Sei romanzi perfetti

Liliana Rampello
Sei romanzi perfetti
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© il Saggiatore S.r.l., Milano 2014
Sei romanzi perfetti
A mia madre, che adorava ballare,
e a mio fratello Enzo,
dal riso contagioso
Sommario
La ragazza che sapeva ridere
9
Una nuova protagonista del romanzo di formazione
Ragione e sentimento e Persuasione
25
La conversazione è azione
Orgoglio e pregiudizio e Mansfield Park
81
Una manciata di miglia
Emma, città, campagna (e L’abbazia di Northanger)
141
In conclusione
169
Note
179
Bibliografia
191
Ringraziamenti
201
La ragazza che sapeva ridere
Per nessun motivo potrei mettermi seriamente a
scrivere un romanzo serio, se non per salvarmi la
vita; e, se fosse indispensabile rimanere imperturbabile e non lasciarmi mai andare a ridere di me stessa
o degli altri, sono certa che verrei impiccata prima
di finire il primo capitolo.
Jane Austen
Ho un ricordo in testa da molti anni, una vacanza assurda alle isole
Canarie, che trovavo brutte, per via di un umore pessimo, con mia figlia Alice e una sua amica, Agnese. Due adolescenti come altre, benché lettrici appassionate e dunque, per questo, forse un po’ diverse.
Una sera, uscendo dal bagno dopo la doccia, le ho trovate già a letto,
entrambe con un libro in mano e l’aria concentrata e molto divertita. Una stava leggendo Jane Eyre e l’altra Orgoglio e pregiudizio. Era
successo anche a me di leggere quei libri più o meno alla loro età, e
ricordo la mia invidia nel ripensare a quanta gioia avevo provato ai
tempi, quanto lontano mi avessero portato dalla mia stanza, il brivido sottile di un mondo altro, popolato da donne, ancora sconosciuto,
soltanto annusato ma sentito come vivo e vero.
Una semplice esperienza di lettura che «è verità universalmente
riconosciuta», tanto da accadere anche in Iran, di recente, e sotto un
regime violento, come racconta Azar Nafisi nel suo bellissimo Leggere Lolita a Teheran: «Anche se riuscivamo a divertirci con tutti gli
scrittori, Jane Austen era veramente il massimo. A volte ci lasciavamo proprio andare, ridevamo come bambine, facevamo commenti
maliziosi, insomma ce la spassavamo. Del resto, come si fa a leggere i
10 Sei romanzi perfetti
primi paragrafi di Orgoglio e pregiudizio senza rendersi conto che era
proprio quello che la Austen chiedeva ai lettori?».1
Forse è quel mio banale ricordo che vorrei afferrare scrivendo, riuscire a rivivere l’esperienza di libertà, la passione allegra e intelligente
che si sprigiona dalle pagine di Jane Austen, «la più perfetta artista fra
le donne».2 La perfezione può essere intesa in vari modi, né intendo
arrischiare definizioni, se mai infilarne una sequenza, per guardare di
nuovo, anche solo a volo d’uccello, attraverso sei romanzi, l’invenzione della sua narrazione del mondo, scoppiettante riga dopo riga fino
all’esplosione finale, che non è il matrimonio, ma la ricerca della felicità.3 Non ho parlato volutamente di qualcosa di diverso e sottilmente
tendenzioso, che spesso corre sotterraneo nella critica più sofisticata, ovvero di narrazione del suo (piccolo) mondo, perché credo, con
Erich Auerbach e non solo, che l’universale concreto, quale si offre in
un’opera d’arte, contenga sempre una concezione paradigmatica del
destino umano.
