economiche. 6 7 Le aspettative razionali sono strettamente connesse all’ipotesi dei mercati efficienti che riguarda i prezzi delle azioni e di altre attività patrimoniali descritte nel Capitolo 25. Una previsione è non distorta se non contiene errori sistematici di previsione. È chiaro che una previsione non può essere sempre perfettamente accurata: non possiamo prevedere quale sarà il risultato quando si lancia una moneta una sola volta, ma non dovremmo commettere l’errore statistico della distorsione, per esempio prevedendo che una moneta non truccata dia testa il 10 o il 90% delle volte. Faremmo una previsione non distorta se prevedessimo che la moneta darebbe tale risultato il 50% delle volte o che uno dei numeri di un dado apparirebbe un sesto delle volte. 33.3.2 Implicazioni per la macroeconomia L’approccio della nuova macroeconomia classica può essere applicato con profitto a molti settori dell’economia. Qui ci concentreremo su due implicazioni: la natura della disoccupazione e la curva di Phillips. Disoccupazione La disoccupazione è volontaria o involontaria? Nell’analisi del Capitolo 20, la disoccupazione involontaria è stata definita una situazione in cui i lavoratori qualificati non riescono a trovare impiego al salario corrente. Rinfrescatevi la memoria dando di nuovo uno sguardo alla Figura 20.3, che illustra sia la disoccupazione volontaria sia quella involontaria, e ricordate anche che gli economisti keynesiani ritengono che una porzione cospicua della disoccupazione, soprattutto nelle recessioni, sia involontaria. Gli economisti della nuova scuola classica, invece, ritengono che la maggior parte della disoccupazione sia volontaria. A loro modo di vedere, i mercati del lavoro si adeguano rapidamente dopo le crisi, mentre i salari variano per riequilibrare la domanda e l’offerta. La disoccupazione, secondo loro, aumenta perché un maggior numero di persone è alla ricerca di impieghi migliori, non perché non riescano a trovare lavoro: i cittadini sono disoccupati perché hanno lasciato il proprio impiego per cercare un lavoro più pagato, e non perché le retribuzioni sono troppo elevate, come nel caso della disoccupazione determinata da salari rigidi. L’illusoria curva di Phillips Uno dei compiti più importanti di qualsiasi teoria macroeconomica consiste nello spiegare il ciclo economico in modo che sia internamente coerente e conforme alle situazioni regolarmente ricorrenti nel comportamento economico. L’approccio classico alla macroeconomia è attraente, perché si adatta bene alla maggior parte della teoria microeconomica della domanda e dell’offerta, ma la sfida sta nello spiegare caratteristiche importanti dei cicli economici, come la curva di Phillips o la legge di Okun. Se la disoccupazione è elevata nelle recessioni, non basta dire che la gente ha deciso che è l’anno giusto per fare vacanze più lunghe. Come farebbero simili teorie a spiegare la lunga Depressione degli anni ’30 o le più recenti difficoltà congiunturali delle economie europee? P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia T D Tasso di aumento dei salari Teorie fondate su impressioni errate I movimenti ciclici della disoccupazione sono la maggiore sfida per la nuova macroeconomia classica. Un primo approccio (elaborato da Robert Lucas) mette in rilievo le impressioni errate quale chiave dei cicli economici. In base a questa teoria l’elevata disoccupazione insorge perché i lavoratori sono confusi sulla situazione economica, lasciano volontariamente il proprio impiego nella speranza di trovarne di migliori, ma si sorprendono poi di ritrovarsi all’ufficio di collocamento. Oppure, nella fase di espansione del ciclo economico, l’elevato prodotto e la bassa disoccupazione si verificano quando i cittadini sono indotti a lavorare di più perché sovrastimano i salari reali. L’analisi può essere effettuata utilizzando la curva di Phillips presentata nell’ambito della teoria dell’inflazione. Secondo l’approccio economico classico, la curva di Phillips di breve periodo è verticale nel punto di equilibrio o al tasso naturale di disoccupazione: questa conclusione è l’equivalente, riferito alla curva di Phillips, della curva verticale classica dell’offerta aggregata, nella quale il prodotto non è influenzato dalla domanda aggregata. Da dove provengono allora le reali curve di Phillips con pendenza decrescente? Derivano da un processo dinamico in cui i cittadini sono temporaneamente confusi riguardo ai salari reali. Questo ragionamento porta alla curva di Phillips secondo la nuova economia classica, illustrata nella Figura 33.5; indicate con Te il tasso previsto di variazione dei salari monetari e supponete che i prezzi salgano alla stessa velocità dei salari: se il tasso effettivo di aumento dei salari (T) è uguale a quello previsto (cioè, se T = Te), nessuno viene sorpreso né raggirato, e la disoccupazione è pari al tasso naturale, per cui A rappresenta il risultato del tasso naturale nel caso in cui non vi siano sorprese. Il difficile è raggiungere i punti B e C. Ciascun caso si verifica in seguito a qualche tipo di crisi economica. Per generare il punto B, supponete che la Banca Centrale abbia aumentato inaspettatamente l’offerta di moneta, determinando un incremento imprevisto dei salari e dei prezzi. I lavoratori hanno una percezione distorta degli eventi economici, non sapendo che i prezzi salgono con la stessa rapidità dei salari; forniscono più manodopera, la disoccupazione cala e l’economia giunge al punto B. Dovreste indicare come si può generare il punto C in seguito a un taglio imprevisto dei salari e dei prezzi. 13 B “Apparente” curva di Phillips di breve periodo Te “Vera” curva di Phillips A C 0 U* Tasso di disoccupazione U Figura 33.5 La curva di Phillips secondo la nuova economia classica. Secondo la nuova macroeconomia classica, la vera curva di Phillips è verticale, ma si può osservare la curva di Phillips “apparente” di breve periodo, tracciata per i punti B, A e C. Il punto B viene generato quando una crisi inflazionistica fa aumentare i salari monetari al di sopra dei livelli previsti. I lavoratori sono confusi perché pensano che i loro salari reali siano aumentati; decidono di lavorare di più e la disoccupazione cala, perciò l’economia si sposta dal punto A al punto B. I lavoratori confusi, pensando che il loro salario reale sia aumentato lavorano di più e la disoccupazione cala, quindi l’economia passa dal punto A al punto B producendo quella che apparentemente assomiglia a una curva di Phillips di breve periodo. Sorprendentemente, se colleghiamo i punti B e C si traccia una retta con pendenza decrescente che assomiglia alla curva di Phillips: secondo la nuova macroeconomia classica, l’apparente curva di Phillips di breve periodo con pendenza decrescente deriva in realtà da una percezione distorta dei salari reali o dei prezzi relativi. Ciclo economico reale Un approccio strettamente connesso, che si fonda anch’esso sui temi classici e le aspettative razionali, ma mette in rilievo meccanismi diversi, è la teoria del ciclo economico reale, che spiega i cicli economici come pure variazioni dell’offerta aggregata, senza alcun riferimento a forze monetarie o legate alla domanda. Secondo questa teoria le variazioni tecnologiche, degli investimenti o dell’offerta di lavoro fanno spostare la curva verticale OA. Le variazioni P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 14 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche si trasmettono poi al prodotto effettivo attraverso l’oscillazione dell’offerta aggregata e sono completamente