RASSEGNA STAMPA venerdì 10 ottobre 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il FattoQuotidiano.it del 09/10/14 Matrimoni gay, Fassino a Alfano: “Serve incontro, non possono decidere i prefetti” Il presidente Anci: "Serve una legge per colmare il vuoto normativo". Il ministro insiste: "Disobbedienza? Abbiamo potere di annullamento". Ma Pisapia a Milano trascrive 7 matrimoni all'estero. Fdi: "Faremo ricorso". La Corte di appello di Firenze annulla quelle di Grosseto. Il cardinale Coccopalmerio: "Non giudichiamo le coppie gay, ma che l'unione tra loro non è una cosa buona" di Redazione Il Fatto Quotidiano Né caso per caso né ordinanze prefettizie: serve un orientamento chiaro sulla materia dei matrimoni delle coppie omosessuali. E’ il senso del messaggio del sindaco di Torino e presidente dell’Anci Piero Fassino che manda al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro degli Interni Angelino Alfano per chiedere un incontro e definire meglio una questione “che la legge riconosce in capo agli enti locali” come dichiara Fassino. Tutto questo mentre vari sindaci d’Italia prendono posizione. L’ultimo in ordine di tempo è il primo cittadino di Catania Enzo Bianco (Pd): “Sono pronto a garantire il rispetto dei diritti civili”. Su posizioni simili i colleghi di Livorno, Messina, Bologna, Pescara. Meno netti i sindaci di centrodestra. Nel frattempo il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha trascritto 7 matrimoni all’estero (Fratelli d’Italia ha già annunciato ricorso). La prefettura di Udine, invece, ha inviato una lettera al Comune con cui ha rivolto un “invito” all’amministrazione a cancellare la trascrizione nello stato civile del matrimonio di Adele Palmeri e Ingrid Owen, che si sono sposate in Sudafrica e attualmente vivono in Belgio. ”Andremo avanti sul percorso intrapreso – replica il sindaco Furio Honsell parlando all’Ansa – Non è nostra intenzione accettare, sulla base di una circolare del ministro, di azzerare le considerazioni etiche e giuridiche che sono alla base della scelta fatta. Porteremo un tema così importante davanti a un tribunale”. Pubblicità Alfano: “Disobbedienza? Abbiamo il potere di annullamento” In giornata Alfano era stato di nuovo chiaro sul tema, rifiutando qualsiasi indulgenza in caso di disobbedienza civile dei sindaci italiani: “Noi abbiamo il potere di annullamento di queste registrazioni ed è quello che abbiamo già indicato di fare nella direttiva” ha detto il capo del Viminale entrando al Consiglio Ue. “Ho chiesto ai prefetti di far applicare la legge – aggiunge – non c’è stata lesione dell’autonomia dei sindaci perché i sindaci agiscono come ufficiali del governo e quella dei registri è competenza dello Stato. La legge non c’è e dunque non si può fare quello che alcuni sindaci hanno fatto di registrare in Italia delle nozze tra persone dello stesso sesso, contratte all’estero. Questa è la legge. Quando la legge sarà cambiata, il ministero dell’Interno farà applicare la legge nuova, ma fino a quando non cambia il dovere è quella di farla rispettare”. Fassino: “Serve una legge che colmi un vuoto normativo” 2 Fassino in una lettera a Renzi e Alfano spiega che “appare evidente come sulla questione della trascrizione delle unioni coniugali contratte all’estero tra persone dello stesso sesso sia indispensabile un quadro legislativo nazionale che, colmando un vuoto normativo, consenta ai Comuni di gestire le ricadute operative in modo uniforme sull’intero territorio del Paese”. Il presidente dell’Anci chiede un incontro e aggiunge: “Il tema, infatti, è troppo delicato per essere lasciato al caso per caso, né d’altra parte si può affidarlo ad ordinanze prefettizie. Peraltro giacciono in Parlamento numerose proposte di legge depositate da tutti i gruppi parlamentari. E sul piano della coscienza civile il tema ha conosciuto una evoluzione culturale che sollecita ad affrontarlo, superando paure e pregiudizi”. Per questo “mi auguro – conclude Fassino – che il Governo voglia assumere iniziative che consentano di favorire in tempi rapidi l’adozione da parte del Parlamento di soluzioni legislative adeguate” e “per tutte queste ragioni sono a chiedervi un incontro urgente per adottare orientamenti comuni”. Pisapia: “Ho firmato personalmente nel pieno rispetto della legge” Secondo Pisapia la trascrizione dei matrimoni all’estero è “un atto nel pieno rispetto della legge che prevede questo obbligo quando si tratta di matrimoni celebrati legittimamente secondo le norme dei Paese in cui si sono svolti”. Questo di oggi, scrive il sindaco di Milano su facebook, “è un ulteriore passo avanti di… Milano come ‘Città dei Diritti’ dopo il registro delle unioni civili, l’estensione alle coppie di fatto delle misure per il sostegno al reddito, il testamento biologico, lo sportello per la consulenza per la fecondazione eterologa e tante altre iniziative sui diritti sociali e civili che abbiamo promosso in questi anni. Spero – conclude – che quanto stanno facendo in questi giorni molti sindaci serva anche a sollecitare il Parlamento a varare una legge nazionale che possa superare ogni forma di discriminazione”. La Corte di appello di Firenze annulla trascrizione in registro Grosseto E’ anche il giorno in cui il Comune di Grosseto ha dato esecuzione alla sentenza della Corte di appello di Firenze che ha accolto il ricorso della procura contro la trascrizione di un matrimonio omosessuale contro all’estero nel registro delle unioni civili. “C’è una sentenza del giudice e noi la rispettiamo – ha affermato il sindaco di Grosseto, Emilio Bonifazi - Il prefetto, nell’invito che ci ha spedito dopo le parole del ministro Alfano, ha allegato la sentenza e quindi non potevamo fare altrimenti”. La Corte di appello di Firenze a cui si era rivolta la procura ha annullato la sentenza del tribunale che ordinava al comune di trascrivere l’unione nel registro dello stato civile tra Giuseppe Chigiotti e Stefano Bucci, che si erano sposati a New York nel 2012 e avevano chiesto che la loro unione fosse regolarizzata in Italia. Nel dispositivo dei giudici fiorentini si rileva che, durante il procedimento di primo grado al tribunale di Grosseto, non era stata citata l’avvocatura di Stato come prevede la legge. “L’ufficiale di stato civile, Mario Venanzi, così come negò la trascrizione prima di essere costretto dalla sentenza grossetana, adesso l’ha cancellata per lo stesso motivo. Non permetterei ad un dipendente comunale di andare contro la legge. Esiste comunque un vuoto normativo che soltanto il Parlamento, con una legge ad hoc, può risolvere” dice Bonifazi. Architetto di Grosseto sposato a New York: “Costretti a lasciare l’Italia” “A me e Stefano rimangono due strade da percorrere: o ricominciare l’iter per avere il riconoscimento della nostra unione in tribunale a Grosseto, oppure cambiare paese dove vivere” commenta Giuseppe Chigiotti, l’architetto grossetano che si era sposato con Stefano Bucci a New York. “Vogliamo vivere in un paese dove esiste l’affermazione di qualsiasi diritto – ha proseguito Chigiotti – Se il mio paese non riesce a garantirmi questi diritti, vorrà dire che andremo a vivere da un’altra parte. Eventualità a cui stiamo pensando fortemente. Ancora una volta hanno deciso di non decidere per non inimicarsi la 3 magistratura. Se avessero annullato la sentenza perché era contro la legge, la cosa sarebbe finita qui. Ma purtroppo non è così”. Il cardinale dal Sinodo: “Nozze gay non sono cosa buona” Sul tema dell’omosessualità interviene anche il Vaticano. Al Sinodo finora “non se n’è parlato molto”, spiega il portavoce della sala stampa padre Federico Lombardi, però “se n’è parlato nella linea pastorale dell’ascolto, del rispetto, dell’accoglienza, pur tenendo fede alla visione della Chiesa che il matrimonio è sempre tra un uomo e una donna, non tra un uomo e un uomo o tra una donna e una donna. Anche qui è stata sollecitata attenzione al linguaggio quando esso possa sembrare poco rispettoso”. Alla domanda dei giornalisti se si può pensare a una benedizione per le coppie omosessuali, il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, ha risposto che “si può parlare di tutto e dire tutto ma bisogna essere molto onesti: per noi, per la cultura umana in genere, il matrimonio è quello fatto da un uomo e da una donna, con elementi interiori precisi. Noi possiamo dire che non giudichiamo le coppie omosessuali, che teniamo conto della buona fede, però dire che benediciamo la loro unione, dire che questo è un matrimonio questo mai, secondo logica e identità, ma neanche benedirla come cosa buona, questo no”. “Altra cosa è dire che ognuno fa le sue scelte – ha aggiunto il porporato e canonista -, che ci possono essere persone buone, ma altra cosa è dire che quell’unione è una cosa buona”. L’Arci: “Alfano ci riporta al Medioevo” Per l’Arci l’intervento di Alfano è un “provvedimento ci fa tornare al medioevo – dichiara la presidente Francesca Chiavacci – Dal punto di vista del metodo è invasivo perché cancella la storia delle autonomie locali, è fatto dal ministro degli Interni ma così suona quasi come una cosa di ordine pubblica, dando un segnale molto pesante rispetto anche ad alcune affermazioni del presidente del Consiglio sul possibile riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso”. La presidente Chiavacci è intervenuta a Palermo dove fa tappa la carovana antimafia con Libera e Avviso pubblico. “Il Paese è molto più avanti delle norme a disposizione – ha aggiunto Chiavacci – così si dà un segnale di arretratezza culturale: non so cosa faranno i sindaci, abbiamo appreso che alcuni faranno una sorta di disobbedienza civile a questi provvedimenti, noi comunque siamo pronti a stare loro vicini e a mobilitarci in qualsiasi maniera nelle città dove questo avverrà”. Estonia, via libera a legge unioni civili senza distinzioni di genere Intanto il Parlamento dell’Estonia ha approvato una legge che regolarizza le unioni omosessuali, diventando la prima Repubblica ex sovietica ad adottare una decisione simile. La proposta, che riconosce le unioni civili indipendentemente dal genere delle persone che le compongono, è stata approvata con 40 voti favorevoli e 38 contrari; tre i deputati assenti o astenuti nella terza e decisiva lettura della legge. Il testo prevede di dare alle coppie unite civilmente, che siano eterosessuali o omosessuali, gli stessi diritti a livello finanziario e sociale delle coppie sposate. Inoltre riconosce loro i benefici sanitari previsti dal governo e tutele per i bambini. La nuova legge non concede però alle coppie unite civilmente gli stessi diritti di adozione riconosciuti a quelle sposate; tuttavia permette a uno dei due partner di adottare il figlio biologico dell’altro. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/09/matrimoni-gay-fassino-a-alfano-incontriamocinon-possono-decidere-i-prefetti/1149637/ Da Ansa del 09/10/14 NOZZE GAY: ARCI, CIRCOLARE ALFANO RIPORTA AL MEDIOEVO 4 (ANSA) - PALERMO, 9 OTT - "QUESTO PROVVEDIMENTO CI FA TORNARE AL MEDIOEVO. DAL PUNTO DI VISTA DEL METODO E' INVASIVO PERCHE' CANCELLA LA STORIA DELLE AUTONOMIE LOCALI, E' FATTO DAL MINISTRO DEGLI INTERNI MA COSI' SUONA QUASI COME UNA COSA DI ORDINE PUBBLICA, DANDO UN SEGNALE MOLTO PESANTE RISPETTO ANCHE AD ALCUNE AFFERMAZIONI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUL POSSIBILE RICONOSCIMENTO DELLE UNIONI TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO". LO HA DETTO FRANCESCA CHIAVACCI, PRESIDENTE NAZIONALE DELL'ARCI COMMENTANDO LA CIRCOLARE DEL MINISTRO ALFANO SUL RICONOSCIMENTO DELLE TRASCRIZIONI DEI MATRIMONI TRA OMOSESSUALI CONTRATTI ALL'ESTERO. LA PRESIDENTE CHIAVACCI E' INTERVENUTA A PALERMO DOVE FA TAPPA OGGI LA CAROVANA ANTIMAFIA CON LIBERA E AVVISO PUBBLICO. "IL PAESE E' MOLTO PIU' AVANTI DELLE NORME A DISPOSIZIONE - HA AGGIUNTO CHIAVACCI COSI' SI DA' UN SEGNALE DI ARRETRATEZZA CULTURALE: NON SO COSA FARANNO I SINDACI, ABBIAMO APPRESO CHE ALCUNI FARANNO UNA SORTA DI DISOBBEDIENZA CIVILE A QUESTI PROVVEDIMENTI, NOI COMUNQUE SIAMO PRONTI A STARE LORO VICINI E A MOBILITARCI IN QUALSIASI MANIERA NELLE CITTA' DOVE QUESTO AVVERRA'". (ANSA). Da Asca del 09/10/14 "DECISIONE CONTRASTA CON QUANTO AFFERMATO IN PASSATO DA PREMIER" (ASCA) - PALERMO, 9 OTT 2014 - "E' UN PROVVEDIMENTO CHE FA TORNARE AL MEDIOEVO. MOLTI SINDACI AVEVANO GIA' LAVORATO SIA ATTRAVERSO I REGISTRI DELLE UNIONI CIVILI, CHE ATTRAVERSO LA TRASCRIZIONE DI MATRIMONI TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO CELEBRATI ALL'ESTERO. IL PAESE E' MOLTO PIU' AVANTI DELLE NORME CHE POSSIEDE DA QUESTO PUNTO DI VISTA". LO HA DETTO IL PRESIDENTE NAZIONALE DELL'ARCI FRANCESCA CHIAVACCI, A MARGINE DI UN INCONTRO ORGANIZZATO A PALERMO, COMMENTANDO LA CIRCOLARE DEL MINISTERO DELL'INTERNO CHE INVITA I SINDACI A NON TRASCRIVERE NEI REGISTRI DEI COMUNI LE UNIONI CIVILI CONTRATTE ALL'ESTERO TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO. "I SINDACI, CHE FORSE SONO LE ISTITUZIONI PIU' VICINO ALLA SOCIETA' CIVILE HA PROSEGUITO CHIAVACCI -, IN MOLTI CASI AVEVANO PROVATO A AVVICINARSI TRAMITE QUESTA TRASCRIZIONE AD AVERE UNA NORMA CHE RICONOSCA LE UNIONI CIVILI. QUESTO PROVVEDIMENTO E', DAL PUNTO DI VISTA DEL METODO, ASSOLUTAMENTE INVASIVO, PERCHE' CANCELLA LA STORIA DELL'AUTONOMIA DEGLI ENTI LOCALI. TRA L'ALTRO APPARE IN CONTRASTO ANCHE RISPETTO AD ALCUNE AFFERMAZIONI CHE IL GOVERNO E IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO HANNO FATTO SULLA POSSIBILITA' CHE IL NOSTRO PAESE AVESSE POTUTO RICONOSCERE LE UNIONI FRA PERSONE DELLO STESSO SESSO. E' UN SEGNALE D'ARRETRATEZZA CULTURALE MEDIATICAMENTE MOLTO RILEVANTE. NON SO COSA FARANNO I SINDACI. ALCUNI HANNO RESISTITO, E NOI SAREMO PRONTI A STARE VICINO A LORO". 5 Da TmNews del 09/10/14 Presidente Arci: Circolare Alfano su gay fa tornare al Medioevo "Decisione contrasta con quanto affermato in passato da premier" Palermo, 9 ott. (TMNews) - "E' un provvedimento che fa tornare al medioevo. Molti sindaci avevano già lavorato sia attraverso i registri delle unioni civili, che attraverso la trascrizione di matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero. Il Paese è molto più avanti delle norme che possiede da questo punto di vista". Lo ha detto il presidente nazionale dell'Arci Francesca Chiavacci, a margine di un incontro organizzato a Palermo, commentando la circolare del ministero dell'Interno che invita i sindaci a non trascrivere nei registri dei Comuni le unioni civili contratte all'estero tra persone dello stesso sesso. "I sindaci, che forse sono le istituzioni più vicino alla società civile - ha proseguito Chiavacci -, in molti casi avevano provato a avvicinarsi tramite questa trascrizione ad avere una norma che riconosca le unioni civili. Questo provvedimento è, dal punto di vista del metodo, assolutamente invasivo, perché cancella la storia dell'autonomia degli enti locali. Tra l'altro appare in contrasto anche rispetto ad alcune affermazioni che il governo e il Presidente del Consiglio hanno fatto sulla possibilità che il nostro Paese avesse potuto riconoscere le unioni fra persone dello stesso sesso. E' un segnale d'arretratezza culturale mediaticamente molto rilevante. Non so cosa faranno i sindaci. Alcuni hanno resistito, e noi saremo pronti a stare vicino a loro". Da Agi del 09/10/14 Mafia: 20 anni di "Carovana", don Ciotti 'fermarsi per capire' = (AGI) - Palermo, 9 ott. - Dopo venti anni di "Carovana Antimafie" e' arrivato il momento di "ripensare tutto". L'annuncio, alquanto a sorpresa visto il momento e il tono degli altri interventi, arriva dal presidente nazionale dell'associazione nazionale "Libera", don Luigi Ciotti. Giovedi nella tappa palermitana della giornata dedicata alla lotta contro "la tratta dei nuovi schiavi", il prete antimafia, annunciando i prossimi stati generali contro la criminalita' organizzata (Roma, 23-26 ottobre), ha sottolineato essere arrivato il "momento di fermarsi per capire" dove si sta andando. Don Ciotti che nella mattinata aveva ricevuto la cittadinanza onoraria di San Giuseppe Jato (Palermo), poche ore dopo nel quariere Zen del capoluogo siciliano ha invitato i presenti "all'umilta' di fermarsi". Nel quartiere forse piu' problematico di Palermo il sacerdote ha sostenuto che se "le mafie di Falcone e Borsellino non esistono piu', ce ne sono altre". Bisogna prendere atto che cosa nostra ha cambiato pelle, ha sottolineato don Ciotti. Citando le 3500 vittime della criminalita' organizzata in Italia piu' i "morti vivi schiacciati nella propria dignita'", il presidente di Libera ha fatto l'elenco degli obiettivi mancati dal movimento che oggi celebrava due decenni di vita.