A cavallo fra due secoli, sotto l’urto di forti cambiamenti economici, politici, sociali, la Guerra, la Marina, l’Impero, le Colonie, la
Schiavitù, la Francia di Napoleone e Waterloo, l’imminente salita al
trono della regina Vittoria, lei, Jane Austen, imperturbabile, scrive
l’essenziale, scorticando la realtà per mostrarla al di sotto di tutti i
suoi irreali camuffamenti. Punta diretta a un mondo romanzesco
«radicalmente linguistico», in cui tutta la realtà «è “codificata” in
un idioma preciso e caratterizzato»; i suoi romanzi, ci dice George
Steiner cogliendo bene il punto, sono «quasi estranei alla storia, e
tuttavia l’incidenza in essi del tempo e del luogo si afferma splendidamente».4 Un’impresa non da poco, realizzata con grande calma e
soprattutto sorridendo: che maestria! Unita a un’altra consapevolezza, che l’accompagna senza tentennamenti, per la quale lei sembra
già sapere quanto dirà, a distanza di due secoli, Milan Kundera, ovvero che «applicata all’arte, la nozione di storia non ha nulla a che
vedere con il progresso […]. L’ambizione del romanziere non è di far
La ragazza che sapeva ridere 11
meglio dei suoi predecessori, ma di vedere ciò che non hanno visto,
dire ciò che non hanno detto».5
E certamente, nella letteratura inglese e non solo, Austen mostra
straordinarie capacità d’invenzione, che non poggiano su alcuna tradizione femminile già consolidata, e sarà proprio lei, dunque, la prima scrittrice maestra di molte e molti. Legge con accurata curiosità
le sue contemporanee, fra le altre Maria Edgeworth, Ann Radcliffe,
Charlotte Lennox e in particolare Fanny Burney con tutte le sue
eroine, Evelina, Cecilia, Camilla, romanzi gotici e decine di conduct
books del periodo, 6 ma vale la pena di ricordare soprattutto quanto
a fondo conosca Shakespeare, e come da lui abbia imparato a manovrare in modo magistrale i dialoghi, il tempo delle battute, il ritmo
della lingua.
La faccio entrare in scena appena ragazzina, con le parole di Grazia Livi, che la immagina «nel presbiterio di Steventon, nel cuore
dell’Hampshire, nel 1792, un pomeriggio di festa»,7 mentre recita
qualcosa da lei stessa scritto per il divertimento della famiglia e dei
domestici: risate e applausi a non finire. Ha solo dodici anni quando
scrive Frederic & Elfrida e Jack & Alice, quindici, pare, per Love &
Friendship, veri e propri esercizi di satira, che secondo Ginevra Bompiani stanno «un passo prima dell’ironia: nel riso, nella caricatura,
nella gioiosa, ribalda libertà del ridicolo».8 Ed eccola finalmente,
«slanciata, le guance rosee, la bocca sottile e allegra, gli occhi vividi,
porta i suoi diciassette anni con la stessa levità di uno stivaletto o di
un nastro di seta girato attorno al collo. S’inchina più volte. E intanto
tira la gonna più su del dovuto, maliziosamente, tenendo i mignoli
alzati».9
Diventata adulta, davanti al suo ritratto c’è Mario Praz, che ci fa
vedere «una signorina positiva, in cuffietta pieghettata e scollo pieghettato; la fronte è ombreggiata dai riccioli, gli occhi son grandi e
paion benigni, ma le labbra son sottili e crudeli, sì da distruggere
l’impressione di benignità suggerita da quelli. Il significato di questa
12 Sei romanzi perfetti
figura è incerto; non è un volto misterioso, e al tempo stesso pare impenetrabile».10 Il corsivo è mio, perché vorrei tenere a mente le parole
del grande critico, l’individuazione di due aggettivi utili non solo,
forse, per leggere il volto di Jane Austen, ma soprattutto il volto di
un’autrice che lavora a una regia massimamente impersonale.