indipendenti da DA; analogamente, le variazioni del tasso di disoccupazione sono il risultato di fluttuazioni del tasso naturale di disoccupazione dovute a forze microeconomiche, quali l’intensità di crisi settoriali, o alle imposte e alle politiche di regolamentazione. Teorie dell’equivalenza ricardiana Una delle critiche più influenti alla macroeconomia keynesiana consisteva nella nuova visione del ruolo della politica fiscale, nota come teoria dell’equivalenza ricardiana elaborata da Robert Barro di Harvard, secondo la quale le variazioni delle aliquote fiscali non hanno alcun effetto sulla spesa per consumi. L’idea è l’estensione logica del modello del ciclo di vita del consumo introdotto nel Capitolo 22. Secondo la visione di Barro gli individui sono lungimiranti e fanno parte di un insieme in quanto appartenenti a una famiglia, a una dinastia. I genitori non si preoccupano solo del proprio consumo ma anche del benessere dei figli, i quali a loro volta si preoccupano di quello dei loro figli e così via. Questa struttura definita di “preferenze dinastiche” implica che l’orizzonte della generazione attuale si estende in un futuro indefinito per il sovrapporsi delle preoccupazioni di una generazione per la propria prole. A questo punto si ha un risultato sorprendente: se lo Stato riduce le imposte che un cittadino deve pagare ma lascia invariate le spese, questa misura esige necessariamente un maggior numero di prestiti e dunque si crea un deficit pubblico, che in qualche momento futuro dovrà essere ripianato. Come? È ovvio che lo Stato dovrà aumentare in futuro le imposte per pagare gli interessi sui nuovi prestiti. Secondo la visione ricardiana i consumatori hanno aspettative razionali sulla politica futura; perciò, quando si verifica un taglio delle imposte, sanno che devono prevedere un futuro aumento delle imposte. Aumentano quindi il risparmio di un importo pari alla riduzione di imposte e il consumo rimane invariato. Inoltre, anche quando l’aumento futuro delle imposte si verifica durante il corso della loro vita gli individui tengono conto del benessere dei figli riducendo quindi il consumo presente per poter aumentare il lascito ai figli per pagare le imposte aggiuntive. In questo senso, il deficit di oggi è equivalente alle “future” imposte. Il risultato netto è che secondo la teoria dell’equivalenza ricardiana le variazioni delle imposte non hanno alcun effetto sul consumo. Inoltre il debito pubblico non equivale al debito netto dal punto di vista delle famiglie, perché esse bilanciano queste attività patrimoniali nei calcoli mentali che effettuano sul valore attuale delle imposte che devono essere pagate per fornire il servizio del debito. La visione ricardiana del debito e dei disavanzi ha suscitato notevoli controversie tra i macroeconomisti. I critici della teoria mettono in evidenza che è necessario che le famiglie siano estremamente lungimiranti, che prevedano di lasciare un’eredità ai figli e valutino costantemente i loro interessi rispetto a quelli dei loro discendenti. Se non ci fossero figli o eredità o preoccupazioni per i figli o se la lungimiranza fosse scarsa, la catena sarebbe interrotta. Le evidenze empiriche raccolte finora non sono state tenere con questa teoria, che però è utile per ricordare i limiti logici della politica fiscale. Teoria del salario di efficienza Un altro recente sviluppo importante, che riunisce in sé elementi sia dell’economia classica sia keynesiana, è detto teoria del salario di efficienza. Questo approccio, elaborato da Edmund Phelps, Joseph Stiglitz (membro del Council of Economic Advisers del presidente Clinton nel triennio 1995-1997 e premio Nobel nel 2001) e Janet Yellen (uno dei governatori della Federal Reserve e presidente del Council of Economic Advisers dell’amministrazione Clinton dal 1997 al 1999), spiega la rigidità dei salari reali e l’esistenza della disoccupazione involontaria con i tentativi delle imprese di tenere i salari al di sopra del livello di equilibrio del mercato per aumentare la produttività. Secondo questa teoria, salari più elevati portano a una maggiore produttività perché le forze di lavoro sono più sane (soprattutto nei Paesi poveri), perché avranno un morale più alto o sarà meno probabile che perdano tempo, perché è meno probabile che i lavoratori capaci lascino l’impiego e ne cerchino uno nuovo o perché i salari più elevati possono attirare lavoratori migliori. Quando le imprese alzano i salari per aumentare la produttività significa che le persone alla ricerca di un impiego saranno disposte a fare la coda per ottenere i posti ben pagati, producendo quindi disoccupazione involontaria di attesa. La caratteristica sorprendente di questa teoria è che la disoccupazione involontaria è una caratteristica di equilibrio e non scomparirà nel corso del tempo. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia Questo approccio è stato riassunto in un’analisi magistrale da Edmund Phelps della Columbia University, il quale sostiene che buona parte dell’aumento della disoccupazione negli anni recenti si è verificato perché gli elementi del salario di efficienza sono peggiorati, aumentando il tasso di disoccupazione naturale. Egli presenta stime statistiche che mostrano che le imposte sulle retribuzioni più elevate, gli aumenti dei tassi di interesse reali e le crisi dei prezzi dell’energia sono stati responsabili dell’aumento della disoccupazione negli Stati Uniti negli ultimi vent’anni. Il rimedio per il futuro, secondo Phelps, sarebbe il ribaltamento di queste tendenze, soprattutto riducendo l’imposizione fiscale e passando da imposte sul lavoro a imposte sui consumi e sul valore aggiunto. L’economia orientata all’offerta Nei primi anni ’80 entrò nel dibattito un’altra scuola nota come economia orientata all’offerta (supply-side economics), che metteva in rilievo gli incentivi e le agevolazioni fiscali come mezzo per aumentare la crescita economica. L’economia orientata all’offerta fu abbracciata con convinzione dal presidente Ronald Reagan negli Stati Uniti (1981-1989) e dal primo ministro Margaret Thatcher in Gran Bretagna (1979-1990). Un primo tema dell’economia orientata verso l’offerta è il ruolo chiave svolto dagli incentivi per adeguati rendimenti del lavoro, per il risparmio e per l’imprenditorialità. I fautori dell’economia orientata verso l’offerta puntano sui miracoli compiuti da mercati liberi da qualsiasi vincolo e cercano di evitare i disincentivi dovuti ad aliquote d’imposta elevate; sostengono inoltre che i keynesiani, con la loro eccessiva preoccupazione per la gestione della domanda, hanno ignorato l’impatto delle aliquote d’imposta e degli incentivi sull’offerta aggregata. L’altro aspetto dell’economia orientata verso l’offerta emerge dalla richiesta di grandi tagli alle imposte. Abbiamo visto nell’analisi del modello del moltiplicatore come le imposte possano influire sulla domanda aggregata e sul prodotto. Gli economisti orientati verso l’offerta ritengono che l’influsso delle imposte sulla domanda aggregata è stato sopravvalutato, e sostengono che lo Stato ha usato troppo spesso le imposte per aumentare le entrate o stimolare la domanda, ignorando gli effetti degli oneri fiscali sugli incentivi. A loro modo di vedere, le imposte elevate inducono i cittadini a ridurre l’offerta di lavoro e di capitale; in effetti alcuni economisti 15 orientati verso l’offerta, soprattutto Arthur Laffer, hanno suggerito che aliquote d’imposta elevate potrebbero in realtà ridurre il gettito fiscale. Secondo questa tesi della curva di Laffer