(AGI) Can (Segue) Mafia: 20 anni di "Carovana", don Ciotti 'fermarsi per capire' = (AGI) - Palermo, 9 ott. - "Paralisi dei beni confiscati, legge antiriciclaggio insufficiente, legge sulla corruzione pubblica incompleta" questi i motivi che hanno spinto il religioso a parlare sempre al passato della "Carovana". Polemizzando con chi ritiene "l'antimafia un 6 problema di carta d'identita' e non di coscienza" il sacerdote ha invitato la scuola "ad allenare alla vita" ricordando come i ragazzi debbano farsi strada in un paese dove "non c'e' lavoro, non c'e' casa, non c'e' politica giovanile". Insomma basta con l'autocelebrazione, occorre rimboccarsi le maniche in un mondo che sta cambiando sotto i nostri occhi, questo il messaggio del sacerdote che continua a ritenere indivisibili "giustizia e carita'". Il 9 ottobre nelle sue due tappe siciliane di Monreale e Palermo, il ventennale della "Carovana antimafie" e' stato dedicato alla "tratta dei nuovi schiavi". Giovedi pomeriggio, nell'Istituto comprensivo Giovanni Falcone, nel cuore dello Zen 2, tutti i protagonisti dell'Associazione hanno ripercorso le vicende della ventennale e travagliata storia della "Carovana". In questa occasione la scuola intitolata al magistrato ucciso da cosa nostra nel 1992, ha inaugurato una mostra fotografica "d'altri tempi". Immagini del quartire scattate dai suoi piccoli abitanti, fatte usando esclusivamente rullini 35mm. Intitolata "RiScatti", l'esposizione, una "visione dal basso" della vita quotidiana nel quartiere, e' stata curata dall'associazione-laboratorio Zen Insieme che da anni lavora sul territorio.(AGI) Da Ansa del 09/10/14 Bindi, istituiremo gruppo lavoro contro sfruttamento Messaggio presidente commissione antimafia a carovana Libera (ANSA) - PALERMO, 9 OTT - "Non possiamo chiudere gli occhi sulle nuove e crescenti forme di sfruttamento. Su questo fronte la commissione parlamentare antimafia e' al vostro fianco e intende avviare una propria indagine con uno specifico gruppo di lavoro". E' il messaggio inviato dalla presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ai relatori della carovana internazionale antimafia che oggi ha fatto tappa a Palermo con don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, Arci e Avviso pubblico. "Sono davvero dispiaciuta di non essere con voi - osserva Bindi in una lettera inviata agli organizzatori - ma sono al vostro fianco nella battaglia per un'Europa libera dai condizionamenti dei poteri criminali". "Abbiamo contestato - prosegue la presidente Bindi nel suo messaggio - la decisione di inserire nel calcolo del Pil la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando e chiediamo che Istat e Eurostat ripensino questa scelta, separando il Pil criminale, che va meglio conosciuto e conteggiato, dal Pil legale". "Si tratta di fare un'operazione verita' che aiuti a indirizzare su nuovi binari - conclude Bindi - le politiche di sviluppo europee a combattere con piu' efficacia le nuove mafie". (ANSA). Da Ansa del 09/10/14 Ecomafie: Muroni (Legambiente), 30mila infrazioni nel 2013 Manca legge su reati ambientali, aumentano quelli agroalimentari (ANSA) - PALERMO, 9 OTT - "Nel 2013 sono stati circa 30mila i crimini contro l'ambiente, cioe' 80 infrazioni al giorno, pari a 3 l'ora. Il fatturato delle ecomafie, come ha evidenziato l'ultimo dossier di Legambiente, ammonta a 15 miliardi di euro e coinvolge 321 clan. Oggi la nuova frontiera con cui le 7 ecomafie fanno soldi e' il settore agroalimentare, con un danno enorme al Made in Italy". Lo ha detto Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente nazionale, intervenendo a Palermo alla tappa della carovana antimafia di Arci, Libera e Avviso Pubblico. "Il disegno di legge sui reati ambientali e' fermo al Senato - ha aggiunto Muroni - e questa e' una vicenda paradigmatica perche' a parole sono tutti contro la corruzione e le ecomafie, ma la mancata introduzione dei reati contro l'ambiente nel codice penale del nostro Paese racconta tanto dell'immobilismo italiano. Un vuoto che vanifica l'ottimo lavoro svolto dalle forze dell'ordine nel nostro Paese, soprattutto se si pensa alla velocita' con la quale i vuoti legislativi vengono immediatamente colmati dalle mafie". (ANSA). Da Srf (tv svizzera) del 08/10/14 Servizio sul Festival Sabir http://www.srf.ch/sendungen/kulturplatz/vom-leben-auf-der-insel Da Repubblica.it del 10/10/14 Minore seviziato, il Garante per l'infanzia: "E' stata violenza pura, non bullismo". Il Comune: "Massima severità" "Non accetto che l'episodio accaduto al quattordicenne a Napoli in un autolavaggio venga definito 'bullismo'. Questa è violenza. Violenza pura". di CRISTINA ZAGARIA È indignata la prima reazione dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza Vincenzo Spadafora alle violenze su un quattordicenne di Napoli. Il Garante continua: "Dove siamo arrivati? Quanto è accaduto a un minorenne, 'colpevole' di essere grasso, è indegno per una società civile. Il degrado socio-culturale degli ultimi anni insieme alla crisi di valori e all'assenza dello Stato stanno producendo una deriva inaccettabile. Sono vicino alla famiglia e auspico quanto prima che il ragazzo esca dalla sua grave situazione clinica". La Giunta comunale di Napoli esprime "massima vicinanza al piccolo Vincenzo, vittima di una violenza efferata che provoca sconcerto e indignazione, ed alla sua famiglia. Attraverso l'assessorato al Welfare, l'Amministrazione - si legge in una nota - sosterrà il quattordicenne ed i suoi familiari in questo momento difficile. Non possiamo che invocare da parte della giustizia la massima severità per i responsabili di questa violenza barbara". "Questi episodi inspiegabili diventano chiari solo se comprendiamo che la violenza è ormai strutturale nella nostra società e per questo si può attivare in qualsiasi momento, in qualsiasi posto, senza la necessità di motivazioni significative. Solo un ritorno a un clima sociale di rifiuto della violenza, vigilanza e protezione dei più deboli da parte di ciascuno di noi, la cancellazione di qualunque comportamento violento da parte di chi ha un'immagine sociale, politici, calciatori, opinion leader, renderà possibile la prevenzione della violenza". Così Raffaele Felaco, presidente dell'associazione Psicologi per la responsabilità sociale e coordinatore dell'area comunicazione del Consiglio nazionale dell'Ordine degli Psicologi, sulla vicenda del 14enne seviziato nel quartiere Pianura di Napoli. "Episodi di cronaca come questo - spiega Felaco - per la loro drammaticità, spingono le coscienze a un moto di indignazione e solidarietà verso la vittima. Purtroppo, però, ben presto si attivano dei 8 'meccanismi di difesa' che spingono le menti a sfuggire i pensieri angosciosi e quindi ben presto si dimentica, fino ad attivarsi al nuovo episodio di violenza. In una società come quella napoletana dove la violenza è sempre pronta ad esplodere i cittadini provano a 'proteggersi' attraverso la rimozione". "La vicenda di Pianura è sconvolgente - interviene Mariano Anniciello, Presidente di Arci Napoli - A Napoli occorre ricostruire il tessuto civico e sociale, partendo da una rivisitazione delle politiche educative. Questa sfida riguarda anche noi del Terzo Settore. Ci impone di rivedere il nostro agire per renderlo realmente efficace. Alla famiglia del ragazzo colpito la nostra solidarietà". “Occorre agire al più presto contro atti di bullismo ormai sempre più frequenti. Episodi drammatici come quello accaduto ieri a Napoli nei confronti di un quattordicenne non devono assolutamente ripetersi. E’ necessario dunque intervenire fin dalla prima infanzia, con percorsi educativi strutturati e condivisi, da introdurre nelle scuole di ogni ordine e grado.” Sul caso di Piaanura fa sentire la sua voce e la sua esperienza anche SOS il Telefono Azzurro Onlus. http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/10/09/news/minore_seviziato_il_garante_per_l_inf anzia_e_stata_violenza_pura_non_bullismo-97714415/ Da Repubblica.it del 09/10/14 Cild, nasce la Coalizione per i Diritti Civili L’unione fa i diritti. Declinare insieme campagne d’opinione, attività sui territori, lavoro nelle istituzioni. E creare i presupposti per un fronte sociale in grado di rendere più efficace la lotta per i Diritti Civili. Partendo dalla storia e dalle esperienze delle tante associazioni italiane che negli ultimi decenni hanno messo al centro della propria agenda il lavoro per i migranti, per le comunità Lgbt, per l’implementazione della libertà d’espressione e di opinione. Il 17 ottobre – nella sala Capranichetta di piazza Montecitorio – nasce Cild, la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili. Per contaminare il Paese con la tolleranza e la solidarietà. Le adesioni. Il cartello delle associazioni che compongono la coalizione è la cartine dell’Italia impegnata: A buon diritto, Antigone, Arci, Arcigay, Asgi, Associazione 21 Luglio, Associazione Luca Coscioni, Cie Piemonte, Certi Diritti, Cipsi, Cittadinanzattiva, Cittadini del mondo, Cospe, Diritto di sapere, Fondazione Leone Moressa, Forum Droghe, LasciateCientrare, Lunaria, Movimento Difesa del Cittadino, Naga, Parsec, Progetto Diritti, Società della Ragione, Zabbar. Anni di lotte e di lavoro. E si parte da cinque campagne con obiettivi specifici. Li riportiamo: Diritti dei migranti: · Ratifica della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie; · La riforma del Testo Unico sull’Immigrazione (D.Lgs 286 del 25 luglio 1998), in particolare per quanto riguarda la regolamentazione dell’accesso al paese per lavorare o per cercare lavoro, per il ricongiungimento familiare e l’attuazione di provvedimenti di espulsione; · La riforma della legge n. 91/1992, che disciplina la cittadinanza italiana, al fine di accelerare l’acquisizione della cittadinanza per i bambini nati in Italia da cittadini stranieri, i minori che entrano nel paese, e gli adulti dopo 5 anni di residenza permanente; · Il riconoscimento del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini extracomunitari dopo 5 anni di residenza stabile in Italia; 9 · Predisposizione di un piano nazionale per l’accoglienza dei migranti, richiedenti asilo e le persone bisognose di protezione internazionale; · Garanzia delle pari opportunità per i cittadini italiani e stranieri nell’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari, il benessere e la sicurezza sociale. Diritto d’asilo: · Incoraggiare attivamente tutte le Regioni italiane a formalizzare ed attuare pienamente l’accordo 255/CSR; · Definizione di standard di servizio efficaci e costanti per tutti i confini, gli sbarchi e le aree di transizione, con libero accesso a tali aree per l’UNHCR e le altre autorità di protezione; · Definizione di standard costanti per l’accesso alle procedure di protezione che consentano la presentazione della domanda, senza formalità; · Definizione di criteri rigorosi per la selezione dei membri delle “Commissioni Territoriali”, compreso l’obbligo di adeguate competenze sulle questioni di asilo; · Creazione di un unico sistema di accoglienza decentrato di alto livello; · Previsione di un periodo di tempo sufficiente per l’accoglienza e il sostegno, al fine di favorire l’inclusione sociale di tutte le persone che hanno ottenuto protezione; · Abolizione di tutti i Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE); · Una forte riduzione (solo quando è strettamente necessario) nella detenzione dei migranti da espellere; · Porre fine alla pratica delle espulsioni sommarie dalla Grecia, e che tutti i migranti che raggiungono i porti adriatici abbiano accesso al territorio nazionale e protezione; · Sospendere il trasferimento dei richiedenti asilo dall’Italia alla Grecia sulla base dell’accordo di Dublino, fino a quando la Grecia non sarà in grado di fornire un sistema di asilo e infrastrutture per il soggiorno temporaneo in linea con le norme comunitarie; · In tutti i casi, un trattamento umano e dignitoso dei migranti deve essere sempre garantito durante la detenzione e, se necessario, in ogni fase dell’espulsione, compreso il viaggio di ritorno. Anti discriminazione: Verso le persone LGBT · Modifica della legge n. 203/1995 (cd “Legge Mancino”), al fine di includere esplicitamente nei crimini previsti la violenza e l’incitamento all’odio connessi all’orientamento sessuale e all’identità di genere; · Introduzione di nuovi programmi educativi e il miglioramento di quelle esistenti per il personale della pubblica amministrazione, con l’obiettivo di garantire conoscenze e competenze sufficienti per lavorare nel pieno rispetto dell’orientamento sessuale, l’identità di genere delle altre persone; · Introdurre l’orientamento sessuale e l’identità di genere all’interno delle fasce della società italiana che devono essere rappresentate in modo da garantire il massimo pluralismo nelle radio e nelle televisioni pubbliche; · Adozione di misure volte esplicitamente a combattere l’omofobia e la transfobia nelle scuole di tutto il paese. Verso le donne · Rafforzare le misure previste per prevenire e combattere la violenza contro le donne e del sistema in atto per tutelare le vittime di violenza; · Stabilire un’istituzione nazionale indipendente per i diritti umani con una sezione dedicata ai diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere; · Affrontare il vuoto giuridico in materia di custodia dei figli e includere le pertinenti disposizioni relative alla protezione delle donne vittime di violenza domestica; · Assicurare la fornitura di patrocinio legale di qualità per le donne vittime di violenza; 10 · Promuovere forme alternative alla detenzione, tra cui gli arresti domiciliari e detenzione in istituti a bassa sicurezza, per le donne con bambini; · Attuare le misure previste dalla Costituzione, dalle normative e dalle politiche, per aumentare il numero di donne, comprese quelle provenienti da gruppi emarginati, in campo politico, economico, sociale, culturale e giudiziario; · Rimuovere gli ostacoli giuridici che impediscono l’occupazione delle donne; · Rafforzare il sistema di welfare sociale rimuovendo gli ostacoli all’integrazione delle donne nel mercato del lavoro; · Ratificare e attuare la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie; Nei confronti di Rom e Sinti · Porre fine alla segregazione delle famiglie Rom e Sinti nei “campi autorizzati” in condizioni abitative degradate; assicurarsi che i Rom e Sinti siano dotati di un alloggio adeguato senza discriminazione; · Cessare immediatamente gli sgomberi forzati che riguardano le comunità Rom e Sinti in tutta Italia, con l’adozione di un chiaro divieto di sgomberi forzati per mezzo di una legge che esplicitamente enunci le tutele procedurali essenziali derivanti dalle leggi internazionale sui diritti umani; · Assumere tutte le misure necessarie per sradicare atteggiamenti anti-zingari nel sentire della società e per affrontare efficacemente gli episodi che riguardano discorsi di odio contro le comunità Rom e Sinti rafforzando il mandato dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e dotandolo di poteri esecutivi. Libertà d’espressione: L’obiettivo della Cild è dare forza e partecipare a una campagna di pressione attualmente esistente e svolta da uno dei suoi membri, Diritto Di Sapere, che mira a riformare la legge 241/1990, adottando una legge quadro coerente in materia di accesso alle informazioni, in modo che il diritto all’informazione sia conforme agli standard internazionali. Sistema giudiziario\Droghe: Cild porterà avanti una campagna affinché si adotti una nuova legge quadro coerente in materia di droghe, che affronti anche le questioni relative al sistema carcerario, l’inefficacia nella tutela dei diritti fondamentali, il rifiuto di accesso alle cure sanitarie e la mancanza di approccio preventivo. Il rapporto con le istituzioni. E per Patrizio Gonnella, presidente di CILD Italia, l’intenzione della Coalizione è quella di porsi come “interlocutore unico nei confronti delle istituzioni, dei media, dell’opinione pubblica. Si tratta di una decisione politica che vuole in questo modo aumentare la propria forza di impatto nei confronti delle istituzioni italiane ed europee. Nessuna delle nostre associazioni perde la propria identità, anzi”. http://saviano.blogautore.repubblica.it/2014/10/09/cild-nasce-la-coalizione-per-i-diritti-civili/ 11 ESTERI del 10/10/14, pag. 19 Il reportage Al confine tra Turchia e Siria si intravede il fumo della sanguinosa battaglia “Non ci arrendiamo ma siamo soli” Ieri i funerali di 22 combattenti. Fra le vittime anche una giovane donna Tra i profughi curdi scappati da Kobane “Qui non siamo ricchi e nessuno ci aiuta” ALBERTO STABILE SURUC (CONFINE TURCO-SIRIANO) ARRAMPICATI sul tetto di una moschea, in bilico sui muri a secco, o accovacciati su una pietra