Non era sola, la signorina. Aveva una sorella più grande, Cassandra, che è la presenza più significativa della sua biografia, poverissima di fatti e di avventure, e una grande e affettuosa famiglia, genitori
illuminati e cinque fratelli maschi, tutti intelligenti, colti, sensibilmente aperti e solidali. Questa struttura elementare della parentela subirà nel suo immaginario una serie incantevole di variazioni
e un’altrettanto rimarchevole serie di ripetizioni, ma quel rapporto
con Cassandra, così intenso da essere felicemente bastevole, riaffiora esplicito tra le sorelle dei suoi romanzi – Elinor e Marianne di
Ragione e sentimento, Elizabeth e Jane di Orgoglio e pregiudizio – e
risuona con timbro variato ovunque. Jane Austen, infatti, non ha mai
inventato eroine del tutto solitarie, ma ragazze che, magari orfane o,
peggio, con madri sciocche e incompetenti, hanno comunque sempre un’altra donna al fianco e con lei, presto o tardi, nel bene o nel
male, secondo affinità o diversità, affrontano la vita. Questo mi sembra l’insegnamento più duraturo e vivo del rapporto tra quelle due
sorelle, tanto che riesco a perdonare a Cassandra persino il fuoco del
camino con cui ha mandato in fumo biglietti, fogli e lettere; quelle
carte avrebbero potuto rivelare il volto più intimo, rimasto segreto, di Jane, mentre quanto è stato risparmiato riguarda solo alcuni
aspetti della vita quotidiana e familiare, qualche ballo o qualche gita,
e ogni altra simile innocua faccenda.11
Il ritratto scritto dal nipote, il vicario James E. Austen-Leigh, nel
1870, circa cinquant’anni dopo la morte di lei (1817), ci racconta di
una zia Jane dotata di «una mente equilibrata, una base di gran buon
senso, la dolcezza di un cuore capace di affetto, principi ben fissi che
davano regola a tutto», e il suo librino censura come improbabile
La ragazza che sapeva ridere 13
l’osservazione di una certa Miss Mitford che, avendola conosciuta
di persona quando Jane era ancora ragazzina, l’aveva definita in una
lettera «la più graziosa, sciocca, affettata farfalla-caccia-marito che
lei ricordi».12 A questo accostiamo ora un altro giudizio, messo in
bocca a un’anonima amica della signorina Mitford, che a proposito
di lei afferma: «finché Orgoglio e pregiudizio [1813] non dimostrò la
preziosa gemma che si nascondeva in quel rigido astuccio, il suo posto in società non era più riguardevole di quello di un attizzatoio o
di un parafuoco… Ma ora la cosa è molto diversa, essa è sempre un
attizzatoio, ma un attizzatoio di cui tutti hanno paura… Un bello
spirito, una disegnatrice di caratteri, che però non parla, è veramente
qualcosa che fa paura!». Il profilo appare subito più complesso e più
vicino al vero, pieno di contrasti «che non sono affatto incompatibili» perché, spiega Virginia Woolf citando e commentando questo
«pettegolezzo», in tutti i suoi romanzi incontriamo proprio la stessa
complessità di carattere.13
Acuta e silenziosa osservatrice, la scrittrice posa sugli uomini uno
sguardo impavido, poco tradizionale, anzi molto moderno, perché
interno non alla logica della complementarietà dei sessi, ma a quella
dello scambio, e questo è un altro elemento decisivo della sua originalità che va subito sottolineato.14 È lo scambio simbolico che trasforma l’apparente (semplice) economia domestica, sterline e ghinee
contate una per una, patrimoni, doti e lasciti accuratamente dichiarati, in economia delle relazioni umane, e dunque del mondo, e che
interpreta l’affrontarsi delle donne e degli uomini (ovvero sia il «mettersi di fronte», sia il «confliggere» di due singolarità in carne e ossa)
come primo ineludibile mattone di ogni esistenza. Ragazze e ragazzi,
nell’età più lieve e di massima responsabilità: forse è questo che parla
ancora ai giovani di quell’età, cui oggi non sono date più né leggerezza né responsabilità, e a chi, ormai con un passato alle spalle, sa che
tutto in effetti è capitato allora. Nessuna nostalgia o rimpianto. Non
c’è questo tipo di polvere nell’universo della Austen, si respira un’aria
14 Sei romanzi perfetti
di autenticità che deriva dalla spontanea scoperta che «la vita in sé
era l’oggetto del suo amore e del suo studio appassionato» e che non
aveva «nessun desiderio che le cose fossero diverse da come sono»;15
per far sentire il suono della sua risata, tono e timbro della lingua che
lo raccontano devono continuamente tingersi di un’ironia sottile,
sfrenata, multipla, complice, continua, pervasiva. La perfezione dello
stile diventa per questo un infinito e agile moltiplicatore del piacere
della lettura.