aliquote d’imposta elevate restringono la base imponibile perché riducono l’attività economica. Gli economisti tradizionali di tutti gli orientamenti politici, e perfino alcuni di quelli orientati verso l’offerta, hanno riso della tesi di Laffer, secondo cui ridurre le aliquote d’imposta oggi aumenterebbe il gettito fiscale. Per ovviare a quello che secondo loro è un sistema fiscale carente, gli economisti orientati all’offerta propongono una ristrutturazione radicale, mediante un approccio detto “tagli alle imposte orientati verso l’offerta”. La filosofia alla base di questi tagli è che le riforme dovrebbero migliorare gli incentivi, abbassando le aliquote d’imposta sull’ultimo euro di reddito (o aliquote d’imposta marginali); che il sistema fiscale dovrebbe essere meno progressivo (cioè dovrebbe ridurre l’onere fiscale dei cittadini ad alto reddito) e che il sistema dovrebbe essere concepito in modo da incoraggiare la produttività e l’offerta anziché manovrare la domanda aggregata. Dopo aver occupato il centro della scena negli Stati Uniti negli anni ’80, ci si può chiedere quale sia il verdetto preliminare su questo esperimento. Anche se numerose domande rimangono ancora aperte, gli economisti in generale hanno riscontrato che alcune delle tesi della teoria orientata verso l’offerta non furono confermate dai fatti. L’eredità più importante delle politiche orientate all’offerta negli Stati Uniti sta forse negli elevati disavanzi di bilancio e nel crescente debito pubblico. Occorre però ricordare che nella seconda metà degli anni ’90 la forte crescita dell’economia americana ha permesso un aumento delle entrate federali quanto bastava per produrre un avanzo di bilancio. Un ulteriore pacchetto di politica orientata all’offerta è stato varato a partire dal 2001, quando il presidente G.W. Bush ha ridotto le tassazioni sui redditi. La giustificazione addotta è stato l’obiettivo di miglioramento dell’efficienza della macchina fiscale e dell’aumento del tasso di crescita di lungo periodo dell’economia. 33.3.3 Implicazioni di politica economica Inefficacia della politica economica La nuova macroeconomia classica ha notevoli implicazioni politiche: la più importante è l’inefficacia delle politiche monetarie e fiscali sistematiche P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 16 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche nel combattere la disoccupazione. Supponiamo che i politici tendano a stimolare l’economia tutte le volte che si avvicinano le elezioni. Dopo un paio di episodi di politica fiscale con motivazioni elettorali, i cittadini finirebbero con l’aspettarsi questo atteggiamento, e potrebbero dirsi: “Certo, si avvicinano le elezioni, e dalle esperienze passate so che il governo pompa sempre l’offerta di moneta prima delle elezioni. Non possono incantare me e spingermi a lavorare di più”. Nei termini della curva di Phillips della Figura 33.5, il governo cerca di stimolare l’economia e passare dal punto A al punto B, ma poiché i cittadini prevedono questa mossa, l’economia finisce nel punto D, con disoccupazione pari al tasso naturale, ma maggiore inflazione. Questo è il teorema dell’inefficacia della politica economica: con aspettative razionali e prezzi e salari flessibili, la politica economica, se prevista, non può influire sul prodotto reale o sulla disoccupazione. Il teorema dell’inefficacia della politica economica si fonda sia sulle aspettative razionali sia sui prezzi flessibili. Il presupposto dei prezzi flessibili implica che l’unico modo in cui la politica economica può influire sul prodotto e sulla disoccupazione è sorprendendo i cittadini e determinando percezioni distorte, ma si può difficilmente sorprendere i cittadini se le politiche sono prevedibili, quindi queste politiche non possono influire sul prodotto e sulla disoccupazione. Auspicabilità delle regole fisse Precedentemente abbiamo descritto le argomentazioni dei monetaristi a favore di regole fisse. La nuova macroeconomia classica pone queste ragioni su una base molto più solida. Una politica economica può essere suddivisa in due parti, una prevedibile (la “regola”) e una imprevedibile (la “discrezionalità”). Secondo la nuova macroeconomia classica si dovrebbe rifuggire la discrezionalità come se si trattasse di una grave malattia. Ricordate che i responsabili politici non possono prevedere l’economia meglio di quanto possa farlo il settore privato, quindi, quando agiscono in base alle informazioni disponibili, i prezzi, che sono flessibili in mercati con acquirenti e venditori ben informati, si sono già adattati alle informazioni e hanno raggiunto gli equilibri di domanda e offerta efficienti. Non vi sono altre misure discrezionali che il governo possa prendere per migliorare il risultato o prevenire la disoccupazione causata da temporanee percezioni distorte o da crisi del ciclo economico reale. Anche se forse non possono migliorare la situazione, le politiche pubbliche possono sicuramente peggiorarla. Le politiche governative possono peggiorare la situazione con misure discrezionali imprevedibili, che forniscono segnali economici fuorvianti, distorcono il comportamento economico e provocano sprechi. Piuttosto di rischiare tale caos, sostengono i nuovi macroeconomisti classici, un governo dovrebbe evitare qualsiasi politica macroeconomica discrezionale. Le regole monetariste e la critica di Lucas La nuova scuola classica, benché abbia indicato i tranelli nei quali può cadere la politica economica, ha montato anche un’argomentazione micidiale contro uno dei presupposti fondamentali del monetarismo. I monetaristi ritengono che la velocità di circolazione della moneta abbia mostrato una notevole stabilità, per cui concludono che si possa stabilizzare MV ⬅ PQ ⬅ PIL nominale imponendo la norma della moneta fissa. Ma la critica di Lucas, che prende il nome da Robert Lucas della scuola di Chicago, afferma che gli individui possono modificare il proprio comportamento quando cambia la politica. Proprio come la curva di Phillips apparente di breve periodo potrebbe spostarsi quando i governi keynesiani tentano di manovrarla, così la velocità apparentemente costante potrebbe variare se la Banca Centrale adottasse una norma di crescita monetaria fissa. Quest’intuizione fu confermata nel periodo tra il 1979 e il 1982, quando gli Stati Uniti condussero l’esperimento monetarista descritto in precedenza: la velocità di circolazione divenne estremamente instabile e alla fine la Federal Reserve dovette abbandonare l’uso degli aggregati monetari per la gestione della politica monetaria. (Ricordate la Figura 33.4 e la succitata analisi della velocità instabile di circolazione.) La critica di Lucas è un duro monito sul comportamento dell’economia, che può cambiare quando i responsabili politici fanno troppo affidamento sugli eventi ricorrenti del passato. Lo stato del dibattito La nuova macroeconomia classica non è stata accolta con favore dai macroeconomisti tradizio- P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia 17 nali. Il dibattito riecheggia molti degli argomenti che avevano contrapposto Keynes e gli economisti classici, in quanto si concentra sulla questione della flessibilità dei prezzi e dei salari. I keynesiani portano molte prove a indicare che i prezzi spesso si muovono lentamente in reazione alle crisi, e pochi economisti credono che i mercati del lavoro siano in costante equilibrio di domanda e offerta. Quando si abbandona l’ipotesi di prezzi e salari assolutamente flessibili, la politica economica riacquista il proprio potere di influire