all’ombra di un ulivo in quel modo tutto loro di riposare, i curdi fuggiti da Kobane prestano l’orecchio agli schianti che risuonano nell’aria e aspettano che le colonne di fumo si alzino dal caseggiato, non più lontano di un chilometro o due, per decifrare l’andamento della battaglia. Dopo una giornata in cui sembrava che i bombardamenti della coalizione avessero danneggiato i jihadisti, l’armata del califfato è stata capace di contrattaccare e di prendere il controllo di un terzo della città. Notizie pessime, che però non piegano l’ardore di Ibrahim, il traduttore curdo che mi accompagna in questo viaggio: «Kobane — dice sicuro — sarà la nostra Stalingrado». Ma non tutti la pensano così. Anzi, a dire il vero, un certo scoramento serpeggia fra gli spettatori di questa battaglia in diretta. Un sorta di fatalismo misto alla sfiducia nei confronti della comunità internazionale e ad un’aperta acrimonia verso la Turchia. Il finto protettore accusato di doppiezza, che osserva il dramma di Kobane dipanarsi senza muovere un dito. Al punto, persino, da smarcarsi dagli Stati Uniti e dalla coalizione, dichiarando apertamente, come ha fatto ieri il ministro egli Esteri Mevlut Cavusoglu, che «non è realistico aspettarsi che la Turchia conduca un’operazione di terra da sola». Il che agli occhi dei curdi è la riprova, come abbiamo sentito ripetere mille volte in questa giornata, che «la Turchia aiuta quelli dell’Is». In segno di lutto, di protesta e di solidarietà con Kobane i negozi di Suruc sono quasi tutti chiusi. Posti di blocco dell’esercito di Ankara scandagliano passaporti e carte d’identità decidendo a insindacabile giudizio dei militari chi può raggiungere il confine e chi no. Siamo sul primo gradino che porta all’altopiano del Kurdistan turco, quella che per i governanti di Ankara è e deve restare l’Anatolia sud-orientale. Terra contesa, teatro di un lunga e sanguinosa guerriglia mossa dal Pkk (Il partito dei lavoratori del Kurdiatan considerato da Ankara e da Washington un’organizzazione terroristica) guidato da Ocalan. E qui si capisce come la nascita di un’entità autonoma o semi-autonoma come quella di Kobane, agli inizi della guerra civile siriana, abbia fatto temere ai governanti turchi la possibilità di una saldatura tra le due comunità. Tuttavia, nonostante i controlli, la strada che porta verso il confine con la Siria é un continuo via vai di persone, poche in macchina, molte a piedi, di ogni genere e di tutte le età. Si direbbe che stessero andando a una qualche manifestazione contadina, se non fosse che nell’aria echeggiano i suoni della battaglia. Un pentagramma che i curdi hanno imparato a decrittare. Questo tonfo secco è un mortaio. Questo boato, invece, è una bomba degli alleati. I pennacchi di fumo piegati dal vento non sono tutti uguali: «Se il fumo è nero vuol dire che sono stati quelli dell’Is a provocarlo, incendiando taniche di nafta o 12 copertoni, per nascondersi agli aerei della coalizione. Se è bianco, invece, significa che sono stati colpiti», dice Maja, ex studentessa di Architettura all’Università di Aleppo, da tre settimane rifugiata in Turchia. Un coro insistente, come di slogan gridati con rabbia, copre la colonna sonora della battaglia. In un fazzoletto di terra a ridosso di Ziarad, una borgata di Suruc, sono state scavate 22 fosse, ciascuna con il suo perimetro di pietre levigate. Sono le tombe che accoglieranno 22 combattenti curdi di Kobane morti nelle ultime 24 ore negli ospedali della zona. Ad accompagnarli è una folla in cui spiccano alcuni giovani con il volto coperto da sciarpe colorate e le bandiere dei vari partiti curdi. Fra i morti c’è anche una donna, la cui cassa di legno grezzo, viene portata a spalla da altre donne. Tutto avviene molto in fretta. Le bare ondeggiano sopra i cortei. Vengono poggiate a terra e scoperte. I corpi avvolti nei sudari sono adagiati nelle buche, in direzione della Mecca. Poi un gruppo di uomini fa mulinare le pale per smuovere quanta più terra possibile. Farman Sheikh aveva soltanto 25 anni. «L’ho portato ieri da Kobane», dice il padre, Ahmad Shiek, un uomo sui 50 anni, la faccia tesa e immobile come un maschera di legno, gli occhi gonfi e arrossati. «Far- man era stato ferito alla testa durante gli scontri vicino alla stazione di polizia — continua, voltandosi verso le colonne di fumo che si levano all’orizzonte — Sono andato io ad andare a prenderlo per portarlo in ospedale. Ma al posto di frontiera di Mursit Pinar i soldati turchi ci hanno fatto aspettare quattro ore». Gli chiedo quanti figli abbia: «Dieci — risponde guardando Sauli, la moglie, impietrita — e tre sono a Kobane». Daushan, Misanter, Atmanak. I villaggi che incoronano Kobane sono pieni di rifugiati in ansia per la sorte della città, in breve, per il loro destino. Da una fattoria di Atmanak si vede il sole brillare sui parabrezza delle macchine che la gente di Kobane ha dovuto abbandonare vicino al posto di frontiera per passare a piedi. Ora, non si possono più avvicinare. I blindati dell’esercito turco fanno barriera e, al tramonto, cominciano a tirare fuori i cannoni ad acqua e i lacrimogeni. Mahmud sfoga la sua frustrazione litigando con altri profughi: «Tutti quelli che sono fuggiti da Kobane sono dei traditori», grida senza considerare che lui non è diverso dagli altri. Sulla via del ritorno incontro Abdul Rahaman Muslim, uno dei maggiorenti della comunità, operatore umanitario e fratello di Salah Muslim, il presidente del Partito dell’Unione Democratica del Kurdistan (PYD) le cui unità di autodifesa (YPD) hanno finora impedito la caduta di Kobane. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto — dice senza mezzi termini alludendo all’Europa, all’Occidente — Se avessimo due raffinerie tutto il mondo occidentale sarebbe qui ad aiutarci. Ma non le abbiamo e, sfortunatamente, il mondo occidentale che ha pianificato il nostro destino pensa soltanto al denaro». del 10/10/14, pag. 7 PALESTINA · Incontro tra Hamas e il premier Anp Tra le macerie di Gaza si ricostruisce l’unità Michele Giorgio GERUSALEMME «Gaza è un simbolo di fermezza e dignità, custode dei diritti e della storia. Portiamo un messaggio al nostro popolo nella Striscia: il ripristino della speranza, l’unità delle istituzioni di governo e la ricostruzione. Vengo per assumere le nostre responsabilità ». Con la voce a tratti rotta dall’emozione, il premier palestinese Rami Hamdallah (nella foto tra le macerie di Gaza, reuters) ieri ha salutato la gente di Gaza e i dirigenti del movimento islamico 13 Hamas giunti ad incontrarlo. Emozione comprensibile. Hamdallah ha presieduto la prima riunione a Gaza dal 2007 di un governo palestinese di consenso nazionale, dando sfogo concreto alla riconciliazione tra Fatah e Hamas avvenuta ad aprile. Uno sviluppo politico reclamato a lungo da tutti i palestinesi ma fortemente osteggiato da Israele che, si dice, solo per le pressioni “occidentali” non ha ostacolato l’ingresso a Gaza di Hamdallah attraverso il valico di Erez. Il premier palestinese e i 12 ministri giunti dalla Cisgiordania (altri 5 sono di Gaza), hanno visitato in silenzio i centri abitati, da Beit Hanun a Shajayea, devastati dai bombardamenti e dai cannoneggiamenti israeliani della scorsa estate. «Quello che abbiamo visto è terribile e doloroso - ha commentato Hamdallah - Abbiamo anni di divisioni dietro di noi e la massima priorità di questo governo è di garantire agli abitanti di Gaza il ritorno a una vita normale e l’unità con la Cisgiordania». Salutato in apparenza con calore dalla gente, Hamdallah ha riunito il governo nella residenza del presidente dell’Anp Abu Mazen. Quindi ha incontrato l’ex premier islamista Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza. Hamdallah ha reso omaggio alle vittime della scorsa estate, civili e combattenti che, ha detto, «hanno protetto la dignità del nostro popolo e irrigato la terra di Palestina con il loro sangue e una leggendaria fermezza». Hamdallah ieri ha lasciato intendere che tra gli obiettivi della storica riunione a Gaza non c’è solo la necessità di estendere l’autorità del governo sulla Striscia ma anche, se non soprattutto, l’urgenza di creare le condizioni politiche ed amministrative per garantire l’arrivo nelle casse palestinesi dei 4miliardi di dollari che occorreranno per ricostruire Gaza. «Abbiamo avviato la riconciliazione in modo che la comunità internazionale mantenga le sue responsabilità nella ricostruzione e metta fine all’assedio di Gaza aprendo tutti i valichi», ha detto. Domenica al Cairo, per la conferenza dei donatori per Gaza, ci saranno almeno 30 ministri degli esteri, tra i quali Federica Mogherini, le delegazioni di 50 Paesi, il capo uscente della diplomazia Ue Catherine Ashton e di quella Usa, John Kerry, oltre ad Abu Mazen e al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Non sarà facile per i palestinesi vincere la diffidenza dei potenziali donatori, preoccupati di impegnarsi nella ricostruzione di un territorio colpito da tre offensive militari israeliane in cinque anni. L’ultima, “Margine Protettivo”, ha fatto quasi 2.200 morti palestinesi (e 73 israeliani), ha distrutto o danneggiato decine di migliaia di edifici e infrastrutture e centinaia fabbriche e aziende. Mascherata dalla richiesta di ricostruire in modo “permanente”, c’è la condizione posta da Europa e Usa del ritorno delle forze di sicurezza dell’Anp nella Striscia di Gaza. La guardia presidenziale di Abu Mazen e le Nazioni Unite, come chiede Israele, avranno il compito di monitorare l’ingresso e la destinazione dei materiali per la ricostruzione. Quello tra Fatah e Hamas è un matrimonio d’interessi, non certo d’amore. Abu Mazen ha bisogno di un’ampia base di sostegno politico in Cisgiordania e a Gaza alla sua iniziativa al Consiglio di Sicurezza per il ritiro di Israele dai Territori occupati. Hamas vuole rompere l’isolamento e ottenere un maggior riconoscimento regionale e internazionale. «In politica questo tipo di matrimonio è legale e comunque dopo 7 anni di divisioni e conflitti interni tutti i palestinesi volevano la riconciliazione e il governo unitario – ci spiega Hamada Jaber, analista del Palestinian Center for Policy and Survey Research –, le insidie però non mancano: Fatah e Hamas hanno ideologie molto diverse. Il senso di responsabilità (delle sue formazioni politiche) e un accordo sulla sicurezza a Gaza (tra i servizi dell’Anp e il braccio armato di Hamas, “Ezzedin al Qassam”) saranno decisivi per il successo di questa importante fase politica». 14 Del 10/10/2014 – pag. 25 Ebola, corsa contro il tempo: è l’epidemia peggiore dopo l’Aids L’allarme dagli Stati Uniti. Più controlli negli aeroporti di tutto il mondo DAL NOSTRO INVIATO MADRID Vedendolo uccidere da vicino, in una camera d’ospedale pulita e attrezzata a portata di metrò, il virus Ebola fa più paura. Fino a che colpiva in Africa era diverso, solo terrore da film come quel Virus Letale girato ormai quasi 20 anni fa. Ora invece spuntano casi sospetti ovunque, segno di una psicosi che si allarga. In Macedonia, in Francia, nei Paesi Baschi spagnoli, negli Usa. Ora 200 inservienti dell’aeroporto di New York si rifiutano di pulire i vettori in arrivo dall’Africa e il Comune di Madrid deve indire un bando perché non trova infermieri disposti a lavorare nel reparto infettivi. È bastata una settimana. Anzi meno perché Thomas Eric Duncan, liberiano giunto in Usa con il virus in corpo, è morto a Dallas mercoledì e Teresa Romero, infermiera di Madrid, ha scoperto di essersi infettata nel suo stesso ospedale lunedì. I farmaci anti virali, sperimentali, rari e costosi, non si sono dimostrati decisivi. Il tentativo, fatto in Africa di iniettare anticorpi di chi ha superato naturalmente il contagio neppure. La situazione mondiale resta comunque squilibrata. Da dicembre 2013, un solo contagiato in Occidente contro 8.011 in Africa, meno di 10 morti contro 3.870 in Africa. L’Assemblea Generale dell’Onu ascolterà oggi la relazione dell’inviato speciale per il morbo, ma già il 58% degli americani vorrebbe bloccare i voli dai Paesi a rischio e il direttore del Centro Usa di controllo e prevenzione delle malattie Thomas Frieden si è lanciato in una paragone ardito: «Questo di Ebola è il rischio peggiore dopo l’Aids. Dobbiamo reagire in fretta». A guidare è come al solito Washington. Domenica gli aeroporti Usa cominceranno a misurare la febbre ai viaggiatori dalle aree a rischio. Canada e Gran Bretagna hanno già deciso di fare lo stesso. Non è più tempo di ponti levatoi, però sono misure che potrebbero essere seguite da tutti gli europei. L’Italia non ha collegamenti diretti con l’area a maggior rischio. Per questo la ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, ha ipotizzato una «tracciabilità» dei passeggeri. Una decisione europea potrebbe arrivare venerdì 17. Intanto Roma ha messo a punto una procedura in caso di sospetto contagio (basta una febbre) a bordo degli aerei. A Fiumicino e Malpensa sono pronte aree di sosta riservate, ambulanze speciali e tute protettive. Stanno cambiando anche le procedure ospedaliere in modo che un malato non diventi suo malgrado anche un untore. In questo caso è l’Europa a guidare visto che il primo contagio extra africano è successo in Spagna all’infermiera Teresa Romero. La Commissione europea di salute e prevenzione ha condiviso l’esperienza spagnola e gli Stati membri dovrebbero essere impegnati ad aggiustare le procedure. Le condizioni della donna sono peggiorate. Il fratello parlava di cedimento degli organi interni. Poi è stato smentito. L’ospedale Carlos III di Madrid dov’è ricoverata ha deciso di liberare l’intero quarto piano per gestire i troppi pazienti in osservazione e prepararsi al peggio. Rischiano l’infezione decine di sanitari entrati in contatto con lei in una fase in cui la malattia non era neppure presa in considerazione. Anche in Texas sono in osservazione poco più di 20 «contatti» di Thomas Eric Duncan. E per l’Africa? Il presidente della Banca mondiale, Jim Yong Kim, ex medico, ha esortato ad aiutare i Paesi più colpiti. «Chiudere i confini non funzionerà». Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto di aumentare di 20 volte gli aiuti. Risposte? Nessuna. 15 Andrea Nicastro del 10/10/14, pag. 1/6 Berlino vede la recessione crolla anche l’export ma non ascolta i richiami a investire di Bruxelles ANDREA BONANNI BRUXELLES . L’economia tedesca è in brusca frenata e fa registrare i risultati peggiori dal 2009, quando si era nel pieno della crisi economico-finanziaria. Calano le esportazioni, calano le importazioni, cala la produzione industriale, cala l’indica di fiducia delle imprese, si riducono drasticamente le prospettive di crescita economica. E i principali istituti economici del Paese si uniscono al coro ormai generale in Europa e nel mondo che chiede al governo di intervenire per stimolare la crescita e la domanda interna. Dopo i dati diffusi l’altro giorno sul calo della produzione industriale, ieri sono stati resi noti quelli sulla bilancia commerciale, che resta ancora fortemente attiva ma registra risultati molto inferiori alle attese. Ad agosto l’export tedesco è sceso bruscamente del 5,8 per cento, il crollo più pesante dal 2009. Anche le importazioni si sono ridotte, sia pure solo dell’1,3 per cento. Sull’anno, il calo dell’export made in Germany è per ora dell’1 per cento, mentre le importazioni, che dovrebbero alimentare la crescita nel resto d’Europa, sono contratte del 2,4 per cento. Ancora più preoccupante di questi dati, è il rapporto congiunto presentato ieri dagli istituti di previsione economici tedeschi, che fungono da consulenti del governo. Le prospettive di crescita della Germania sono bruscamente tagliate. Per quest’anno si scende all’1,3 per cento dall’1,9 previsto ad aprile. Per l’anno prossimo la crescita si dovrebbe fermare all’1,2 per cento rispetto al 2 per cento stimato in primavera. La produzione industriale è prevista in calo nel terzo trimestre dell’anno. E secondo alcuni economisti non si può escludere che la «locomotiva d’Europa» entri in recessione tecnica registrando due trimestri consecutivi di calo del Pil. D’altra parte la Banca centrale europea sottolinea che l’indice di fiducia economica registra proprio in Italia e Germania la flessione più importante tra tutti i Paesi europei. Il rapporto degli istituti economici tedeschi sottolinea la necessità che il governo di Berlino stimoli gli investimenti per alimentare i consumi interni e con essi la crescita. E critica senza mezzi termini la politica di austerità della cancelliera Merkel che si è posta come obiettivo il pareggio di bilancio per l’anno prossimo tagliando duramente sul fronte delle spese. «L’azzeramento del deficit è un