L’ironia e lo stile indiretto libero aprono quella distanza in cui il
piccolo mondo della cara zia Jane, ricordato con minuzia anche dal
nipote, è sovvertito al punto da riflettere con spietato rigore verbale
il grande mondo: una messa a soqquadro, una messa in commedia
spesso crudele ma veritiera, che spolpa il sentimentalismo e mette a
nudo la logica raffinata e violenta della società patriarcale e divisa in
classi. È questo il punto di grande sconcerto per chi avvicina criticamente i testi di Jane Austen, la sua consapevolezza della brutalità
dell’ordine delle cose esistenti, eppure l’assenza di ogni forma di legittima ribellione. Un’intelligenza abbagliante, una coscienza limpida,
incorruttibile, un genio comico la cui voce impietosa e incontenibile
rovescia la realtà come un guanto, mettendo alla berlina tutte le convenzioni della civiltà in cui lei stessa crede. L’enigma profondo della
sua voce sembra risolversi, però, quando cominciamo a sentire, proprio ad avvertire con chiarezza che la sua parola scrive della vita non
contro qualcosa o qualcuno, ma semplicemente per la vita in sé e per
la propria esistenza (il suo sapere viene in gran parte dal lavoro su se
stessa), riuscendo in tal modo a restituire le forme complesse e libere
della realtà. Si tratta di desiderio di verità (come riconosce lealmente
Praz, ricordando che «nulla essa ci descrive che non abbia conosciuto e verificato»),16 ma insieme, aggiungerei, di un dire inevitabile di
verità, di una incorrotta responsabilità verso il linguaggio, in virtù
di una piena consapevolezza delle ragioni della propria arte, cui non
verrà mai meno, come tutti i grandi e veri artisti. Oltre il suo stes-
La ragazza che sapeva ridere 15
so personale carattere, che doveva essere ben complesso, se stiamo
all’evidente problematicità che distribuisce in misura diversa a tutte
le sue eroine. «Teneva seco il suo cervello mentre tutte le altre andavano attorno cercando il loro» dice di lei Chesterton, e così continua:
«Sapeva ciò che sapeva come un dogmatico autentico, ignorava ciò
che ignorava come un autentico agnostico».17 Ed «era saggia quanto il
dottor Samuel Johnson» sottolinea ammirato Harold Bloom.18
Insomma, sono molto varie le ragioni per cui leggere Jane Austen
è ancora così interessante e divertente, e ci affascina ancora tanto il
breve arco di tempo in cui si svolgono le sue storie, mentre ci chiediamo come mai tutto funzioni perfettamente nella sua macchina
narrativa. Si tratta di amore? Sì e no; si tratta di conflitto fra i sessi?
Sì e no; si tratta di conflitto di classe? Sì e no. Ai miei occhi di donna la ragione è più profonda e semplice: i suoi romanzi non parlano
di emancipazione («rispetto al» e «dentro il» mondo degli uomini),
ma di libertà femminile, agita sul «filo a piombo della ragione».19 La
narrazione muove le protagoniste lungo un percorso di formazione
che non si struttura, secondo il canone della tradizione maschile,
come «avventura dell’io», ma come trasformazione di sé in relazione con l’altra e l’altro; tutti e sei i romanzi costruiscono una trama
che non conosce (se non nei fili secondari) colpi di scena, ma avanza
attraverso la conversazione, così che il dialogo è l’azione necessaria e
sufficiente;20 tutti e sei disegnano lo spazio ristretto di un perimetro
definito e lo trasformano in un’ampia geografia morale, dal salotto al
giardino, dalla casa paterna alla casa maritale, dalla campagna alla
città. E siccome parlano di donne e di uomini, i corpi si sentono, benché la rarefazione della musica austeniana li faccia vibrare, contenuti
e trattenuti sensualmente, solo al momento giusto, e in quella misura
che, in quanto tale, allude sintomaticamente all’eccesso.
Ecco già anticipate quasi tutte le mie intenzioni critiche; svilupperò dunque il mio lavoro su questi tre piani, in modo da affrontare tre degli elementi che appartengono di diritto agli snodi centrali
16 Sei romanzi perfetti
dell’architettura di qualunque romanzo: personaggio, trama, spazio.
La temporalità è lineare, generalmente i pochi anni necessari a segnare la trasformazione di un’adolescente in ragazza da marito.
Volendo concentrare la mia lettura in questa direzione, accennerò
solo di scorcio a un problema interpretativo che torna di frequente ma
mi interessa meno, perché sembra confondere ogni buona intuizione,
oltre a essere già stato affrontato in mille modi. La formulazione più
chiara e fulminante della questione, ancora di recente, l’ha data Ornella De Zordo, intitolando la sua prefazione a tutti i romanzi della
Austen: «Is she queer? Is she prudish?». L’interrogativo, secco, mette a nudo proprio questa polarizzazione nelle letture, fra chi vede in
lei la scrittrice «moralista e didattica, che usa l’ironia per giudicare
l’individuo che non si uniforma ai valori della società» e, viceversa,
chi guarda a lei come all’autrice «intransigente e sofisticata che usa
ironia e autoironia per esprimere il dissenso dalle convenzioni sociali e narrative».21 Eccentrica o prude, potremmo tradurre con termini
appropriati al suo tempo, ma non so quanto sia utile cercare di decidere in un senso o nell’altro; la Austen sfugge a questo tipo di antitesi
ossificata, ci mette in scacco se vogliamo afferrarla e stringerla in una
definizione di comodo, perché la sua bravura consiste nell’aver saputo
raccontare con raro equilibrio e ironia le contraddizioni cruciali che
aveva sotto gli occhi e che sapeva osservare acutamente anche vivendo appartata in un piccolo paese di campagna. Rimanendo in bilico,
porta alla luce il vuoto impercettibile che l’impensato forma sempre
al di sotto del già pensato, quel ricamo delicatissimo, di facile smagliatura ed evanescenza, la cui solidità lei garantisce esclusivamente
confidando nella libertà della sua mente e nella continua problematizzazione delle sue stesse osservazioni.
