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Il libro
Kay Scarpetta è finalmente tornata a casa sua a Cambridge, dopo l’ultimo difficile caso, quando riceve una telefonata
dal suo storico compagno di lavoro, Pete Marino, il quale la informa che il corpo di una giovane donna è stato ritrovato
sul campo da baseball del Massachusetts Institute of Technology. Ben presto si scopre che si tratta di Gail Shipman, un
ingegnere informatico che ha in corso una causa milionaria contro una società di intermediazione finanziaria che l’ha
mandata sul lastrico.
Kay Scarpetta dubita fortemente che si tratti di una coincidenza e ha anche il timore che questo caso sia in qualche
modo collegato alla sua geniale nipote, Lucy.
A un primo sguardo, la causa della morte di Gail Shipman non è chiara: il suo cadavere è avvolto in un telo color
avorio ed è stato composto in una posa particolare. Questo fa pensare che chi l’ha uccisa non sia un killer alle prime
armi. Sul corpo vengono inoltre ritrovate tracce di polvere fluorescente rosso sangue, verde smeraldo e blu zaffiro. Tutti
questi elementi collegano il fatto a una serie di omicidi a sfondo sessuale perpetrati a Washington da un serial killer
soprannominato Capital Killer, di cui si sta occupando Benton Wesley, il marito di Kay.
La famosa anatomopatologa e i suoi collaboratori si ritrovano ben presto di fronte a uno scenario molto più
inquietante di un semplice caso di omicidi seriali, un mondo sinistro che ha a che fare con le droghe sintetiche e la nuova
tecnologia dei droni, che vede coinvolti il crimine organizzato e le più alte sfere governative.
Polvere è il ventunesimo caso di Kay Scarpetta, protagonista icona di un’autrice che da molti anni non smette di
stupire e appassionare i lettori.
L’autore
Patricia Cornwell è una delle più famose autrici di best seller internazionali. I suoi romanzi sono tradotti in trentasei
lingue, in più di cinquanta paesi. È tra i fondatori del Virginia Institute of Forensic Science and Medicine e della
National Forensic Academy, e membro del Comitato consultivo del Forensic Sciences Training Program presso
l’OCME di New York, nonché del McLean Hospital’s National Council, dove è sostenitrice della ricerca psichiatrica.
Nel 2008, con Il libro dei morti, Patricia Cornwell ha conseguito il Galaxy British Book Award, nella sezione
Crime Thriller. Il suo primo romanzo, Postmortem, è l’unico ad avere vinto nello stesso anno cinque dei premi più
prestigiosi. Insolito e crudele è stato insignito del Gold Dagger Award come miglior romanzo giallo del 1993.
Tutti i romanzi di Patricia Cornwell sono pubblicati in Italia da Mondadori.
L’autrice vive tra New York e la Florida. Visitate il suo sito www.patriciacornwell.com.
Patricia Cornwell
POLVERE
Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla
narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
POLVERE
Come sempre,
a Staci
(sei il meglio di tutto)
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.
T.S. ELIOT , La
terra desolata, 1922
1
Cambridge, Massachusetts
Mercoledì 19 dicembre, ore 4.02
Lo squillo del telefono profana il rumore incessante della pioggia che batte sul tetto come un rullo di
tamburi. Mi tiro su a sedere sul letto e il cuore mi fa un balzo nel petto come uno scoiattolo spaventato
quando lancio un’occhiata allo schermo illuminato per vedere chi sta chiamando.
«Cosa succede?» La mia voce non lascia trapelare emozioni mentre saluto Pete Marino. «A quest’ora,
nulla di buono, immagino.»
Sock, il levriero abbandonato che ho accolto in casa nostra, mi viene vicino e gli accarezzo la testa
per tranquillizzarlo. Accendo l’abat-jour, prendo un bloc-notes e una penna dal cassetto e intanto ascolto
Marino che mi parla di un cadavere rinvenuto all’MIT, il Massachusetts Institute of Technology, a qualche
chilometro da qui.
«Nel fango, in fondo a uno dei campi sportivi, il Briggs Field. È una donna. L’hanno trovata mezz’ora
fa» dice. «Ora faccio un salto dove pensiamo che fosse quando è scomparsa e poi vado sul luogo del
rinvenimento. Lo stanno mettendo in sicurezza in attesa che arrivi tu.» Mi parla con il suo vocione come
se non fosse successo niente fra noi.
Stento a crederci.
«Non capisco perché hai chiamato me.» Non avrebbe dovuto, ma so per quale motivo l’ha fatto.
«Teoricamente, non sono ancora rientrata in servizio. Sarei in malattia.» Glielo dico educatamente, con la
voce calma e appena un po’ roca. «Dovresti chiamare Luke o...»
«Ti conviene occupartene personalmente: fidati, Kay. Sarà un incubo, dal punto di vista mediatico.
Come se non ti bastasse quello che è già successo.»
Allude al weekend che ho passato nel Connecticut, e che è finito su tutti i giornali. Non vedeva l’ora
di parlarne, evidentemente. Ma io non intendo dargli corda. Mi ha chiamato perché può farlo. Mi sonderà
e cercherà di estorcermi informazioni per mettere bene in chiaro che, dopo essere stato ai miei ordini per
dieci anni, adesso i ruoli si sono invertiti. Adesso comanda lui, non io. È questo il mondo secondo Pete
Marino.
«Per chi sarà un incubo dal punto di vista mediatico? Io non mi occupo di pubbliche relazioni.»
«Un cadavere nel campus dell’MIT è un incubo per tutti. Ho un brutto presentimento. Sarei venuto con
te se me l’avessi chiesto. Non ci saresti dovuta andare da sola.» Sta di nuovo parlando del Connecticut,
ma io faccio finta di niente. «Me l’avresti dovuto dire, sul serio.»
«Non lavori più per me. Ecco perché non te l’ho detto.» Non intendo aggiungere altro.
«Sarà stato terribile per te. Mi spiace.»
«È stato terribile non solo per me, ma per il mondo intero.» Ho un accesso di tosse e allungo la mano
per prendere l’acqua. «L’avete identificata?» Mi sistemo i guanciali dietro la schiena. Sock mi appoggia
il muso allungato sulla coscia.
«Potrebbe essere una studentessa di ventidue anni, Gail Shipton.»
«Studentessa dove?»
«All’MIT. Ingegneria informatica. Ne è stata denunciata la scomparsa intorno a mezzanotte. L’ultima
volta che è stata vista era allo Psi Bar.»
Il locale preferito di mia nipote. Questo pensiero mi sconcerta. Lo Psi Bar è vicino all’MIT ed è
frequentato da artisti, studenti di fisica e geni dell’informatica come Lucy. Lei e Janet, la sua compagna,
ogni tanto mi ci portano per il brunch, la domenica.
«Lo conosco» mi limito a dire a Marino, l’uomo che mi ha abbandonato. A livello razionale so che è
meglio così.
Peccato che i miei sentimenti la pensino diversamente.
«A quanto pare ieri pomeriggio Gail Shipton era lì con una sua amica. Questa ragazza dice che verso
le cinque e mezzo Gail ha ricevuto una telefonata, è uscita dal bar perché dentro non si sentiva niente e
non è più tornata. Non saresti dovuta andare da sola nel Connecticut. Avrei potuto accompagnarti io in
macchina, se non altro» insiste Marino. Non mi chiede come vanno le cose al CFC, ora che lui se n’è
andato per ricominciare daccapo.
Perché Marino si è licenziato dal Cambridge Forensic Center per tornare in polizia. Sembra contento
della sua scelta. Non gliene frega niente di come l’ho presa io. Vuole solo sapere del Connecticut. Come
tutti, peraltro. Ma io non ho rilasciato nemmeno un’intervista. Non ne voglio parlare. Mi irrita che
Marino abbia sollevato il discorso. È stata un’esperienza orribile, a cui cerco di non pensare. E lui me
l’ha fatta tornare in mente.
«E non l’ha trovato strano? Non si è preoccupata che la sua amica fosse uscita a telefonare e non si
fosse più fatta vedere?» Ho inserito il pilota automatico: vado avanti con il lavoro cercando di non
badare a Marino.
«So solo che, quando ha visto che Gail non rispondeva né al telefono né ai messaggi, ha pensato che le
fosse successo qualcosa.» Ormai questa ragazza scomparsa, e forse morta, è “Gail” per Marino.
C’è un legame tra loro. Lui ha affondato gli artigli nel caso e non se lo lascerà scappare.
«A mezzanotte, non avendola più sentita, ha cominciato a cercarla» mi comunica. «Si chiama Haley
Swanson.»
«E cosa sai di questa Haley Swanson? Che genere di “amica” era?»
«Era solo una chiamata interlocutoria.» Vuol dire che non sa quasi niente perché la denuncia di Haley
Swanson lì per lì non è stata presa molto sul serio.
«Non ti pare strano che abbia cominciato a preoccuparsi solo a mezzanotte?» gli chiedo. «La sua
amica sparisce alle cinque e mezzo e lei chiama la polizia sei o sette ore dopo?»
«Sai come sono gli studenti: sbevazzano, incontrano uno, vanno via con lui... Non ci fanno manco
caso.»
«E Gail lo faceva d’abitudine?»
«Sono tutte domande che andranno fatte, se quello che temo risulterà fondato.»
«Sappiamo poco o niente, quindi.» Non avrei dovuto dirlo, ma ormai mi è sfuggito.
«Non mi sono dilungato molto con Haley Swanson» si giustifica Marino, sulla difensiva.
«Ufficialmente le denunce di scomparsa vanno presentate di persona, non per telefono.»
«Come mai le hai parlato, allora?»
«In un primo tempo ha chiamato il 911 e le hanno detto che doveva venire da noi e riempire i moduli
del caso. Perché è così che bisogna fare denuncia. Per telefono non si può.» Ha alzato la voce, tanto che
ho dovuto abbassare il volume del telefono. «Poi ha richiamato e ha chiesto di me. Io le ho parlato due
minuti, ma non l’ho presa tanto sul serio. Cioè, se fosse stata veramente preoccupata, si sarebbe
precipitata qui a sporgere denuncia, no? Siamo aperti giorno e notte.»
Marino è tornato a lavorare in polizia da poche settimane soltanto: mi pare incredibile che una
sconosciuta abbia chiesto di lui alla centrale di Cambridge. Mi vengono immediatamente dei sospetti su
Haley Swanson, ma evito di dirglielo perché sarebbe inutile. Non mi starebbe neanche a sentire.
Penserebbe che voglio insegnargli a fare il suo lavoro.
«Ti è sembrata agitata?» gli domando.
«Hanno tutti la voce agitata quando chiamano la polizia. Non vuol dire che ci sia davvero da
preoccuparsi, però: novantanove su cento, gli studenti scomparsi non sono scomparsi per niente.
Riceviamo parecchie chiamate del genere, da queste parti.»
«Sappiamo dove abita Gail Shipton?»
«In uno dei condomini eleganti vicino all’hotel Charles.» Mi dà l’indirizzo e io lo scrivo.
«Sono case di lusso.» Si tratta di palazzi molto belli, di mattoni, vicino alla Kennedy School of
Government e al fiume Charles, non distanti dalla sede del CFC.
«Probabilmente pagano i genitori, come spesso accade qui nel regno dell’Ivy League.» Marino non
prova molta simpatia per gli abitanti di Cambridge. Dice sempre che da queste parti se non sei un
cervellone ti fanno la multa.
«Avete controllato che non sia a casa e semplicemente non risponda al telefono, vero?» Prendo
appunti, adesso sono concentrata, distratta da una tragedia diversa, l’ultima in ordine di tempo.
Ma anche mentre sto lì sul letto a parlare al telefono, non riesco a dimenticare quello che è successo,
quello che ho visto. I cadaveri, il sangue, i bossoli di ottone sparpagliati come monetine sui pavimenti di
una scuola elementare di mattoni rossi. È come se avessi ancora davanti agli occhi quelle immagini, tanto
sono vivide.
Ventisette autopsie, per lo più bambini. E, quando mi sono tolta il camice tutto macchiato di sangue e
mi sono infilata sotto la doccia, ho deciso di smettere di pensarci.
Mi sono imposta di cambiare canale. Ho imparato molto tempo fa che è meglio vivere per
compartimenti stagni, che devo smettere di pensare ai corpi straziati e martoriati appena finisco di
sezionarli. Mi sono sforzata di lasciare quelle immagini lì dove le ho viste, nella scuola e nella sala
settoria, fuori dei miei pensieri, ma non ci sono riuscita. Quando sono tornata a casa, sabato sera, avevo
la febbre e dolori dappertutto, come se il male mi avesse contagiato. Le mie consuete difese avevano
ceduto. Mi ero offerta io di dare una mano ai colleghi dell’Istituto di medicina legale del Connecticut e si
sa che le buone azioni finiscono sempre per essere punite. Cerchi di fare la cosa giusta? Stai sicuro che la
pagherai. Le forze oscure non apprezzano, lo stress ti farà ammalare.
«Dice di esserci andata per assicurarsi che Gail non fosse rientrata» mi risponde Marino. «Pare abbia
chiesto al portinaio di controllare il suo appartamento e non c’era traccia di lei, sembrava non fosse più
tornata a casa dopo il bar.»
Gli faccio notare che Haley Swanson deve essere ben conosciuta nel condominio di Gail Shipton,
perché altrimenti non le avrebbero aperto la porta dell’appartamento e, mentre lo dico, mi cade l’occhio
sulla pila esagerata di pacchi sul divano, che mi sono stati consegnati dalla FedEx e non ho ancora
aperto. Rifletto che non mi fa bene restare sola troppi giorni di seguito, specie se non ho la forza di
lavorare, cucinare e uscire, e mi spaventa isolarmi con i miei pensieri. Sento il bisogno di distrarmi e lo
faccio nel modo sbagliato.
La fibbia a forma di teschio e il giubbotto di pelle vintage della Harley-Davidson sono per Marino, la
colonia di Hermès e i braccialetti di Jeff Deegan per Lucy e per Janet; per mio marito Benton ho preso
invece un orologio Breguet fuori commercio, di titanio con quadrante in fibra di carbonio. Compie gli
anni domani, cinque giorni prima di Natale, ed è difficile fargli un regalo perché non ha bisogno di niente
e ha già praticamente tutto.
Ci sono doni in abbondanza anche per mia madre e mia sorella, per la nostra domestica, Rosa, per il
personale del CFC, per Sock, per il bulldog di Lucy e per il gatto del mio assistente. Non so cosa mi sia
preso in questi giorni in cui sono stata a letto malata, ma ho comprato un sacco di cose su internet. Colpa
della febbre. Sono sicura che mi prenderanno in giro tutti quanti: la sobria e assennata dottoressa Kay
Scarpetta quest’anno si è data allo shopping sfrenato. Lucy non mi darà requie.
«Gail non risponde al cellulare, alle e-mail, agli SMS» continua Marino, mentre la pioggia batte sui
vetri. «Niente post su Facebook, Twitter o altro. Ma, soprattutto, la descrizione corrisponde a quella
della morta. Insomma, secondo me l’hanno rapita, l’hanno portata da qualche parte, l’hanno uccisa e poi
hanno avvolto il corpo in un lenzuolo e l’hanno abbandonato lì. Non ti avrei disturbato, date le
circostanze, ma ti conosco e...»
Sì, mi conosce, e non andrò né all’MIT né da nessun’altra parte. Manco dal CFC da cinque giorni e sono
virtualmente in quarantena. Glielo comunico. Uso un tono brusco e seccato con il mio ex investigatore. Sì,
ex, ribadisco dentro di me.
«Come stai adesso? Te l’avevo detto di non farlo, il vaccino antinfluenzale. Scommetto che è stato
quello» dice.
«È un virus morto: non ti puoi ammalare.»
«Be’, io le uniche due volte che l’ho fatto mi sono ammalato. Eccome. Sono stato male come un cane.
La voce ti è migliorata, comunque.» Fa il premuroso perché ha bisogno di me.
«È tutto relativo: potrei stare meglio, ma potrei stare anche peggio.»
«Sei arrabbiata con me, vero? Be’, tanto vale che ne parliamo.»
«Veramente mi riferivo al mio stato di salute.»
Non sono solo arrabbiata. Provo emozioni ben più complesse e stratificate. Marino non ha
minimamente pensato a cosa la sua decisione di cambiare lavoro avrebbe comportato per me, che dirigo
il Cambridge Forensic Center e l’Istituto di medicina legale del Massachusetts. Da dieci anni Marino era
responsabile del reparto investigativo e posso solo immaginare le illazioni che faranno, o avranno già
fatto, soprattutto in polizia, riguardo a questo improvviso divorzio.
Prevedo già come verrò trattata sulle scene del crimine, al CFC, in tribunale. Metteranno in dubbio la
mia professionalità, cercheranno di capire cosa ho fatto di male. In realtà, io non c’entro assolutamente
niente. La scelta di Marino di cambiare lavoro è stata dettata prevalentemente da una crisi di mezza età
che lo affligge da che lo conosco. Se fossi indiscreta, potrei dire al mondo che Pete Marino soffre di
problemi di identità e di bassa autostima da quando è nato in una zona malfamata del New Jersey, da un
padre alcolizzato e violento e una madre debole e sottomessa.
Io sono una donna fuori della sua portata, forse il grande amore della sua vita, di sicuro la sua
migliore amica. Per questo mi punisce. Lo fa in maniera inconscia, ovviamente. Non ne è consapevole
quando mi telefona nel cuore della notte pur sapendo che ho l’influenza e che sono stata talmente male
che a un certo punto ho creduto di morire e mi sono detta: “Ecco, è così che succede”.