obiettivo di prestigio, che non ha necessariamente senso da un punto di vista economico », dice il rapporto, che invita ad «aumentare le spese pubbliche nei settori che hanno maggior potenziale di contribuire alla crescita», come la ricerca e l’educazione. E’ una richiesta, questa, che l’Europa, nelle raccomandazioni di politica economica, rivolge da tempo alla Germania con scarsissimi risultati invitandola a utilizzare il bilancio pubblico per stimolare la domanda interna e riportare così il proprio surplus commerciale a livelli più sopportabili per i partner europei. Ma le cifre raccontano una storia opposta, che vede il calo dell’import tedesco ancora superiore alla flessione dell’export. Anche il presidente della Bce, Mario Draghi, recentemente è tornato sulla questione invitando «i Paesi che dispongono di un margine di manovra sui conti pubblici ad utilizzarlo per stimolare la 16 crescita ». Raccomandazioni simili, in toni ancora più pressanti, arrivano a Berlino dal Fondo monetario internazionale. Per ora, comunque, Angela Merkel non recede dalla sua linea e dal dogma del pareggio di bilancio, che vuole applicare in Germania per avere la giustificazione morale di poterlo imporre agli altri partner europei. E dunque per Berlino gli unici investimenti destinati a stimolare la crescita devono essere quelli privati. Che però non arrivano. La Commissione protesta. Ma per ora non ha gli strumenti giuridici per intervenire in tempi brevi ed imporre ai tedeschi il rispetto delle raccomandazioni di politica economica, visto che la Germania non si trova in una situazione di «grave squilibrio macroeconomico », come è invece l’Italia. Ora però la pressione per una politica più espansiva comincia a crescere anche all’interno del Paese. E questo potrebbe forse incrinare la determinazione della cancelliera. del 10/10/14, pag. 1/45 La moglie di Bill Gates si scaglia contro la piaga dei matrimoni infantili “Violenze, morti premature, niente più scuola: dobbiamo agire subito” Spose bambine L’appello di Melinda “Salviamo il futuro di Selam e le sue sorelle” MELINDA GATES SELAM pensava che la cena in programma quella sera nella sua casa, in Etiopia, fosse una festa come un’altra. Aveva passato tutta la giornata ad aiutare i suoi genitori nei preparativi. C’era da cucinare, andare a prendere l’acqua, pulire tutto. Non le venne in mente di chiedere cosa si festeggiasse. Di certo non le venne in mente che quella notte sarebbe diventata la moglie di uno sconosciuto. Dopo tutto aveva solo 11 anni. Fu solo quando gli ospiti furono arrivati che il padre di Selam le spiegò che quella era la sua notte di matrimonio. Lei fu presa dal panico e cercò di scappare, ma i suoi genitori la riportarono a forza dentro la casa. Alla fine della serata, Selam lasciò la sua casa per trasferirsi nell’abitazione dei suoceri, in un villaggio in cui non era mai stata e di cui non aveva nemmeno mai sentito parlare, lontana dai suoi amici, dalla sua famiglia e dalla sua scuola. Questa storia devastante si ripete in continuazione. Ogni anno, in tutto il mondo, quasi 14 milioni di ragazze vanno spose prima di aver compiuto 18 anni. Complessivamente, all’età di 18 anni una ragazza su 3 è già sposata. Spesso pensiamo al matrimonio minorile come a un problema sociale, o una questione di diritti umani. Le Nazioni Unite lo classificano addirittura come una violazione dei diritti. Ma il mondo sta cominciando a vederlo sempre di più anche come un problema economico. Le famiglie e le nazioni devono conoscere il prezzo reale del matrimonio minorile. Selam (non è il suo vero nome) vive nella Regione degli Amara, in Etiopia, un posto dove le percentuali di matrimonio minorile sono fra le più alte del mondo: 56 diciottenni su cento sono già sposate, e di queste la metà sono andate in sposa prima dei 15 anni. Quando i genitori di bambine come Selam scelgono di maritare le loro figlie, sono convinti di farlo con buone ragioni: garantire la sicurezza della figlia o assicurarsi una dote (che conta tantissimo per una famiglia che vive in estrema povertà). Ma quello che è più difficile vedere sono le ramificazioni sociali ed economiche a lungo termine. L’inverno scorso, mentre mi trovavo nella Regione dell’Amara, ho incontrato Selam e altre ragazze nella sua stessa situazione. La cosa che più mi ha colpito è stato il loro desiderio 17 disperato di poter continuare a frequentare la scuola. Una sposa bambina, così piccola che sembrava avere non più di 8 anni, mi ha detto che sapeva che l’istruzione era l’unica strada per andare via dal suo villaggio e dalla miseria, ma aveva paura che ora che si era sposata quella strada fosse preclusa per lei. E in effetti è quello che dicono le statistiche. Quando una ragazza lascia la scuola per anquesta dare in sposa, di solito perde l’opportunità di guadagnare un salario decoroso e contribuire all’economia della sua comunità. Quando una ragazza rimane incinta in età adolescenziale, di solito fa più figli di quelli che la sua famiglia può permettersi di nutrire e istruire. La loro salute ne risente, e anche la salute dei loro figli. Queste spose bambine sono prigioniere non solo del matrimonio, ma anche di un circolo vizioso di povertà che blocca loro, le loro famiglie, le loro comunità e le loro nazioni. Eppure, anche di fronte a una sfida di simili proporzioni e complessità, ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Gli attivisti che si battono contro questo problema mi hanno detto che la loro sensazione è che a livello globale il fenomeno presto toccherà l’apice e comincerà a ridimensionarsi. E gli esempi positivi cominciano a emergere. Per esempio il Governo etiope sta prendendo misure per educare le comunità sui costi di pratica tradizionale nociva, fornendo incentivi alle famiglie perché facciano studiare le bambine e applicando una serie di misure legislative per mettere fine al matrimonio minorile. Ma non bastano le leggi per debellare una pratica culturale profondamente radicata: perché questi provvedimenti possano produrre effetto serve tempo, e bambine come Selam questo tempo non ce l’hanno. Una strada per agire nell’immediato è fare in modo che queste ragazze abbiano accesso alle informazioni e ai metodi contraccettivi necessari per ritardare il momento di fare figli. Per molte spose bambine, avere la possibilità di rinviare la prima gravidanza è letteralmente una questione di vita o di morte. I decessi collegati alla gravidanza sono la prima causa di morte fra le ragazze tra i 15 e i 19 anni di età nei Paesi a basso e medio reddito. Non avendo ancora un corpo pronto per fare figli, le bambine di questa fascia d’età hanno il doppio delle possibilità di morire durante il parto, rispetto alle ragazze fra i 20 e i 24 anni. La notte del suo matrimonio, Selam si sentiva molto sola. Oggi possiamo stare al suo fianco fornendo alle spose bambine il supporto di cui hanno bisogno, e lavorando insieme per chiedere che la loro sia l’ultima generazione di bambine costrette a diventare spose. 18 INTERNI Del 10/10/2014 – pag. 5 Renzi va avanti sulla riforma e non esclude la fiducia alla Camera «Ci sarà un maggior coinvolgimento dell’Italia nella lotta all’Isis, saremo duri» ROMA Di prima mattina arriva alla segreteria del Pd è dà la prima analisi del voto notturno e contestato sul Jobs act, due notti fa: «Sono contento anche del risultato numerico, 165 a 111 è molto forte. Poi le immagini dei fascicoli che volano fanno pensare agli italiani che senso ha. Rimane l’amarezza, immagini tristi. Gli italiani sono stanchi delle sceneggiate di alcuni, ma ieri è stato fatto un grandissimo passo in avanti. Loro continuano a fare sceneggiate, noi andiamo avanti». «Loro» forse sono anche una fetta del suo partito, quella minoranza che ha minacciato spaccature e poi ha votato, ma soprattutto i grillini. È un altro pezzo di analisi e Matteo Renzi la fa a porte chiuse: «La cosa da notare, e di cui essere contenti, è che si sono divisi, vedrete che alla fine in tanti verranno con noi, cominciano ad avere problemi, si stancheranno anche i loro elettori...». Poi una giornata intera chiuso a Palazzo Chigi, dove alle guardie del portone sembra sia arrivata una curiosa consegna del silenzio, ai cronisti che passano, d’ora in poi, meglio non comunicare più chi entra e chi esce. Ovvero, soprattutto, chi si è recato in visita dal presidente del Consiglio. Si diffonde anche la voce di un incontro con l’ad della Rai, smentita immediatamente. Poco dopo le nove Renzi si accomoda negli studi di Virus , su Rai 2, conferma che potrebbe mettere la fiducia sul Jobs act «anche alla Camera», si discute dell’arte di governare, con apparati che remano contro, il premier riassume così: «Non mi frega niente del consenso intorno a me, ma sul fatto di restituire un minimo di dignità all’Italia io sento che la stragrande parte degli italiani approva». Si discute delle riforme in corso, compresa la giustizia. I magistrati ce l’hanno con lui? «A me non interessa se i magistrati ce l’hanno con me: io non ce l’ho con loro. Se però mi dice che ridurre le ferie è un attentato alla democrazia si faccia vedere da uno bravo. I sacrifici li devono fare tutti, i politici, i sindacalisti, tutti». Maurizio Landini, Fiom, «vuole occupare le fabbriche, io le voglio tenere aperte, domani inauguro una fabbrica, io me le faccio a una a una, vado a parlare con i lavoratori». È ora di «smetterla di fare un ritratto caricaturale dell’Italia e cambiare le cose, siamo fermi da 30 anni, purtroppo non abbiamo la capacità di Fonzie, cambiare le cose con lo schiocco delle dita». Settore smentite: «Non aumenteranno le tasse di successione e l’Iva». Mentre nella legge di Stabilità, che arriverà «il 15 ottobre», ci saranno «sgravi contributivi per i contratti a tempo indeterminato». A fine trasmissione parla anche della lotta all’Isis: « Per ora l’Italia interviene con un supporto logistico, dando armi ai curdi. Un maggior coinvolgimento è questione di settimane, con armi migliori e interventi nelle aree dei Paesi confinanti, saremo molto duri». Marco Galluzzo 19 del 10/10/14, pag. 2 La segreteria contro i ribelli “Si sono messi fuori dal Pd” Renzi: “Nuova fiducia? Forse” Civati: è il soviet. Il premier: Tocci resti. Bersani: non do coltellate La Fiom avverte: chi vota la fiducia stia fuori dai nostri cortei ROMA . I dissidenti dem non possono pensare di farla franca. Renzi non è entrato nel merito di espulsioni o altre sanzioni, né lo hanno fatto i vice Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani. Ma all’indomani della tempestosa fiducia sul Jobs Act nel Pd è l’ora della resa dei conti. Un cartellino giallo ci vuole: batte un colpo il segretario-premier. Dovrebbe abbattersi su Mineo, Casson e Ricchiuti, i tre civatiani che sono usciti dall’aula al momento della fiducia, mentre a Walter Tocci, il senatore che ha detto sì per disciplina di partito ma poi ha dato le dimissioni da Palazzo Madama, chiede di restare: «Ci ripensi, è un errore». Guerini avverte: «Non votare la fiducia è essere fuori dalla comunità del Pd». Ma la patata bollente è scaricata sull’assemblea dei senatori. Il premier ha comunque incassato un buon risultato e fa notare che è la seconda migliore fiducia in termini numerici al suo governo: 165 i sì. Non molla la strada intrapresa: «Io sono convinto che questo è il Tourmalet, è una salita difficile, impegnativa. Ma con me c’è la stragrande maggioranza di persone perbene. Questo è un paese fermo da 30 anni». Aggiunge che se Landini, il leader Fiom, vuole occupare le fabbriche per protesta, «io voglio aprirle». E che andrà nelle fabbriche a una a una. Non esclude la fiducia anche alla Camera: «È un’ipotesi». In tv assicura che non ci sarà aumento dell’Iva e della tassa di successione. Tuttavia la minoranza è in fibrillazione. Non solo Pippo Civati che dice: «No alla disciplina di stampo sovietico» e annuncia: «Non voterò la fiducia se verrà posta alla Camera». Molti dem saranno in piazza con la Cgil a Roma il 25 ottobre. Di certo ci sarà Fassina. Forse Bersani. L’ex segretario spiega: «La vicenda lavoro non è chiusa ma non si può aprire un vuoto di governo. Non si aspetti da me una coltellata a Renzi. Preferisco prenderla». Quindi una stoccata: «Matteo sputa sul 25% preso alle elezioni ma è con quello che governa». E poi: «La prima riforma è la lotta all’evasione non il Jobs Act». Via Facebook il segretario Fiom emiliano, Bruno Papignani avverte: «Non sfili chi ha votato la fiducia, non è il benvenuto». Comunque da qui alla manifestazione la mappa del dissenso potrebbe cambiare ancora. Il 20 è stata convocata una direzione del Pd proprio sul partito. ( g. c.) del 10/10/14, pag. 4 E se il Colle non firmasse? La delega viola l’art.76 20 TROPPO VAGO IL MANDATO AL GOVERNO DI CAMBIARE IL MERCATO DEL LAVORO. IN TEORIA NAPOLITANO AVREBBE ARGOMENTI PER UNA BOCCIATURA E se il presidente Giorgio Napolitano non firmasse il Jobs Act? È un periodo ipotetico, ovviamente, perché il capo dello Stato si è molto speso per spingere il Parlamento a votare la legge delega sul lavoro. Eppure le ragioni per non firmare il testo che arriverà sulla scrivania del Quirinale ci sarebbero. Le ha segnalate, qualche giorno fa, l’associazione Giuristi democratici in una lettera aperta firmata dal presidente, l’avvocato Roberto Lamacchia. La richiesta è che Napolitano dica “una parola di chiarezza non certo sul merito dei provvedimenti, ma sul doveroso rispetto da parte delle Camere del disposto dell’art. 76 e sul doveroso rispetto da parte del governo delle prerogative del Parlamento ai sensi dell’art.77 della Costituzione”. Quest’ultimo è quello che regola i decreti legge: dovrebbero essere emanati soltanto “in casi straordinari di necessità e urgenza”, ma neppure una sentenza della Corte costituzionale in materia del 1996 è bastata a frenare gli esecutivi e a scoraggiare i presidenti dal firmare decreti che servivano semplicemente a scavalcare il Parlamento e a lasciargli soltanto il compito di votare sì o no a una legge di conversione su cui magari viene posta la fiducia. Il Colle, per dire, ha avallato anche un decreto che poteva sembrare incostituzionale fin dal nome, quello “Imu-Bankitalia”. ALMENO PER ORA, il governo Renzi ha rinunciato all’idea di intervenire sul mercato del lavoro e l’articolo 18 per decreto. Anche se, per la verità, lo ha già fatto con il decreto Poletti che modificava la disciplina del contratto a termine, chissà sulla base di quali requisiti di necessità e urgenza. Più critico l’articolo 76: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. E l’oggetto della delega sul lavoro non è affatto definito, tanto che si continua a discutere di come cambierà l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Se ne discute perché nel testo della delega non c’è scritto, lo stabilirà il governo con i decreti delegati che dovrà emanare e che verranno poi discussi soltanto nelle commissioni parlamentari e non dall’Aula. In questi anni la Corte costituzionale si è espressa diverse volte cancellando riforme molto pubblicizzate perché i governi erano andati oltre la delega concessa dal Parlamento. È successo per esempio con la mediazione obbligatoria (poi in parte reintrodotta). In questo caso i dubbi di costituzionalità dovrebbero essere invece sull’eccessiva libertà che il Parlamento ha concesso al governo: una delega molto ampia, passata con un voto di fiducia, dimostrazione quindi che il premier non era sicuro di avere i numeri. La costituzionalità è dubbia, la firma di Napolitano è sicura. del 10/10/14, pag. 14 LE NUOVE FAMIGLIE Pisapia sfida Alfano trascritte 7 nozze gay I sindaci al governo “Subito la legge” Fassino: inaccettabile invadenza dei prefetti Dietrofront a Grosseto, annullata in appello la registrazione ordinata dal tribunale DIEGO LONGHIN TORINO . 