Anche Malcolm Skey, nella sua intelligente introduzione alle lettere di Jane Austen, ben consapevole della natura antitetica della ricezione austeniana, ci guida nella stessa direzione, ricordando come,
a partire dal Memoir compilato dal nipote James E. Austen-Leigh, la
La ragazza che sapeva ridere 17
sua immagine sia «quella plasmata e pilotata dai vittoriani», e come
quella della scrittrice «sovversiva» sia andata invece formandosi dagli anni trenta in poi del Novecento.22 Aggiungo inoltre che, in molte
e analitiche pagine di studio, l’attraversamento ragionato della letteratura secondaria è già stato fatto con accuratezza da Beatrice Battaglia, il che mi permette di sentirmi sollevata da questa fatica. Il suo
lavoro critico e bibliografico indica precisamente, dall’Ottocento a
oggi, l’emergere di tre «immagini ricorrenti e apparentemente contrastanti»: a) la signora «aimable, dear, placid, modest» che scrive per
passatempo, «b) una scrittrice ben consapevole, serious-minded and
didactic; una moralista inflessibile», e infine «c) una scrittrice ironica
che ha assorbito la lezione individualistica di Hume, di Shaftesbury,
dei “sentimentalisti”, ben consapevole della relatività e del potere dei
valori sociali che soffocano l’individuo, in cerca quindi di una soluzione o un compromesso che renda meno dolorosa la condizione individuale».23 Il nodo è sempre lo stesso, che siano due o tre le direzioni quasi antitetiche della ricezione austeniana poco importa, perché
l’essenziale, in fondo, è che tutte queste inflessioni arrivino sempre,
in una forma o nell’altra, a volte anche obtorto collo, a riconoscere la
sua indiscutibile grandezza.
Citerò qualche esempio, tra i molti possibili, per rendere più evidente questo strano fenomeno e poi lasciar perdere l’intera questione.
Era Jane Austen una povera zitella di qualche talento, conformista e
perbenista, cui è capitato di scrivere qualche buona pagina, a volte
solo per brave signorine come lei, una vera scrittrice sì, ma di piccoli
orizzonti? Il dubbio assale il bravo critico, per esempio Emilio Cecchi. Questa «figlia di un parroco […] passò quasi tutta la sua vita in
residenze provinciali […] a umilmente spolverare i mobili casalinghi,
ricamare squisitamente e lavorare d’ago per i poveri; senza pose, senza isterie, con una precoce aria di zia e di zitella. Suonava il cembalo
[…], non le dispiaceva spiegar sciarade e comporne; infaticabilmente
baloccava i numerosi nipotini, e talmente subordinava le occupazio-
18 Sei romanzi perfetti
ni letterarie ai bisogni domestici, che spesso non ebbe neppure uno
studiolo da ritirarvisi e scriveva allora nel salotto comune, su piccole
cartelle per poter facilmente nasconderle sotto alla carta asciugante,
entrando qualche estraneo». Eppure sempre Cecchi, nella pagina seguente, afferma convinto che l’arte di questa stessa signorina «costituisce un silenzioso tramite sotterraneo fra il romanzo settecentesco
e il romanzo vittoriano, dico quello critico e ironico del Thackeray,
non l’eloquente e drammatico di Carlo Dickens».24 L’affermazione non
sembra da poco, questo significa caricare sulle spalle, non tanto esili
evidentemente, di un’autrice, di una signorina, nientemeno che il passaggio da un secolo all’altro, nello stile, nell’architettura compositiva,
nella visione della realtà rappresentabile nella misura della forma romanzo. Ma di nuovo, subito dopo, l’oscillazione fra riconoscimenti e
strozzature ricomincia: «campo ristretto», mancanza «d’orizzonte»,
«eccessi logaritmici della preoccupazione razionale» ecc. Insomma,
questo tipo di critica, spesso ricorrente, è interessante proprio perché,
nonostante alcune esibite sordità, è costretta a dire, quasi per inconsapevole ma incontrovertibile intuito, le cose importanti, quelle che solo
Miss Austen ha saputo fare.