2
In un’epifania causata dal febbrone, mi è parso di capire il significato ultimo della vita, frutto di una
collisione tra le particelle divine che stanno alla base della materia nell’universo, e della morte,
processo perfettamente inverso. Quando ho sfiorato i quaranta gradi, mi è sembrato tutto chiarissimo,
illuminata com’ero dalla presenza di una nera signora incappucciata ai piedi del letto.
Se solo avessi scritto quello che mi diceva, la formula elusiva della natura che produce massa e della
morte che la elimina, il mistero della creazione dal big bang a oggi misurato attraverso i prodotti del
decadimento! Ruggine, sporcizia, malattia, follia, caos, corruzione, bugie, marcescenza, rovina, cellule
morte e atrofizzate, tanfo, sudore, lordume, polvere alla polvere... Tutto questo interagisce a livello
subatomico, dando origine a nuova massa in un ciclo senza fine. Non vedevo il volto della nera signora,
ma so che era bonario e irresistibile, mentre mi parlava con un linguaggio scientifico e poetico al tempo
stesso, davanti a un fuoco che emanava luce ma non calore.
Per qualche istante di straordinaria lucidità, ho capito che cosa vogliamo dire quando parliamo di
frutto proibito e peccato originale, di avanzare verso la luce, lungo strade lastricate d’oro, di
extraterrestri, aura, spiriti, paradiso, inferno e trasmigrazione delle anime, guarigione, resurrezione,
reincarnazione sotto forma di corvi, gatti, gobbi, angeli. Mi è stato rivelato il mistero di questo riciclo
continuo, di una precisione cristallina e di una bellezza prismatica, il piano di Dio Fisico Supremo,
misericordioso, giusto e divertente. Un Dio creativo, parte di ognuno di noi.
Ho visto, ho conosciuto, ho toccato con mano la Verità perfetta. Poi la vita ha riaffermato la propria
supremazia e mi ha privato della Verità. E così sono ancora qui, trattenuta su questa terra dalla forza di
gravità. Immemore. Non ricordo più, o comunque non so esprimere quello che finalmente avrei potuto
spiegare ai parenti disperati dei morti che sottopongo ad autopsia. Do risposte cliniche alle loro
domande, che sono sempre le stesse.
“Perché? Perché? Perché...”
“Come hanno potuto fare una cosa del genere?”
Non ho mai saputo dare una risposta valida a questi interrogativi. Ma la risposta c’è, e io l’ho
afferrata, anche se solo per un istante. L’ho avuta sulla punta della lingua, ma poi sono tornata in me e mi
è sfuggita dalla mente, sostituita dal lavoro che avevo appena finito, da immagini inconcepibili, che
nessuno dovrebbe mai vedere. Sangue e bossoli lungo corridoi pieni di disegni e decorazioni natalizie. E
dentro l’aula... i bambini che non sono riuscita a salvare, i genitori che non sono riuscita a consolare, le
rassicurazioni che non sono riuscita a dare.
“Hanno sofferto?”
“È stato rapido? Quanto tempo c’è voluto?”
Mi dico che è colpa della febbre. Non c’è nulla che io non abbia già visto, che io non sia in grado di
gestire, e mi sento invadere dalla collera, che si risveglia come un drago dentro di me.
«Credimi: non vorrai che se ne occupi qualcun altro. Non è ammessa la minima cazzata, te lo dico io.»
Marino continua imperterrito a parlare e, per essere sincera, devo ammettere che mi fa piacere udire la
sua voce.
Non voglio sentire la sua mancanza come in quest’ultimo periodo. È l’unica persona che porterei con
me in un inferno mediatico di quelle dimensioni, di portata incomprensibile: strade bloccate per
chilometri dai mezzi di innumerevoli televisioni, antenne satellitari, elicotteri che sorvolavano la zona
senza posa, nemmeno stessero girando un film.
“Hanno sparato da vicino o da lontano?”
Il drago si riscuote di nuovo, ma non posso permettermi di lasciare che la collera mi travolga. Meno
male che Marino non è venuto con me. Non volevo che venisse. So che cosa è in grado di gestire e cosa
no. Sarebbe crollato come un vetro che si spezza in mille frammenti a causa di vibrazioni troppo intense
per l’udito umano.
«L’istinto mi dice che questo è il primo di una lunga serie, Kay» mi confida Marino. Ha la stessa voce
di sempre, ma più sicura, più assertiva. «Qualche psicopatico deve aver preso spunto da quello che è
appena successo.»
«Quello che è successo a Newtown?» Non vedo come faccia a saltare a una conclusione simile e
vorrei che la piantasse di tirare fuori il Connecticut.
«È così che funziona» insiste. «Uno psicopatico prende spunto da un altro psicopatico che fa una
strage in un cinema o in una scuola per attirare l’attenzione.»
Lo immagino che guida per le strade buie di Cambridge sotto la pioggia. Sono sicura che non ha
allacciato la cintura, ma evito di dirglielo, ora che è di nuovo in polizia. Ricade nelle vecchie, brutte
abitudini con grande facilità.
«Le hanno sparato?» Glielo chiedo perché smetta di divagare, tornando continuamente su un
argomento di cui non voglio parlare. «Non sei nemmeno sicuro che sia stata assassinata, dico bene?»
«Non pare che le abbiano sparato» conferma Marino.
«Cerchiamo di non confondere ulteriormente le cose facendo inutili confronti con quello che è
successo nel Connecticut.»
«Non tollero che ’sti coglioni ricevano tanta attenzione dai media.»
«Su questo siamo tutti d’accordo.»
«Peggiora le cose. È un’istigazione a delinquere. Non dovremmo nemmeno dire come si chiamano.
Dovremmo seppellirli senza lapide.»
«Parliamo del caso, per cortesia. Il cadavere presenta lesioni o ferite visibili?»
«A prima vista, no» risponde Marino. «Ma non credo proprio che si sia avvolta da sola in un lenzuolo
per andare scalza nel campus a morire nel fango, sotto la pioggia.»
Se Marino sta bypassando il mio vice, Luke Zenner, e gli altri medici legali del CFC, non è perché
pensa che io sia più qualificata di loro a gestire il caso, anche se è vero che lo sono. Ha chiamato me
perché vuole tornare ai vecchi tempi, riappropriarsi del ruolo che aveva quando ci siamo conosciuti. Non
lavora più per me. Adesso mi chiama quando decide lui. Mi ricorderà che i ruoli sono questi tutte le volte
che potrà.
«Comunque, se non te la senti...» comincia. Forse lo fa per invogliarmi a dire di sì. O forse la sua è
una sfida.
Non so. Non sono in grado di giudicare, in questo momento. Sono stanca e ho lo stomaco vuoto. Non
riesco a pensare ad altro che a uova sode con burro e una macinata di pepe, pane appena sfornato e caffè
espresso. Cosa non darei per una spremuta di arance rosse.
«No, no. Il peggio è passato.» Prendo la bottiglietta sul comodino. «Dammi il tempo di prepararmi.»
Bevo un sorso d’acqua soltanto: non ho più una sete inestinguibile, le labbra secche e la lingua asciutta
come carta vetrata. «Ho preso lo sciroppo per la tosse prima di dormire. Codeina.»
«Beata te.»
«Sono un po’ annebbiata, ma sto bene. Non mi sento di guidare, però; soprattutto con questo tempo.
Chi ha trovato il corpo?»
Forse me lo ha già detto. Mi premo una mano sulla fronte: non ho febbre. Sono abbastanza sicura che
mi sia passata e che non sia solo effetto dell’Advil.
«Una studentessa dell’MIT e un tipo della Harvard che stavano andando verso la camera di lei alla
residenza universitaria. Hai presente la Simmons Hall? Quel palazzo enorme che sembra costruito con il
Lego di là del campo da rugby e del campo da baseball dell’MIT?» mi chiede Marino.
Sento che ha il ricevitore scanner acceso. È nel suo elemento. Armato e pericoloso, con il distintivo
appeso al cinturone, al volante di un’auto della polizia senza contrassegni ma con luci, sirena e chissà
cos’altro ancora. Ai vecchi tempi, truccava i mezzi della polizia come fa tuttora con le sue HarleyDavidson.
«Lì per lì hanno pensato che fosse un manichino con una toga steso nel fango dietro la recinzione che
separa il campo dal parcheggio» mi informa Marino, tornato a essere il detective di una volta. «Quando
poi si sono avvicinati, entrando da un cancello aperto, e si sono accorti che era una donna avvolta in un
lenzuolo, che sotto non aveva niente addosso e che non respirava, hanno chiamato il 911.»
«È nuda?» In realtà gli sto chiedendo di dirmi se qualcuno ha toccato il cadavere, e chi.
«I due ragazzi giurano di non aver toccato niente. Il lenzuolo è fradicio ed è abbastanza evidente che è
nuda. Machado gli ha parlato e dice che secondo lui non c’entrano niente. In ogni caso, per sicurezza, gli
fa fare un tampone per il test del DNA e controlla se hanno precedenti. La solita trafila.»
Poi mi spiega che Sil Machado, investigatore della polizia di Cambridge, sospetta si tratti di
un’overdose.
«Potrebbe essere la stessa roba, tagliata male, che gira in questo periodo causando un sacco di
problemi» dice Marino. «Come lo strano suicidio dell’altro giorno.»
«Quale strano suicidio?» Purtroppo ce ne sono stati diversi mentre ero fuori città e poi a casa malata.
«La stilista che si è lanciata dal tetto del suo palazzo di Cambridge e ha imbrattato le vetrate della
palestra al pianoterra mentre la gente faceva ginnastica» mi spiega. «Sembrava che fosse scoppiata una
bomba di spaghetti al pomodoro. Comunque sia, pensano che potrebbe esserci un collegamento.»
«Non vedo quale.»
«La stessa droga. Qualche schifezza di cui si faceva.»
«E chi è che lo pensa?» Non ho fatto io l’autopsia alla suicida, ovviamente. Prendo i dossier che ho
impilato sul pavimento vicino al letto.
«Machado e il suo sergente, il suo vice» mi risponde Marino. «Il caso è stato subito sottoposto
all’attenzione dei sovrintendenti e del commissario.»
Poso i dossier sul letto. Devono essere almeno una dozzina di fascicoli, referti autoptici e foto che il
mio assistente Bryce Clark mi ha portato tutti i giorni, lasciandoli fuori della porta. Insieme al lavoro, mi
ha portato anche provviste e generi di conforto.
«Si teme che sia metamfetamina tagliata con chissà cosa o qualche altra droga sintetica, una versione
recente dei “sali da bagno” che gira a Cambridge in questo periodo. Forse anche la donna che si è
suicidata era sotto l’effetto di questa droga» mi dice. «Una possibilità è che Gail Shipton, sempre che il
cadavere sia il suo, si sia drogata con qualcuno che, quando lei è andata in overdose, l’ha portata nel
campus.»
«È una teoria tua?»
«No, no. Se ti vuoi sbarazzare di un cadavere, perché lo porti nel campo sportivo di un’università,
come se volessi metterlo in mostra per scioccare la gente? Il punto secondo me è questo, il pericolo
maggiore da cui ci dobbiamo guardare in questo periodo: compi un gesto sensazionale e finisci su tutti i
giornali e attiri l’attenzione persino del presidente degli Stati Uniti. Io credo che chi ha messo quel
cadavere al Briggs Field sia uno così. Uno che vuole attirare l’attenzione, insomma, finire sui giornali.»
«Potrebbe essere. Ma non è tutto.»
«Ti inoltro le foto che mi ha mandato Machado per SMS.» La voce profonda di Marino è insistente,
sgarbata, brusca.
«Non usare il cellulare mentre guidi.» Prendo il mio iPad.
«Tranquilla: dopo mi faccio la multa.»
«Ci sono solchi per terra, o altri segni da cui si possa capire come ha fatto il cadavere ad arrivare fin
lì?»
«Dalle foto vedrai che c’è un casino di fango e purtroppo, se anche c’erano, impronte, solchi o segni
di qualsiasi tipo sono stati cancellati dalla pioggia. Ma io non sono ancora stato sul posto. Non ho ancora
visto niente.»
Apro le foto che Marino mi ha appena spedito via e-mail e osservo l’erba bagnata e il fango rossastro
di un campo da baseball delimitato da una recinzione. Zumo sulla donna avvolta in un telo bianco. È
snella, supina, con i lunghi capelli castani disposti ordinatamente intorno al viso giovane e grazioso,
inclinato leggermente verso sinistra e imperlato di pioggia. Ha il lenzuolo avvolto sul petto, sotto le
ascelle, come un telo da bagno. Sembra una signora alle terme.
È un’immagine familiare e mi colpisce la somiglianza con alcune foto che mi ha fatto vedere Benton
qualche settimana fa, prendendosi un rischio notevole. Senza l’autorizzazione dell’FBI, mi ha chiesto
infatti un parere sul caso che sta seguendo a Washington. Le vittime di cui mi ha mostrato le foto, però,
avevano un sacchetto di plastica sulla testa, fissato intorno al collo con del nastro adesivo fantasia e un
fiocco. È la firma del serial killer, e qui non c’è.
“Non sappiamo neppure se è stata assassinata” mi dico. Non mi sorprenderei se fosse morta
improvvisamente e chi era con lei si fosse lasciato prendere dal panico, l’avesse avvolta in un lenzuolo,
magari del dormitorio universitario, e l’avesse portata fuori in maniera che venisse ritrovata in tempi
brevi.
«Potrebbero essere entrati nel parcheggio con un’auto, essersi fermati vicino alla recinzione, aver
aperto il cancello e averla portata lì a braccia, oppure trascinandola» prosegue Marino mentre io guardo
l’immagine sul mio iPad, che mi turba a livello profondo, viscerale. Cerco di scacciare quella
sensazione, ma non ci riesco. A Marino non posso dire niente.
Benton verrebbe licenziato se l’FBI sapesse che ha svelato a sua moglie informazioni secretate. Poco
importa che io sia un medico legale che ha competenza su casi federali e che aveva un senso consultarmi.
L’FBI mi chiede spesso consulenze, ma in questo caso non l’ha fatto. Il capo di Benton, Ed Granby, non mi
vede di buon occhio e sarebbe più che felice di gettare fango su Benton e farlo licenziare.
«Uno dei cancelli non era chiuso» mi informa Marino. «I due ragazzi che hanno trovato il cadavere
dicono che quando sono arrivati loro era solo accostato. Gli altri, invece, sono chiusi con catene e
lucchetti in maniera che fuori orario non entri nessuno. Chi ha portato lì il corpo, dunque, sapeva che quel
cancello era aperto, oppure aveva la chiave o ha usato un tronchese.»
«Il corpo è stato messo deliberatamente in quella posizione.» Ho la testa pesante, l’eco di
un’emicrania cronica. «Supina, gambe unite, dritte, un braccio sul ventre, l’altro teso e con il polso
piegato. Sembra una ballerina, o una dama d’altri tempi che ha un mancamento e chiede i sali. Non c’è
niente fuori posto, il lenzuolo è sistemato con cura... In realtà non sono nemmeno sicura che sia un
lenzuolo.»
Ingrandisco il particolare più che posso senza che l’immagine si sgrani.
«Un telo bianco, comunque. È una posizione simbolica, rituale.» Ne sono sicurissima, e la stretta che
provo allo stomaco è paura.
E se fosse la stessa mano? E se l’assassino fosse arrivato qui? Mi dico che ho in mente i casi di
Washington perché se ne sta occupando Benton, in trasferta proprio per questo motivo. E poi non è
passato molto tempo da quando mi ha fatto vedere quelle foto, i referti autoptici e degli esami di
laboratorio. Un cadavere avvolto in un telo bianco, in una posizione aggraziata e pudica, non significa
che l’assassino sia lo stesso. Me lo dico e me lo ripeto.
«Lo stronzo l’ha messa così apposta» dice Marino «perché per lui ha chissà quale significato.»
«Come si fa a portare lì un cadavere senza farsi vedere?» Cerco di concentrarmi sui problemi più
importanti. «In un campo sportivo dentro l’MIT, in mezzo a dormitori e residenze studentesche?
Probabilmente chi l’ha fatto conosce bene la zona. Potrebbe essere uno studente o un dipendente, uno che
vive o lavora nel campus.»
«Il posto dove l’ha lasciata non è illuminato di notte» replica Marino. «Dietro i campi da tennis
coperti. Hai presente quei palloni bianchi vicino ai campi di atletica? Ti vengo a prendere tra mezz’ora,
quaranta minuti. Sono davanti allo Psi Bar. È chiuso, ovviamente. Non c’è nessuno e le luci sono tutte
spente. Ma faccio un giro per vedere dove può essere andata a parlare al telefono. Poi vengo a casa tua.»
«Sei solo, immagino.»
«Affermativo.»
«Sta’ attento, mi raccomando.»
Seduta sul letto, sfoglio i dossier nella camera padronale della nostra casa d’epoca, costruita nel
diciottesimo secolo da un noto trascendentalista.
Comincio con il suicidio a cui accennava Marino. Tre giorni fa, domenica 16 dicembre, Sakura
Yamagata, ventisei anni, si è lanciata dal tetto del palazzo di diciannove piani in cui abitava, a
Cambridge. La causa della morte è quella che mi aspettavo, date le circostanze: traumi contusivi multipli,
lacerazioni a cuore, fegato, milza e polmoni, cervello avulso dalla scatola cranica. Fratture estese a
volto, coste, braccia, gambe e bacino.