21 Nel giorno in cui il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, firma la trascrizione di sette matrimoni gay, la Corte di appello di Firenze annulla la sentenza del Tribunale di Grosseto che ordinava al Comune di inserire nel registro il matrimonio tra Giuseppe Chigiotti e Stefano Bucci, celebrato a New York. E il presidente dell’Anci, Piero Fassino, scrive al premier Matteo Renzi e al ministro degli Interni, Angelino Alfano, per chiedere un incontro urgente. Due i concetti cari a Fassino: non ci può essere un’invadenza dei prefetti nelle decisioni dei sindaci, che non possono essere commissariati, ed è indispensabile che governo e parlamento prendano l’iniziativa. Oggi il comune di Grosseto depennerà dagli archivi l’unione tra Chigiotti e Bucci. «Io ho rispettato una sentenza del tribunale quando abbiamo registrato l’atto — spiega il sindaco di Grosseto Emilio Bonifazi — e oggi non ho altra strada che rispettare la sentenza della corte d’appello di Firenze. Serve una legge o sarà il caos». Nonostante la sentenza fiorentina, la polemica sulla possibilità o meno per i sindaci di iscrivere nei registri le nozze gay non si placa. Anzi. La circolare Alfano, che chiede l’intervento dei prefetti, ha fatto reagire i primi cittadini di mezza Italia. «Ho firmato personalmente la trascrizione di sette matrimoni tra persone dello stesso sesso che si sono celebrati all’estero — dice il sindaco Pisapia — si tratta di un atto nel pieno rispetto della legge che prevede questo obbligo quando si tratta di matrimoni celebrati legittimamente secondo le norme del Paese in cui si sono svolti». E aggiunge: «È un ulteriore passo avanti di Milano come Città dei Diritti. Spero che quanto stanno facendo molti sindaci serva a sollecitare il Parlamento a varare una legge nazionale che possa superare ogni forma di discriminazione ». I sindaci di Catania, Prato e Livorno si aggiungono a quelli che hanno già detto che non rispetteranno le direttive di Alfano, mentre il primo cittadino di Udine, Furio Honsell, ha annunciato che si rivolgerà al tribunale per opporsi alla lettera inviata dal prefetto che impone la cancellazione delle unioni gay. Ieri anche la prefettura di Bologna si è mossa e ha acquisito i registri del Comune. Il prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca, sta ancora riflettendo: «Prima di qualsiasi valutazione bisogna conoscere lo stato dei fatti. Applico la legge con grande attenzione e devo capire come stanno le cose». A Roma la discussione è slittata al 16 ottobre. Fassino, sindaco di Torino, dove lunedì la questione sarà affrontata in Consiglio comunale, e presidente dell’Anci, scrive a Renzi e Alfano. «Serve al più presto una legge in materia. Il tema è troppo delicato per essere lasciato al caso per caso, né d’altra parte si può affidarlo ad ordinanze prefettizie su competenze che la legge affida agli enti locali». Un invito ad uscire dal caos, senza far ricadere tutto sui sindaci. 22 LEGALITA’DEMOCRATICA del 10/10/14, pag. 10 “No ai boss al Quirinale l’istituzione va tutelata” I legali: processo nullo Palermo, la Corte d’assise boccia la videoconferenza Insorge anche Mancino: ho diritto di partecipare SALVO PALAZZOLO PALERMO . Il 28 ottobre, al Quirinale, non ci sarà alcuna diretta tv con le celle dei capimafia delle stragi. Totò Riina e Leoluca Bagarella non potranno assistere all’audizione del presidente della Repubblica nel processo trattativa in trasferta. E al Colle non potrà salire neanche l’altro imputato eccellente di questo caso giudiziario, l’ex ministro Nicola Mancino. I giudici della corte d’assise di Palermo sono stati perentori: l’udienza sarà a porte chiuse (ma non segreta), senza pubblico e senza imputati, solo con i pubblici ministeri e gli avvocati. Prevalgono «esigenze tutte connesse alle speciali prerogative di un organo costituzionale quale è la presidenza della Repubblica », dice il giudice Alfredo Montalto, leggendo il suo provvedimento in aula. Prevale «l’immunità della sede». E poi ragioni «correlate all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale». Tutto questo, spiega un’articolata ordinanza di cinque pagine, prevale sul diritto alla difesa degli imputati che volevano essere presenti al Quirinale. E gli avvocati insorgono. Questa volta, non con la classica opposizione, che è l’anima del processo. Ma con un’eccezione di nullità, che potrebbe segnare la morte del processo trattativa Stato-mafia. È la difesa di Nicola Mancino a mettere l’ipoteca su tutto ciò che avverrà da questo momento in poi. «Per noi l’ordinanza è nulla — esordisce l’avvocato Nicoletta Piergentili Piromallo — perché viola il diritto dell’imputato Mancino di intervenire personalmente all’udienza al Quirinale ». L’avvocato Massimo Krogh rincara la dose: «Se in questo processo arriverà una condanna, porteremo subito avanti la questione della nullità della sentenza, perché non si può impedire a un imputato di partecipare alle sue udienze». Il caso è aperto. La nullità potrà essere fatta valere in ogni «stato e grado del giudizio », anche in Cassazione, non importa fra quanti anni. I pubblici ministeri volevano evitare proprio questa eventualità, ecco perché in extremis avevano dato parere favorevole alla presenza degli imputati al Quirinale, anche in videoconferenza. «Il diritto di difesa va tutelato — aveva ribadito a Repubblica il procuratore aggiunto Vittorio Teresi — non abbiamo fatto alcuna valutazione sulla qualità degli imputati». Dunque: nullità sì, nullità no. D’ora in poi, sarà il tormentone del processo trattativa. Almeno fra pubblici ministeri e avvocati. Il presidente della corte d’assise Alfredo Montalto, invece, non appare affatto preoccupato per la tenuta della sentenza che verrà. Ieri mattina, ha letto con la sua solita serenità le cinque pagine dell’ordinanza, che sostanzialmente ribadisce quanto aveva già deciso quindici giorni fa. La questione era certo complessa dopo le istanze degli imputati che invocavano il diritto alla difesa, «riconosciuto anche dalla convenzione europea per i diritti dell’uomo», ma le argomentazioni di Montalto sono lapidarie. L’immunità del Quirinale «impedisce anche l’accesso alle forze dell’ordine». Dunque, nessuno potrebbe accompagnare un imputato al Colle o «assicurare l’ordine in udienza». E la videoconferenza si può fare solo con le aule di giustizia. Infine, a proposito della convenzione per i diritti dell’uomo: «Nessun contrasto », taglia corto il giudice, ribadendo che la stessa convenzione prevede «deroghe» in presenza di «interessi 23 supremi». Conclude la corte: «Il diritto di difesa è adeguatamente assicurato» dagli avvocati, che eventualmente «nel prosieguo del dibattimento potranno far valere ogni forma di difesa ritenuta utile». Dall’udienza al Colle resterà fuori anche Giovanna Maggiani Chelli, la presidente dell’associazione familiari vittime della strage dei Georgofili, anche lei aveva chiesto di assistere alla deposizione del presidente Napolitano. del 10/10/14, pag. 8 Taranto choc: ”Infiltrazioni mafiose in Comune” SCIOGLIERE il consiglio di Taranto per mafia. È questa la richiesta, rivolta al prefetto, dai consiglieri Angelo Bonelli, dei Verdi e Dante Capriulo, Gianni Liviano e Francesco Venere, dei Democratici per la città. La Direzione distrettuale antimafia di Lecce infatti ha ipotizzato infiltrazioni della criminalità organizzata nell’amministrazione, i consiglieri hanno chiesto spiegazioni al sindaco Ippazio Stefano che non ha chiarito. E così hanno lasciato l’aula e organizzato una raccolta firme per lo scioglimento. L’operazione Alias, della Polizia di Stato, ha portato all’arresto di 52 persone presunte appartenenti al clan D’Oronzo-De Vitis. Uno degli arrestati è il marito di una consigliera Ncd e il presidente della commissione urbanistica è citato nelle intercettazioni telefoniche dell’inchiesta. del 10/10/14, pag. 11 CINESI, RUMENI, RUSSO-GEORGIANI: A ROMA LA MAFIA È MULTIETNICA FURTI, COCAINA E SOLDI SPORCHI: COSÌ GLI STRANIERI SI SPARTISCONO LA CITTÀ di Silvia D’Onghia C’è una linea, neanche troppo sottile, che collega la Grande Muraglia a Napoli, e Napoli al quartiere Prenestino di Roma: è un nuovo sodalizio criminale, che mette insieme gli imprenditori cinesi ai camorristi dei clan Giuliano e Anastasio e questi ultimi ai laziali Terenzio. Una sinergia che serve a far arrivare direttamente dalla Cina nei porti di Napoli, Civitavecchia e Gioia Tauro la merce contraffatta, e da lì a farla finire nei magazzini del Prenestino e del Casilino. ROMA È una città multietnica, e anche le mafie si sono dovute adeguare. Così, dopo l’invasione di ’Ndrangheta e Camorra, le forze dell’ordine devono adesso fare i conti con la criminalità “endogena”. I delinquenti africani hanno il controllo dell’immigrazione clandestina e della droga. La mafia di origine slava, albanese e rumena, considerata di “elevata pericolosità sociale per l’indole violenta e per l’assenza di scrupoli” – scrive la polizia –, è invece responsabile di delitti predatori, di traffico di stupefacenti e di 24 sfruttamento della prostituzione. Rumeni e bulgari, poi, hanno una predilezione per i reati “informatici”: la clonazione di carte di credito e l’alterazione dei bancomat. Le bande di matrice sudamericana e filippina sono dedite principalmente ai reati contro il patrimonio e contro la persona, nella maggior parte dei casi ai danni di connazionali. I cinesi, grazie al sodalizio con la Camorra, sono anche in grado di creare società fittizie di intermediazione finanziaria per il trasferimento, in madre patria, di ingenti somme di denaro. Un esponente di spicco del clan Moccia, al quale sono stati sequestrati beni per un valore di 150 milioni di euro, gestirebbe gli affari commerciali all’Esquilino, dopo aver acquistato una villa nei Castelli Romani appartenuta ad Alcide De Gasperi, e sarebbe il dominus di una società che porta i clienti al Casinò di Sanremo e presta loro i soldi. Un modo per fare impresa. Ma c’è una nuova mafia che spaventa le polizie: è quella di origine russo- georgiana . Secondo gli ultimi rapporti dell’antimafia, sono loro a compiere i principali furti nelle case dei romani, ma soprattutto ad avere la capacità di riciclare i soldi sporchi in tutta Italia e negli altri Stati europei. La collaborazione con l’Europol ha consentito di individuare a Roma personaggi di spicco dell’organizzazione mafiosa vor v zakone (ladro nella legge in russo), responsabili di reati di sangue e in costante contatto con l’organizacija . Tra gli altri, sono stati arrestati gli autori di un duplice tentato omicidio avvenuto il 4 agosto 2011 a Mechelen, una città della provincia di Anversa. Tutto questo naturalmente si inserisce in un contesto non certo vergine. A scorrere i nomi delle famiglie mafiose presenti ormai da anni a Roma (come in tutto il Lazio), vengono i brividi: gli Alvaro, i Bellocco-Piromalli, i Pelle, i Gallace, i Bonavota e i Fiarè per la ’Ndran - gheta; i Senese per la Camorra; i Triassi-Cuntrera per Cosa Nostra; senza dimenticare gli autoctoni, i Casamonica e i Fasciani. Le novità investigative degli ultimi mesi riguardano, per esempio, la tanto citata movida notturna: secondo gli inquirenti, per esempio, il clan camorristico degli Esposito (Luigi, detto “Nacchella”, è membro dell’alleanza di Secondigliano) potrebbe aver messo gli occhi sui locali della movida, rimpiegando così i capitali di provenienza illecita. DEL RESTO, che la ’ndrina Bonavota abbia “investito” nelle attività di Monteverde e di Prati è ormai cosa nota. “C’è un altro fenomeno che sta emergendo – afferma Gianni Ciotti, segretario del sindacato di polizia Sed – ma che la politica non è ancora in grado di decifrare: le mafie dell’est gestiscono interamente il traffico della prostituzione, riciclandone i proventi in attività commerciali e in ville”. 25 SOCIETA’ del 10/10/14, pag. 5 In Italia i minori vittime di reati sono aumentati del 56%, in 10 anni Raffaele K. Salinari Terre des Hommes. Il report Indifesa, presentato al Senato I minori vittime di reati in Italia sono aumentati del 56% negli ultimi 10 anni, le bambine sono le più colpite. Questa è la denuncia di Terre des Hommes documentata nel «Dossier Indifesa» presentato alla presenza del Presidente del Senato Grasso e del Garante per l’infanzia Spatafora. Grasso, aprendo i lavori, ha dichiarato che è «urgente un cambio di rotta per assicurare maggiore protezione e dare voce alle protagoniste del futuro. Un cambio di paradigma culturale che abbatta le barriere che ancora separano le bambine dalla piena fruizione dei loro diritti». Alla vigilia della Giornata Mondiale delle Bambine (11 ottobre), si accenderanno i riflettori sui diritti negati a milioni di bambine in Italia e nel mondo. Dire basta allo sfruttamento e agli abusi sulle bambine, liberarle per farle tornare ad una vita fatta di scuola, amici e giochi l’obiettivo della campagna «Indifesa» 2014. I dati della violenza sulle bambine sono allarmanti. Più di 5.100 bambini nell’ultimo anno sono stati vittime di reati. Il 61% di loro erano bambine. Questo numero, di per sé terribile, tanto più drammatico se si pensa che 10 anni fa erano 3.311, con un incremento del 56%. Sono cresciuti dell’87% i maltrattamenti in famiglia (passando da 751 nel 2004 a 1.408 vittime nel 2013, il 51% femmine) così come l’abbandono di minori (+94%) e le violenze sessuali aggravate (+42%). Continua ad evolvere, in questi anni, lo sfruttamento sessuale dei minori a fini commerciali da parte della criminalità organizzata, che si va orientando sempre di più sull’uso dell’immagine del loro corpo per arricchirsi nelle reti pedofile: +411% di vittime dei reati di pornografia minorile, +285% nella detenzione di materiale pornografico. In entrambi i casi l’80% delle vittime sono bambine e ragazze. A questo quadro già di per sé allarmante si aggiungono i dati forniti dalle Forze dell’Ordine sui reati contro le donne. In Italia, 1 donna su 3 ha subìto almeno una forma di violenza da bambina, l’11% abusi sessuali. In Europa, sono circa 21 milioni le donne ad aver subìto una forma di abuso o atto sessuale da parte di un adulto prima dei 15 anni (12%). Secondo la ricercail 67% delle donne europee vittime di abusi non avevano denunciato l’accaduto, il che significa che solo 3 casi su 10 vengono alla luce. A livello europeo, il 30% delle donne che hanno subìto abusi sessuali da grandi avevano già vissuto episodi di violenza sessuale o psicologica durante l’infanzia. Un’ulteriore prova di come le bambine abusate, se non adeguatamente assistite, possono assecondare comportamenti abusanti anche da adulte, tornando a essere vittime di violenza. Emerge quindi l’estremo bisogno di assicurare a bambine, ragazze e donne adulte una rete di servizi d’assistenza efficienti — medici, psicologici e legali — concepiti specificatamente per le vittime di violenza di genere e allo stesso tempo, sono indispensabili investimenti per azioni volte alla prevenzione, alla sensibilizzazione e all’educazione contro la discriminazione di genere, come richiesto dalla Convenzione di Istanbul. Il panorama delle violazioni dei diritti fondamentali delle bambine nel mondo è ancora desolante. 515 milioni di loro vivono in condizioni di povertà. Oltre 100 milioni sono le bambine mai nate, risultato dell’atroce pratica degli aborti selettivi in Cina, India e altri 26 Paesi del Sud-Est asiatico e Caucaso. 14 milioni di baby spose, con 39 mila matrimoni celebrati ogni giorno che coinvolgono bambine con meno di 18 anni. Non basta: sono oltre 68 milioni di baby lavoratrici nel mondo, che non più hanno la possibilità di studiare né tantomeno di giocare. Di queste, 30 milioni di bambine sono costrette a lavori pericolosi e oltre 11 milioni sono domestiche in casa d’altri. Nelle sole Filippine oltre 60 mila tra bambine e bambini sono costretti a prostituirsi online. E ancora, ogni giorno 20 mila ragazze sotto i 20 anni danno alla luce un bambino diventando baby mamme. 