Lo sguardo penetrante „La fotografia è più di un‘arte, è il fenomeno solare dove l‘artista collabora con il sole“, scrive Alphonse de Lamartine verso la metà dell‘Ottocento. Per chi conosce il processo creativo che è alla base dei nuovi lavori fotografici di Erich Dapunt, questa affermazione del poeta francese non vale soltanto per gli aspetti tecnici della macchina fotografica; perché Erich Dapunt sceglie piuttosto la caratteristica naturale delle superfici lucide di riflettere la luce quale contenuto focale della sua serie di fotografie. Il gioco tra ciò che crediamo di vedere e ciò che è veramente reale affascina il fotografo ed è stato ripetutamente oggetto centrale della sua produzione artistica. Nelle precedenti raccolte, ad esempio in “reality & fiction“, egli ha scelto come contenuto le pubblicità giganti di New York, alte come palazzi, per catturare così con la macchina fotografica, in maniera diretta ed emozionante, il rapporto tra realtà e copia, mentre nel volume seguente, intitolato „interplay“, egli permette di gettare lo sguardo dietro le facciate di case tipiche della costa occidentale americana, di Berlino o del Baltico. In questa nuova serie di fotografie egli si spinge però molto più in là. Ancora una volta il punto di partenza del suo lavoro di ricerca fotografica è costituito da un ambiente cittadino, con le sue superfici specchianti e le facciate trasparenti; ma all‘artista non basta lo sguardo lineare sugli scintillanti highlight architettonici, sulle particolarità stravaganti o sui dettagli insignificanti dei paesaggi urbani: Erich Dapunt è alla ricerca ambiziosa della copia nell‘immagine della realtà, dell‘anima segreta dell‘organico tessuto cittadino. Non il corporeo, bensì piuttosto ciò che penetra, non ciò che è immediato, bensì quanto è nascosto, non lo statico, ma ciò che è dinamicamente mobile rappresenta l‘obiettivo delle sue inquadrature. Senza quanto c‘è dietro, ciò che sta di fronte agli occhi ed è direttamente visibile non ha abbastanza fascino per venir messo a fuoco da Erich Dapunt. In città come Bruxelles, Stoccarda, New York, Venezia (Erich Dapunt viaggia spesso e volentieri), ma anche a Bolzano, la città in cui vive, egli immortala ciò che il semplice passante sfiora con il suo sguardo periferico, registrandolo solo raramente in maniera cosciente. Lo strumento di cui si serve per trasmettere le sue informazioni visuali sono le superfici specchianti delle vetrine o delle facciate delle case, che sono in grado di catturare le onde della luce e almeno in parte di rifletterle in maniera ordinata. Il contesto più immediato viene riflesso in una certa misura dalle superfici specchianti e si sovrappone allo sguardo che penetra all’interno dei contenitori di vetro. In tal modo il fotografo riesce a far compenetrare l‘una nell‘altra realtà diverse e a mettere l‘osservatore di fronte alla sfida dell‘illusione visiva. Le opere di Dapunt provocano necessariamente nello spettatore frastornato un processo di decomposizione di elementi visivi contradittori, tra materialità e riflesso, noto e ignoto, naturale e artificiale. Ma il fotografo stimola e provoca il nervo ottico, perché attraverso lo sguardo penetrante e la prospettiva scelta con arte egli riesce a far coincidere quasi perfettamente diversi livelli di interno ed esterno, primo piano e sfondo, fino a creare un collage di luci pluridimensionale che fa sì che il legame tra il riflesso sulla superfice specchiante statica e ciò che traspare da dietro si chiarisca solo ad uno sguardo approfondito: piazze circondate da alberi penetrano all‘interno di un esercizio gastronomico, sedie sembrano poggiare solidamente sull‘acqua, auto di lusso sono parcheggiate in mezzo ad incroci stradali, biciclette sono posteggiate ordinatamente nella hall di un hotel o addirittura segnali stradali sono abbandonati in una sala riunioni. I puzzle di immagine e rispecchiamento ricordano Alice nel paese delle meraviglie e dissolvono le leggi di una realtà apparentemente comprensibile e conosciuta. Il fascino dell‘inganno ottico e dei riflessi ha una tradizione nella storia dell‘arte che giunge fino all‘antichità. Specchi sono stati e vengono ancora impiegati per accennare a quanto non è direttamente visibile e spesso anche quali testimoni di un tempo passato o come messaggeri di un tempo futuro, per alludere a ciò che non è stato ancora scoperto, al non detto o a quanto fino al momento della creazione del quadro non è ancora successo. Un esempio famoso è il „Ritratto dei coniugi Arnolfini“ di Jan van Eycks, del 1439, nel quale una coppia viene rispecchiata da dietro, mostrando all‘occhio dello spettatore lo spazio che sta di fronte ad essa. Mentre nella pittura il gioco con l‘inganno e i rispecchiamenti rappresenta un soggetto spesso utilizzato, con lo sviluppo della fotografia viene messa al centro la copia della realtà e per questo motivo agli inizi dell‘arte fotografica le illusioni sono meno frequenti. Solo nel ventesimo secolo, quando la macchina fotografica raggiunge la sua maturità e si evolve attraverso l‘accorciamento dei tempi di esposizione, gli affinamenti tecnici e il pluriforme incremento delle funzioni, anche la fotografia si avvicina sempre di più a un linguaggio narrativo e addirittura fizionale, che trova il suo punto più altro nella fotografia digitale e nelle possibilità praticamente infinite di rielaborare il materiale fotografico. Erich Dapunt è rimasto tuttavia fedele al carattere originario dello strumento macchina fotografica, è padrone della tecnica ed è quindi in grado di dare espressione al suo sguardo per il particolare. Le sue foto non sono sovrapposizioni digitali realizzate al computer, ma sono, per dirla con il linguaggio di Lamartine, „fenomeni solari“, riflessi di luce naturali di fronte a una realtà di sfondo non arrangiata. Grazie al suo senso estetico, alla sua comprensione per idee astratte, alla sua sensibilità per la complessità, alla sua gioia di osservare e alla sua pazienza nell‘attendere la composizione ideale, Erich Dapunt diventa l‘architetto visuale di spazi visivi urbani bidimensionali. Lisa Trockner
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