sull’economia reale nel breve periodo. Inoltre i critici mettono in guardia contro le conclusioni implausibili. La teoria prevede che percezioni errate siano alla base delle oscillazioni dei cicli economici, ma percezioni errate sui salari e sui prezzi possono davvero spiegare le profonde depressioni e i persistenti eccessi di disoccupazione? C’è voluto davvero un intero decennio agli americani per imparare quanto dura fosse la vita nel corso della Grande Depressione? E gli europei possono ignorare l’elevata disoccupazione che ha colpito l’intero continente negli anni ’90? Come si può infine conciliare la previsione teorica secondo la quale la disoccupazione ciclica si crea quando i lavoratori lasciano il proprio posto alla ricerca di uno migliore, con le testimonianze che indicano che la quota di persone che perdono il lavoro aumenta rapidamente durante le recessioni (si veda il Capitolo 20)? Poiché la maggior parte delle teorie classiche presenta varie implicazioni analoghe non plausibili, molti economisti sono scettici circa l’utilità dei metodi della nuova scuola classica per comprendere le variazioni di breve periodo di prodotto, occupazione e prezzi. fondamentale per comprendere il comportamento, soprattutto in mercati come quelli del settore finanziario. Alcuni macroeconomisti hanno iniziato a fondere la nuova visione delle aspettative con quella keynesiana del prodotto e dei mercati del lavoro. Questa sintesi è incorporata nei modelli macroeconomici che suppongono che (1) i mercati dei prodotti e del lavoro presentino salari e prezzi rigidi, (2) i prezzi e le quantità nei mercati finanziari si adeguino rapidamente alle crisi economiche e alle aspettative e (3 ) le aspettative dei mercati si formino in modo razionale. Un’indagine approfondita confronta il comportamento dei modelli economici che includono diversi approcci alle aspettative. Una caratteristica saliente è che i modelli razionali tendono a presentare grandi “salti” o cambiamenti discontinui dei tassi di interesse, dei prezzi delle azioni, dei tassi di cambio e del prezzo del petrolio, quando si verificano grandi variazioni di politica o in seguito a eventi esterni: l’elezione di un presidente o di un primo ministro giudicato espansionista, per esempio, potrebbe indurre i cittadini a ritenere che si profili l’inflazione; questa percezione potrebbe facilmente determinare un brusco balzo dei tassi di interesse insieme alla caduta del mercato azionario e dei cambi. Una nuova sintesi? Dopo più di vent’anni di assimilazione dell’approccio della nuova scuola classica alla macroeconomia iniziano a comparire elementi di sintesi di vecchie e nuove teorie. Gli economisti si rendono ormai conto che devono fare molta attenzione alle aspettative. Un’utile distinzione è quella operata tra approccio adattivo (o “retrospettivo”) e razionale (o “prospettivo”): secondo il primo approccio i cittadini formano le proprie aspettative in modo semplice e automatico sulla base delle informazioni passate; l’approccio prospettivo o razionale è quello che abbiamo esposto prima. L’importanza delle aspettative razionali è Un bilancio provvisorio In questo Capitolo abbiamo presentato una rassegna dei dibattiti che hanno contrapposto gli economisti negli ultimi anni. Dopo aver ascoltato tutte le testimonianze, una giuria di economisti imparziali potrebbe trarre le seguenti conclusioni. La critica della nuova scuola classica alla macroeconomia keynesiana ha portato molte cognizioni utili e, cosa più importante, ci ricorda che l’economia è popolata da individui consapevoli che reagiscono alla politica economica e a volte la prevedono. Questa reazione e controreazione può effettivamente cambiare il comportamento dell’economia stessa. 1. Crescita economica di lungo periodo. I macroeconomisti generalmente convengono che nel lungo periodo sono il prodotto potenziale o la crescita della capacità a determinare la tendenza del tenore di vita, dei salari reali e dei redditi reali; il prodotto potenziale dipende inoltre dalla qualità e dalla quantità P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 18 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche di fattori come lavoro e capitale, nonché dalla tecnologia, dall’imprenditorialità e dalle capacità manageriali presenti in un’economia. L’importante conclusione che possiamo trarre da questi dati è che per influire sulla crescita economica di lungo periodo è necessario incidere sulla crescita dei fattori o determinare miglioramenti di efficienza e tecnologia. 2. Prodotto e occupazione di breve periodo. Nel breve periodo il quadro è meno chiaro: il prodotto e l’occupazione sono determinati dall’interazione della domanda e dell’offerta. I fatti tendono a indicare che, almeno per alcuni anni, le variazioni della domanda aggregata (non importa se influenzate dalle politiche fiscali e monetarie o da fattori esogeni) possono decisamente incidere sui movimenti ciclici del prodotto e dell’occupazione. Ciò porta a concludere che le politiche monetarie e fiscali hanno la possibilità di stabilizzare i cicli economici. Attualmente la maggior parte degli economisti farebbe appello alla Federal Reserve perché assumesse la guida della politica di stabilizzazione. 3. Disoccupazione e inflazione. La maggior parte delle prove indica che l’inflazione può essere influenzata dalla pressione della domanda nei mercati del lavoro e del prodotto. Se la disoccupazione viene spinta oltre il tasso naturale, l’inflazione tende a ridursi, mentre produzione e occupazione elevate tendono a determinare l’accelerazione dell’inflazione, ma il trade-off tra inflazione e disoccupazione appare instabile nel tempo e nello spazio, per cui la gestione dell’inflazione è un processo complicato. Siccome, inoltre, non sembra esserci trade-off duraturo, i Paesi non possono ottenere costantemente una minore disoccupazione consentendo all’elevata inflazione di persistere. Oltre a queste tre conclusioni principali che emergono dalla rassegna delle scuole di macroeconomia in conflitto vi sono molte sottili divergenze e dispute tuttora in corso che devono essere lasciate a trattati specializzati sull’argomento. Approfondimento Equivalenza Ricardiana Una riduzione delle imposte, da parte dello Stato, non accompagnata da una riduzione della spesa si trasforma in un maggior deficit pubblico. Qual è la rilevanza di questo deficit? In altri termini, dato un certo livello di spesa è importante che le entrate fiscali siano in grado di finanziarlo? In una visione “classica” la risposta è immediata: una riduzione delle imposte si traduce in un più alto livello della domanda aggregata cui segue un incremento del tasso d’interesse, un acuirsi dell’effetto spiazzamento e quindi una riduzione degli investimenti futuri. Robert Barro mise in evidenza come, sotto le condizioni ricordate (preferenze dinastiche, lungimiranza degli individui e assenza di vincoli di liquidità), ogni euro di deficit corrente implica la possibilità di un euro di maggiore tassazione in futuro per restituire il debito contratto; in altri termini i disavanzi non hanno rilevanza. L’equivalenza di “Barro-Ricardo” enuncia, infatti, che il finanziamento in deficit equivale a una tassazione corrente. Immaginiamo che vi siano 2 individui, un padre (pa) e un figlio (fi), i cui consumi sono Cpa e Cfi; il padre deve decidere l’entità dell’eredità (E) del figlio anche sulla base delle imposte (T) che paga. Le utilità (U) dei due individui sono le seguenti: Ufi = U(Cfi), mentre Upa = U(Cpa, Ufi), dalle quali si evince che il benessere del padre