Guardo le foto venti per venticinque scattate prima della rimozione del cadavere, in cui si vedono
persone scioccate, molte in tenuta da palestra, infreddolite, e un distinto signore con i capelli grigi, in
giacca e cravatta, con l’aria sconfitta e sconcertata. In una foto, l’uomo è accanto a Marino, che indica e
parla. In un’altra, è accucciato vicino al cadavere e piega la testa di lato, con la stessa espressione
sconfitta e scioccata sul volto.
È ovvio che conosceva Sakura Yamagata. Immagino lo spavento delle persone in palestra che,
guardando fuori, hanno visto sfracellarsi il corpo. Deve aver fatto un tonfo terribile, come un pesante
sacco di sabbia, come lo ha descritto un testimone in un articolo di giornale allegato al fascicolo.
C’erano sangue e tessuti su tutta la vetrata e denti e frammenti sparsi nel raggio di quindici metri. Testa e
volto erano sfigurati, irriconoscibili.
Associo le morti con simili mutilazioni alla psicosi o all’effetto di droghe e, mentre sfoglio il rapporto
dettagliato della polizia, penso a quanto mi fa impressione leggere il nome di Marino e il suo numero di
matricola.
“Verbalizzante: investigatore P.R. Marino (D33).”
Non leggevo verbali scritti da lui da quando è andato via dalla polizia di Richmond, una decina di
anni fa. Guardo il suo resoconto di quello che è successo domenica scorsa a Cambridge, in un
condominio di lusso in Memorial Drive.
... Intervenivo sul luogo dell’incidente e interrogavo il dottor Franz Schoenberg, il quale dichiarava di esercitare la professione
di psichiatra presso il proprio studio privato di Cambridge e di avere come paziente Sakura Yamagata, stilista di moda. Il
giorno dell’incidente, alle 15.56, la donna gli mandava un SM S comunicandogli la propria intenzione di “volare fino a Parigi”
dal tetto del palazzo in cui era residente.
Alle 16.18 circa il dottor Schoenberg giungeva all’abitazione della donna e veniva accompagnato sul tetto, a cui accedeva
da una porta di servizio. Il dottor Schoenberg dichiara che la donna era in piedi sul cornicione, oltre la bassa ringhiera di
protezione, nuda e con le braccia aperte, girata di spalle rispetto al dichiarante. Il dottore l’ha chiamata una volta, dicendo:
“Suki, sono qui io. Andrà tutto bene”. La donna non gli ha risposto, né ha dato altrimenti segno di averlo sentito e subito si è
lasciata cadere in avanti, intenzionalmente, come se volesse tuffarsi ad angelo...
A farle l’autopsia è stato Luke Zenner, che ha mandato al laboratorio di tossicologia campioni di fluidi
e tessuti: cuore, polmone, fegato, pancreas, sangue...
Accarezzo il dorso sottile di Sock, le coste che si alzano e si abbassano a ogni respiro, e di colpo mi
sento di nuovo stanchissima, come se parlare con Marino mi avesse succhiato tutte le energie che avevo.
Faccio fatica a non riaddormentarmi, ma mi impongo di guardare di nuovo le fotografie, soffermandomi
sull’uomo con i capelli grigi, che sospetto sia il dottor Franz Schoenberg. Per questo la polizia lo ha
lasciato avvicinare alla morta. Per questo è insieme a Marino. Non riesco a immaginare che effetto debba
fare veder volar giù da un tetto un proprio paziente. Come farà a superare un simile trauma? Vaglio i
pensieri che affiorano fugaci alla mia mente e mi chiedo se ho già incontrato da qualche parte lo
psichiatra.
“Certe cose non si superano” penso. “Non è umanamente possibile superare certe cose...”
Mi torna in mente che Marino ha accennato alle droghe tagliate male o sintetiche che circolano nel
Massachusetts da un annetto a questa parte. Ha nominato i “sali da bagno”, che sono stati causa di molti
incidenti e suicidi inconsueti. Abbiamo riscontrato un preoccupante aumento di omicidi e di reati contro
il patrimonio, specie nei quartieri degradati di Boston, quelli che la polizia chiama “le case popolari”.
Spacciatori e membri delle gang affittano immobili a poco prezzo in periferia, e in breve tempo il
quartiere si degrada. Penso a quello che devo fare e mi collego alla casella di posta dell’ufficio per
scrivere al laboratorio di tossicologia di dare la priorità alle analisi di Sakura Yamagata e cercare
eventuali sostanze psicoattive sintetiche.
Mefedrone, metilendiossipirovalerone, anche detto MDPV, e metilone. Luke non ha pensato di
estendere i test agli allucinogeni, ma io credo che vadano cercate tracce anche di LSD, metilergometrina,
ergotamina...
I miei pensieri vanno e vengono.
Gli alcaloidi dell’ergot possono causare ergotismo, una malattia nota anche come ignis sacer o fuoco
di Sant’Antonio, con sintomi neuroconvulsivi che si pensa possano essere stati alla base dei processi alle
streghe di Salem. L’intossicazione da segale cornuta provocava infatti convulsioni, spasmi, psicosi e
allucinazioni.
A tratti mi si annebbia la vista e mi cade la testa sul petto. Mi riscuoto sentendo la pioggia che batte
sul tetto e sui vetri. Avrei dovuto dire a Marino di raccomandare agli agenti già sul posto di montare una
specie di tenda con una cerata sopra il cadavere, per proteggerlo dalla pioggia, oltre che dagli sguardi
dei curiosi. E per proteggere me, che non devo prendere freddo e infradiciarmi, ed è meglio che resti
lontano dalle telecamere.
C’erano furgoni delle televisioni ovunque e abbiamo dovuto tirare tutte le tende. La moquette era
marrone, intrisa di sangue scuro e secco che stava cominciando a decomporsi, si capiva dall’odore, e
restava appiccicato alle suole quando ci si camminava sopra. Era tantissimo e, anche se cercavo di non
passarci sopra per non contaminare la scena, era impossibile. Come se non contaminare la scena servisse
a qualcosa, poi.
Non c’è nessuno da punire e nessuna punizione sarebbe adeguata. Seduta sul letto, con i cuscini dietro
la schiena, taccio e sento la collera ferma nel suo angolino buio, che guarda fuori con occhi di citrino. Ne
sento la grandezza, il peso in fondo al letto.
“L’avrà detto Marino che bisogna mettere al riparo il cadavere.”
La collera si sposta, pesantemente. Il volume e il ritmo dell’acquazzone passano da fortissimo a
pianissimo...
“Marino sa fare il suo mestiere.”
Fuga da adagio a furioso...
3
Dieci anni prima
Richmond, Virginia
La pioggia scroscia sul vialetto allagando le lastre di granito, il cielo è rabbioso e il temporale estivo
scuote gli alberi della città che sto per lasciare.
Taglio una striscia di nastro da imballaggio. Sono nel mio garage, sudata e un po’ brilla. L’alcol mi
rende disinibita. L’investigatore Pete Marino, del dipartimento di polizia di Richmond, sta cercando di
farmi ubriacare per abbassare le mie difese e vincere le mie resistenze.
“Forse dovrei dargliela e farla finita.”
Scrivo con il pennarello sugli scatoloni il nome delle varie stanze della mia casa di Richmond, quella
che ho costruito con pietra e legname di recupero e che speravo fosse un sogno destinato a durare:
SALOTTO, BAGNO PRINCIPALE, CAMERA DEGLI OSPITI, CUCINA, DISPENSA, LAVANDERIA, STUDIO...
Lo faccio per facilitarmi le cose nella prossima casa, che non so ancora dove sarà.
«Detesto i traslochi.» Chiudo un altro scatolone. La pistola nastratrice fa un rumore come di stoffa
strappata.
«Perché continui a cambiar casa, allora?» Marino mi corteggia con una certa aggressività e, in questo
momento, lo lascio fare.
«Continuo a cambiar casa, secondo te?» Rido, perché è un’affermazione ridicola.
«Nella stessa città, piuttosto che niente. Da un quartiere a quello vicino.» Si stringe nelle spalle,
inconsapevole di quello che sta accadendo fra noi. «Non ti si tiene dietro...»
«Se trasloco, è per fondate ragioni.» Parlo come un avvocato.
Lo sono: ho una laurea in giurisprudenza e una in medicina. E dirigo l’Istituto di medicina legale della
Virginia.
«Scappa, scappa più veloce che puoi.» Gli occhi rossi di Marino mi inchiodano nella sua teca
emozionale.
Sono una farfalla. Una Limenitis arthemis. Una Papilio glaucus. Una Actias luna.
“Se ti lasciassi fare, mi rovineresti le ali. Sarei un trofeo di cui ti stancheresti presto. Restiamo amici.
Perché non ti basta?”
Chiudo un altro scatolone, confortata dall’acquazzone fuori della porta aperta del mio garage. Vento
forte, cento per cento di umidità, afa: sembra di essere in un bagno turco. O in un grembo materno. Un
corpo caldo che mi avvolge, scambio di fluidi tiepidi sulla pelle e nel profondo di recessi solitari. Ho
bisogno di lasciarmi abbracciare da calore e umidità, di sentirmeli addosso come i miei vestiti umidi,
mentre Marino mi osserva dalla sedia pieghevole su cui è seduto, pantaloni della tuta tagliati al ginocchio
e camicia senza maniche, faccia rubizza per l’eccitazione, la fregola e la birra.
Mi chiedo chi sarà il prossimo investigatore di polizia prepotente con cui dovrò rapportarmi. Non ho
voglia di scontrarmi con qualcun altro. Dovrò educarlo, imparare a rispettarlo e a detestarlo, a stufarmi
di lui e sentire la sua mancanza, e ad affezionarmici, in un modo o nell’altro. Mi dico che potrebbe anche
essere una donna. Una poliziotta grintosa, che darà per scontato di essere pappa e ciccia con la nuova
direttrice dell’Istituto di medicina legale, che darà per scontate un sacco di cose.
Me la immagino simile a un lupo, sempre presente sulle scene del crimine e durante le autopsie, che
piomba nel mio ufficio a bordo di un pick-up o in moto, come Marino. Abbronzata, piena di tatuaggi, con
giubbetti di jeans senza maniche e bandana, pronta a sbranarmi.
Sono irrazionale e ingiusta, prevenuta e ignorante. Lucy non è competitiva e prepotente con le donne
che desidera. Non porta la bandana e non ha tatuaggi. Non è affatto così. Non ha bisogno di fare la
predatrice per ottenere quello che vuole.
“Non sopporto questi pensieri ossessivi e invadenti. Che cosa è successo?”
Il dolore mi attanaglia gli organi cavi nel ventre e nel petto, mi toglie il respiro. È troppo quello che
sto lasciando, e non parlo della casa, di Richmond o della Virginia. Benton non c’è più, è morto cinque
anni fa. Lo hanno ammazzato. Ma finché resterò qui sentirò la sua presenza in queste stanze, lungo queste
strade, nell’afa opprimente dell’estate e nel gelo dell’inverno, come se vegliasse su di me, sapesse che
sono qui, conoscesse ogni più piccolo particolare della mia vita.
Lo sento nella brezza e nei profumi, percepisco la sua presenza nelle ombre scure come il mio umore,
in una voce dentro di me che mi dice che non è morto per davvero, che sta per tornare. Che sto vivendo
un incubo da cui mi sveglierò. E allora lo troverò lì, accanto a me, i suoi occhi nocciola nei miei, le sue
lunghe dita affusolate sulla mia pelle. Sentirò il suo calore, le linee perfette di muscoli e ossa, che
riconoscerò non appena lui mi abbraccerà. E allora mi sentirò più viva che mai. A quel punto non dovrò
più trasferirmi altrove, verso un’altra esistenza sfiorita, dove avvizzirò centimetro dopo centimetro,
cellula dopo cellula. Penso ai boschi oltre la mia proprietà, al canale e alla ferrovia. Al di là del
terrapieno scorre il fiume James, in una zona senza tempo della città alle spalle di Lockgreen, un’enclave
di villette appena costruite in cui abitano individui danarosi e amanti di privacy e sicurezza.
Vicini che non incontro praticamente mai. Privilegiati che non mi fanno domande sulle tragedie che
approdano sui miei tavoli di acciaio inossidabile. Sono un’italiana di Miami, una di fuori. La vecchia
guardia del West End di Richmond non sa come etichettarmi. Non mi salutano con la mano, non si
fermano a scambiare due chiacchiere e guardano la mia casa come se fosse abitata dai fantasmi.
Ho camminato per le strade da sola, oltre il bosco, lungo il canale e i binari arrugginiti, dove il fiume
è poco profondo e scorre fra i massi, immaginando la Guerra di secessione e, prima ancora, la colonia
più a valle, a Jamestown, il primo insediamento inglese. Circondata dalla morte, ho trovato conforto in un
passato che filtra nel presente, in principi imperituri, perché credo che tutto accada per un motivo e uno
scopo e che alla fine il bene trionfi.
“Come mai allora sono a questo punto?”
Appiccico una striscia di nastro adesivo su un cartone e sento la morte di Benton, alito di vento umido
sul collo. Ho un vuoto incolmabile dentro, con cui non riesco a convivere. La pioggia mi consola perché
fa rumore.
«Ti viene da piangere?» Marino mi guarda con attenzione. «Piangi? Perché?»
«È il sudore che mi fa lacrimare gli occhi. Fa un caldo bestiale qua dentro.»
«Potresti chiudere il portellone e accendere il condizionatore.»
«Mi piace sentire la pioggia.»
«Come mai?»
«Non la sentirò più così come adesso.»
«Gesù! La pioggia è sempre pioggia.» Guarda fuori, come se la pioggia potesse essere diversa dal
solito, di un tipo mai visto prima. Aggrotta la fronte come fa sempre quando riflette e si morde il labbro,
passandosi la mano sul mento.
È grande e grosso, rude, e trasuda aggressività. Non doveva essere un brutto uomo, ma vizi e disgrazie
hanno avuto la meglio su di lui: ha i capelli ingrigiti e un riporto che non ammetterebbe mai di avere, così
come non ammette di perdere i capelli. Quasi un metro e novanta, ossatura grossa, spalle larghe, ha le
gambe e le braccia dell’ex pugile che non ha bisogno di armi per uccidere.
«Non so proprio perché ti sei offerta tu di dare le dimissioni.» Mi guarda senza batter ciglio. «Per poi
restare quasi un anno in attesa che quei cretini trovassero qualcuno che ti sostituisse. Hai fatto una
fesseria, secondo me: non avresti dovuto spianare la strada a quei bastardi. Avresti dovuto mandarli a
cagare.»
«Mi hanno licenziato, Marino. Guardiamo in faccia la realtà. Se metti in imbarazzo il governatore, poi
cosa fai? Te ne vai, no?» Sono più calma adesso. Recito una parte imparata a memoria.
«Non era la prima volta che facevi incavolare il governatore.»
«E probabilmente non sarà l’ultima.»
«Perché non sai dire basta, a un certo punto.»
«Mi sembra di aver appena dimostrato il contrario.»
Marino osserva ogni mio movimento come se fossi una persona sospetta che potrebbe sparargli da un
momento all’altro. Io, nel frattempo, continuo a scrivere sugli scatoloni SCARPETTA, poi la data di oggi e
la destinazione: ARMADIO PRINCIPALE. Vado a stare in una casa in affitto in Florida, dove non ho nessuna
voglia di trasferirmi perché mi sembra una sconfitta apocalittica tornare nella terra dove sono nata.
Vivo il ritorno al paese natio come il peggiore dei fallimenti, la prova che non sono stata capace di
migliorare il mio status, di essere migliore di mia madre, che pensa soltanto a se stessa, e di mia sorella
Dorothy, narcisista mangiauomini che ha trascurato in maniera criminale la sua unica figlia, Lucy.
«Qual è il posto dove sei stata per più tempo, nella tua vita?» Marino continua a interrogarmi senza
requie, azzardandosi a entrare in luoghi a cui non l’ho mai lasciato neanche avvicinare.
Si sente in diritto di farlo ed è colpa mia, che ho bevuto birra con lui, che gli ho detto addio in un
modo che sembrava un “ti prego, non mi lasciare”. Si accorge di quello che mi sta passando per la testa.
“Se cedo, forse per te non sarà più così importante.”
«A Miami, penso» rispondo. «Ci sono stata finché non sono partita per la Cornell, a sedici anni.»
«All’università a sedici anni. Siete proprio dei piccoli geni tu e Lucy, eh? Fatte della stessa pasta.»
Mi tiene addosso gli occhi arrossati, senza provare nemmeno a dissimulare le sue intenzioni. «Io sono
sedici anni che sto a Richmond. E ho voglia di andarmene.»
Chiudo l’ennesimo scatolone, questo con la scritta RISERVATO perché contiene referti autoptici,
dossier, segreti che devo conservare. Marino mi spoglia con il pensiero. O forse mi sta soltanto tenendo
d’occhio perché teme che sia un po’ matta, che quello che è successo alla mia carriera stellare mi abbia
reso un po’ squilibrata.
“La dottoressa Kay Scarpetta, prima donna a dirigere l’Istituto di medicina legale della Virginia, è
stata anche la prima a venire invitata a lasciare la sua posizione...” Se lo sento dire ancora una volta in
qualche altro telegiornale...
«Mollo anch’io la polizia» dice Marino.
Non faccio la faccia sorpresa. Non reagisco e basta.