Gira un po’ la testa anche nel leggere le quattro pagine che Mario
Praz le ha dedicato nella sua storia della letteratura inglese, in grado
di assommare, con pennello velocissimo, alcune decisive intuizioni
(la funzione del ballo come segno della «qualità ritmica» del romanzo austeniano, la sua psicologia «politica», dedita allo studio «degli
uomini in rapporto ad altri uomini in determinate condizioni d’ambiente» ecc.) alla compulsiva necessità di «ridurla» a qualcosa, una
categoria, un sottogenere, a una «soave» recinzione, alle conversation pieces,25 sempre però dovendo ricordare, al suo fianco, Addison o
quel gigante di Johnson, e dovendo aggiungere poi che le sue pagine,
seppure non travolgenti, «a ripensarci, lasciano nel nostro animo una
più profonda impressione di verità».26
Infine, a chiudere questo sommario e del tutto arbitrario elenco
La ragazza che sapeva ridere 19
di esempi di parziale incomprensione maschile, la cui evidenza suggerisce qualche utile pensiero, non può mancare un altro maestro,
Vladimir Nabokov, che a Mansfield Park ha dedicato una delle sue
indimenticabili lezioni di letteratura, definendolo «l’opera di una signora e il gioco di una bambina. Ma da quel cestino di lavoro esce
una squisita arte del ricamo e in quella bambina c’è una vena di genio
meraviglioso». Non però un «capolavoro dai toni così vividi come
[…] Madame Bovary e Anna Karenina […] mirabili nella loro arte
supremamente controllata».27 Premesso che l’intera lezione è di massimo interesse, e che non ci sono dubbi sull’arte di Flaubert e Tolstoj,
cos’è la nota stridula che sento? Di nuovo un orecchio che non riesce
ad aprirsi del tutto, che fa della differenza, che sente (Fanny Price, la
protagonista di Mansfield Park, invenzione femminile, Emma Bovary e Anna Karenina, invenzioni maschili), non la leva per una comprensione migliore, più ravvicinata al proprio oggetto, ma un ostacolo muto o a cui dare un nome banale, come questo: «Abbiamo avuto
bisogno di trovare l’approccio giusto. Lo abbiamo trovato, credo, e ci
siamo anche abbastanza divertiti con i suoi motivi delicati, con la sua
collezione di gusci d’uovo avvolti nell’ovatta». Queste sono le righe
con cui Nabokov, nel saggio immediatamente seguente, introduce
l’analisi di Casa desolata di Dickens, autore cui finalmente riesce ad
«arrendersi», senza sforzo, senza dover cercare «un piacere per interposta persona», e mi hanno sempre colpito per la loro chiarezza, 28 la
difficoltà ad avvicinare la verità della differenza, quasi mai ammessa
tanto è abbagliante. Ci era riuscita Virginia Woolf, con una delle sue
frasi-freccia, riferita agli scrittori e valida anche per i lettori: «Ma
anche così è sempre ovvio, perfino negli scritti di Proust, che l’uomo
è terribilmente ostacolato e parziale nella sua conoscenza delle donne, proprio come lo è la donna nella sua conoscenza degli uomini».29
Tutto qui, e con tutte le conseguenze che se ne possono dedurre per
entrambi i sessi e le loro «interposte persone», le diverse sensibilità,
formazione, interessi, storia personale, intenzioni.