è funzione del benessere del figlio. Per capire le conseguenze del disavanzo pubblico analizziamo i vincoli di bilancio dei 2 individui (padre e figlio) nelle 2 situazioni Caso I: la generazione corrente paga l’imposta; e Caso II: Lo Stato finanzia il disavanzo pubblico. CASO I La generazione corrente paga l’imposta Il consumo del figlio è pari a: Cfi = Yfi + E, dove Y è il reddito ed E è l’eredità che il padre lascia al figlio (r è il tasso di sconto): E = (1 + r) ⫻ [(Ypa – T) – Cpa]. Il padre cercherà di trovare il giusto bilanciamento nella sua funzione di utilità tra il suo consumo e l’utilità del figlio che dipende anche dal suo lascito. Ovviamente l’equilibrio è ricercato al netto del pagamento dell’imposta che grava sulla generazione paterna. CASO II Lo Stato finanzia il disavanzo pubblico Lo Stato prende a prestito la somma L emettendo dei titoli di debito pubblico (L = T) per finanziare il disavanzo promettendo di restituire alla scadenza il prestito più gli interessi [L ⫻ (1 + r)] introducendo una tassa di pari importo [T ⫻ (1 + r)]. In questo caso il padre lascia un’eredità comprensiva dei soldi per il futuro rimborso, interessi inclusi: E = (1 + r) ⫻ [(Ypa – (L + Cpa)] + (1 + r) ⫻ L. Il consumo del figlio, cui spetterà pagare la tassa, è il seguente: Cfi = [Yfi – (1 + r) ⫻ T] + E. Il padre non varia il suo consumo poiché la somma che prima era devoluta alle imposte ora è semplicemente prestata allo Stato. Il rimborso del prestito viene aggiunto all’eredità del figlio e potrà essere usato da quest’ultimo per il pagamento delle imposte. In conclusione non si hanno variazioni nei livelli dei consumi dei due individui che saranno identici a quelli che si avevano con un bilancio in pareggio. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia 19 33.4 Le prospettive dell’economia nel nuovo secolo 33.4.1 La grande posta in gioco nella crescita economica Concludiamo il Capitolo e il libro con alcune considerazioni sulle prospettive di crescita e sviluppo dell’economia nel lungo periodo: servono a qualcosa le ricette degli economisti? All’inizio del XX secolo è bene ricordare le incisive parole di Paul Krugman del MIT: “La produttività non è tutto, ma nel lungo periodo è quasi tutto. La capacità di un Paese di migliorare il proprio tenore di vita nel corso del tempo dipende quasi interamente dalla sua capacità di aumentare il prodotto per lavoratore”. La promozione di un tenore di vita elevato e crescente per i cittadini di una Nazione è uno degli obiettivi fondamentali della politica macroeconomica. Sappiamo che in passato gli Stati Uniti e i principali Paesi industrializzati hanno conseguito risultati eccellenti in termini di crescita. La questione più preoccupante negli ultimi anni è il fatto che la crescita del tenore di vita non ha avuto una base ampiamente condivisa tra la popolazione. Nell’analizzare i tassi di crescita, le cifre spesso sembrano piccole. Una politica ambiziosa a favore dell’innovazione e degli investimenti potrebbe far salire il tasso di crescita di un Paese di un solo punto percentuale all’anno (ricordate l’effetto stimato della riduzione del deficit nella precedente sezione), ma nel corso di lunghi periodi ciò determina una notevole differenza. La Tabella 33.1 mostra come i granelli si trasformano in montagne a mano a mano che le differenze nel tasso di crescita si accumulano e si sommano nel corso del tempo: una differenza di crescita del Tabella 33.1 Piccole differenze nei tassi di crescita determinano grandi differenziali di reddito nel corso dei decenni. Reddito reale pro capite (prezzi costanti) Tasso di crescita (percentuale annua) 2000 2050 2100 0 $ 24 000 $ 24 000 $ 24 000 1 24 000 39 471 64 916 2 24 000 64 598 173 872 4 24 000 170 560 1 212 118 4% annuo moltiplica la differenza dei livelli di reddito di oltre cinquanta volte in un secolo. Come abbiamo sottolineato nei Capitoli sulla crescita, l’aumento del prodotto per lavoratore e del tenore di vita dipende dal tasso di risparmio di una Nazione e dal progresso tecnologico. Le questioni che riguardano il risparmio sono state già discusse nel corso di questo Capitolo. L’innovazione tecnologica invece non riguarda solo nuovi prodotti e processi, ma anche miglioramenti di gestione oltre a imprenditorialità e spirito d’iniziativa, con le quali concluderemo la nostra analisi. Lo spirito di iniziativa Anche se gli investimenti sono un aspetto fondamentale della crescita economica, il progresso tecnologico è forse ancora più importante. Se prendessimo i lavoratori del 1900 e raddoppiassimo o triplicassimo il loro capitale di cavalli, sentieri per condurre al pascolo il bestiame e abachi, la loro produttività sarebbe ancora molto lontana da quella dei lavoratori odierni, che usano enormi trattori, superstrade e supercomputer. Promozione del progresso tecnico Benché sia facile vedere come il progresso tecnico promuova la crescita della produttività e del tenore di vita, i governi non possono ordinare ai cittadini di pensare più a lungo o di più. I Paesi socialisti a pianificazione centrale usavano il sistema del “bastone” per promuovere la scienza, la tecnologia e l’innovazione, ma i loro sforzi fallirono perché non c’erano né le istituzioni né le “carote” per incoraggiare sia l’innovazione sia l’introduzione di nuove tecnologie. Paradossalmente, nell’insieme i Paesi che hanno ottenuto i migliori risultati sono quelli in cui i governi hanno interferito di meno nell’attività dei cittadini. I liberi mercati del lavoro, del capitale, dei prodotti e delle idee si sono rivelati il terreno più fertile per il progresso tecnico. Nell’ambito dei liberi mercati i governi possono promuovere il progresso tecnico sia incoraggiando le idee nuove sia assicurando che le tecnologie siano utilizzate efficacemente. Le relative politiche possono incentrarsi sia sul lato della domanda sia su quello dell’offerta. Promozione della domanda di migliori tecnologie Prima di considerare come fornire nuove tecno- P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 20 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche logie, i governi devono quindi contribuire a fare in modo che le imprese si trovino alla frontiera tecnologica, che rappresenta la migliore tecnologia disponibile in qualsiasi parte del mondo. La principale lezione in merito è che “la necessità è madre dell’invenzione”: in altri termini, la forte competizione tra le imprese e le industrie è la suprema disciplina che assicura l’innovazione. Proprio come i corridori forniscono prestazioni migliori quando tentano di superare i loro avversari, così le imprese sono indotte a migliorare i propri prodotti e processi quando ai vincitori vanno fama e fortuna, mentre chi resta indietro potrebbe andare in fallimento. La forte competizione coinvolge concorrenti sia nazionali sia esteri. Per le grandi imprese sulla frontiera tecnologica la concorrenza interna è necessaria per promuovere l’innovazione: negli Stati Uniti il movimento di deregolamentazione negli ultimi vent’anni ha determinato una forte competizione nei settori delle compagnie aeree, delle telecomunicazioni e della finanza, e l’effetto positivo in termini di innovazione è stato notevole. Per i Paesi piccoli e tecnologicamente arretrati, la concorrenza creata dalle importazioni è essenziale per adottare tecnologie avanzate e per assicurare la concorrenza sul mercato. un forte sistema di brevetti e incentivi fiscali, come l’attuale credito d’imposta per ricerca e sviluppo. Secondariamente, la Pubblica Amministrazione può favorire le tecnologie nazionali