«Sai perché lo faccio, vero? Te lo aspettavi. È quello che vuoi, no? Perché piangi? Non dirmi che è
sudore perché non ci credo. Cosa ti prende, eh? Se non me ne andassi dal dipartimento e da Richmond
insieme a te, ti dispiacerebbe: ammettilo. Dài, non fare così.» È dolce, premuroso: mi sta fraintendendo
come al solito. Ma il suo tono affettuoso ha un effetto pericolosamente consolatorio su di me. «Non ti
libererai di Pete Marino.» È vero, ma non mi piace il modo in cui lo dice, e continuiamo a parlare due
lingue diverse.
Prende due sigarette dal pacchetto e si alza per porgermene una. Mi sfiora con il braccio nel farmi
accendere. Poi sposta l’accendino e mi accarezza con il dorso della mano. Io non mi muovo. Aspiro una
boccata di fumo.
«E io che volevo smettere...» Parlo del fumo.
Non mi riferivo a Marino, al fatto che vuole licenziarsi per seguire me. Lo farà comunque,
indipendentemente da quello che dico io, e non occorre essere dei veggenti per sapere come andrà a
finire. Nel giro di poco tempo si deprimerà, si arrabbierà con me, dirà che l’ho castrato. Sarà frustrato,
geloso, scompenserà. E un giorno si vendicherà, facendomi del male. Tutto ha un prezzo, nella vita.
Di nuovo il rumore della pistola nastratrice, quando strappo lo scotch che mi serve per chiudere un
altro cartone. Ormai sono circondata da muri di scatoloni bianchi, che puzzano di chiuso e di polvere.
«Ho sempre desiderato vivere in Florida. Andrò a pescare, farò dei bei giri sulla mia Harley. Niente
più neve, finalmente. Sai quanto odio l’inverno.» Butta fuori il fumo e torna a sedersi, appoggiandosi allo
schienale. Il suo odore, forte, intenso, se ne va con lui. «Non mi mancherà per niente Richmond.» Butta la
cenere per terra e si infila sigarette e accendisigari nel taschino della camicia bagnata di sudore.
«Se smetti di fare il poliziotto, ti deprimi.» Gli dico la verità.
Ma non lo fermerò.
«Non è solo il tuo mestiere, è la tua identità» aggiungo.
Sono sincera.
«Tu hai bisogno di arrestare i cattivi, di sfondare porte a calci, minacciare castighi e arrivare fino in
fondo. Di portare i delinquenti in tribunale e farli sbattere in galera. È la tua raison d’être, Marino. La
tua ragion d’essere.»
«So cosa vuol dire raison d’être. Non è necessario che tu me lo traduca.»
«Hai bisogno di avere il potere di punire la gente. Vivi per questo.»
«Merde de bull. I grossi casi che ho seguito?» Scrolla le spalle. Il rumore della pioggia cambia, più
piano, più forte, fortissimo. Marino ha dietro di sé la strana luce grigia del pomeriggio di maltempo. «So
scegliere da solo.»
«E cos’avresti scelto?» Mi siedo su uno scatolone e butto la cenere.
«Te.»
«Noi due non ci sposeremo mai, Marino.» Sono sincera, ma non è tutta la verità.
«Non ti ho mica chiesto di sposarmi. Qualcuno mi ha sentito farle una proposta?» Lo domanda a
testimoni inesistenti. «Non ti ho nemmeno mai chiesto di uscire.»
«Non funzionerebbe.»
«Lo so. Chi vorrebbe vivere con te?»
Butto la sigaretta in una bottiglia vuota e sento che sfrigola prima di spegnersi.
«Voglio solo lavorare con te.» Non mi guarda più in faccia. «Dirigere il tuo nucleo investigativo,
formare un bel team, ideare un programma di addestramento. Il migliore del mondo.»
«Perderesti l’autostima.» Ho ragione, ma lui non se ne rende conto.
Fuma e beve, mentre la pioggia batte sul lastricato fuori del garage, sugli alberi in lontananza che si
piegano nel vento contro i nuvoloni scuri e, oltre, sui binari, sul canale e sul fiume della città che sto per
lasciare.
«E perderesti la stima per me. Finirà così, Marino.»
«Ho già deciso.» Beve un’altra sorsata di birra dalla bottiglia verde, imperlata di condensa. Non mi
guarda. «È tutto stabilito. Veniamo sia io sia Lucy.»
«Ricordati di quello che ti ho appena detto. Parola per parola.» Sono ancora seduta sullo scatolone,
questo con la scritta NON TOCCARE.
4
Cambridge, Massachusetts
Mercoledì 19 dicembre, ore 4.48
Sento rombare un motore davanti a casa e apro gli occhi aspettandomi di vedere una montagna di
scatoloni con indicazioni varie scritte a pennarello e Marino sudato su una seggiola pieghevole. Invece
vedo semplici mobili di ciliegio che da più di cent’anni appartengono alla famiglia Wesley, originaria
del New England.
Riconosco le tende di seta color champagne alle finestre, il tavolino basso davanti al divano a righe e
il parquet scuro che diventa moquette marrone. Sento un odore putrido e dolciastro: sangue. Macchie
scure di sangue su tavoli e sedie. Disegni fatti con matite e pennarelli, zainetti e cartelle appese ai ganci
nell’aula di una prima elementare piena di colori e di morte.
Nell’aria aleggiano molecole volatili di sangue che si sta decomponendo e coagulando, globuli rossi
che si separano dal siero. Ne sento la puzza. Poi non la sento più. Un’allucinazione olfattiva, i recettori
del mio primo nervo cranico reagiscono a uno stimolo che esiste solo nella mia memoria. Mi massaggio i
muscoli contratti del collo, prendo un bel respiro profondo e la puzza immaginaria scompare, sostituita
dal profumo di legno antico e del deodorante per ambienti agli agrumi e zenzero che tengo sulla mensola
del caminetto. Colgo un lieve odore di fumo e di ceppi bruciati, eco dell’ultima volta che ho acceso il
camino prima che Benton partisse, prima del Connecticut. Prima di ammalarmi. Guardo l’ora.
«Maledizione!» borbotto.
Sono quasi le cinque. Devo essermi assopita dopo la telefonata di Marino, che mi sta aspettando
davanti a casa. Gli mando un SMS dicendogli che tarderò di un quarto d’ora e ripenso al Marino con cui
bevevo birra mentre fuori infuriava un temporale estivo. Ogni immagine e ogni parola di quel sogno sono
vivide come se fosse un film. In parte è successo davvero, quell’estate di dieci anni fa in cui lasciai la
Virginia per sempre, in parte ho dato voce a paure e delusioni profonde che sto vivendo in questo
momento.
È tutto vero quello che ho sognato. Le emozioni che provavo nel periodo più cupo della mia vita, con
Benton morto, le pressioni perché rassegnassi le dimissioni, sconfitta dalla politica, da uomini in giacca e
cravatta che se ne fregavano della verità, di me, di ciò che avevo perduto, e che per me era tutto.
Poso i piedi sul pavimento e cerco le pantofole. Devo andare sulla scena di un crimine e Marino mi è
venuto a prendere come ai vecchi tempi, come ai tempi di Richmond. Prevede che sarà un caso
complicato e sono certa che gli fa piacere. Non vedeva l’ora che venisse commesso un bell’omicidio
sensazionale che gli desse la possibilità di risorgere dalle ceneri e ritrovare se stesso e tutto ciò che è
convinto di aver perso per colpa mia.
«Mi dispiace» dico a Sock, spostandolo per alzarmi. Sono debole e mi gira la testa, ma sto molto
meglio.
Sto bene. Anzi, sono quasi euforica. Tutto intorno a me parla di Benton. Non è morto, grazie a Dio. Per
fortuna è ancora vivo. Si era dovuto far passare per morto per sfuggire alle ritorsioni di un pericoloso
clan francese che lui aveva smascherato. L’ FBI aveva avuto questa brillante idea per inserirlo in un
programma di protezione. Benton non era stato autorizzato a dirmi che era vivo e vegeto, che la sua morte
era una messinscena. Gli era stato vietato qualsiasi contatto con me e non poteva darmi neanche il più
piccolo segnale di vita, mentre mi osservava da lontano, mi controllava senza che io sapessi nulla. Ma io
percepivo la sua presenza accanto a me, lo so. Quello che ho appena sognato è vero, e si sarebbe dovuto
organizzare meglio tutto quanto. Non perdonerò mai all’FBI di avermi rovinato anni di vita, anni crudeli e
desolati, anni passati nell’angoscia, circondata dalle menzogne architettate dal Bureau, il mio cuore, la
mia anima e il mio destino in balia di decisioni prese negli uffici di quel brutto edificio prefabbricato che
è stato intitolato a J. Edgar Hoover. Adesso Benton e io non permetteremmo più una cosa del genere. La
mia lealtà va prima di tutto a lui e la sua a me. Benton mi dice tutto quello che può. Trova il modo per
dirmi tutto quello che ritiene io debba sapere, in maniera che non finiamo più in una situazione così
assurda e terribile. Sta bene, è in trasferta. Tutto qui. Provo a chiamarlo sul cellulare per dirgli che mi
manca e fargli gli auguri di quasi compleanno. Mi risponde la segreteria telefonica.
Provo all’albergo in cui alloggia, un Marriott nel Nord della Virginia, dove va sempre quando è
richiesta la sua presenza all’Unità di analisi comportamentale dell’FBI.
«Il dottor Wesley è partito» mi risponde il concierge quando gli chiedo di passarmi la camera.
«Quando?» Non capisco.
«L’ho visto uscire mentre montavo di turno, a mezzanotte.» Riconosco la sua voce morbida, con la
tipica cadenza virginiana. Lavora in quell’albergo da anni e gli ho parlato in numerose occasioni,
soprattutto in queste ultime settimane, dopo il secondo e il terzo omicidio.
«Sono Kay Scarpetta...»
«Sì, signora, l’avevo riconosciuta dalla voce. Come sta? Io sono Carl. È raffreddata? Mi auguro non si
sia presa l’influenza. Dicono che sia bruttissima quest’anno.»
«Sto bene, grazie. Mio marito le ha detto come mai è partito prima del previsto? Avevo capito che
sarebbe restato fino al weekend.»
«Aspetti che controllo. Sì, aveva prenotato fino a venerdì notte compresa.»
«Altri tre giorni, sì. Strano. Non sa come mai è andato via a mezzanotte?» Parlo un po’ a vanvera,
perplessa per qualcosa che non capisco.
«Il dottor Wesley non me l’ha detto. Seguo gli omicidi di cui si occupa la sua unità, quel poco che
esce sui giornali... L’FBI non dice quasi niente e secondo me è ancora peggio, perché conviene sapere con
chi si ha a che fare. Noi che non abbiamo né armi né distintivi ci muoviamo in gruppo, sa? Ormai
abbiamo paura anche ad andare al cinema o al centro commerciale. Sarebbe bello sapere cosa sta
succedendo veramente, non le pare? Perché abbiamo tutti paura. Una paura matta. Potessi, io mia moglie
non la farei nemmeno uscire di casa.»
Lo ringrazio e cerco di tagliare corto, senza essere maleducata, pensando che forse è successa
l’ennesima tragedia da qualche parte e l’FBI ha mandato Benton sul posto. Ma non è da lui non avvertirmi.
Controllo per vedere se mi ha mandato un’e-mail. No.
«Probabilmente non mi voleva svegliare» dico al mio cane che poltrisce. «Succede, quando sei
malato. Già ti senti poco bene di tuo e gli altri ti fanno star peggio perché non ti vogliono disturbare.»
Mi guardo velocemente allo specchio mentre ci passo davanti. Sono pallida, ho il pigiama di seta nero
tutto stropicciato, i capelli biondi appiccicati alla testa, gli occhi azzurri un po’ spenti. Sono dimagrita e
ho l’aria spiritata, dopo sogni che sembrano il replay di un passato che un po’ mi manca e un po’ no.
Avrei bisogno di farmi una doccia, ma non c’è tempo.
Apro armadio e cassetti e pesco biancheria, calzoni neri con i tasconi e maglia a maniche lunghe nera
con lo stemma del CFC ricamato in oro. Prendo la SIG Sauer nove millimetri dal comodino e la infilo in un
marsupio pensando che potrei anche fare a meno di preoccuparmi di queste cose. Sulla scena di un
crimine, nessuno fa caso a come sei vestito. E non ho bisogno di portarmi appresso la pistola se vado con
Marino.
Sento il peso delle decisioni, forse perché negli ultimi giorni non ne ho preso nessuna. Mi sono
limitata a scaldare brodo di pollo, a riempire le ciotole di Sock e a non dimenticare di dargli
glucosamina e condroitina. Ho cercato di bere tanto, più che potevo. E di non toccare i fascicoli ai piedi
del letto, i referti delle autopsie e delle analisi che attendono la mia firma. Non si lavora quando si ha la
febbre. E poi, naturalmente, ho fatto spese pazze su internet, perché avevo il tempo di dedicarmici, di
pensare e di sognare, e volevo fare un regalo alle persone che mi preme rendere felici, per cui provo
gratitudine anche quando mi deludono, come mia madre e mia sorella Dorothy. E forse anche Marino.
Relegata nella mia camera da letto, con Benton a settecento chilometri di distanza, sono stata fin
troppo brava a ricordarmi di tutte queste cose. I medici in genere sono pessimi pazienti e io non faccio
eccezione. Quando sono tornata dal Connecticut, Benton voleva venire via da Washington e raggiungermi
a casa, ma io sapevo che era meglio di no. Voleva fare il maritino premuroso e ha minacciato di salire
sul primo aereo, ma io l’ho dissuaso. Quando sei sulle tracce di un killer così spietato, non c’è spazio per
nient’altro, nemmeno per me. Non importa se sto passando un brutto momento. Sono stata irremovibile.
“Io non sto per morire. Ma altra gente sì” gli ho detto al telefono. “Ho visto già abbastanza morti, più
di quanto sia umanamente sopportabile vedere. Non so cos’abbia nel cervello certa gente.”
“Ti raggiungo, Kay. Se anche rientro qualche giorno prima del previsto, non cambia niente: fidati. Qui
le cose vanno male.”
“Un figlio ha gravi problemi di sviluppo e sua madre gli insegna a usare un fucile d’assalto
Bushmaster?”
“Tu hai bisogno che io stia con te e io ho bisogno di tornare a casa.”
“Così poi questo va e fa una strage in una scuola elementare per provare il brivido del potere. Che
dura un attimo, perché poi si ammazza.”
“Capisco la tua collera.”
“La collera è inutile.”
“Salgo sul primo aereo, o mi faccio venire a prendere da Lucy.”
Gli ho risposto che doveva dedicarsi con i suoi colleghi dell’Unità di analisi comportamentale alla
ricerca dell’assassino che i media hanno soprannominato “Capital Killer”, che la priorità era quella.
“Dovete fermare quell’infame bastardo prima che uccida di nuovo” gli ho detto. “Me la caverò, Benton.
Ho solo l’influenza, in fondo.” Ho minimizzato. “Non sarei di compagnia e non voglio contagiare
nessuno. Non tornare, Benton. Davvero.”
“Le cose qui vanno tutt’altro che bene. Anzi, di male in peggio” ha ribadito. “Ho il timore che sia
andato altrove e che si prepari a colpire di nuovo, se non l’ha già fatto. Ma nessun altro dell’unità la
pensa come me, su questa cosa.”
“Tu sei convinto che non abiti nella zona di Washington.”
“Va e viene, secondo me. Spiegherebbe come mai non ci sono state vittime da aprile al giorno del
Ringraziamento. Sette mesi di silenzio e poi due di fila. Questa è una persona che conosce molto bene
determinate regioni e ha un lavoro che comporta delle trasferte.”
Le cose che mi ha detto hanno un senso, mentre non ne ha il fatto che nessuno gli dia retta. In genere
Benton è sempre stato rispettato come merita, ma da quando si occupa di questo caso non è così, e so che
è stufo e frustrato. Non deve preoccuparsi per me, però. So che non ha più voglia di stare seduto intorno a
un tavolo con un gruppo di criminologi e analisti, i cosiddetti profiler, ad ascoltare teorie e
interpretazioni psicologiche che arrivano da Boston e non dall’Unità di analisi comportamentale dell’FBI.
Ed Granby si immischia nelle indagini: è questo il problema più grosso. Benton deve occuparsi di queste
cose, non di sua moglie.
Sock mi segue in bagno e io strizzo gli occhi per la luce al soffitto che si riflette sulle vecchie mattonelle
lucide da stazione della metropolitana. I teli da bagno bianchi ripiegati e posati sul cesto della biancheria
vicino alla vasca mi fanno tornare in mente il cadavere avvolto nel lenzuolo nel campus dell’MIT.
Poi penso alle vittime di Washington e a quello che ho letto sul conto delle due donne uccise il mese
scorso a una settimana di distanza l’una dall’altra. Mi chiedo se mandare le foto della vittima dell’MIT a
Benton. Ma non sta a me farlo. Spetterebbe a Marino e comunque è prematuro. Non posso neanche
parlare con Marino dei casi di Benton. Guai.
Mi lavo la faccia e mi do una rinfrescata, ripensando a quello che mi ha detto Benton a proposito del
comportamento ripetitivo del killer, i sacchetti di plastica, il nastro adesivo, ogni vittima con gli slip
della vittima precedente a parte la prima, Klara Hembree, che era originaria di Cambridge. Questo
particolare mi preoccupa.