125 milioni sono le donne e le bambine che hanno subìto una mutilazione genitale. E ieri, Maud Chifamba, nominata da Forbes tra le 5 giovani donne più influenti del continente africano, ha lanciato su Change.org una petizione per chiedere al Segretario dell’Onu di portare davanti ai governi di tutto il mondo le istanze troppo spesso dimenticate delle ragazze raccolte nella «Girls Declaration». * Presidente Terre des hommes 27 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 10/10/2014 – pag. 29 Battaglia sulle norme antipaesaggio Carandini: dare il via ai cantieri con il silenzio assenso è un rischio per l’ambiente «Se questo governo vuole direttamente abolire la tutela del nostro paesaggio e del nostro patrimonio, che lo dica apertamente… Non c’è più spazio per una semplice preoccupazione, è ormai allarme rosso per il paesaggio e per il nostro patrimonio urbanistico e monumentale». Andrea Carandini, presidente del Fondo Ambiente Italia ed ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha appena analizzato il disegno di legge Madia sulla riforma della Pubblica amministrazione in discussione al Senato. L’allarme rosso di cui parla Carandini (che non esclude un appello al presidente Napolitano, suo e di altri intellettuali impegnati nell’universo della tutela, se le cose non cambieranno) riguarda l’articolo 3 comma 2 e 3 sotto il titolo «Silenzio assenso tra amministrazioni». Ovvero quel meccanismo per cui se un’amministrazione locale chiede un parere a un’altra amministrazione per un progetto edilizio o urbanistico, dopo 60 giorni può considerare un eventuale silenzio come un assenso, quindi un via libera (ed ecco il passaggio che intimorisce Carandini e molti altri) «anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni statali o di altre amministrazioni pubbliche». La prima parte riguarda direttamente gli uffici delle soprintendenze e i loro compiti istituzionali di tutela. Carandini ritiene «gravissima e senza precedenti» questa formulazione: «So che sarà possibile presentare emendamenti fino al 17 ottobre e mi auguro che si intervenga senza indugio. Voglio essere chiaro. Il governo fa bene a voler snellire le procedure, a “sbloccare” questo Paese. Ma se un iter prevede un parere sul paesaggio, su un bene urbanistico o architettonico, la macchina del ministero dei Beni culturali deve essere in grado di esprimerlo per evitare devastazioni». E allora, Carandini? Non è uno sprone a darsi da fare? «Le soprintendenze sono state svuotate di personale e mezzi. Sono state volutamente prosciugate e azzoppate. Negli uffici delle soprintendenze milanesi, sempre più impoverite, è stato calcolato che ogni funzionario avrebbe 3-4 minuti per esaminare le pratiche contenenti un parere, se si dovesse osservare il termine di legge. Ma se si azzoppa un’amministrazione non le si può poi chiedere di correre. Vedo, insomma, l’intenzione di togliere di mezzo ciò che viene visto come un intralcio, appunto la tutela e il sistema delle soprintendenze, mentre parliamo invece di un sistema che assicura l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione, cioè la tutela del paesaggio e del nostro immenso patrimonio storico-artistico». Proprio citando l’articolo 9, c’è chi sta progettando un appello al Quirinale per evitare che il silenzio assenso metta i Comuni nelle condizioni di costruire anche in aree vincolate, per non parlare dei centri storici. Positivo, invece, il parere di Carandini sull’articolo 17 dello sblocca Italia che introduce misure fiscali che favoriscono il recupero del patrimonio edilizio esistente, disincentivando il consumo di suolo: «Il provvedimento appare positivo, ma andrebbe inserito in un intervento più generale, che vincoli lo sviluppo alla pianificazione dell’uso del territorio che manca da due generazioni». Paolo Conti 28 del 10/10/14, pag. 42 Timori sull’effetto serra, maggiore efficienza delle fonti alternative, alti costi di estrazione Nel mondo dell’energia il vento sta cambiando E c’è chi volta le spalle a “Big Oil”: dalle banche ai consumatori, fino ai mattoncini della Lego Vivere senza petrolio MAURIZIO RICCI PRESTO , l’Europa non avrà più centrali elettriche. «Magari, non tutte quelle che ci sono oggi saranno scomparse fra 10 anni — precisano ad una delle più grandi banche globali, la svizzera Ubs — ma scommettiamo che non saranno sostituite ». E, forse, non ci saranno più, o saranno molti di meno, i distributori di benzina. Il mondo dell’energia, come lo conosciamo, sta galleggiando su un gigantesco sommovimento. Avvertirlo oggi, nel tripudio per il boom dei nuovi metodi di trivellazione di shale oil o shale gas, non è facile. Ma i progressi della tecnologia che, da un lato, esaltano il futuro di gas e petrolio, dall’altro promettono di affondarlo. E l’inesorabile ticchettio dell’effetto serra rischia di oscurarlo in un colpo. Gente dal naso fino avverte il cambio del vento. Gli analisti delle grandi banche — da Ubs a Barclays, da Citigroup a Hsbc, fino ai cervelloni della consulenza McKinsey — ma anche i superesperti internazionali della Iea (Ocse), i grandi investitori alla Rockefeller, fino ai grandi consumatori, tipo il gigante dei supermercati Walmart, sodali e amici da sempre di Big Oil, ora ostentano freddezza, si tirano indietro: i Rockefeller non investono più nel petrolio, Walmart annuncia il passaggio dei suoi supermercati al 100 per cento di solare. Persino la Lego abbandona la nave e rinuncia alla storica presenza (dagli anni ’60) sui “mattoncini” del logo della Shell per aderire a una campagna di Greenpeace contro le trivellazioni nell’Artico. L’incubo, per i grandi dell’energia, comincia con i negoziati per il clima. Nelle stanze in cui si svolgono le interminabili trattative sulla lotta all’effetto serra, c’è, infatti, un elefante che, finora, Big Oil è riuscito a tenere nascosto, ma che non può restare invisibile per sempre. Se, infatti, la temperatura media del pianeta non deve salire più di 2 gradi entro il 2050, pena catastrofe, come tutti dicono, bisogna ridurre le emissioni di CO2 , ma, per ridurre le emissioni, i tre quarti delle riserve di petrolio che oggi ci sono sottoterra, devono restarci. Gli scienziati dell’Ipcc, nell’ultimo rapporto Onu, sono chiari: se quelle riserve vengono estratte e bruciate, nelle auto o nelle centrali, il mondo è destinato a friggere. I soliti scienziati visionari, creduloni, malati di ecologismo? Niente affatto. Gli esperti della Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, filiazione dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati, cioè tecnici che vivono quotidianamente gomito a gomito con gli uomini di Big Oil, arrivano a conclusioni poco diverse: per centrare l’obiettivo dei 2 gradi, bisogna rinunciare ad usare almeno il 66 per cento delle riserve di petrolio, carbone, metano. Gli analisti che hanno fatto di conto dicono che sono 28 mila miliardi di dollari di patrimonio che svaniscono. Quasi 20 mila solo per il petrolio. Finanziariamente, una catastrofe che, nei quartier generali dei grandi del petrolio, conta assai di più del riscaldamento del Pianeta. Infatti, Exxon e Shell, ad esempio, hanno già detto ai loro azionisti che questa storia dei 2 gradi è fin troppo pompata e, comunque, il mondo di petrolio non può fare a meno. E hanno prodotto i loro numeri. Secondo la Exxon, nel 2040 la domanda di energia sarà soddisfatta per il 75 per cento da gas, petrolio e carbone, con le rinnovabili confinate al 5 29 per cento. Per la Shell, i combustibili fossili forniranno il 66 per cento dell’energia. Presto, dunque, bisognerà scegliere fra i numeri di Big Oil e quelli degli scienziati. Ci avviamo ad uno scontro epocale fra capitalismo ed ecologia. In qualche modo, peraltro, lo scontro è già in corso. Le grandi compagnie petrolifere hanno avuto l’occasione di salire sul treno delle rinnovabili, ma se ne sono tenute lontane o l’hanno abbandonato in fretta. Al contrario, nel mondo, fra il 2000 e il 2008, l’investimento in combustibili fossili, nonostante le polemiche, è raddoppiato e, nel 2013, ha sfiorato i mille miliardi di dollari. Con risultati, peraltro, scarsi. Nonostante il boom del fracking e dello shale, i costi sono triplicati, ma la produzione complessiva è salita solo del 14 per cento. Nella dispe- rata ricerca di riserve che, forse, domani si riveleranno inutilizzabili, le compagnie accettano di far produrre pozzi che, per rientrare della spesa, pretendono prezzi del greggio sempre più alti. Ormai, non meno di 80 dollari a barile di costo alla produzione e, spesso, fino a 120. Rischia di rivelarsi un vicolo cieco. Nonostante le sanzioni alla Russia e la guerra in Medio Oriente, per la prima volta da due anni il greggio è stabilmente sotto i 100 dollari a barile. Ieri, poco sopra quota 90. Colpa della crisi e della recessione, ma non solo. I tecnici della Iea prevedono che, ancora per qualche anno, la domanda di petrolio continuerà ad aumentare, ma perderà velocità prima del 2020. Si aspettano una svolta: «La crescita della domanda — hanno scritto questa estate in un rapporto — può iniziare a rallentare, per il combinarsi di alti prezzi del greggio, preoccupazioni ambientali e combustibili alternativi meno cari e più puliti, che risulteranno in una rinuncia al petrolio e in risparmi complessivi di combustibile». Niente picco della produzione e neanche picco della domanda di petrolio, precisano prudentemente, ma picco nella crescita della domanda sì. In termini più espliciti, i grandi del petrolio hanno il fiato corto. Non l’accetteranno con un sorriso. Ma, per fare un esempio, se il mondo vuole rispettare il limite dei 2 gradi, nei prossimi cinque anni deve mettere per strada tre milioni di auto elettriche. Nei corridoi dei ministeri che decidono la politica dell’energia, a cominciare dagli incentivi, la partita sarà senza esclusione di colpi. I grandi dell’energia rischiano di vincere qualche battaglia, ma di perdere, alla fine, la guerra. Perché, se i progressi della tecnologia hanno dato loro il fracking, stanno anche facendo volare le rinnovabili. Smentendo Exxon e Shell, la Iea calcola che, già fra quattro anni, le rinnovabili (compreso l’idroelettrico) saranno il 25 per cento della produzione globale di energia, superando l’ex grande promessa di ieri, il nucleare, ma anche il gas. A tirare la volata è soprattutto la crescita esponenziale del solare, in particolare quello dei pannelli che ogni famiglia può mettersi sul tetto. Il costo sta crollando, i risultati sono sempre migliori. La Iea stima che, nel 2050, il 25 per cento dell’elettricità sarà prodotta dal sole. Sembra ancora poco? Non per i bilanci aziendali. Spiegano gli esperti di McKinsey che, in un mercato dell’energia competitivo, in cui i prezzi non si possono manipolare, gli incassi delle compagnie crescono soprattutto grazie ai nuovi contratti. E, qui, le percentuali minuscole del solare sul totale dei consumi, diventano, già oggi, impressionanti, anche nel cuore dell’America ecoscettica: fino al 50 per cento dei nuovi consumi. In posti come Florida e Colorado, le aziende tradizionali devono prepararsi a perdere il 10 per cento degli utenti nel giro di pochi anni. Quanto basta per metterle in ginocchio. del 10/10/14, pag. 25 Alluvione a Genova: un morto 30 Le piogge fanno esondare tre torrenti: strade allagate, auto trascinate dalla piena, quartieri al buio Il corpo di un giovane recuperato a Brignole. Il Comune: non uscite, rifugiatevi ai piani alti GIUSEPPE FILETTO GENOVA . Ancora acqua e fango. Ancora morti di alluvione. Ancora il torrente Bisagno, “l’acqua che porta male, che sale dalle scale... altro che benedetta”, come cantava De Andrè. Acqua che a notte fonda si porta via la vita di un uomo. La valanga di fango squarcia Genova e l’entroterra. Il Bisagno, dopo una giornata di pioggia, alle 23,16 esonda in prossimità del ponte di Sant’Agata. Come aveva fatto nel ’70 con 44 morti, come ha rifatto nel ’92, eppoi ancora nel 2011 il Fereggiano, un suo affluente, con sei vittime. Mettendo sott’acqua Borgo Incrociati, allagando tutta la zona della stazione Brignole, piazza Verdi, viale Brigate Partigiane, la Foce e l’area della Fiera. È il torrente Scrivia, come una bomba, già nel tardo pomeriggio di ieri a rompere gli argini a Montoggio, nell’entroterra. Trascina auto e quanto incontra davanti. E fino a tarda notte nella località della Valle Scrivia i sommozzatori dei vigili del fuoco cercano due persone che sarebbero rimaste intrappolate nelle loro auto. Sono date per disperse e le operazioni di recupero sono ancora più difficili per il black out elettrico e telefonico. Anche se il sindaco ed i carabinieri della località della Valle Scrivia dicono che a loro non risultano esserci dispersi. Un morto accertato, invece, nel capoluogo. Intorno alla mezzanotte e mezza, dopo una giornata intensa di pioggia, i vigili del fuoco, tra le auto trascinate dal torrente che è uscito fuori dagli argini, tirano su il corpo ormai senza vita di un uomo, apparentemente di età compresa tra i 25 ed i 30 anni. Lo hanno trovato nei pressi di una fermata dell’autobus. Non è chiaro se sia deceduto per un malore e si sia trovato per strada, oppure se travolto dalla piena ed annegato nel metro e mezzo di d’acqua che in quel momento aveva trasformato la zona in un lago. Sarà l’autopsia, disposta dal magistrato di turno, a stabilire la causa del decesso. Scantinati, negozi allagati, gente che ha abbandonato i piani bassi e si è rifugiata dai vicini. Sottopassi trasformati in trappole. Auto come barche. È tornato l’incubo, per l’intera giornata. Poi il terrore a sera inoltrata. Prima nell’entroterra. E mentre l’intera macchina dei soccorsi era concentrata a Montoggio, il finimondo si è abbattuto sulla città. Dalle 22 i nubifragi si sono scaricati sulla Valbisagno, la zona dello stadio. È bastata un’ora e mezza di pioggia intensa per mandare al tappeto la rete fognaria, che non ha ricevuto più la piena del Bisagno. La Protezione Civile ha fatto appello ai cittadini che vivono nella parte di Genova attraversata dal torrente, a non uscire di casa e rifugiarsi ai piani alti. Oggi, con ogni probabilità, le scuole rimarranno chiuse. 31 CULTURA E SCUOLA del 10/10/14, pag. 3 Novanta città in piazza contro il Jobs Act e la scuola-impresa di Renzi Roberto Ciccarelli Istruzione. Studenti, docenti precari, Cobas e Flc-Cgil, movimenti sociali: «Tra i due provvedimenti c’è un rapporto speculare: peggioreranno il precariato». E' la prima manifestazione nazionale e di massa contro il governo dell'autunno Saranno novanta le città a scendere in piazza stamattina contro la riforma della scuola targata Renzi-Giannini. Studenti, docenti precari, sindacati, movimenti sociali impegnati nella costruzione dello sciopero sociale del 14 novembre, tutti insieme nella prima manifestazione di massa contro il governo nato da una lotta fraticida dentro il Pd, il partito al centro di tutte le polemiche dopo la fiducia in bianco alla legge delega sul Jobs Act al Senato. Dopo giorni di intensa mobilitazione negli istituti, e di approfondite analisi consultabili anche in rete, tutte le organizzazioni studentesche hanno compreso il rapporto speculare tra la «Buona scuola» del ministro dell’Istruzione Giannini e il Jobs Act del ministro del lavoro Poletti. La «Buona scuola» prevede la gestione manageriale degli istituti, affidata a un preside plenitopotenziario che dirigerà una struttura gerarchica dove i 148 mila precari assunti solo dalle graduatorie ad esaurimento verranno gestiti con le modalità del «lavoro a chiamata» percependo un aumento di stipendio in media ogni sei anni. Gli «scatti di competenza» riguarderanno solo il 66% dei docenti. Secondo alcune stime perderanno fino a 75 euro al mese. Gli studenti criticano anche la vocazione «professionalizzante» del «modello tedesco», quello dell’”alternanza scuola-lavoro”, che il governo vuole introdurre negli istituti tecnici e professionali a discapito dei saperi critici capaci di garantire un’autonomia perlomeno di pensiero sul mercato del lavoro. Il Jobs Act sembra invece raccogliere i frutti di questa semina malefica imponendo a tutti i neo-assunti il fantomatico «contratto a tutele crescenti». Per gli studenti questa espressione allude ad una forma di precarietà garantita per almeno tre anni, durante i quali l’impresa sarà libera di licenziarli in ogni momento. Alle loro analisi non è sfuggita l’aberrazione di questa visione: tanto più a lungo il soggetto lavorerà, tante più tutele riceverà in cambio. Ma se potrà essere licenziato su due piedi, in cambio di un’indennità commisurata al periodo di lavoro, su quali tutele potrà contare? Forte è il timore di una precarizzazione definitiva. Lo si è notato ieri a Palazzo Chigi dove la rete degli studenti medi ha fatto un blitz esponendo lo striscione: «Jobs Act non me lo posso permettere». «Il governo ha approvato una riforma che non sostiene i giovani nel percorso formativo, ma ne precarizza ulteriormente il lavoro» ha detto Gianluca Scuccimarra, coordinatore nazionale dell’Udu. «La nostra condizione sociale non può essere usata come uno slogan mediatico dal Premier» ha aggiunto Alberto Irone, portavoce della Rete degli studenti medi. «La Buona scuola apre le porte agli interessi e ai finanziamenti delle imprese – sostiene Danilo Lampis, coordinatore dell’Unione degli Studenti – valuta e punisce studenti e docenti, assume la competizione e le classifiche premiali come unico fine». Gli studenti rivendicano una legge sul diritto allo studio, massicci interventi per il welfare universalistico e il reddito minimo, elementi assenti nel Jobs Act. 32 Al loro fianco oggi ci saranno i coordinamenti dei docenti precari e i Cobas che hanno dichiarato lo sciopero generale. «Rifiutiamo i grotteschi scatti di merito e chiediamo il mantenimento di quelli di anzianità» afferma il portavoce Piero Bernocchi. In piazza ci sarà anche la Flc-Cgil che, tra l’altro, denuncia l’esclusione dalle assunzioni degli abilitati Tfa e Pas e degli altri precari. A difesa della scuola pubblica, e laica, sfileranno Rifondazione, l’Arci Gay e il coordinamento «per la scuola della costituzione», una rete associativa che si oppone al «disegno autoritario» contenuto nella riforma costituzionale, oltre che in quelle del lavoro e della scuola. La mobilitazione proseguirà in rete. Oggi farà il suo esordio lo «sciopero digitale». L’hashtag #followthestrike s’intreccierà con #10o, #entrainscena #nonservi e #lagrandebellezzasiamonoi. #IoNonCiSto è l’hashtag della rete StudAut che parteciperà allo «sciopero sociale» del 16 ottobre. del 10/10/14, pag. 1/50 L’Accademia di Svezia premia l’autore francese che racconta la Parigi occupata e il dopoguerra Il Nobel a Modiano lo scrittore che cerca un tempo non suo BERNARDO VALLI PATRICK Modiano è uno scrittore della memoria come dicono i giudici del Nobel, ma di una memoria che non è la sua. Da mezzo secolo si aggira nella sua Parigi alla ricerca di ricordi che non gli appartengono, servendosi di vecchie fotografie sfuocate, troppo bianche o troppo nere, di numeri civici in apparenza senza storia, di elenchi del telefono in disuso, di facce di uomini e donne sospette, di una toponomastica municipale superata, per tratteggiare più che ricostruire un passato precedente alla sua nascita. Precedente di poco perché Patrick Modiano è stato concepito nel ‘44, in un appartamento del numero 15, Quai de Conti, sulla Riva sinistra della Senna. E nel ‘45, quando è nato, era appena finito il periodo che l’ossessiona ancora a quasi settant’anni, quello dell’occupazione e del collaborazionismo con gli invasori nazisti. Quel periodo è come un labirinto di nome Parigi in cui Patrick Modiano si addentra da decenni per afferrare i fili di esistenze legate alla sua e sempre rimaste nebbiose, ossessionanti perché compromesse con quella buia epoca della Francia del tradimento: legami di sangue (il padre, la madre) sofferti, non ammorbiditi dal minimo affetto, soltanto subiti, e non scindibili, perché naturali, e quindi qualcosa di simile a un’inestinguibile maledizione. Lo scrittore ha cercato e cerca di estrarre quei legami dall’ambiguità ormai difficile da scrostare. Una montagna di ossessioni e non «un mucchietto di segreti» come diceva banalizzando l’esistenza degli uomini in generale André Malraux che fu testimone insieme a Raymond Queneau alle nozze di Patrick Modiano. Nella prima opera dello scrittore ventenne, Place de l’Etoile, il guru Malraux, al vertice della fama, disse che «c’era atmosfera ». Aveva ragione. Quell’atmosfera ha fatto di Patrick Modiano lo scrittore più amato (e tra i più letti) di Francia. Con gli anni il giovane allampanato e silenzioso è diventato un signore più loquace. Il suo balbettio alla televisione, nelle rare apparizioni per presentare lo smilzo libro che dava e dà ogni anno, puntuale, a Gallimard, suscitava sorrisi e simpatia tra i lettori assiepati davanti al video. Non aveva nulla dell’intellettuale parigino onnisciente. L’età ha cancellato o attenuato la timidezza che portava con eleganza. E penso che abbia anche di- radato le interminabili passeggiate nella città che resta la protagonista dei suoi romanzi. Una città 33 un po’ opaca per i misteri che racchiude, angosciata per i drammi irrisolti, ma anche ricca di curiosità, e per lui oggetto di una doppia passione: sofferenza e attrazione. Penso che non abbia mai alzato la testa per ammirare la Torre di Montparnasse, solitario e irriverente grattacielo piantato nella vecchia Parigi, e non si sia molto interessato alla Defense, scombinata Manhattan sulla Senna, se non per ammirare il Cnit, la bella costruzione di Bernard Zehrfuss, suo grande amico e padre di sua moglie Dominque. Patrick Modiano è un ammiratore di Simenon. Si può del resto rintracciare nel suo stile lineare, semplice e studiato come quello dei grandi scrittori, un richiamo al celebre au- tore anche di romanzi polizieschi, ma nell’opera di Modiano non ci sono gialli. Ci sono le atmosfere ma non le trame. Non c’è niente di avventuroso nelle sue storie, che sono spezzoni di quella grande trama che ha come protagonista un passato che non ha vissuto ma che lo insegue. Spezzoni spesso incompiuti che ci lasciano in sospeso. In un mondo che impone una conclusione o un giudizio a ogni avvenimento, anche se è in corso, Modiano è lo scrittore degli enigmi irrisolvibili. I numerosi lettori francesi non sono prigionieri di fiction romanzesche, ma dell’atmosfera che scaturisce dalla narrazione. (Atmosfera che i traduttori dei cinque libri in italiano non sempre hanno saputo ricreare). «Sono nato da un ebreo e da una fiamminga che si erano conosciuti a Parigi durante l’occupazione», ha scritto Pa- trick. Ma il padre, Albert Modiano, discendente di una famiglia di ebrei italiani di Salonicco, trafficava con gli ufficiali tedeschi; e la madre Louisa Colpeyn lavorava per la Continental Films, fondata dai tedeschi durante l’occupazione. Il padre frequentava gente che aveva rapporti con quelli della Rue Lauriston, dove si trovava la Gestapo francese. E la madre recitava e redigeva le didascalie in fiammingo per i film della Continental. Da bambino Patrick, prima di imparare il francese, parlava la lingua della madre. Secondo alcuni biografi, nella camera in Quai de Conti dove è cresciuto Patrick c’erano ancora dei libri di Maurice Sachs. Sachs (1906-1945), amico di Jean Cocteau e di André Gide, e infine ebreo collaborazionista, contrabbandiere al servizio dei tedeschi, sbranato dai cani in Pomerania mentre seguiva la sorte dei guardiani nazisti, era uno scrittore di talento. Il suo Sabbat è un libro che non manca di interesse. Ma l’uomo era sconcertante. Era un’aberrazione. La sua vicenda, tremenda e inquietante, si intrecciava con l’ambiente frequentato da Albert Modiano e da Louisa Colpeyn, i genitori di Patrick? Più che cercare la verità impossibile di quell’intreccio nella collaborazione con i nazisti, Patrick si interroga, ricostruisce personaggi ai quali cambia nome e lascia nell’ambiguità. In Pédigrèe esce però dalla vaghezza e parla direttamente della sua famiglia. E spara a zero. In altri libri la figura di Sachs, assurdo esempio di collaborazionismo, è probabilmente nascosta sotto qualche pseudonimo. L’opera di Modiano ruota attorno a quell’epoca, meglio all’atmofera di quell’epoca ormai uscita dalla memoria ed entrata nella storia. È sempre alla ricerca di quel passato che l’ha preceduto. Tutto questo continua più di sessant’anni dopo. Ad esempio attraverso una telefonata misteriosa, come in Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier , l’ultimo romanzo. Patrick è la memoria. Lo fu anche nella veste di sceneggiatore in Lacombe Lucien , il film di Louis Malle in cui si racconta la storia di un collaborazionista contadino. del 10/10/14, pag. 9 GLI EDITORI PER LA PARIFICAZIONE DELL’IVA TRA DIGITALE E CARTA 34 In apertura della Fiera Internazionale del Libro di Francoforte, l'Associazione Italiana Editori (Aie) ha diffuso un comunicato dove il suo presidente, Marco Polillo, ha chiesto la parificazione dell'Iva sugli ebook a quella dei libri di carta: per l’Aie una questione fondamentale per il futuro del settore e che dovrà essere affrontata a breve in sede europea. Per questo, Polillo ha chiesto al Ministro italiano dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini, di continuare a far pressione sull'Europa affinché la questione sia riformata permettendo agli Stati di attuare politiche differenti in materia di Iva sugli ebook, perché «continuare a considerare il libro elettronico al pari di un servizio digitale è una scelta che penalizza la diffusione della cultura e lo sviluppo della lettura». del 10/10/14, pag. 1/29 La storia Per la sala sgomberata a Roma si sono mobilitati i migliori registi italiani Viaggio dentro alla protesta tra rivendicazioni e polemiche. E demagogia Nuovo cinema America gli squatter perbene che sognano di salvare il mondo con i film FRANCESCO MERLO ROMA È L’OSSIMORO dell’eversione benedetta, il cinema America. È un caso di scuola all’italiana di occupazione per bene, la rivolta di Stato sgombrata dalla polizia ma celebrata da Giorgio Napolitano in quirinalese: «Non può che considerarsi altamente positivo sotto il profilo della storia e della cultura cinematografica...». Ma l’occupazione, che cominciò il 13 novembre del 2012 e per il ministro Franceschini è «preservazione del territorio», è stata anche una lunga violazione del diritto di proprietà del signor Simone Paganini e dell’ingegnere Victor Raccah che infatti dice: «Ci danno addosso. Qui sono innocenti tutti, anche quelli che calpestano i diritti fondamentali. Solo noi siamo i banditi perché siamo proprietari». E però lo Stato che protegge e, attraverso il presidente della Regione Zingaretti promette «staremo al vostro fianco, non vi abbandoneremo », è anche lo Stato che reprime. E infatti la Procura ha cacciato con la forza i civilissimi incivili guidati da Valerio Curcio e Valerio Carocci, 22 anni, più Nouvelle Vague che Racailles de banlieue, più Truffaut che Lars Von Trier, al punto che persino i post-it di protesta che ieri hanno invaso Trastevere sono 400, come i colpi: «Sono arrivati alle 6 del mattino, 60 poliziotti in tenuta antisommossa, 7 camionette. C’ero solo io che dormivo». Adesso sono asserragliati in un locale adiacente al cinema, un ex panificio che un ragazzo di Trastevere ha dato loro in comodato d’uso. Sullo sfondo c’è un murales pretenzioso che non abbellisce, con una grande A che non è Anarchia ma America. I due Valerio e i loro cinefili non appendono foto del Chiapas e di Che Guevara ma locandine del Marchese del Grillo e dei Soliti Ignoti. E dove i ragazzi dei centri sociali sporcano, loro puliscono. Attraverso questi locali abusivi non sono passati i brividi e le vertigini dell’Impero di Toni Negri ma le partite della Roma e della nazionale, qualche libro d’esibizione, da Gramsci a Geymonat, niente alla cool, una sala computer, film recuperati, magliette che somigliano a quelle confindustriali: «Hic sunt leones». Solo il linguaggio di Valerio è social-epico e allegramente astruso: «Vogliamo diventare protagonisti e non fruitori; difendiamo la proprietà privata ma anche il progetto di spazio polivalente; offriamo ai giovani un percorso 35 alternativo alla movida violenta. Noi non vogliamo tutto, ma vogliamo essere tutto». E però il Codice non riconosce lo squatter virtuoso, il rammendo fuorilegge nel degrado di Trastevere che forse piacerebbe a Renzo Piano: «Abbiamo fatto una colletta e siamo riusciti a mettere a posto il pavimento e il tetto. E adesso abbiamo pure un cordata di aspiranti compratori guidata dal produttore Carlo Degli Esposti», quello di Montalbano. E, come sempre, quest’America è anche un caso di evidente demagogia: il cinema italiano, che fa davvero pochi bei film, si è mobilitato compatto perché vuole nel cuore di Roma una Ramallah di celluloide, il campo profughi degli sfrattati da Cinecittà, degli esuberi del Centro sperimentale, dei fantasmi delle 50 sale chiuse a Roma per mancanza di spettatori. E non solo quelle trasformate o in trasformazione, dal Metropolitan (Benetton) al Roge et Noir (un bingo) all’Etoile di San Lorenzo in Lucina, piano terra dello storico palazzo Ruspoli di proprietà della contessa Daniela Memmo. Nel 2012 i francesi di Vuitton riuscirono, con un accordo con il Campidoglio di Alemanno e un aiuto economico proprio al Centro sperimentale di cinematografia, a farne il loro più sontuoso negozio d’Europa, scandalizzando persino Dagospia, ma non i registi, gli attori e i cineasti che oggi protestano per l’America. Sono una quarantina i cinema chiusi, in qualche caso da decenni, con il catenaccio: il Rivoli di via Veneto, il Maestoso sull’Appia, il Volturno, l’Espero, sino all’incredibile Airone nel quartiere Caffarella, progettato da Libera e dipinto da Capogrossi, di proprietà del Comune e non di Paganini e Raccah. Ogni tanto, nell’ombra e nel silenzio della notte romana, in questi cinema arrivano gli squatter: i pirati della danza, i cinefili erranti, le maestre senza asilo o i semplici homeless, il cui sgombero, quando «l’aria odora / de matina abbonora» non fa mai notizia, anche se sono i soli che prendono botte. Massimo Arcangeli, segretario dell’Anica, mi dice disperato che le sale «hanno bisogno di aiuto e di almeno un poco di quella solidarietà delle istituzioni che si riversa sugli occupanti dell’America, che sono pure bravi e hanno fatto tante cose lodevoli, mostre, dibattiti, proiezioni, ma senza rispettare le regole». Inaspettatamente anche il proprietario dell’immobile tesse le lodi e non solo «alla qualità del lavoro» ma anche allo «stile moderato» degli squatter: «Ho 58 anni, se ne avessi trenta di meno sarei sicuramente con loro e tra loro. Anche io sognavo da ragazzo. Ma, guardi, pure se quel cinema non fosse nostro, ora mi batterei come un leone per difendere il diritto dei privati. Quello non è uno spazio pubblico. È facile fare i rivoluzionari in casa d’altri e con i soldi degli altri». L’ingegnere Raccah vuole farne appartamenti, «almeno un garage se gli scavi non ci porteranno a scoprire preziose antichità», e prevede che «tutto il piano terra, vale a dire più della metà dell’intera superficie, che è di 1650 metri quadri, venga adibito a spazi culturali come richiede il Piano Regolatore». Ma il ministro Franceschini «ha messo i vincoli sugli arredi». Secondo lui «per compiacere gli occupanti». La battaglia legale dei ricorsi è cominciata, l’America è la palude di ogni genere di diritto italiano, anche quello storto. Il solo a non esporsi è il sindaco Ignazio Marino che dialoga con i proprietari ma non risponde alle ‘lettere aperte’ portate al Campidoglio in bicicletta: «Spero che dia un cenno di vita» ha detto Ettore Scola. Come al solito Marino sbaglia la misura: stracanta e stecca all’Opera e fa cinema muto all’America, dove tutto è fuori misura, spettacolo da grande schermo. Paolo Sorrentino minaccia di restituire la cittadinanza onoraria. E Salvatores, per non essere da meno, di restituire l’Oscar, che ovviamente non c’entra nulla, ma al cinema è un effetto speciale. E si sentono offesi Rosi, Verdone, Montaldo, Virzì. E poi Bertolucci, Servillo, Garrone, Alessandro Gassman, Gregoretti e, scendendo e allargando, si arriva agli eterni precari e alle comparse, agli occupanti di professione, ai sodali dell’orchestra dell’Opera e degli sgombrati del Valle, i facili bersagli del renzismo di risulta, i parenti dell’orso in rottamazione, i tagli della pellicola. E ci sono pure quelli che fanno la smorfia a 36 Gian Maria Volonté e Carla Gravina, come Elio Germano, il Leopardi con il pugno chiuso, o Sabina Guzzanti, che ieri ha twittato così: «Solidarietà a Riina e Bagarella privati di un loro diritto. I traditori delle istituzioni ci fanno più schifo dei mafiosi». Insomma ci sono i lavoratori dello spettacolo che in sindacalese da bacheca vogliono (copio testualmente) «rilanciare la battaglia per conquistare un’acquisizione pubblica e partecipata e ripristinare e rendere permanente la fruizione, la condivisione e la diffusione della cultura libera e accessibile a tutti». Chiedo ad alcuni antagonisti, di quelli che preferiscono i centro sociali Acrobax e Forte Prenestina e sfilano con lo slogan «Renzi schiavista / sei il primo della lista». Mi dicono che «quelli dell’America hanno ragione anche se sono ragazzi ben nati, figli di gente di cinema». Lo racconto a Valerio che si mette a ridere e giura che «nessuno tra noi ha parenti che lavorano nel cinema, e semo tutti poveracci». Cos’è, indivia? «Si, invidia di estrema sinistra». del 10/10/14, pag. 15 Il fantasma dell’Opera: “Come hanno buttato i soldi?” UN ORCHESTRALE: “FUORTES PARLÒ DI BILANCI A POSTO, DOPO TRE MESI AVEVA CAMBIATO IDEA. TROPPO FACILE SCARICARE LA COLPA SU DI NOI” di Emiliano Liuzzi Valerio Lo Monaco L’epilogo è stato quello di licenziare gli orchestrali e il corpo di ballo. Ma in mezzo c'è un capitolo che nessuno è riuscito ancora a scrivere e riguarda i 30 milioni di euro che l’Opera di Roma deve pagare, un debito che nessuno sostiene di aver fatto. Il gioco –non lo inventano a teatro, ne è stracolma la storia – è quello di dare la colpa ai predecessori. Gli unici che fino a oggi quel debito l’hanno saldato sono gli artisti, colpevoli di essere tali. La fantasia, col passare dei giorni, si è evoluta, ha preso forme strane sotto la forma di casta, indennità riconosciuta per l’umidità, abiti pagati. La realtà è che un musicista con vent’anni di anzianità, un merito artistico riconosciuto, può guadagnare fino a 2.100 euro. Domeniche e indennità comprese. Né un euro più né meno. “Hanno scaricato la colpa su di noi”, spiega Antonio Pellegrino, violoncellista licenziato dell’Opera. “Questo era l'obiettivo e fino a oggi ci sono riusciti. Le cose sono andate in maniera diversa. Iniziamo da otto mesi fa, quando il soprintendente Carlo Fuortes si presenta. E lui, le sue parole, ma anche i documenti scritti, ci dicono quello che noi sapevamo: bilanci in pareggio, una star universalmente riconosciuta come il maestro Riccardo Muti, un avvenire davanti agli occhi”. I MUSICISTI prendono atto. Ma con enorme diffidenza: “Il nostro male sono i politici, ogni volta che ci sono stati ribaltoni noi siamo stati sommersi, fino al licenziamento. Ma andiamo avanti. Tre mesi dopo, Fuortes ha già cambiato idea: all'improvviso siamo diventati lavativi, privilegiati, poco inclini al sacrificio. E soprattutto ci presenta un vecchio debito, 12 milioni di euro, che diventeranno 20, poi 50 e poi stabilizzato sui 30. Che ci dicessero come e perché sono stati spesi questi soldi. Non sono finiti nella mia busta paga, questa è l’unica affermazione certa”. Trenta milioni. Un buco che non si matura in un giorno. Ma soprattutto che non si nasconde così, con estrema facilità. Eppure è accaduto. 