incoraggiando gli investimenti da parte di imprese estere. A mano a mano che i Paesi stranieri si avvicinano sempre più e superano la frontiera tecnologica di una Nazione possono anche contribuire in modo sempre maggiore al suo know-how, aprendo proprie sedi in quella Nazione. L’ultimo decennio, per esempio, ha portato un certo numero di aziende automobilistiche giapponesi negli Stati Uniti e gli stabilimenti di proprietà giapponese hanno introdotto nuove tecnologie e prassi gestionali a vantaggio sia degli azionisti giapponesi sia della produttività dei lavoratori americani. In terzo luogo, i governi possono promuovere nuove tecnologie perseguendo solide politiche macroeconomiche, comprese imposte basse e stabili sui redditi di capitale e un basso costo del capitale per le imprese. In effetti l’inclusione del costo del capitale chiude il cerchio e ci riporta al punto di partenza di questo Capitolo. Si dice spesso che le aziende americane sono miopi, mentre quelle giapponesi sono lungimiranti. Almeno parte di questa Applicazione Promozione dell’offerta di nuove tecnologie La rapida crescita economica esige che la frontiera tecnologica venga spostata sempre più lontano, aumentando l’offerta di invenzioni e facendo in modo che vi sia una domanda adeguata per le tecnologie avanzate esistenti. Tre sono i modi in cui i governi possono incoraggiare l’offerta di nuove tecnologie. Innanzitutto possono assicurare che la scienza, l’ingegneria e la tecnologia di base siano adeguatamente sostenute. Sotto questo aspetto i leader mondiali negli ultimi cinquant’anni sono risultati gli Stati Uniti, che uniscono il sostegno alle imprese per la ricerca applicata alla ricerca universitaria di prima qualità generosamente finanziata dal governo. Del tutto eccezionali sono stati i notevoli miglioramenti della tecnologia biomedica, sotto forma di nuovi farmaci e attrezzature a diretto beneficio dei consumatori nella loro vita quotidiana. Oggi negli Stati Uniti il settore ricerca e sviluppo commerciale a scopo di lucro è sempre più minacciato dalle iniziative giapponesi ed europee. Il ruolo della Pubblica Amministrazione statunitense nel sostenere la ricerca a scopo di lucro viene svolto mediante A mo’ di commiato Dopo la rivoluzione keynesiana le democrazie capitaliste ritenevano di poter prosperare e crescere rapidamente attenuando gli eccessi di disoccupazione e inflazione, povertà e ricchezza, privilegi e privazioni. Molti di questi obiettivi furono raggiunti mentre le economie di mercato godevano di un periodo di espansione del prodotto e di crescita dell’occupazione senza precedenti. Per tutto il tempo, i marxisti sostenevano malevolmente che il capitalismo era destinato a crollare con una depressione delle dimensioni di un cataclisma; gli ecologisti si preoccupavano che le economie di mercato finissero soffocate dai loro fumi e sprechi e i fautori più estremi della libertà temevano che i rimedi sostenuti dai governi fossero peggiori delle malattie. Ma i pessimisti trascuravano lo spirito di iniziativa che era stato alimentato dal libero mercato e che aveva portato a un flusso continuo di miglioramenti tecnici. Un commiato di John Maynard Keynes, attuale oggi quanto lo era in un’epoca precedente, costituisce una conclusione adeguata allo studio della macroeconomia: “È l’iniziativa che crea e migliora i beni del mondo. Se opera l’iniziativa, la ricchezza si accumula indipendentemente da ciò che accade alla parsimonia, ma se l’iniziativa langue, la ricchezza sciama indipendentemente da ciò che fa la parsimonia”. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia differenza ha origine dalle divergenze nei tassi di interesse reali: gli elevati tassi di interesse negli Stati Uniti costringono le imprese americane sensate a cercare veloci compensi agli investimenti, mentre i bassi tassi di interesse del Giappone consentono alle imprese giapponesi di intraprendere investimenti a lungo termine. Una variazione di politica economica che abbassi i tassi di interesse reali varierebbe quindi le “prospettive” economiche che le imprese si prefigurano quando considerano le proprie politiche tecnologiche. Se i tassi di interesse reali fossero più bassi le imprese considererebbero con maggior favore progetti a lungo termine e ad alto rischio, e i crescenti investimenti in ricerca e sviluppo porterebbero a più rapidi miglioramenti tecnici e di produttività. 33.4.2 Il progresso economico e le libertà politiche Una delle caratteristiche degne di nota del XX secolo è la stretta connessione tra progresso economico e libertà politiche. I filosofi di un’epoca precedente ritenevano che la grande ricchezza fosse il tratto distintivo di aristocrazie e monarchie, ma se si considera il mondo all’inizio del XXI secolo si osserva un fatto notevole: anche se non tutti i Paesi caratterizzati da economia di mercato sono democratici, in tutti i Paesi con un sistema democratico vige l’economia di mercato. Inoltre, praticamente tutti i Paesi ad alto reddito sono sia un’economia di mercato sia una democrazia. La libertà del mercato va di pari passo con libertà politiche come elezioni libere ed eque, presenza di un’opposizione significativa, e autodeterminazione per i principali gruppi di minoranza; queste a loro volta sono accompagnate da libertà civili come la libertà di espressione e di associazione, la libertà di stampa, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. Perché un sistema politico democratico è una condizione favorevole allo sviluppo economico? Il legame è descritto come segue dal politologo di Yale Robert Dahl: “I sistemi democratici favoriscono l’istruzione del loro popolo e una forza lavoro istruita contribuisce all’innovazione e alla crescita economica. Inoltre lo stato di diritto di solito gode di maggiore sostegno nei Paesi democratici; i tribunali sono più indipendenti, i 21 diritti di proprietà sono più sicuri, gli accordi contrattuali sono attuati in modo più efficace e l’intervento arbitrario nella vita economica da parte del governo e dei politici è meno probabile. Infine, le economie moderne dipendono dalla comunicazione e nei Paesi democratici le barriere alla comunicazione sono molto più ridotte”. La storia degli ultimi decenni dimostra come l’avanzamento delle libertà vada di solito di pari passo con i redditi medi. Il legame tra i due fattori è chiaro, e le maggiori libertà sono presenti nei Paesi più ricchi mentre molti Paesi poveri soffrono sotto il giogo della repressione, di limitazioni della libertà di parola, di riunione e di stampa. Ci sono tuttavia rilevanti eccezioni dato che un’economia di mercato non è condizione necessaria né sufficiente per la democrazia. Alcuni Paesi che effettuano la transizione da società tradizionali al capitalismo avanzato attraversano periodi di governo totalitario, come è accaduto in società dell’Est asiatico quali Taiwan e la Corea del Sud e in buona parte dell’America Latina nel secolo scorso. Inoltre, in periodi di difficoltà economica i Paesi a volte danno segni di “stanchezza” nei confronti della democrazia e consentono a leader forti di rovesciare le istituzioni democratiche. Non va inoltre frainteso l’aspetto economico. Un’economia di mercato moderna non è una società improntata al laissez-faire in cui vige una forma di anarchia controllata. In un sistema in cui prevale la libera iniziativa le imprese devono pagare le tasse, rispettare normative sanitarie, ambientali e di sicurezza così come i limiti di velocità imposti. Pertanto, nel concludere la nostra rassegna dell’economia possiamo forse rilassarci pensando a ciò che non può mai essere provato scientificamente. La nostra lettura cautamente ottimistica della storia è la seguente: una democrazia moderna che procede con cautela e applica il meglio del sapere acquisito può avere il migliore dei mondi possibili; può ovviare ai peggiori difetti dell’economia di mercato e promuovere l’efficienza e l’equità senza costi eccessivi per entrambe. Allo stesso tempo, però, può conservare quegli elementi preziosi che il PIL non potrà mai conteggiare: la libertà di parola, la libertà di cambiamento e la libertà nella scelta di vita. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 22 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche Guida per lo studio Per ripassare i concetti fondamentali P 33.1 La scuola classica e la rivoluzione keynesiana 1. Gli economisti classici facevano affidamento sulla legge di Say, o degli sbocchi, secondo la quale “l’offerta crea la propria domanda”. In termini moderni, l’approccio classico implica che i salari e i prezzi flessibili cancellino rapidamente qualsiasi eccesso di domanda o di offerta e ristabiliscano prontamente la piena occupazione e la completa utilizzazione della capacità. La politica macroeconomica non svolge alcun ruolo nel riportare in equilibrio l’economia dopo crisi reali, benché determini sempre l’andamento dei prezzi. 2. La rivoluzione keynesiana sancì la rigidità dei prezzi e dei salari, per cui il prodotto e l’occupazione sono determinati dall’interazione delle forze della domanda e dell’offerta. A differenza di quella classica, che è verticale, la curva OA keynesiana ha pendenza crescente e gli shock di origine fiscale o monetaria della domanda aggregata incidono sia sui prezzi sia sul prodotto reale; non esiste meccanismo di autocorrezione dei prezzi e l’economia può quindi attraversare periodi prolungati di depressione o inflazione. 3. Nella moderna visione keynesiana, la politica monetaria e fiscale può sostituire salari e prezzi flessibili, stimolando l’economia durante le recessioni e rallentando la domanda aggregata durante le espansioni per prevenire le tendenze inflazionistiche. 33.2 La scuola monetarista 4. Secondo il monetarismo l’offerta di moneta è il principale fattore che determina le variazioni di breve periodo sia del PIL nominale sia di quello reale, nonché le variazioni di lungo periodo del PIL. 5. Il monetarismo si fonda sull’analisi delle tendenze della velocità di circolazione della moneta per comprendere l’effetto della moneta stessa sull’economia. La velocità di circolazione della moneta (V) è definita come rapporto tra il flusso monetario del PIL e la massa monetaria M: PIL PQ V ⬅ ––– ⬅ ––– M M Anche se V non è necessariamente costante (se non altro perché aumenta insieme ai tassi di interesse) i monetaristi fanno affidamento sul fatto che le sue variazioni siano regolari e prevedibili. 6. Dalla definizione di velocità di circolazione deriva la teoria quantitativa dei prezzi: V P ⬅ kM dove k ⬅ ––– Q Questa teoria, che considera P quasi strettamente proporzionale a M, è utile per comprendere l’iperinflazione e certe tendenze di lungo periodo, ma non dovrebbe essere presa alla lettera. 7. La scuola monetarista sostiene tre tesi principali: (a) la crescita dell’offerta di moneta è il principale fattore che deter- mina sistematicamente la crescita del PIL nominale; (b) i prezzi e i salari sono relativamente flessibili e (c) l’economia privata è stabile. Queste tesi suggeriscono che le oscillazioni macroeconomiche si verificano soprattutto in seguito a una crescita irregolare dell’offerta di moneta. 8. Il monetarismo è generalmente associato alla filosofia politica del laissez-faire e contrario al forte intervento pubblico. Desiderando evitare l’intervento attivo dello Stato, e credendo nell’intrinseca stabilità del settore privato, i monetaristi propongono spesso che l’offerta di moneta cresca al tasso fisso del 3 o 5% annuo. Alcuni monetaristi ritengono che questo determinerà una crescita costante con prezzi stabili nel lungo periodo. 9. La Federal Reserve condusse un esperimento monetarista a tutto campo dal 1979 al 1982. L’esperienza di questo periodo convinse la maggior parte degli osservatori che la moneta è un fattore forte nella determinazione della domanda e che quasi tutti gli effetti di breve periodo si riversano sul prodotto anziché sui prezzi. Ma, come suggerisce la critica di Lucas, la velocità di circolazione potrebbe diventare piuttosto instabile se si seguisse l’approccio monetarista. 33.3 La nuova macroeconomia classica 10. La nuova macroeconomia classica si basa su due ipotesi fondamentali: gli individui si creano aspettative in modo efficiente e razionale e i prezzi e i salari sono flessibili. Da questi due presupposti deriva che tutta la disoccupazione è volontaria; la curva di Phillips, inoltre, è verticale nel breve periodo, anche se può sembrare altrimenti. I modelli del ciclo economico reale indicano variazioni della tecnologia e dei fattori di produzione quali chiave delle fluttuazioni del ciclo economico. 11. Secondo il teorema dell’inefficacia della politica economica i provvedimenti pubblici prevedibili non possono influire sul prodotto reale e sulla disoccupazione. La nuova economia classica afferma che, anche se si può riscontrare che la curva di Phillips di breve periodo ha pendenza decrescente, non si può sfruttare la pendenza ai fini di ridurre la disoccupazione. Se i responsabili politici tentano sistematicamente di aumentare la produzione e di diminuire la disoccupazione, i cittadini arriveranno ben presto a comprendere e prevedere questa strategia. Le regole politiche fisse produrranno migliori risultati economici. 12. I critici della nuova macroeconomia classica sostengono che i prezzi e i salari sono rigidi nel breve periodo. Inoltre, ricordando che le teorie basate sull’influenza delle previsioni (soprattutto quella secondo cui i cicli economici sono provocati da percezioni errate e che si ha disoccupazione ciclica quando individui confusi lasciano il proprio impiego) sembrano forzate come spiegazione di gravi crisi economiche come quelle degli anni ’30 o dei primi anni ’80 negli Stati Uniti e degli anni ’90 in Europa. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education CAPITOLO 33 Scuole e dibattiti di macroeconomia 13. Rivedete il bilancio provvisorio dell’attuale sintesi tradizionale delle scuole di macroeconomia in conflitto. 33.4 Le prospettive dell’economia del nuovo secolo 14. Ricordate il detto secondo il quale la produttività non è tutto, ma nel lungo periodo è quasi tutto. La capacità di un Paese di migliorare il proprio tenore di vita nel tempo dipende 23 quasi interamente dalla capacità di migliorare le tecnologie e il capitale utilizzato dalla forza lavoro. 15. La promozione della crescita economica implica anche il miglioramento del ritmo di produttività totale dei fattori, che misura il prodotto totale per unità dei fattori totali. Il principale ruolo dello Stato è quello di assicurare liberi mercati, promuovere una forte concorrenza e sostenere la scienza e la tecnologia di base. Per fissare i concetti chiave P Keynes contro gli economisti classici prezzi e salari flessibili contro prezzi e salari rigidi la legge di Say o degli sbocchi punti di vista alternativi sull’offerta aggregata Velocità di circolazione e monetarismo velocità di circolazione della moneta: MV ⬅ PQ teoria quantitativa della moneta e dei prezzi: P ⬅ kM esperimento monetarista nel periodo 1979-1982 Nuova macroeconomia classica aspettative razionali (prospettive), aspettative adattive (retrospettive) teorema dell’inefficacia della politica economica ciclo economico reale, salari di efficienza princìpi dell’economia orientata all’offerta presupposti fondamentali: aspettative razionali e prezzi e salari flessibili critica di Lucas teoria dell’equivalenza ricardiana e effetti della politica fiscale Domande per studiare e autovalutarsi D 1. Illustrate, anche graficamente, la legge di Say degli sbocchi. 