Separatasi malamente dal marito, un facoltoso imprenditore edile, la primavera scorsa Klara Hembree
si è trasferita a Washington per stare più vicina alla famiglia. Un mese dopo è stata rapita e uccisa. Il DNA
sugli slip che aveva indosso è risultato appartenere a una donna sconosciuta, di origine europea. Da ciò
Benton ha dedotto che l’assassino aveva già ucciso.
Ma non ci sono elementi per confrontare i casi, per trovare collegamenti fra essi, perché l’FBI ha reso
note pochissime informazioni. I giornali non hanno scritto niente a proposito dei sacchetti di plastica o
del nastro adesivo. Non si è parlato neppure di lenzuoli o teli bianchi. Neanche una parola sui sacchetti
di plastica trasparente con l’ologramma di un polpo dalla testa oblunga e iridescente e dai tentacoli che
brillano in diverse sfumature colorate a seconda della luce.
Klara Hembree è stata assassinata lo scorso aprile. Poi, in novembre, prima della festa del
Ringraziamento, sono state ritrovate altre due vittime: Sally Carson, insegnante, e Julianne Goulet,
pianista. Anche loro, come Klara Hembree, sembra siano state soffocate con un sacchetto di plastica di
un negozio di prodotti termali di Washington che si chiama Octopus. L’anno passato l’Octopus subì un
furto e dai magazzini vennero portati via alcuni scatoloni di sacchetti di plastica con il logo del negozio e
merci varie. Benton è certo che si tratti di un’escalation, che il killer sia fuori controllo, ma l’FBI non gli
dà ascolto e, nonostante lui l’abbia ripetutamente suggerito, non vuole rendere pubblici certi particolari.
È possibile che qualche dipartimento di polizia abbia avuto a che fare con casi analoghi, ma Ed
Granby, il capo di Benton, si rifiuta nella maniera più assoluta di seguire i suoi suggerimenti. Ha proibito
a chiunque di condividere informazioni su Klara Hembree, già residente a Cambridge, e questo significa
che non possono essere rese note informazioni neanche sugli altri due casi più recenti. Granby ha paura
che trapelino altri particolari e che si scatenino gli emulatori. Non è una considerazione sbagliata, ma
secondo Benton questo blocca il lavoro investigativo. Le indagini sono a un punto morto.
Da quando Granby ha assunto la direzione della sede di Boston, l’estate scorsa, Benton si sente
sempre più ostracizzato ed emarginato e io non faccio che ripetergli che purtroppo esiste un sacco di
gente invidiosa, competitiva e con la mania del controllo. Lui e Granby si detestano cordialmente e forse
era per questo che mio marito aveva voglia di tornare a casa. Non era solo perché io avevo l’influenza, o
perché domani è il suo compleanno, o perché Natale è alle porte. Mi è parso molto infelice quando gli ho
parlato, e quasi mi aspettavo di vederlo arrivare a casa da un momento all’altro. Ma forse era perché mi
avrebbe fatto piacere che lo facesse. È un mese che sta a Washington, e mi manca da morire.
Torno in camera da letto con Sock che mi segue come un’ombra. Decido di far aspettare Marino
ancora due minuti: prendo il mio iPad dal letto, mi collego al database del CFC, cerco le scansioni che mi
ha mandato Benton il mese scorso e le scorro velocemente. I tre omicidi prendono forma nella mia testa
come se li vedessi, e certi elementi mi lasciano perplessa adesso come la prima volta che li ho notati.
Seguo lo stesso percorso mentale, ricostruendo quello che la biologia può o non può fare, guardo morire
le vittime come le ho già viste morire e, stavolta, capisco.
Una donna con la testa infilata in un sacchetto chiuso intorno al collo da nastro adesivo nero che
sembra di pizzo, la plastica trasparente che le si appiccica al viso e le deforma i lineamenti ogni volta
che tenta di respirare, il panico negli occhi, la faccia che diventa cianotica. La pressione aumenta, si
formano petecchie emorragiche sulle guance e sulle palpebre, puntini rossi dovuti alla rottura dei
capillari. L’istinto di sopravvivenza è fortissimo, ma a un certo punto l’organismo cede e tutto diventa
immobile e silenzioso. Il tocco finale: un fiocco fatto con lo stesso nastro adesivo simile a pizzo e
applicato sotto il mento, pacchetto regalo del killer alla disumanità.
Ma c’è qualcosa che non quadra, riscontri che mal si accordano alla mia ipotesi, che raccontano una
verità che suona fasulla. Mi aspetterei segni di resistenza da parte delle vittime, per esempio. Avrebbero
dovuto cercare disperatamente di respirare mentre venivano soffocate, ma nulla indica che l’abbiano
fatto. Come mi ha detto Benton, sembra quasi che si siano lasciate uccidere, che volessero morire. Io so
che non è vero, però.
Questi non sono suicidi, bensì sadiche uccisioni. Penso che l’assassino le abbia legate con qualcosa
che non lascia segni. Non riesco a capire cosa, purtroppo: anche il materiale più morbido e liscio
provoca un livido, un’abrasione, se stretto attorno a un corpo che si dibatte e si divincola. Non mi spiego
perché il nastro adesivo non abbia causato lesioni. Come si fa a soffocare una persona senza lasciare il
minimo segno?
I cadaveri sono stati ritrovati in parchi pubblici, nel Nord della Virginia o nel Sud del Maryland, e
continuo a scorrere velocemente i documenti che Benton mi ha mandato alla fine di novembre, sapendo
che non ho molto tempo e che non posso parlare di queste cose con Marino. Tre parchi diversi, due con
un lago, uno con un campo da golf, tutti vicino alla ferrovia e nel raggio di circa trenta chilometri da
Washington. Nelle foto, le vittime indossano solo gli slip, che sono risultati appartenere a una vittima
precedente, a parte nel caso di Klara Hembree. Il DNA ritrovato sulle sue mutandine apparteneva a una
donna sconosciuta di origine europea. In altre parole, bianca.
Osservo le facce delle morte che mi guardano da dietro i sacchetti di plastica della boutique di
prodotti termali Octopus, vicino a Lafayette Square, a pochi isolati dalla Casa Bianca. Non c’è niente che
indichi che sono state violentate, sui loro cadaveri non è stato trovato nulla di significativo a parte due
tipi di fibre sintetiche di Lycra, una bianca e una tinta di azzurro. La morfologia delle fibre varia
lievemente da un caso all’altro. Un’ipotesi è che provengano da un indumento sportivo indossato
dall’assassino o da qualche elemento di arredo che ha in casa.
Mi siedo sul divano per vestirmi, così non spreco inutilmente le mie energie, visto che sto per andare
all’MIT a esaminare il cadavere di una donna in un campo sportivo, per cercare di farmi dire da lei tutte
le verità possibili, come faccio sempre nel mio lavoro. Sock salta sul divano e mi posa il muso in
grembo. Lo accarezzo, facendo attenzione a non toccargli le orecchie, che portano i segni e le lacerazioni
del suo crudele passato nel circuito delle corse.
«Ti devi alzare» gli dico. «Adesso ti porto fuori e poi vado a lavorare. Non ti disperare, mi
raccomando. Me lo prometti?» Cerco di rassicurarlo dicendogli che fra poco arriverà Rosa, la nostra
domestica, a tenergli compagnia. «Dài. Dopo il giro ti darò la pappa, poi farai un bel sonnellino. Vedrai
che torno presto.»
Spero che i cani non se ne accorgano quando diciamo le bugie. Rosa non arriverà fra poco e io non
tornerò presto. Sono le cinque del mattino: sarà una giornata lunghissima. Mi squilla il cellulare,
segnalandomi l’arrivo di un messaggio.
“Ne hai ancora x molto?” dice l’SMS di Marino.
“Arrivo” gli rispondo.
Mi aggancio la cinghia del marsupio intorno alla vita e mentre la stringo un po’ scosto la tenda.
5
Vedo cortine di pioggia alla luce dei lampioni davanti alla nostra casa d’epoca nel centro di Cambridge,
vicino alla Divinity School della Harvard e alla Academy of Arts and Sciences.
Guardo Marino scendere da un SUV non suo, un Ford Explorer nero o blu scuro fermo nel vialetto
pieno di pozzanghere. Apre la portiera dalla parte del passeggero, ignaro del fatto che lo sto osservando
dalla finestra del primo piano, incurante delle emozioni che mi provoca, indifferente all’impatto delle sue
azioni sulla mia vita.
Non mi ha avvertito che voleva licenziarsi. Non ce n’era bisogno, perché io lo sapevo già. Il
dipartimento di polizia di Cambridge non avrebbe neanche preso in esame la sua domanda di esenzione
se non lo avessi raccomandato personalmente per un trasferimento con pari stipendio nel loro nucleo
investigativo. Gli ho fatto ottenere io quel lavoro. La verità è questa. Una beffa del destino.
L’ho raccomandato al commissario di polizia e al procuratore distrettuale, ho dichiarato con tutta la
mia autorevolezza che Pete Marino era il candidato ideale. In virtù delle sue qualifiche e della sua
pluriennale esperienza, poteva saltare il periodo di addestramento previsto per i neoassunti. E
chissenefrega dei limiti di età, no? Marino è un professionista d’oro, un collaboratore preziosissimo. Gli
ho fatto una gran pubblicità perché voglio che sia felice e che smetta di covare rancore nei miei confronti.
Non voglio che dia la colpa a me.
Provo un moto di tristezza e di collera quando apre la gabbia del cane sul sedile posteriore per far
uscire il suo pastore tedesco, un trovatello che ha chiamato Quincy. Gli aggancia il guinzaglio alla
pettorina e sento il rumore della portiera che sbatte sotto la pioggia. Tra i rami spogli della quercia
davanti alla finestra osservo l’uomo che conosco da tutta la mia vita lavorativa portare il suo cane,
ancora cucciolo, a fare pipì.
Percorrono il vialetto di mattoni e al loro passaggio i lampioncini dotati di sensori di movimento si
accendono come per salutare l’investigatore Pete Marino, del dipartimento di polizia di Cambridge. A
causa della sua stazza, l’ombra che proietta è gigantesca. Arriva ai gradini davanti al portone, sotto la
luce delle vecchie lanterne di ferro. Le unghie di Sock ticchettano sul parquet: il mio levriero mi segue
fedele giù per le scale.
«Io non credo che andrà come dice lui.» Continuo a parlare al cane, che sta zitto come un mimo. «Lo
sta facendo per i motivi sbagliati.»
Naturalmente Marino non ne è consapevole. È convinto di essere andato via dalla polizia perché
gliel’ho chiesto io, dieci anni fa. Non era d’accordo, dice. Se gli domandassero: “Sei infelice per colpa
di Kay Scarpetta?”, risponderebbe di sì e la macchina della verità non registrerebbe alcun cambiamento
fisiologico.
Accendo le luci e le finestre sulle scale, con i vetri a piombo colorati, si illuminano di scene naturali
bellissime.
Nell’ingresso, disattivo l’impianto di allarme e apro il portone. Marino, gigantesco, è in piedi sullo
zerbino e il suo cane, tutto zampe, tira disperatamente per venire a fare le feste a me e a Sock.
«Entra. Devo portare fuori Sock e dargli da mangiare.» Comincio a raccogliere nell’armadio
dell’ingresso le cose che mi servono per il sopralluogo.
«Non hai una bella cera, devo dire.» Marino si abbassa il cappuccio dell’impermeabile, che gronda
acqua. Il suo cane ha una pettorina da lavoro, con la scritta IN ADDESTRAMENTO su un lato e NON
ACCAREZZARE sull’altro, a grossi caratteri bianchi.
Prendo la valigetta che porto per i sopralluoghi, grande, robusta, di plastica. L’ho comprata in saldo,
come molti altri strumenti che mi servono per il mio lavoro e trovo da Walmart, Home Depot, o altri
negozi del genere. Che senso ha spendere un sacco di quattrini per un costotomo o un bisturi se posso
prendere per molto meno oggetti che assolvono altrettanto bene lo scopo?
«Non voglio bagnarti i pavimenti.» Marino è ancora fermo sullo zerbino, sotto la piccola tettoia che
protegge il portone, e mi fissa esattamente come faceva poco fa nel mio sogno.
«Non ti preoccupare. Più tardi viene Rosa. Ho una casa che fa ribrezzo. Non ho neanche comprato
l’albero di Natale.»
«La casa di Scrooge, insomma.»
«Più o meno. Vieni dentro, che piove.»
«Dovrebbe smettere in mattinata.» Sfrega rumorosamente gli scarponi sullo zerbino, poi entra e chiude
la porta.
Io mi siedo sul tappeto. Quincy tira per venire da me scodinzolando furiosamente contro il
portaombrelli. Marino, che crede di essere molto bravo a addestrare il suo cane, ma che secondo Lucy sa
solo portarselo appresso in macchina, gli dà uno strattone con il guinzaglio e gli ordina di mettersi
seduto. Quincy continua imperterrito a fare quello che gli pare.
«Seduto» ripete Marino, in tono fermo. «Giù» aggiunge, visto che il cucciolo lo ignora.
«Cos’altro sai del caso, oltre a quello che mi hai già detto per telefono?» Sock mi salta in grembo
tremante perché ha capito che sto per uscire senza di lui. «Su Gail Shipton... sempre che sia lei la morta.»
«Dietro il bar c’è un vicolo con un parcheggio. Piccolo, deserto e con molte luci bruciate» mi spiega
Marino. «Penso proprio sia andata lì a parlare al telefono. Ho trovato sia il cellulare sia una sua scarpa.»
«Come fai a essere sicuro che siano suoi?» Mi metto gli anfibi di nylon neri, caldi e impermeabili.
«Sul telefono sono sicuro.» Prende dalla tasca un biscotto e lo spezza. Quincy si siede, pronto a
scattare.
«E quelli di patate dolci che ti ho dato io? Non gli piacciono?»
«Li ho finiti.»
«Vuol dire che gliene dai troppi. Te ne avevo preso una cassa!»
«Sta crescendo...»
«Se continui così, crescerà fin troppo.»
«E comunque puliscono i denti.»
«Non usi il dentifricio che ti ho preparato?»
«Non gli piace.»
«Il telefono della Shipton non è protetto da password?» Mi allaccio le stringhe facendo un nodo
doppio.
«Ho i miei sistemi.»
Lucy, immagino. Marino non si fa problemi a utilizzare i sistemi più o meno ortodossi di mia nipote
nel suo nuovo posto di lavoro.
«Ci starei attenta, al posto tuo: al processo dovrai rendere conto di tutto.»
«Se uno certe cose non le sa, non te le può chiedere.» È chiaro che non gradisce i miei consigli.
«Presumo tu abbia prima cercato impronte e DNA su quel cellulare.» Uso con lui gli stessi toni che
usavo quando era sotto la mia supervisione: non riesco a farne a meno. Non è passato neanche un mese...
«Sia sul cellulare sia sulla custodia.»
Mi alzo da terra e lui mi mostra la foto di uno smartphone in una custodia nera rigida su un
marciapiede bagnato e pieno di crepe, vicino a un cassonetto. Non è una cover normale: resistente
all’acqua e agli urti, di un materiale robusto, con protezioni retrattili, è il genere di custodia che Lucy
definisce “di livello militare” e che abbiamo entrambe. È un dettaglio che potrebbe dirmi qualcosa di
importante a proposito di Gail Shipton. Non sono custodie comuni. Siamo in pochi ad averle.
«Ho la cronologia delle chiamate.» Marino mi spiega come ha fatto a estrarre password e altri dati
con un analizzatore fisico portatile che in teoria non dovrebbe avere.
È un’invenzione di Lucy, un dispositivo in grado di estrarre e decodificare le memorie di vari sistemi.
Lucy non si fa problemi: lasciala sola con il tuo smartphone o il tuo computer per cinque minuti e
scoprirà tutto di te.
«L’ultima telefonata effettuata da Gail ieri pomeriggio è alle diciassette e cinquantatré.» Marino fissa
il marsupio che mi sono legata in vita. «A Carin Hegel, che le aveva appena mandato un SMS chiedendole
di richiamarla. Da quando vai in giro armata?»
«Carin Hegel? L’avvocato?»
«La conosci?»
«Di vista. Per fortuna non sono mai stata coinvolta in cause legali di grossa entità.» L’ultima volta l’ho
incontrata nel tribunale federale di Boston. Cerco di farmi venire in mente quando.
All’inizio di dicembre, forse. Una quindicina di giorni fa. L’ho incrociata per caso al bar del primo
piano e mi ha detto che era lì per un’udienza predibattimentale di un processo che coinvolgeva una
società di intermediazione finanziaria che ha definito “una banda di delinquenti”.
«È quasi certo che Gail sia uscita dallo Psi Bar e sia andata nel parcheggio dietro il locale, come mi
ha detto Haley Swanson» continua Marino. «Gail ha ricevuto una telefonata da qualcuno che aveva un ID
nascosto ed è uscita perché dentro c’era troppo rumore. Nel registro risulta “cellulare sconosciuto”. Se
vai alla schermata di informazioni corrispondente, trovi data, ora e durata della chiamata. Nel caso
specifico, diciassette minuti.»
Dà un altro pezzo di biscotto a Quincy.
«Gail ha chiuso la comunicazione quando è arrivato l’SMS di Carin Hegel» mi informa. «La Hegel ha
provato a chiamarla e la telefonata è durata solo ventiquattro secondi. Il che è interessante: vuol dire che
Gail non ha risposto e lei le ha soltanto lasciato un messaggio vocale, o che è stata interrotta.»
«Dobbiamo parlare con Carin Hegel.» Momento di disagio.