37 Come è accaduto che tutti siano stati licenziati con una promessa farlocca di essere riassunti con un contratto di collaborazione, nell’eventualità formassero una cooperativa. “Sono parole, promesse. Non c’è niente che sia credibile”, dice ancora Pellegrino. “Credo che una cosa emerga e sia evidente a tutti: sono stati licenziati orchestrali e coristi. Sono rimasti dipendenti quindici ballerini e 242 impiegati. Saranno loro a mettere in scena un qualsiasi spettacolo? Oppure l’azienda è semplicemente nella direzione di una bancarotta? Io credo molto di più a questa seconda ipotesi. Nessun teatro si priverebbe degli artisti e manterrebbe gli impiegati. Come viene risanato il buco, con i direttori a libro paga, gli addetti stampa, i capi del personale senza un personale? Andiamo avanti, oggi è toccato a noi, domani toccherà al resto. Potranno dire che l'Opera non esiste più. La prossima bugia sarà quella di convincere il pubblico che prima o poi riapriranno”. Premessa: le persone di cui parliamo sono professionisti. Hanno iniziato a rimettersi in auto, girare l’Italia, accettare incarichi di minor prestigio. Ma ovviamente riescono a lavorare. C’è chi ha studiato quarant’anni, quello riesce a fare nella vita e non altro: “Siamo stati licenziati perché scioperavamo, siamo stati il laboratorio dell’articolo 18”, chiude Pellegrino. “Il resto è fare il conto col nostro futuro. La fabbrica nella quale lavoravamo non esiste più. Guardiamo avanti. Mi piacerebbe che un giorno il maestro Muti spiegasse perché ha lasciato. Credo che la versione che danno il sindaco Ignazio Marino, il ministro Dario Franceschini, che ancora non abbiamo visto né sentito, e il sovrintendente Fuortes, offerta sul piatto alla stampa compiacente, non corrisponda al vero. Muti se n'è andato senza nessuna polemica con l’orchestra che lui aveva cresciuto, scelto, aveva partecipato in prima persona alle audizioni per i nuovi assunti, ci aveva portato in giro per il mondo in tour, non credo sia andato via in polemica con quelli che eseguivano le sue opere. Forse ha lasciato per altri motivi. Che Marino e Fuortes conoscono, noi ancora no”. INTANTO il sindacato dei musicisti “Unione artisti – Unams” ha depositato ieri, al Tribunale di Roma, un ricorso contro il Teatro dell’Opera chiedendo l’immediata revoca della delibera adottata il 2 ottobre, giudicata senza se o ma, illegale. A giudizio di Dora Liguori, segretario generale dell’Unams, “la vicenda dell’Opera di Roma s’inseri - sce in un contesto di smantellamento delle istituzioni musicali nel nostro Paese che calpesta i diritti dei lavoratori e le prerogative sindacali e mostra l’intento di perseguire modelli gestionali che, di fatto, ledono il nome e la dignità dei musicisti italiani nel mondo”. 38 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 10/10/14, pag. 3 USTICA: 5 MILIONI E MEZZO AI FAMILIARI Un altro giudice palermitano, Sebastiana Ciardo, condanna i ministeri dei Trasporti e della Difesa per la strage di Ustica, 81 persone morte, e sentenzia che lo Stato dovrà risarcire con 5 milioni 437.199 euro i 14 familiari, o eredi. di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi. Il giudice monocratico fa proprie le considerazioni dei magistrati – e della Cassazione – che hanno deciso prima di lei sulle cause proposte da altri parenti di vittime e ribadisce che ”solo con la conclusione delle indagini penali e dopo l’individuazione delle possibili cause del disastro è stato possibile enucleare una condotta illecita riferibile alle amministrazioni dello Stato le quali, avendo avuto conoscenza che lo spazio aereo percorso dal Dc9 era interessato da operazioni militari, avrebbero dovuto vigilare e indicare altra rotta idonea da seguire e, in ogni caso, porre in essere ogni utile accorgimento e condotta necessaria a scongiurare la collisione”. 39 ECONOMIA E LAVORO del 10/10/14, pag. 1/3 Controllo operaio Tommaso Di Francesco 25 ottobre «Questo Parlamento non serve a niente, siamo pronti ad occupare le fabbriche»: Maurizio Landini non poteva essere più esplicito e «storico», anche nel riferimento alle occupazioni di fabbriche che hanno contrassegnato nel secolo breve la storia del movimento operaio, non solo italiano. Qualcuno ci ha letto una sorta di candidatura «politica», altri l’hanno vista come «narrazione» agli iscritti sindacali, la Confindustria l’ha giudicata come una minaccia. Ma le parole del segretario della Fiom non sono una suggestione, corrispondono in pieno alla precipitosa crisi italiana finita nelle mani, improprie, dell’apprendista stregone Matteo Renzi. Siamo infatti con la fiducia sul cosiddetto Jobs Act, all’ennesima riduzione degli spazi di democrazia, dopo la cancellazione dell’elezione diretta del Senato e l’accumulo di decretazione come mai prima nessun governo della Repubblica. Ma se sui temi del lavoro si cancellano le difese degli stessi lavoratori, è legittimo o no che si alzi la loro voce e di chi legittimamente li rappresenta? Rendendo così evidente che ormai la questione non è più solo sindacale, ma politica perché chiama in causa contenuti di rappresentanza e di potere. Nella convinzione che la mancanza di lavoro e di investimenti, non sia dovuta al peso delle tutele fin qui faticosamente conquistate dai lavoratori con straordinarie stagioni di lotta che si vogliono azzerare, e che non dipende dalla mancata riforma del mercato lavoro tanto cara alla fallimentare destra neoliberista. Ma al contrario proprio dalla mancata riforma del mercato dei capitali. Vale a dire dal fatto macroscopico, che questo governo misconosce, che la crisi finanziaria del capitalismo ha devastato risorse e umanità. E che ora, come assai timidamente avviene negli Stati uniti per effetto della possibilità di soccorrere con la moneta domanda e investimenti, è necessario un ruolo di controllo e imprenditorialità del governo e dello Stato. Mentre in Italia e in Europa, irresponsabilmente, invece si avvia l’itinerario opposto delle privatizzazioni, smantellando aziende tutt’altro che in rosso e con capacità di guida e indirizzo dell’intera economia italiana e continentale, privata, pubblica e cooperativa. Ora — ed è la riflessione che come manifesto vogliamo rilanciare, anche perché è parte della nostra cultura fondativa — le parole di Maurizio Landini chiamano insieme ad una grande manifestazione il 25 ottobre ma anche ad attivare un movimento sul controllo da parte dei lavoratori dei processi della crisi in atto, a partire dalle crisi aziendali. Convinti che dalla crisi si esce con più democrazia non con meno, come vogliono Matteo Renzi e il nuovo Pd. Se tra le pieghe del Jobs Act compariva a gennaio una specie di fantasma di cogestione — tutti uniti tutti insieme, il lavoro subalterno che subisce il disastro dell’impresa capitalistica e il padrone protagonista del crollo — la crisi in corso pone all’o.d.g. ancora una volta il ruolo centrale dei lavoratori. Si dirà: ma se le fabbriche non ci sono più? Non è proprio vero, ma quando tragicamente lo è, proviamo a capovolgere lo sguardo: non ci troviamo forse da anni di fronte a drappelli di lavoratori protestatari che insistono a trovare un padrone che ripristini mercato e sfruttamento? Oppure, all’opposto, a fabbriche dismesse, considerate inadeguate o 40 obsolete, occupate e riattivate dagli stessi lavoratori? E ancora ai «nuovi lavori» precari o ai senza lavoro spesso in conflitto sordo con chi il lavoro ancora ce l’ha, ma sempre più incerto? Trasformiamo questa protesta che rischia di apparire come routinaria in un presidio di fronte al fantasma del ruolo del «capitalista». «Siamo pronti ad occupare le fabbriche» chiama a ruolo perfino la funzione del governo Renzi che, con l’austerity Ue, adesso siamo costretti a subire in una convivenza forzosa. Se come scriveva Luigi Pintor «la sinistra come l’abbiamo conosciuta non esiste più», le parole di Landini rinominano la speranza. del 10/10/14, pag. 3 La Cgil alla sfida finale Antonio Sciotto Jobs Act. Scioperi e proteste in tutta Italia, ma non sarà facile sfondare il muro mediatico di Renzi. Landini vuole occupare le fabbriche. Miceli (chimici e tessili Filctem): «Bisogna concentrarsi piuttosto sulla piazza». Oggi il premier sarà a Bologna e la Fiom annuncia contestazioni La macchina della mobilitazione è partita, per culminare nella manifestazione Cgil del 25 ottobre: e nel frattempo fermate spontanee, scioperi – anche improvvisati. In alcuni casi, stando agli annunci della Fiom, addirittura l’occupazione delle fabbriche. Ma non è certo che tutto questo riuscirà a cambiare l’onda del Paese, ancora incantato da Matteo Renzi: il premier, dopo la fiducia approvata la scorsa notte al Senato, è intenzionato ad andare avanti. E dal canto suo il sindacato vuole giocarsi il tutto per tutto. Martedì scorso, dopo l’incontro in Sala verde andato sostanzialmente male, la Cgil aveva diffuso una nota in cui si invitavano i lavoratori alla protesta, anche autorganizzata e spontanea: «A fronte della fiducia da parte del governo è necessaria un’immediata e forte risposta dai luoghi di lavoro, attraverso ordini del giorno, fermate e scioperi aziendali con assemblee». Maurizio Landini, dal canto suo, il giorno prima aveva minacciato la possibilità di «occupare le fabbriche». Dopo il voto di fiducia la tensione è salita, e si prevede un’accelerazione delle proteste, in tutta Italia. Ieri una nuova dura nota del sindacato: «Con la richiesta della fiducia sul Jobs Act – dice la Cgil – il governo, dopo aver negato il confronto con la rappresentanza del lavoro, ha compiuto una palese forzatura che ha compresso il dibattito parlamentare, ha posto le basi per un’ulteriore precarizzazione dei giovani lavoratori, ha tolto diritti invece di estenderli, ha accentuato una logica di subordinazione del lavoro nei confronti dell’impresa, ha aperto spazi all’arbitrio e al sopruso». La delega viene definita «lacunosa, ambigua, indefinita e, in molte parti, sfuggente nei criteri». Oggi le proteste si concentreranno in Emilia Romagna, perché è attesa una visita di Renzi: il premier inaugurerà a Crespellano, in provincia di Bologna, il nuovo stabilimento della Philip Morris. La Cgil ha già organizzato uno sciopero generale di 8 ore, previsto il 16 ottobre, ma il segretario Vincenzo Colla nega che sia stata organizzata una contestazione per questa mattina nel bolognese: «Noi non abbiamo organizzato nulla, poi ovviamente quando si muove il premier le contestazioni si muovono». Più esplicita la Fiom, che invece annuncia contestazioni al premier, unitamente a quelle che verranno dalla Lista l’Altra Emilia Romagna. Ma le notizie di mobilitazione vengono anche da altre categorie: la Filctem ad esempio fa sapere che nel lucchese si fermeranno 41 la Servizi Ospedalieri e la Scott Italvetro, e analogamente due impianti a Vicenza. Ma sono solo esempi, perché gli scioperi – a macchia – stanno dilagando. Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil – 230 mila iscritti, in rappresentanza di un settore che tra chimici, elettrici e tessili conta un milione di persone – spiega che «la categoria è impegnata in scioperi e assemblee, perché la battaglia è appena iniziata». Miceli non sembra sostenere la linea delle occupazioni di Landini, ma si rende conto che la sfida con il premier necessita di un impegno senza precedenti: «L’occupazione è certamente un atto eroico, ma rischia di farti rimanere chiuso nella fabbrica: mentre al contrario adesso devi parlare al Paese. Perché Renzi ha la tv dalla sua, può parlare a milioni di persone contemporaneamente. E allora dobbiamo farlo anche noi, ma faccia a faccia, nelle assemblee. L’essenziale adesso è informare, spiegare quello che c’è nel Jobs Act: non solo il licenziamento libero, ma anche il demansionamento, e la messa in discussione del contratto nazionale. Poi dobbiamo cercare di migliorare il testo alla Camera. Ricordiamoci che in mezzo ai prossimi passaggi parlamentari c’è la grande manifestazione di San Giovanni». La Filctem d’altronde, insieme alle categorie “sorelle” di Cisl e Uil – Flaei Cisl e Uilctem – ha firmato un documento unitario contro l’abolizione dell’articolo 18, ma per il momento non è riuscita a convincere le colleghe a farle compagnia nelle proteste. Come per ora Fim e Uilm non seguono la Fiom, e analogamente Cisl e Uil con la Cgil. Anche se Susanna Camusso ieri ha voluto lasciare una porta aperta, e a chi le chiedeva se altre sigle si uniranno al 25 ottobre, ha risposto: «Il tempo è con noi». del 10/10/14, pag. 1/2 L’interesse generale Alessandro Portelli Che cosa hanno in comune un’orchestra e un coro operistici e una fabbrica metalmeccanica? Sono culture, storie, etiche del lavoro molto diverse; ma sono entrambi oggetto di un licenziamento di massa in forme fino a poco tempo fa inimmaginabili. Con tutte le differenze, sono diventati il banco di prova di una politica che vede nel diritto di licenziare i lavoratori a piacimento l’asse di una brutale restaurazione classista che trasforma la «repubblica democratica fondata sul lavoro» in un’entità fondata sulla negazione del lavoro e dei suoi diritti. Dieci anni fa la ThyssenKrupp, multinazionale proprietaria delle storiche acciaierie di Terni, annunciò la chiusura del magnetico, il reparto fiore all’occhiello della fabbrica e della sua cultura. Formalmente, si trattava solo di un reparto — che comunque era già una ferita grave, con 900 posti di lavori persi. Ma gli operai lo percepirono come l’inizio di uno smantellamente più radicale, della fine dopo 120 anni del polo siderurgico ternano. E avevano ragione. Da tempo, le forze politiche, sinistra compresa, parlavano della necessità di «emancipare» la città dall’acciaieria (e dalla classe operaia). Ma l’aggressione della multinazionale toccò un nervo – echi della rivolta contro i licenziamenti di massa nel 1952–53, memorie familiari di generazioni che all’acciaieria avevano buttato sangue, sudore, e sapere operaio. Gli operai della AST di allora erano giovani, ma avevano ereditato quella memoria e quella coscienza. Sapevano che la fabbrica non era della ThyssenKrupp, ma loro e della loro città. L’unità tra operai e città riuscì a sventare la chiusura del magnetico. Ma un anno dopo la multinazionale tornò alla carica. Gli operai erano ancora compatti ma la città intorno a loro 42 cominciava a essere stanca, e la vicenda si chiuse con un compromesso che conteneva i semi del dramma di oggi: una multinazionale che di questa fabbrica non sa che farsene e presenta proposte provocatorie, un governo subalterno che balbetta e non fa niente, e una classe operaia che diventa ancora una volta la portatrice dell’interesse generale. Certo, sono in gioco in primo luogo centinaia di posti di lavoro, di persone e di famiglie, una fabbrica, una città, una regione. Ma è anche in gioco la visione di un’Italia che non sembra più avere la capacità, il desiderio e il diritto di avere una politica industriale. E ancora: una fabbrica come questa è anche un bene culturale, una memoria, un’etica, un sapere, un senso di orgoglio e dignità di cui il nostro paese avrebbe disperato bisogno e che invece (come la maggior parte dei beni culturali) vengono rottamati e buttati al macero in nome di un «nuovo» che è vecchio di secoli. Una giovane filmmaker ternana, Greca Campus – figlia e nipote di operai, naturalmente — mi raccontava di un progetto a cui sta lavorando, un’esplorazione sulla molteplice identità della nuova classe operaia ternana. Tre vite di lavoratori assai diversi: uno impegnato sindacalmente, un altro che fa l’operaio per mantenersi ma si considera musicista, e un immigrato albanese. Oggi sono tutti e tre a rischio: l’aggressione della multinazionale ricompatta e riunifica (sia la Cgil sia Cisl e la Uil respingono il cosiddetto piano i industriale dei padroni). Se davvero a Terni si arriverà, come dice Landini, a forme di lotta radicale come l’occupazione della fabbrica, dovremo sapere he la loro unità ci rappresenta tutti. 43
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