2. Illustrate la teoria quantitativa della moneta focalizzando l’attenzione sull’equazione di scambio e sul ruolo della velocità di circolazione delle diverse componenti. 3. “I prezzi variano proporzionalmente all’offerta di moneta.” Discutete criticamente questa affermazione. 4. Confrontate le posizioni Neo-Keynesiane e monetariste sul comportamento della domanda aggregata. 5. Confrontate le posizioni Neo-Keynesiane e monetariste sul comportamento dell’offerta aggregata. 6. Una politica monetaria ottimale fissa la crescita dell’offerta 7. 8. 9. 10. di moneta a un tasso fisso mantenendolo costante in tutte le condizioni economiche. Argomentate la logica di questa prescrizione monetarista Illustrate il ruolo delle aspettative razionali nella nuova macroeconomia. “I Titoli di Stato non sono vera ricchezza.” Argomentate questa affermazione utilizzando l’equivalenza ricardiana. La disoccupazione involontaria è una caratteristica d’equilibrio del sistema economico. Discutete quest’affermazione. Illustrate, anche con l’ausilio dei grafici, la relazione esistente tra la “vera” curva di Phillips e quella “apparente”. Domande e problemi per esercitarsi D 1. I monetaristi affermano che solo la moneta conta, i keynesiani rispondono che la moneta conta, ma contano anche altri fattori, quali la politica fiscale. Spiegate e valutate ciascuna posizione. Potreste non essere d’accordo con i monetaristi e credere comunque che la politica monetaria dovrebbe essere usata per contrastare le recessioni? Fornite le vostre argomentazioni. 2. Supponete che il PIL nominale fosse 1 000 miliardi nell’anno zero, mentre il deflatore del PIL era 1, nello stesso anno. Inoltre l’offerta di moneta negli anni 0, 1, 2, 3 e 4 era (in miliardi di euro) di 50, 52, 55, 58 e 60. a. Indicate il livello del prodotto nominale negli anni 1, 2, 3 e 4 secondo la teoria strettamente quantitativa della moneta. b. Se non ci fosse crescita del prodotto potenziale e se il livello dell’offerta di moneta seguisse l’andamento previ- sto, quale sarebbe il livello del PIL reale secondo la nuova macroeconomia classica? 3. Se, in periodi di espansione, si stampassero e spendessero 100 000 miliardi di banconote, che cosa accadrebbe ai prezzi? C’è qualcosa di vero dunque nella teoria quantitativa? Che cosa potrebbe accadere ai prezzi se M aumentasse dell’1% durante una depressione? 4. Un economista keynesiano potrebbe raccomandare una riduzione delle imposte per rilanciare l’economia. Quale sarebbe l’effetto sulla curva DA, sul prezzo e sul prodotto reale? Fornite una risposta secondo la teoria monetarista. (Suggerimento: cosa accade alla velocità di circolazione?) 5. Definite la velocità di circolazione (V); per i dati della Tabella 33.2 calcolate il tasso di crescita annuo dell’offerta di moneta e il livello e il tasso di variazione della velocità di circolazione. Tracciate anche il grafico delle variabili. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education 24 PARTE VI L’economia aperta e le politiche economiche Tabella 33.2 PIL nominale (miliardi di dollari) Offerta di moneta M1 (miliardi di dollari dopo un intervallo di 12 mesi) 1 3 131,4 408,9 2 3 259,2 436,5 Soluzioni e test a risposta multipla sul sito: www.ateneonline.it/samuelson20e Anno 3 3 535,0 474,5 4 3 932,8 521,2 5 4 213,0 552,1 6 4 452,9 620,1 7 4 742,5 724,7 8 5 108,3 750,4 9 5 489,1 787,5 10 5 803,3 794,8 6. Quali effetti di ciascuno dei fattori riportati di seguito prevederebbero i monetaristi, i keynesiani e i nuovi macroeconomisti classici sull’andamento dei prezzi, del prodotto e dell’occupazione (in ciascun caso mantenete costanti le imposte e l’offerta di moneta, a meno che non si parli specificamente del contrario)? a. Un grande taglio alle imposte. b. Un grande aumento dell’offerta di moneta. c. Un’ondata di innovazioni che fa crescere il prodotto potenziale del 10%. d. Un boom delle esportazioni. 7. Nell’analisi della domanda di moneta e nella curva della domanda di moneta della Figura 26.4 si mostrava che la domanda di moneta era sensibile ai tassi di interesse. Quale sarebbe l’impatto di tassi di interesse più elevati sulla velocità di circolazione a un dato livello del PIL nominale? Quali sarebbero le implicazioni della domanda di moneta sensibile ai tassi di interesse per le argomentazioni monetariste, che si fondano sulla velocità di circolazione costante della moneta? 8. Enunciate e spiegate la legge di Say. Partendo dall’equilibrio macroeconomico supponete che il prodotto potenziale aumenti, ma la domanda aggregata rimanga invariata. Usando l’estensione grafica della Figura 33.1, mostrate come l’offerta crei la propria domanda. Fornite una descrizione verbale del processo. 9. Problema avanzato (sulle aspettative razionali): considerate l’effetto delle aspettative razionali sul comportamento relativo al consumo. a. Supponete che lo Stato proponga un taglio temporaneo delle imposte di 20 miliardi di euro che duri un anno. I consumatori con aspettative adattive potrebbero supporre che il proprio reddito disponibile sia aumentato di 20 miliardi di euro all’anno. Quale sarebbe l’effetto sulla spesa per consumi e sul PIL nel modello semplificato del moltiplicatore del Capitolo 24? b. Supponete poi che i consumatori abbiano aspettative razionali e prevedano che il taglio delle imposte duri un solo anno. Essendo consumatori “del ciclo di vita” riconoscono che i redditi medi della propria vita aumenteranno (poniamo) solo di 2 miliardi all’anno, non di 20 miliardi di euro all’anno. Quale sarebbe la reazione di tali consumatori? Analizzate poi l’impatto delle aspettative razionali sull’efficacia di tagli alle imposte temporanei. c. Infine, supponete che i consumatori si comportino secondo la visione ricardiana. Quale sarebbe l’effetto della riduzione delle imposte sul risparmio e il consumo? Spiegate la differenza tra i vari modelli. 10. Sono state proposte le politiche sottoelencate per accelerare la crescita economica negli anni ’90. Per ciascuna spiegate l’effetto dal punto di vista qualitativo sulla crescita del prodotto potenziale e del prodotto potenziale pro capite. Se possibile, fornite una stima quantitativa dell’aumento della crescita del prodotto potenziale e di quello potenziale pro capite nel prossimo decennio. a. Diminuire il disavanzo del bilancio pubblico del 2% del PIL aumentando il rapporto tra investimenti e PIL della stessa percentuale. b. Aumentare i sussidi al settore ricerca e sviluppo dello 0,25% del PIL, supponendo che questo sussidio aumenti la ricerca e lo sviluppo privati dello stesso importo, e che il settore ricerca e sviluppo abbia un tasso di rendimento sociale quadruplo rispetto a quello degli investimenti privati. c. Ridurre le spese per la difesa dell’1% del PIL con un moltiplicatore pari a 2. d. Diminuire il numero di immigrati in modo che la forza lavoro scenda del 5%. e. Aumentare gli investimenti in capitale umano (o nell’istruzione o nell’apprendimento sul posto di lavoro) dell’1% del PIL. P. A. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino – Economia 20e © 2014, McGraw-Hill Education
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