Carin Hegel mi ha detto anche un’altra cosa quando ci siamo incontrate nel bar del tribunale un paio di
settimane fa. Mi ha confidato che non stava a casa sua, di essersi trasferita in un posto che non ha voluto
specificare e da cui non intendeva spostarsi per tutta la durata del processo. “Motivi di sicurezza. A
qualcuno farebbe comodo se avessi un bell’incidente stradale” ha detto. Per scherzo, ma ovviamente non
c’era niente da ridere. Mi stava avvertendo, nel caso fosse arrivata da me senza appuntamento e in
posizione orizzontale, ha precisato. Non ho neppure sorriso. Non mi sembrava proprio il caso: era una
cosa seria.
«Le ho lasciato un messaggio dicendo di chiamarmi al più presto» mi informa Marino.
«Hai accennato alla possibile scomparsa della sua cliente?»
«Sì. Naturalmente non mi conosce e quindi non so se mi richiamerà lei o mi farà telefonare dalla
segretaria. Sai come sono questi avvocati di grido» dice Marino, mentre mi metto la giacca. «La scarpa
era vicino al telefono, bagnata ma non come se fosse rimasta sotto la pioggia per giorni. Qualche ora al
massimo, direi» specifica. «La mia teoria è che l’abbiano abbrancata, lei abbia opposto resistenza e nel
cercare di liberarsi abbia perso il telefonino e una scarpa. Mi dici perché ti porti dietro la pistola?»
«Che tipo di scarpa è?» domando.
Marino cerca una foto sul suo telefono e mi mostra una ballerina verde, di finto coccodrillo, girata con
la suola in su sull’asfalto sporco e bagnato.
«È abbastanza facile perdere una scarpa così. Aperta, senza lacci» osservo.
«Infatti. Indica che ha cercato di divincolarsi, che il rapitore l’ha caricata in macchina a forza.»
«Non so ancora cosa possa indicare, a dire il vero. Altri effetti personali?»
«Potrebbe aver avuto una borsa marrone a tracolla. Era uscita con una borsa marrone e in casa non
c’è. Così dice la sua amica Haley.»
«Con cui non hai più parlato dopo l’una di stanotte.»
«Non ho avuto il tempo materiale.» Marino offre un altro pezzo di biscotto a Quincy, il terzo in un
quarto d’ora. «Il rapitore deve aver preso anche la borsa.»
«Nessuno l’ha sentita gridare? Come hanno fatto a caricarla a forza in macchina in una zona così
frequentata, durante l’happy hour, senza che nessuno abbia visto o sentito niente?»
«Nel locale c’era un sacco di rumore. Dipende anche da quanto aveva bevuto.»
«Se era ubriaca, era più vulnerabile.» Sono anni che lo predico.
Stupratori, scippatori e assassini hanno vita più facile se le loro vittime sono sotto l’effetto di alcol o
droghe. Una donna che esce barcollando da un bar è una preda perfetta.
«Con il buio, dietro il bar non c’era nessuno, immagino» dice Marino. «C’è solo una stradina che
porta in Massachusetts Avenue. Insomma, è facile per un malintenzionato andare e venire da quella parte.
È stata come minimo incauta a parlare al telefono proprio lì. Alle cinque e mezzo, sei, era completamente
buio.»
«Non cominciamo a dare addosso alla vittima, per favore.» Mi incammino lungo il corridoio con Sock
e mi fermo a raddrizzare le stampe vittoriane appese alla parete.
Ho la casa umida e polverosa, in disordine, trascurata. O almeno così mi sembra: non ho tirato fuori
neanche una decorazione natalizia, non c’è profumo di cibo in cucina, non ci sono voci né rumori. Da
quando sono tornata dal Connecticut è andato tutto storto.
«Non sarebbe dovuta andare dietro il bar con il buio» ribadisce Marino. «Parlava al telefono, non
stava attenta a quello che le accadeva intorno» insiste.
6
Il giardino dietro casa è allagato, gli alberi si piegano sotto le raffiche di vento, lo scroscio della pioggia
sembra innaturalmente forte e da terra si alza una nebbia fitta, come se le pietre del patio fossero state
roventi quando è iniziato a piovere.
Le case dei vicini sono buie: le luci che hanno appeso per Natale hanno un timer che ne comanda lo
spegnimento da mezzanotte al crepuscolo. Conosco le loro abitudini, ormai. Da quando sono rimasta sola
e mi sono ammalata, faccio uscire Sock in giardino e resto sulla porta, con la sinistra sul marsupio. Tengo
la mano sulla pistola mentre il mio povero levriero traumatizzato trotterella fino al suo punto preferito,
annusa l’erba dietro i bossi e scompare in un angolo nascosto. È bravissimo ormai a evitare i percorsi
che fanno scattare i sensori dei lampioncini.
Guardo nel buio, verso il vecchio muro di mattoni che separa la nostra proprietà da quella dietro, e
penso che forse quel che diceva Benton l’altro giorno è vero. Sono più attenta del solito. Mi ha fatto
notare che, tenuto conto di quel che sta succedendo, è normale che mi senta più insicura e impaurita, e io
ho lasciato cadere il discorso senza dirgli né sì né no. È già abbastanza preoccupato per conto suo e non
volevo turbarlo ulteriormente, ma è vero che non sono a mio agio.
Guardo nel buio, sotto la pioggia, e mi sento osservata. Mi capita continuamente da quando sono
tornata dal Connecticut.
Sento rumori strani, ramoscelli spezzati, frusciare di foglie secche, e ho paura tutte le volte che porto
fuori Sock al buio. Anche Sock ha paura. Detesta l’inverno e il brutto tempo e forse percepisce le mie
ansie e le fa sue. Mi dispiace, penso mentre lo guardo che fiuta nell’aria, si irrigidisce e torna di corsa
verso di me con la coda tra le zampe. Mi spinge quasi da una parte per cercare di rientrare subito in casa.
Lo fa spesso ultimamente.
«Fai i tuoi bisogni, da bravo» gli dico con fermezza. «Va tutto bene. Sono qua io.» Mi guardo intorno
per capire cosa può averlo spaventato, caso mai sia davvero stato qualcos’altro a spaventarlo e non io.
«Cos’hai visto? Un procione, un gufo, uno scoiattolo?»
Tendo le orecchie, ma non sento niente, a parte la pioggia che cade fittissima. Dalla mia postazione
protetta controllo il giardino. La luce che filtra dalla porta aperta illumina un tappeto di erba e foglie,
scure e bagnate, e i contorni del muretto di pietra circolare intorno alla magnolia al centro del giardino.
Sopra di me, le finestre a piombo con i vetri colorati brillano come gemme, segnalando a tutto il
circondario quando sono in casa o porto fuori il cane.
Accendere le luci sulle scale è come dare un annuncio a eventuali malintenzionati e forse dovrei
lasciarle spente. Ma mi rifiuto: quelle finestre mi piacciono moltissimo e i loro disegni colorati mi
scaldano il cuore. Non voglio lasciarmi suggestionare da paure irrazionali. Non voglio permettere al
male, alla possibilità del male, di privarmi anche di questi piccoli piaceri.
«Cosa c’è adesso? Forza, su!» Faccio un paio di passi nel giardino e Sock mi segue, ma tenendomi il
muso contro la gamba. «Fai la pipì, dài.» Cerco di usare un tono calmo e tranquillo. Ma non sono né
calma né tranquilla.
Se la mia parte razionale mi dice che non c’è niente di cui avere paura, la pancia mi urla che invece
c’è qualcosa che non va. Me lo sento. Non è la prima volta che mi succede. Raffiche di vento e pioggia
sferzano i rami pesanti e le foglie lucide della magnolia, e il battito mi accelera. Il temporale infuria
ululando sul tetto e fra i cespugli. La mia è una reazione istintiva a qualcosa che non riesco a identificare.
Sento un rumore al di là del muro in fondo al giardino, come se fosse caduto un sasso, o un mattone.
Mi vengono i brividi, le gambe pesanti, un’eco del terrore che da piccola mi paralizzava. Adesso sono
grande, però, e quella mia parte più animale e istintiva non si lascia più prendere dal panico. Apro il
marsupio e impugno la pistola, mi tiro su il cappuccio e accompagno Sock verso la panchina di pietra
intorno alla magnolia. Accanto ci sono piante e cespugli.
«Forza. Sto qui vicino» gli dico. Il cane si accuccia dietro i bossi, le orecchie basse e gli occhi fissi
su di me.
Pesanti gocce di pioggia mi cadono sul cappuccio impermeabile mentre mi guardo intorno, ferma
immobile. Osservo il muro, le orecchie tese a captare il minimo rumore strano. Mi viene in mente che non
ho camerato un colpo e che non sarebbe facile, all’occorrenza, arretrare il carrello otturatore. La pistola
è bagnata. Sono stata stupida a non pensarci prima di uscire. Sock scatta verso la porta aperta e io lo
seguo, senza voltare le spalle al muro in fondo al giardino.
È come se una forza magnetica mi attirasse in quella direzione, come se dietro quel muro ci fosse una
presenza malevola, abbastanza vicina perché io ne senta l’odore, acre e sgradevole, come di filo elettrico
bruciato. “È l’odore che sentono gli epilettici prima di avere una crisi” mi dico. Ma io lo sto solo
immaginando. Non c’è nessun odore. Soltanto il profumo muscoso di foglie bagnate e di pioggia. Il
temporale continua a imperversare e il vento soffia gelido, ma quel che ho sentito muoversi poco fa,
qualsiasi cosa fosse, adesso è fermo e silenzioso. “La fisica sposta le cose” penso. È come quando trovi
una monetina per terra e non capisci come abbia fatto ad arrivare lì da sopra il comò, dove l’avevi vista
poco prima.
Mi do un’ultima occhiata intorno e non vedo niente di strano. Entro in casa e chiudo la porta a chiave.
Poi controllo dallo spioncino: solo vento e pioggia. Asciugo Sock con una salvietta, dicendogli che è
stato molto bravo. Asciugo anche la pistola e la rimetto nel marsupio. Guardo di nuovo dallo spioncino e
appoggio la mano sulla maniglia. Lo faccio automaticamente, prima di rendermi conto di quello che sto
vedendo.
C’è qualcuno al di là del muro in fondo al giardino. Un giovane, piccolo di statura. Forse è addirittura
un ragazzo. Ne sono sicurissima. Ha il capo scoperto, la pelle chiara e per un attimo guarda dritto verso
la porta, verso di me che lo osservo dallo spioncino. Vedo la faccia pallida, le ombre scure degli occhi,
e spalanco la porta. Lui corre via.
«Ehi!» grido.
Scompare velocemente come era apparso.
Entro nella mia cucina, che è di legno antico, con gli elettrodomestici in acciaio inossidabile e vecchi
lampadari di alabastro.
«Cos’è successo?» mi chiede Marino versandosi un bicchiere di acqua frizzante. Pensa che abbia
gridato a Sock, che va verso le ciotole e si mette seduto in attesa della pappa.
«C’era uno, qua fuori» rispondo. «Un giovane, bianco, capelli scuri. Forse un ragazzo. Era dietro il
muro. Può darsi che sia stato lì tutto il tempo. Poi è scappato.»
«Era nel tuo giardino?» Marino posa bicchiere e bottiglia, pronto a correre fuori.
«No.» Sono sorprendentemente calma. So di avere ragione. Non mi sono immaginata tutto.
«Era dall’altra parte del muro, nel giardino dei vicini.» Appendo la salvietta al portasciugamani.
«Niente violazione di proprietà privata, dunque. O per lo meno non della tua.»
«Non so cosa stesse facendo.»
«Non era il tuo vicino? Sei sicura?»
«A quest’ora, con ’sto tempaccio? E comunque, se fosse stato il mio vicino, perché sarebbe corso via
così? E poi non mi sembrava di conoscerlo. Anche se non l’ho visto bene, ovviamente.» Apro la borsa,
posata vicino al telefono, e prendo portafoglio, credenziali e chiavi.
«Un ragazzo che non conosci. Ne sei sicura?» Marino rimette la bottiglia nel frigorifero sbagliato.
«Non sono sicura di niente, a parte quello che ti ho detto.» Prendo il badge del CFC, che ha un chip di
identificazione a radiofrequenza. Lo tengo in una foderina di plastica attaccata a un cordino da collo. «In
questi ultimi giorni mi sono sentita osservata spesso quando ero a casa. E anche Sock era più impaurito
del solito.»
Marino riflette un momento, come valutando diverse ipotesi. Potrebbe uscire sotto la pioggia, al buio,
a cercare l’intruso; ma non è stato commesso alcun reato, per lo meno che ci risulti.
Peraltro, sono certa che a questo punto l’intruso sia già lontano e lo faccio presente a Marino. Gli
spiego che è scappato di corsa verso la Academy of Arts and Sciences, che è in mezzo a un parco pieno
di alberi. A nord del parco, oltre Beacon Street e i binari della ferrovia, c’è Somerville, che non fa più
parte di Cambridge. Quel ragazzo potrebbe essere andato ovunque.
«Magari voleva spaccare il finestrino di una macchina per rubare qualcosa» dice Marino, mentre io
prendo da un cassetto una torcia a LED, piccola ma potente, e controllo che le pile siano cariche. «In
questa stagione gli atti vandalici sono all’ordine del giorno. Ti spaccano il finestrino e pigliano quel che
trovano: portatile, iPad, iPhone. Non hai idea di quante case di lusso non hanno un impianto di allarme,
qui a Cambridge» aggiunge, come se non sapessi niente di come vanno le cose in questa città, dove vivo e
lavoro da anni. «Entrano anche nelle case. Si appostano, cercano di capire dove tieni l’elettronica,
spaccano un vetro e ti portano via tutto quello che possono.»
«Be’, in questa casa l’impianto d’allarme c’è. Ed è abbastanza ovvio.» Appesa a un gancio nella
dispensa c’è la borsa di nylon che prendo quando viaggio leggera. «Ci sono le targhe nel giardino e dalle
finestre si vedono i tastierini con le spie rosse che indicano che l’allarme è inserito.»
«Lo tieni sempre acceso quando sei in casa?»
«Sempre. Specie se sono sola.» Come se non mi conoscesse.
«Da quand’è che ti senti osservata? Da quando Benton è partito per Washington?»
«No. Benton è partito un mese fa, subito dopo il secondo e il terzo omicidio. Ho cominciato ad avere
questa sensazione solo ultimamente, mi sembra.» Marino vuole capire se sono i casi di cui si sta
occupando Benton a mettermi paura, anche se sa soltanto quel che hanno scritto i giornali di quei
rapimenti e assassini.
«E cioè? Più o meno.»
«Da quando sono tornata dal Connecticut. Sabato sera è stata la prima volta.» Portafoglio, chiavi,
credenziali, badge e torcia vanno dentro la borsa, che mi metto a tracolla.
Marino mi osserva. Intuisco a quali conclusioni è giunto: sono rimasta traumatizzata da quello che è
successo a Newtown e adesso sono paranoica. Ma, soprattutto, non mi sento più così al sicuro come
quando lui lavorava per me. Gli piace pensare di mancarmi moltissimo, che io sia scombussolata perché
non c’è più lui. Apro un armadietto sopra il lavandino.
«È comprensibile» dice.
«Non c’entra niente con quello che è successo a Newtown, te l’assicuro.» Poso sul bancone una
scatoletta di cibo per cani e un paio di guanti di nitrile grigi.
«Dici? E come mai tutto a un tratto vieni sulla scena di un crimine con la pistola? Anche se ci sono io
con te?» Insiste perché gli piace pensare che sono spaventata.
Che ho bisogno di lui.
«Non ti piacciono nemmeno le pistole.»
«Cosa c’entra se mi piacciono o no?» Apro la scatoletta. «Peraltro, penso che non si dovrebbe
provare nessun sentimento per le armi. È sbagliato sia amarle sia detestarle. Non sono mica persone,
animali, pietanze.»
«Quando hai cominciato ad andare in giro armata? E da quando togli la sicura del grilletto?»
«Cosa ne sai se tolgo o non tolgo la sicura? Non ci vediamo da un sacco di tempo.» Svuoto la
scatoletta nella ciotola di Sock mentre lui sta seduto sul suo tappetino con il muso affusolato rivolto verso
di me.
«Be’, non credo sia una coincidenza se non lavoro più per te e all’improvviso decidi di portarti
appresso una pistola ovunque tu vada.»
«Non mi porto appresso una pistola ovunque io vada. Soltanto se sono in casa da sola o devo uscire a
ore inconsulte della notte» replico.
Marino finisce il bicchiere d’acqua frizzante e rutta silenziosamente.
«Aspettare che uno stacchi l’allarme per uscire con il cane è il trucco più vecchio del mondo.»
Imbocco Sock con la mano protetta dal guanto, una polpetta di pesce alla volta, in maniera che non si
ingozzi e non gli vada il cibo nella trachea.
Non vorrei che gli venisse la polmonite. Sock tende a mangiare troppo velocemente perché quando era
nel circuito delle corse ha patito la fame.
«Non vorrai che lo porti fuori disarmata» ragiono. Torno verso l’ingresso.
Marino posa il bicchiere nel lavandino e mi segue. Le giacche che abbiamo addosso gocciolano sul
pavimento.
«Quante volte è capitato che uno prenda di mira una donna con il cane e la tenga d’occhio per capire a
che ora lo porta fuori?» gli faccio notare. Forse, nel profondo, voglio che si senta in colpa.