20 Sei romanzi perfetti
Non voglio dimenticare, per questo, l’ammirazione di molti. Valga per tutti la voce di un grande poeta, Wystan H. Auden, di cui
ritaglio pochi tra i molti versi che la celebrano nella sua Letter to Lord
Byron:
There is one other author in my pack
[…]
You could not shock her more than she shocks me;
Beside her Joyce seems innocent as a grass,
It makes me most unconfortable to see
An English spinster of the middle class
Describe the amorous effect of «brass»,
Reveal so frankly and with such sobriety
The economic basis of society.30
E ancora l’affettuoso e puntiglioso e devoto ritratto scritto dal critico
David Cecil,31 e la migliore e più acuta comprensione, in anni recenti,
che troviamo negli studi critici di Carlo Izzo, Robert W. Chapman,
Tony Tanner o David Daiches.32 Quanto a Kipling, la lesse con profonda attenzione: esiste un suo racconto del 1924, The Janeites, che narra di un gruppo di commilitoni, durante la Prima guerra mondiale,
stretti in una società segreta le cui parole d’ordine riguardano tutte
personaggi e situazioni collegate ai romanzi di Jane Austen. Proprio
una di queste parole si rivelerà provvidenziale e salverà la vita all’unico
sopravvissuto del gruppo, in nome e in forza di una signorina d’altri
tempi che si occupava, in modo tranquillo, di combinare matrimoni.
Nella poesiola che accompagna il testo, intitolata Jane’s Marriage, la
scrittrice è accolta in Paradiso, fra gli altri, da Shakespeare.33 Acute,
affilate, con osservazioni di precisione sorprendente, sono anche le pagine che le dedica Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che riconosce «a
questa vecchia signorina» ogni valore: «La più grande scrittrice del suo
tempo; anzi la più grande scrittrice di tutti i tempi», «un tatto squisito»,
La ragazza che sapeva ridere 21
la spregiudicatezza e il tratto definitivamente antimelodrammatico a
spiegare la ragione della sua scarsa fortuna fra i lettori italiani.34
Ma, viceversa, non si possono ignorare, per esempio, l’antipatia
che suscitava in Mark Twain o in Emerson, o le aspre e violente incomprensioni di un’artista come Charlotte Brontë, che il 12 gennaio
1848, scrivendo a George Henry Lewes, chiede, stupefatta, come mai
gli piaccia tanto Miss Austen: «Non avevo mai sfogliato Orgoglio e
pregiudizio finché non ho letto la Sua opinione in proposito. Solo allora mi sono procurata il libro. E che cosa vi ho trovato? Un accurato
ritratto dagherrotipo d’un viso comune, un giardino coltivato e cintato con ogni cura, con aiuole precise e fiori delicati, ma neanche il
lampo di una fisionomia luminosa e vivida, non uno scorcio di campagna aperta, non un po’ d’aria fresca, non una collina azzurra, non
un torrente […], la signorina Austen è solo un’acuta osservatrice».35
Henry James, più avanti, la vede ancora «nel suo fresco e modesto
salottino d’altri tempi, con in grembo il lavoro e accanto il cestino
da ricamo», e ritiene la sua popolarità immeritata, semplicemente
dovuta alla «straordinaria grazia della sua naturalezza e, in effetti,
della sua scarsa consapevolezza».36 Altrove, ricorda Ian Watt, «con
una lode che è tipica della sua scrupolosa moderazione», James aveva
intuito qualcosa di meglio e di più acuto: «Le donne sono osservatori
delicati e pazienti: si può dire che stanno col naso attaccato al tessuto
della vita. Sentono e percepiscono il reale con una specie di tatto personale e le loro osservazioni sono raccolte in mille deliziosi libri».37
Più sicura nel giudizio la sua contemporanea Edith Wharton, che
parla con chiarezza dell’istinto infallibile dell’«impeccabile» Austen
per la misura: «Non c’è pericolo di trovare uno dei suoi personaggi
sproporzionato o rimbalzante qua e là senza scopo per la scena».38
Esiste poi tutto il filone critico-interpretativo cui ho già accennato citando gli studi della Battaglia, quello che ne fa un’icona queer,
e sul quale vale la pena di spendere qualche breve considerazione.
Qui Jane Austen è considerata, sotto sotto, una gran bella lingua ta-
22 Sei romanzi perfetti
gliente, la narratrice inaffidabile, sovversiva, anticipatrice di una ribellione radicale il cui strumento consapevole, l’ironia, mostrerebbe
di essere esclusivamente il velo di una parodia magistrale e metanarrativa. Personalmente credo che i romanzi difficilmente sopportino i
colpi affilati di un’accetta, in questo caso, poi, la misura che funziona
dall’interno della scrittura va tenuta fra le mani come fa il muratore
con la sua bolla e va usata con delicatezza e precisione, per provare a
capire come ha fatto la Austen a trasformare il suo accordo con una
realtà particolare in verità universale. «Il suo genio e le condizioni
della sua vita si accordavano completamente» afferma acuta Virginia
Woolf in Una stanza tutta per sé, mentre costruisce la linea genealogica di una tradizione di scrittrici che l’hanno preceduta, e riconoscendo proprio a Jane Austen «la stessa condizione nella quale scriveva Shakespeare», ovvero «senza odio, senza amarezza, senza paura,
senza protestare, senza far prediche». Capace di incarnare dunque
quello slancio della mente cui lei stessa sta tendendo, il farsi presente in ogni vero artista di una mente androgina, che non cancella il
corpo e il sesso in cui si radica, ma lo trascende, bruciando in se stessa ogni ostacolo materiale o culturale che lo zavorri, lo diminuisca,
lo costringa, impedendole di guardare l’infinito della libertà.39 «Per
questo non conosciamo Jane Austen e non conosciamo Shakespeare»
continua la Woolf «ed è per questa ragione che Jane Austen pervade
di sé ogni parola che ha scritto, proprio come fa Shakespeare.» Le
condizioni materiali, tutte, oltre a quelle ricordate anche da Cecchi, il
salotto comune e la carta asciugante, che avrebbero dovuto costituire
un ostacolo, sono le stesse in cui, al contrario, il «miracolo della sua
opera»40 avviene.
Una donna che agli inizi dell’Ottocento non si lamenta, non protesta e non rivendica (che sia proprio l’assenza di questo atteggiamento, da «emancipata», a velare il giudizio di Charlotte Brontë?)
ha molto da insegnare; tutto quello che lei sceglie di non fare e non
rappresentare è proprio quello che troppo spesso ha distrutto una
La ragazza che sapeva ridere 23
sensata e libera economia simbolica femminile. Questa riflessione
da sempre accompagna la mia lettura e forse l’ha influenzata più di
quanto io stessa sappia, per via della scoperta nei testi che, quando
una donna scrive, a fare la differenza non è la «condizione» patita,
ma la posizione di libertà scelta dell’autrice, tale da rendere la sua
opera, come ogni vera opera, «un campo di interrogazione del nostro
presente».41
I rapidi esempi fin qui illustrati sono evidentemente del tutto arbitrari, scandalosamente soggettivi, ma non intendono nemmeno,
in alcun modo, ripercorrere le ormai lunghe vicende della fortuna
di Jane Austen in Inghilterra e nel mondo, tra i contemporanei e i
posteri, né pretendono di inseguire le diverse mappe che si possono
tracciare, a partire dalla sensata ammirazione di molti fino all’idolatria eccessiva di molti altri, o al disprezzo senza sfumature di altri
ancora. Se si vuol sapere di Walter Scott, Margaret Oliphant, George
Eliot e George Henry Lewes, di Katherine Mansfield, Chesterton,
James o Huxley, di Truman Capote42 o Said, o Jamaica Kincaid, e
ancora su e giù per li rami, basta aprire uno fra i molti testi recenti,
come Jane’s Fame, di Claire Harman, 43 e la nostra curiosità sarà soddisfatta, compresa quella per i siti internet, i film, le serie televisive, le
rivisitazioni teatrali, i prequel e i sequel che ormai furoreggiano, dai
gialli (fra i quali il non memorabile Morte a Pemberley di P.D. James
e tutta la serie di Stephanie Barron) al boom della chick lit (come trovare marito o fare shopping…), dai manuali di comportamento agli
zombie, ai mostri marini. Insomma, un vero brand, con tanto di fan
club e pagina Facebook.
I giganti, si sa, non stanno sulle nostre spalle, se mai qualche volta (perché bisogna almeno accorgersene) è vero il contrario, quindi,
piuttosto che cercare di capire che cosa Jane Austen avrebbe voluto
o potuto fare data la sua condizione (di donna, di «zitella illetterata»
ecc.), forse è meglio guardare da vicino il mondo che, imperturbabile
e nonostante tutto inimitabile, lei sola ha visto, e ci fa vedere, nei suoi
24 Sei romanzi perfetti
romanzi, veri e propri «classici». Ovvero quei libri che non smettono
mai, come dice Italo Calvino, di raccontarci una storia, di dire quel
che hanno da dire. Del resto, sempre lui altrove ha scritto «amo Jane
Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia».44 (Oddio, non una sola scrittrice annoverata fra i suoi «classici»… forse c’è
un Polifemo nascosto, con il suo unico occhio, anche nei migliori.)