Si è licenziato senza dirmi niente. In questi ultimi giorni, quando sono stata a casa con l’influenza, non
mi ha telefonato neanche una volta. Inserisco l’allarme ed esco in fretta con Marino, approfittando del
fatto che Sock è distratto da un biscotto alle patate dolci. Ne ho un altro in tasca e Quincy lo sa. Si
accorge sempre di tutto, quel cucciolo. Mi segue giù per gli scalini e lungo il vialetto.
Piove un po’ meno forte e fa relativamente caldo, per la stagione che è. Saranno dieci gradi sopra lo
zero e sembra impossibile che manchi solo una settimana a Natale. In giro ci sono luminarie, alberi e
decorazioni, eppure non c’è ancora stata nemmeno una gelata e le temperature sono particolarmente miti,
per essere dicembre. Non durerà, però: per il fine settimana è prevista neve.
«Fortuna che sai come usarla e ci stai attenta: almeno di questo non mi devo preoccupare.» Marino fa
entrare Quincy nella gabbia e chiude lo sportello. «Visto che ti ho insegnato io a sparare.»
Quincy si accuccia sul materassino e mi guarda intensamente con i suoi occhioni scuri.
«Non voglio immischiarmi nel tuo programma di addestramento» dico, sarcastica, tirando fuori il
biscotto alle patate dolci.
«È un po’ tardi, ormai» replica Marino, come se la totale assenza di disciplina del suo cane fosse
colpa mia, al pari di tutto il resto.
Quincy infila il muso tra le sbarre. Mentre mi sistemo sul sedile davanti, lo sento che mastica.
Marino mette in moto e prende la ricetrasmittente per contattare il centralino e chiedere che vengano
messe in allerta tutte le pattuglie nella zona a nord della Harvard: è stato avvistato un ragazzo bianco dal
comportamento sospetto, che potrebbe essere un ladro di appartamenti. È scappato in direzione della
Academy of Arts and Sciences.
L’autopattuglia tredici risponde immediatamente, dicendo di essere qualche isolato più a sud, vicino
alla Divinity School. «Avete la descrizione?» chiede un agente.
«Capo scoperto, corporatura minuta, forse minorenne» ricordo sottovoce a Marino. «Presumibilmente
a piedi.»
«Non ha niente in testa» ripete lui. «È stato visto correre verso il parco, in direzione di Beacon
Street.»
7
Il SUV di Marino è privo di contrassegni ma provvisto di scanner, radio, sirena e lampeggianti. Ci sono
cassetti e cassoni pieni di attrezzature bene organizzate, non immediatamente visibili. Rivestimenti e
tappetini sono scuri e pulitissimi. Marino è orgoglioso del suo “mezzo”, come chiamava la Crown Vic
con cui girava a Richmond.
«Sembra nuovo ed è in ottime condizioni. Ibrido, per giunta. Vedo che sei sensibile all’ambiente: mi
fa piacere.» Passo un dito sul cruscotto lucidato con uno spray protettivo. «Liscio come vetro. Ci si
potrebbe pattinare.»
«Motore V4, EcoBoost. Ci credi?» borbotta. «Il dipartimento ha appena comprato dei V6 doppio
turbo, ma soltanto per i dirigenti. Che cosa succede durante un inseguimento?»
«Vinci un premio per l’impronta di carbonio più bassa.» Guardo fuori del finestrino per vedere se
scorgo l’intruso dietro il muro del mio giardino.
«Potrei cavalcare una tartaruga, già che ci sono. Tanto vale che ci diano anche pistole ad acqua per
risparmiare sulle munizioni.»
«Non è propriamente la stessa cosa.» Non posso fare a meno di sorridere: è tornato il Marino
brontolone e un po’ ottuso di una volta.
«L’ultima macchina che avevo, prima di andar via da Richmond, era una V8 Interceptor che faceva i
trecento all’ora.»
«Non vedo a cosa possa servire raggiungere simili velocità a Cambridge. A meno che non la sorvoli
in aereo.» Non c’è nessuno in giro.
Non incontriamo nemmeno una macchina per un po’ e mi chiedo perché quel ragazzo mi stesse spiando
e da quanto tempo. Da quando sono tornata dal Connecticut, forse? Non credo sia un ladruncolo. Vorrei
tanto sapere chi è e cosa vuole da me.
«Benton doveva tornare a casa.» Marino percorre la strada che attraversa il campus tenendosi sotto il
limite di velocità, sessanta chilometri all’ora. Non c’è nessun bisogno di andare più veloci di così, da
queste parti. «Eri malata e ti ha lasciata sola? Dopo quel che hai passato?» Deve per forza continuare a
tirar fuori il Connecticut? Quante volte intende tornare sull’argomento?
«Non sarebbe servito a niente» ribatto, ma non è vero.
Se c’è qualcuno che mi spia, sarebbe servito eccome avere Benton a casa. E comunque non mi piace
quando è via. Mi è mancato tantissimo in queste settimane e forse non avrei dovuto dirgli che stavo bene
e non avevo bisogno di lui, visto che non è vero. Forse avrei dovuto essere un po’ più egoista.
«Non dovevi rimanere sola in casa con l’influenza. Se l’avessi saputo...»
“Se mi avessi chiamato, l’avresti saputo” sono tentata di ribattere. Guardo fuori dal finestrino il museo
d’arte della Harvard, tutto vetri e mattoni. L’Harvard Faculty Club è vestito a festa e le biblioteche
Houghton e Lamont si stagliano bellissime dietro i vecchi alberi nell’Harvard Yard. Le gomme sfrigolano
sull’asfalto bagnato. Quincy ronfa sul sedile dietro, dentro la gabbia. Alla radio si alternano
conversazioni.
Una chiamata al 911 da telefono fisso interrotta: probabile violenza domestica. Individui sospetti a
bordo di un SUV rosso con paraurti catarifrangenti, in fuga da un parcheggio vicino alle case popolari in
Windsor Street. Marino ascolta mentre guida. È di nuovo nel suo ambiente, contento, pieno di energia.
Non ho ancora avuto modo di parlargli di quello che ha fatto. Questo non mi sembra il momento migliore.
«Forse, quando te la senti, potresti spiegarmi che cosa è successo.» Entro in argomento comunque.
Marino sta zitto e pochi minuti dopo svolta in Memorial Drive. Il fiume Charles brilla scuro alla
nostra destra, in un’ansa elegante verso Boston, il cui skyline è illuminato ma opaco per via delle nuvole.
L’antenna in cima al Prudential Building pulsa, rossa come il sangue.
«Ne avevamo già parlato in una vita precedente» insisto. «Quando stavo traslocando da Richmond.
Avevo già capito che sarebbe andata a finire così. E infatti. Avrei gradito che mi facessi partecipe delle
tue scelte lavorative.»
Marino inclina la testa verso la radio, ascoltando una comunicazione a proposito di una serie di atti
vandalici e furti nei pressi delle case popolari di Windsor Street, a cui l’operatore aveva già accennato
pochi minuti fa.
«Per pura cortesia, non per altro» continuo.
«Autopattuglia tredici» chiama l’operatore.
L’autopattuglia tredici non risponde.
«Merda.» Marino alza il volume.
Lo fa per evitare di parlarmi, penso, ma sono un po’ perplessa. Neanche un quarto d’ora fa
l’autopattuglia tredici ha raccolto l’invito a controllare la presenza dell’intruso che mi spiava dal
giardino dei miei vicini. Forse le ricerche sono state abbandonate a causa di questa nuova segnalazione.
«Centrale ad autopattuglia tredici. Mi sentite?» ripetono dalla centrale.
«Qui autopattuglia tredici: siamo in ascolto» risponde finalmente un agente. L’audio è molto
disturbato.
«Avete risposto alla chiamata?»
«Ci stiamo avvicinando a piedi al civico tre, dove sembra che siano stati infranti i finestrini di un
certo numero di veicoli ed è stato visto allontanarsi a velocità elevata un SUV rosso con paraurti
catarifrangenti e più persone a bordo.» L’agente che parla ha il fiatone. «Sembra lo stesso SUV che è già
stato visto sul luogo di altri furti e atti vandalici in zona. È possibile che si tratti di una gang. Chiediamo
rinforzi.»
«È sempre una zona pericolosa, per quanto l’abbiano ripulita» commenta Marino, interessato. «Ne
succedono di tutti i colori, lì: spacciatori che vanno a trovare la mamma e intanto vendono
metamfetamina, eroina, pasticche varie. E, già che ci sono, spaccano pure qualche finestrino e sparano
due o tre colpi dalla macchina in corsa. Combinano un bel casino, portano via i coglioni e, appena la
polizia se ne va, tornano e ricominciano. Si divertono, penso.»
Non lo vedevo così da tanto tempo.
«Una follia» aggiunge, eccitato. «Costruisci case popolari vicino a ville da milioni di dollari o in
mezzo a Technology Square, piena di società con miliardi di fatturato, e poi ti ritrovi un bordello che te
lo dico io.»
«Autopattuglia tredici? Siamo sulla Main, pronti a intervenire» risponde un’altra unità in zona.
«Stiamo arrivando.»
«Ricevuto» replica l’operatore dalla centrale.
«Ti ricordi quando ne abbiamo parlato a Richmond?» gli domando.
«Cos’è che avresti capito fin dall’inizio?» Si posa la radio in grembo.
Gli racconto di quel pomeriggio piovoso che ho sognato poco fa, guardando il Marino che è seduto
vicino a me e ricordando quello di allora. È invecchiato, ha il viso più segnato e la testa rasata. È ancora
grande, grosso e imponente, in jeans e giaccone nero Harley-Davidson. Capisco dalla sua reazione che fa
finta di non ricordarsi niente. Lo intuisco da come continua a guardare la strada e poi si volta a
controllare Quincy, prima di cambiare leggermente posizione sul sedile e stringere il volante con tutt’e
due le mani. Non mi vuole guardare in faccia. Non può, perché ci siamo avvicinati troppo a un argomento
che nessuno dei due vuole toccare.
Prima di congedarsi, quel giorno a Richmond, Marino entrò in casa per andare in bagno. Quando uscì,
io lo aspettavo in cucina. Gli dissi che era meglio se mangiava qualcosa, che non poteva andare via in
macchina dopo tutte le birre che avevamo bevuto. Eravamo entrambi un po’ brilli.
“Cosa mi offri?” Non stava parlando della cena. “Sarebbe bello. Io e te.” Non parlava di cucinare né
di mangiare. “Stiamo bene assieme, andiamo d’accordo.” Non era al lavoro che si riferiva.
Marino è sempre stato convinto che saremmo stati una coppia perfetta, io e lui, che se avessimo fatto
sesso sarebbe scattata una magica alchimia e il nostro sarebbe diventato un rapporto da sogno. E quella
sera, a Richmond, ci andammo davvero vicini. Non ho mai provato attrazione per lui, non ho mai pensato
che potessimo diventare una coppia. Avevo paura di quel che avrebbe fatto se non avessi ceduto. E di
quel che sarebbe potuto succedere se avessi ceduto. Marino avrebbe sofferto più di me. Non volevo che
mi seguisse, se era ciò a cui si riferiva quando mi aveva chiesto che cosa ero disposta a offrirgli. Fu
proprio questo a fermarmi: non stavamo parlando più soltanto di sesso. Marino era innamorato di me. Me
lo disse, e più di una volta, durante quella cena. Da allora, non me l’ha mai più detto.
«Ti avevo avvertito. Lo prevedevo, che sarebbe andata a finire così.» Sono intenzionalmente vaga.
«Non so perché tu non mi abbia voluto parlare dei tuoi progetti lavorativi e ti sia limitato a chiedermi una
lettera di referenze. Mi è dispiaciuto che tu abbia fatto così.»
«Forse a me è dispiaciuto che tu abbia fatto così quel giorno a Richmond.» Se lo ricorda benissimo,
quindi.
«Ti capisco.»
«Non volevo che cercassi di farmi cambiare idea anche stavolta, chiaro?» dice.
«Ci avrei provato.» Mi collego a internet con l’iPhone. «Certo. Avrei cercato di convincerti a non
andare via dal CFC. Hai ragione.»
«Almeno lo ammetti. Per una volta...» Sembra soddisfatto.
«Sì, lo ammetto. Non sarebbe stato giusto farti rinunciare a una cosa a cui evidentemente tieni molto.»
Digito il nome di Gail Shipton nella stringa di ricerca. «Neanche l’altra volta è stato giusto. Scusami.
Scusami tanto. Ma, egoisticamente, mi sarebbe dispiaciuto perderti. E spero di non averti perso.»
Capisco dalla sua espressione che le mie parole lo hanno commosso e mi chiedo come mai mi costi
tanto dire apertamente quello che provo. Ma ho sempre fatto fatica a esprimere i miei sentimenti.
«Adesso abbiamo un caso da seguire, come ai vecchi tempi» dice.
«Meglio che ai vecchi tempi» rispondo. «Dobbiamo essere più bravi. In questi dieci anni il mondo è
peggiorato.»
«È uno dei motivi per cui ho preso questa decisione» mi spiega. «In polizia c’è bisogno di persone
che hanno visto come andavano le cose un tempo e come stanno andando adesso. Quando abbiamo
iniziato noi, c’erano soprattutto serial killer. Poi, dopo l’11 settembre, abbiamo dovuto cominciare a dare
la caccia ai terroristi, senza però smettere con i serial killer, che sono più di prima.»
Trovo un’occorrenza che parla di Gail Shipton fra le news in streaming di Fox, di trentacinque minuti
fa. “Studentessa dell’MIT scomparsa. Vista per l’ultima volta ieri pomeriggio a Cambridge, allo Psi Bar.”
Fox riporta la possibilità che sia la donna appena ritrovata morta al Briggs Field, nel campus dell’MIT.
E il video mostra agenti di Cambridge e dell’MIT che montano riflettori su un campo in terra rossa vicino
al parcheggio. Inquadratura di Sil Machado, che parla ai microfoni sotto la pioggia, con un berretto da
baseball grondante acqua.
“Al momento non siamo ancora in grado di rilasciare dichiarazioni” dice Machado, che è
soprannominato “Caravella portoghese” ma davanti all’obiettivo non sembra pericoloso.
Mi pare particolarmente turbato, dietro la facciata cupa di sempre. Ha le spalle curve sotto la pioggia
e il vento, e l’espressione un po’ tesa di chi è a disagio ma cerca di non darlo a vedere.
“È stato effettivamente ritrovato un cadavere” ammette. “Ma per il momento non sappiamo cosa sia
successo né se si tratti della donna di cui è stata denunciata la scomparsa.”
«Non ci credo.» Marino lancia un’occhiata al mio telefono mentre ascolta. «Machado e il suo quarto
d’ora di notorietà.»
“La dottoressa Scarpetta è stata contattata?” chiede il giornalista.
“Non appena avremo finito il sopralluogo, il corpo verrà sottoposto all’esame del medico legale”
risponde Machado.
“La dottoressa Scarpetta interverrà sul posto?”
Guardo cos’altro c’è in rete, mentre i tergicristalli spazzano rumorosamente il parabrezza e dal
cellulare di Marino parte una suoneria che sembra un motore Harley-Davidson su di giri. Marino si tocca
l’auricolare e al vivavoce si sente Sil Machado.
«Parli del diavolo...» dice Marino.
«Channel 5 ha fatto vedere la foto della ragazza» esordisce Machado. «Arrivano un sacco di
telefonate di persone che dicono di averla vista allo Psi Bar. Finora niente di utile, però.»
«Come ha fatto Channel 5 a mettere le mani sulla foto?» L’auricolare di Marino brilla di luce
azzurrognola.
«Pare che la sua amica, quella che ha denunciato la scomparsa, l’abbia postata sul loro sito verso
mezzanotte» risponde Machado. «Haley Swanson.»
«Strano.»
«Non più di tanto. Siamo tutti giornalisti, di questi tempi. Ha chiamato il 911 e poi ha postato la foto
della sua amica, dicendo che era scomparsa. Ci voleva aiutare, immagino. La ragazza della foto somiglia
alla morta. Parecchio.»
«Gail Shipton» conferma Marino, mentre io trovo in rete un articolo che attira la mia attenzione.
«A meno che non abbia una sorella gemella.»
Gail Shipton aveva una causa legale in corso e il processo era imminente. Mi tornano in mente Carin
Hegel e quello che mi ha detto quando ci siamo incontrate in tribunale qualche settimana fa. Ha accennato
a una banda di delinquenti e al fatto che non voleva più stare a casa sua. Leggo velocemente l’articolo
che parla della causa intentata da Gail Shipton. I particolari sono sorprendentemente pochi, data l’entità
della causa. Faccio un’ulteriore ricerca.
«Haley Swanson è venuta in centrale a denunciare ufficialmente la scomparsa?» domanda Marino.
«Che mi risulti, no.»
«Non mi piace.»
«Forse pensa che non sia il caso, perché alla fine Gail non è scomparsa, ma le è successo qualcosa di
peggio. Dove siete?» La voce di Machado riempie l’abitacolo.
«Saremo lì fra cinque minuti.»
«La dottoressa è con te?»
«Affermativo.» Marino chiude la chiamata.
«Gail Shipton aveva fatto causa al suo ex intermediario finanziario, Dominic Lombardi.» Scorro
rapidamente l’articolo sull’iPhone. «La sua società, la Double S, ha sede a Concord, qui vicino, ma segue
una clientela internazionale.»
«Mai sentita.» Marino lampeggia con i fari, irritato, a una macchina che viene verso di noi per
segnalarle che lo sta abbagliando. «Non che me ne freghi un granché delle finanziarie, visto che non ne ho
mai avuto bisogno. Tra l’altro, penso che quelli che lavorano nella finanza siano una massa di
imbroglioni.»
Cerco “Double S” e trovo parecchi articoli, molti dei quali devono essere stati piazzati in rete dai
loro responsabili delle relazioni esterne.
«Sembra siano specializzati in clienti HNW, quelli con grandi patrimoni.» Scorro altri articoli e ne
apro uno che parla della situazione tutt’altro che rosea della Double S. «Hanno avuto problemi con il
fisco e con la SEC, la commissione che vigila sul mercato mobiliare, per investimenti in presunta
violazione dei requisiti KYC per le norme antiriciclaggio. Senti, questo è interessante: negli ultimi otto
anni hanno avuto almeno sei denunce ma, chissà per quale motivo, non sono mai finiti in tribunale.»
«Avranno cercato una transazione prima del processo. Ormai le cause legali sono diventate lo sport
nazionale. L’unica cosa che si fa in America» commenta acido Marino. «Estorsione legalizzata. Io ti
accuso ingiustamente di qualcosa e tu mi paghi per mettermi a tacere. Se non ti puoi permettere un bravo
avvocato, sono cazzi amari. Com’è successo a me con la mia class action, gestita da un piccolo studio di
incompetenti: ho speso duemila dollari in riparazioni per quel cavolo di pick-up. Perché la
concessionaria ha lo studio legale più grande di Boston, un bell’ufficio di pubbliche relazioni, cazzi e
mazzi. Il pick-up aveva un difetto di progettazione, era fuori assetto, ma loro sostengono che è colpa tua,
perché sei piccolo e non vali niente: dicono che l’hai mandato fuori assetto tu, guidando su terreni troppo
accidentati.»
Marino è tutt’altro che piccolo, ma quella storia l’ha fatto arrabbiare. Me l’avrà già raccontata cento
volte: la so a memoria. L’autunno scorso ha comprato un pick-up e, dopo meno di una settimana, ha notato
che “aveva il culo più basso”, come dice lui. Quando comincia a spiegarmi per l’ennesima volta che
l’asse posteriore toccava il tampone di fine corsa degli ammortizzatori e che il telaio non era abbastanza
robusto, lo interrompo.
«Non so se ci sia stata una transazione.» Lo riporto alla causa intentata da Gail Shipton contro la
Double S e al fatto, piuttosto sospetto, che lei sia morta meno di due settimane prima dell’inizio del
processo. «Finora l’articolo non ne ha parlato: dice solo che il procedimento è stato “sospeso”. È il
termine che usa il “Financial Times” in questo articolo, che è di qualche anno fa. “La Double S è un
grande business internazionale gestito da una piccola società del Massachusetts”, dice.» Salto alla parte
più significativa. «“Secondo il CEO, Dominic Lombardi, le richieste di risarcimento avanzate dagli ex
clienti erano infondate e i relativi procedimenti sono stati sospesi. In una recente intervista rilasciata al
‘Wall Street Journal’, Lombardi ha spiegato che ‘purtroppo i clienti a volte si aspettano miracoli e si
arrabbiano quando questi non si verificano’. Lombardi ha aggiunto che la Double S continua a essere una
società di intermediazione finanziaria più che rispettabile e vanta clienti in tutto il mondo.”»
«Strano nome, per una finanziaria. Sembra quello di un ranch» commenta Marino. In quel momento
appare davanti a noi la silhouette a forma di silo del Cambridge Forensic Center.
Non è lì che siamo diretti. Mi colpisce quanto vicino al CFC sia la scena del crimine che stiamo
andando a esaminare.
«Potrebbe essere un allevamento di cavalli qui nei paraggi.» Mi colpisce anche un’altra bizzarra
vicinanza.
La sede della Double S è vicinissima alla proprietà di Lucy in campagna. Venti ettari di terreno
recintati, telecamere ovunque, eliporto, tiro a segno indoor, garage con numerosi posti macchina e una
serie di case e casolari dall’aria molto rustica, che nascondono però apparecchiature ad altissima
tecnologia. Nella casa principale, dove abita Lucy, c’è una grande vetrata con vista sul fiume Sudbury.
Mi chiedo se Lucy conosca il suo vicino Dominic Lombardi. Spero che non sia sua cliente, ma ne dubito.
Mia nipote è rimasta già scottata una volta e sta molto attenta ad affidare i suoi soldi.
«Forse gestisce il lavoro da casa» dico continuando a cercare su internet notizie su Gail Shipton e la
sua causa legale. Ne trovo pochissime, però.
Sospetto che la Double S si sia fatta in quattro per evitare che apparissero troppi articoli sulle
pendenze in corso.
«Pare abbia sporto denuncia contro la Double S diciotto mesi fa, chiedendo un risarcimento di cento
milioni di dollari. Dubito fortemente che una giuria glielo avrebbe riconosciuto. Violazione del dovere
fiduciario e inadempienza contrattuale» leggo. E poi spiego: «Sembra che il software di gestione usato
dalla Double S abbia reso inaffidabili i resoconti finanziari: potrebbero mancare dei soldi».
«In altre parole, glieli hanno fregati» riassume Marino.
«Evidentemente non lo poteva dimostrare, altrimenti la causa sarebbe stata penale, non civile.» Mi
torna in mente il caso a cui ha accennato Carin Hegel quando l’ho incontrata. Mi domando se sia lo
stesso.
Ho la sensazione che lo sia.
«Come faceva ad avere tanti soldi se studiava ancora?» chiede Marino accendendo lo sbrinatore.
«Tecnologie, applicazioni per telefonia mobile» leggo. E mi torna di nuovo in mente Lucy, che ha fatto
fortuna giovanissima progettando software e motori di ricerca.
Le mando un SMS.
«Ah.» Marino si china verso di me per aprire il vano portaoggetti. «È diventata straricca con l’alta
tecnologia? Chi ti ricorda?» Prende una pezzuola antistatica per pulire il vetro. «Speriamo che non si
conoscessero.»
8
Le barche ormeggiate sul fiume sono coperte di plastica bianca per l’inverno e l’insegna rossa triangolare
della Citgo brilla sopra Fenway Park oltre il ponte di Harvard, dalla parte di Boston.
Controllo il telefono, ma Lucy non mi ha ancora risposto. In preda a un’inquietudine sinistra, guardo
dal SUV la nebbia che aleggia come una cappa sopra l’acqua scura e mossa del fiume. Non so se il mio
turbamento derivi dai fatti della settimana scorsa o dall’aver visto un ragazzo che mi spiava dal giardino
dei miei vicini. Non so se il mio sia un oscuro presentimento o se sono semplicemente stanca.
Marino, pieno di sé, filosofeggia su quello che dovrebbe fare la polizia per sconfiggere la criminalità.
Le statistiche che mi cita sono deprimenti, scoraggianti. Non la smette più di parlare e io lo ascolto a
malapena, afflitta da pensieri cupi e opprimenti che preferirei non avere.
“Mani in alto!”
“Non sparare, ti prego!”
Le suppliche sentite dall’interfono della scuola si insinuano fra i miei pensieri quando meno me lo
aspetto. Continuo a rimanere sconcertata da quello scambio di battute così banale fra l’autore della strage
e le sue vittime.
“Copiano quel che vedono in TV, al cinema, nei videogiochi.” La spiegazione di Benton non mi
soddisfa. “Quando l’essere umano è ridotto agli istinti primari, parla come un cartone animato.”
“Chiamavano la mamma in lacrime. Imploravano l’assassino di non ucciderli. Sì, lo so, Benton. Ma
d’altra parte non so niente. Non sappiamo niente” gli ho risposto quando ci siamo parlati al telefono
sabato sera. Ero appena tornata a casa. “Questo è un nemico nuovo.”
“Uccisioni spettacolari.”
“La tua mi sembra una banalizzazione.”
“Una tragedia in diretta, Kay. L’argine ha cominciato a cedere con la strage di Columbine. Non è una
novità. È nuova solo la definizione. Ormai tutti vogliono diventare famosi, essere sotto i riflettori. Gli
individui profondamente disturbati, per diventare celebri, sono disposti a uccidere e a morire.”
Non l’ho ancora sentito e sto cominciando a preoccuparmi anche per lui. Quando pensavo che Benton
fosse morto, è cambiata la mia visione del mondo e sono diventata ansiosa. L’ho già perso una volta.
Potrei perderlo di nuovo. Alla maggior parte delle persone non accade neppure un miracolo in un’intera
esistenza, e io ne ho già sperimentato diversi. Temo di aver finito tutti quelli che mi spettavano, che non
me ne arriveranno più.
Marino svolta in Fowler Street, una strada corta che collega Memorial Drive a una via stretta e buia.
Pulisce di nuovo il vetro con l’apposita pezzuola azzurra. Mi viene in mente che ho bisogno di mangiare.
Penso anche che domani è il compleanno di Benton e io non so dove sia. Ho fame. Lo stomaco mi
borbotta. Vedrò le cose in maniera diversa dopo che avrò mangiato qualcosa, lo so. Per un attimo, penso
a cosa potrei cucinare quando tornerò a casa.
Farò lo stracotto. Vitello, manzo, asparagi, funghi, patate, cipolle, peperoni, concentrato di pomodoro,
basilico fresco, origano, aglio, pepe di Cayenna e vino rosso. Deve cuocere a fuoco basso un giorno
intero e riempie la casa di un profumino delizioso. Saremo presenti tutti quanti, faremo l’albero di
Natale, una bella cenetta accompagnata da buon vino.
Mando un altro SMS a Lucy. “Dove sei?”
Aspetto dieci secondi e ne mando uno anche alla sua compagna, Janet. “Devo parlare con Lucy.”
La risposta di Janet arriva dopo pochi secondi: “La avverto”.
Mi sembra una risposta strana, come se non vivessero insieme.
«C’è qualcuno di guardia a ogni possibile via di accesso al cadavere» sta dicendo Marino. «Nessuno
entra o esce senza che ce ne accorgiamo.»
Un agente di pattuglia a bordo di una macchina ci fa segno con i lampeggianti rossi e blu. Apro e
chiudo il finestrino perché continua ad appannarsi.
«È quello che io chiamo “perimetro invisibile”» ripete. Me l’ha già detto. «Agenti in divisa, a piedi e
in macchina, che controllano tutto il perimetro senza soluzione di continuità.»
«Buona idea.»
«È buona, sì. È venuta in mente a me.»
Immagino che farà così per un po’. Se la tira al limite dell’intollerabile. Non si rende conto di quanto
suona odioso. Gli do corda comunque. «E hanno notato niente di strano finora?» Controllo di nuovo
l’iPhone.
Ho mandato a Lucy un primo SMS in cui le chiedevo se aveva mai sentito nominare Gail Shipton e la
Double S. È strano che non mi abbia ancora risposto. Temo che voglia dire che c’è qualcosa che non va.
«No. Niente di insolito» risponde Marino. «Ma l’assassino potrebbe essere lì a guardare dietro una di
quelle migliaia di finestre» aggiunge. Gli suona di nuovo il cellulare.
Carin Hegel parla in tono teso ed esitante al vivavoce del SUV di Marino. Esordisce dicendo che ha
passato gran parte della giornata di ieri insieme con Gail Shipton, per prepararsi al processo.
«Si comincia con l’esposizione del caso da parte del querelante e lei è la mia prima testimone.
Ovviamente, anche la più importante. Volevamo portarci avanti con il lavoro prima delle feste» spiega
l’avvocatessa di Boston, con la sua voce da contralto e un accento che mi ricorda i Kennedy.
«A che ora avete finito?» le chiede Marino.
«È andata via dal mio studio verso le quattro del pomeriggio. Poco dopo mi è venuta in mente una
cosa importante, di cui dovevo parlarle. Le ho mandato un SMS perché mi richiamasse e lei lo ha fatto, ma
a un certo punto è caduta la linea. Sta bene?»
«Che ore erano quando è caduta la linea?»
«Aspetti che controllo il cellulare e glielo dico con esattezza. Le è successo qualcosa?»
Ci avviamo verso la parte del campus dove gli edifici residenziali e i dormitori studenteschi sono di
mattoni con rifiniture in pietra calcarea. Li abbiamo sulla nostra sinistra, mentre sulla destra vediamo i
campi sportivi, dietro una recinzione piuttosto alta. In lontananza, le luci dei riflettori montati dalla
polizia creano un’atmosfera surreale.
«Dunque, mi ha chiamato alle diciassette e cinquantasette» ci informa Carin Hegel. «Mi ha detto che
era allo Psi Bar e che era dovuta uscire perché dentro c’era troppo rumore. Le ho spiegato di cosa le
dovevo parlare e...»
«Ovvero?» interviene Marino.
«Non posso dirglielo. Segreto professionale. Lei mi capisce.»
«Non credo sia opportuno trincerarsi dietro il segreto professionale, date le circostanze, avvocato. Se
sa qualcosa che potrebbe esserci utile...»
«Le posso dire questo» lo interrompe Carin Hegel. «Stavo parlando io e ho capito solo dopo un po’
che Gail non c’era più.»
«In che senso “non c’era più”?» Marino guida piano lungo la strada buia, con i fari che illuminano
l’asfalto bagnato.
«Era caduta la linea.»
«Non ha sentito nulla? Ha fatto caso se parlava con qualcun altro, per esempio? Se era stata avvicinata
da qualcuno?»
Silenzio carico di tensione. «Si è interrotta la comunicazione e quindi non ho sentito niente.»
«Prima che la comunicazione si interrompesse, intendo. Ha sentito qualcosa?»
«Prima che cadesse la linea parlava con me. Senta, scusi: è successo qualcosa a Gail?» Carin Hegel è
implacabile. Vuole a tutti i costi sapere. «Nel suo messaggio lei parlava di una denuncia di scomparsa. È
anche su internet. Dice che l’ultima volta che è stata vista era al bar da cui mi ha chiamato. So che ci va
spesso. È un locale frequentato da molti studenti dell’MIT e non è distante da dove è stato ritrovato il
cadavere di cui parlano tutti i notiziari. È vero che è stato ritrovato un cadavere, a proposito?»
«Sì.»
«Non è Gail, vero?» Carin Hegel, soprannominata il “pitbull” perché non perde mai una causa, è
sempre più in ansia.
«Secondo lei, la causa legale che sta per essere discussa in tribunale potrebbe comportare rischi per
l’incolumità della sua assistita?» domanda Marino.
«Oddio. Allora è lei...»
«Non è confermato.»
«La dottoressa Scarpetta è coinvolta nelle indagini? Devo parlarle. Per cortesia, può dirle che vorrei
discutere con lei di alcuni aspetti della faccenda? È importante.»
«Perché mi chiede di fare da intermediario fra lei e la dottoressa?»
«Non lavorava per lei?»
Marino ha un attimo di esitazione e mi guarda.
Faccio di no con la testa. Non ho detto niente a Carin Hegel. Non so come faccia a sapere che Marino
prima lavorava per me. Sui giornali non si è parlato del suo passaggio al dipartimento di polizia. Non è
un fatto di pubblico dominio, o così importante.
«Gail Shipton aveva ricevuto minacce da qualcuno coinvolto nella causa?» chiede Marino. «Le viene
in mente qualcuno che sia bene andare a controllare?»
«Il processo comincia tra meno di due settimane. Mi sembra evidente che c’è un collegamento,
investigatore Marino. Non può essere una coincidenza. Pensate che sia Gail? Il cadavere nel campus
dell’MIT? Ho l’impressione che lei ne sia abbastanza convinto.»
«Sinceramente, non è da escludere.»
«Oh, Signore! Oh, Signore benedetto!»
«Se dovesse essere confermato, il processo verrebbe sospeso, secondo lei?» domanda Marino. «Le
ripeto: per ora il cadavere non è stato identificato. Ma, nel caso, potrebbe essere questo il movente?»
«Ragione di più per andare avanti e insistere. Bastardi...» Le trema la voce. «Riguardo al movente,
comunque, la risposta alla sua domanda, ispettore, è sì.» Si schiarisce la voce, cerca di darsi un
contegno. «Non avete idea di chi è quella gente, dei legami che hanno. Molto in alto, temo. Ma al telefono
preferisco non dire altro. Credo di avere il telefono sotto controllo e un po’ di tempo fa qualcuno ha
cercato di entrare anche nel computer del mio studio. Non aggiungo una parola di più: immagino sia
sufficiente.»
«Se le viene in mente qualcosa che pensa ci possa essere utile, sa dove trovarmi, avvocato.» Marino
non vuole sentire altro. Non per telefono. Non se c’è di mezzo la criminalità organizzata o qualche
politico corrotto, come sembra. Magari tutti e due.
9
I riflettori mobili che ho visto nel video di Fox illuminano un campo di terra rossa fangosa sopra cui è
stata tesa una cerata gialla, tenuta ferma da bandierine arancioni che sbattono al vento, di quelle che si
usano sulle scene del crimine. Il cadavere è protetto dalla pioggia e dai curiosi. Sil Machado sorveglia le
operazioni con due agenti in divisa. Passeggiano nervosi avanti e indietro in attesa che arrivi io.
«Perché vuole parlare con te? Lo sai?» mi domanda Marino. Si riferisce a quello che ha detto Carin
Hegel.
«Per lo stesso motivo di tutti gli altri, presumo» rispondo. «Per farmi le solite domande che mi fanno
tutti. A parte questo, non saprei. Però ci siamo incontrate per caso nel bar del tribunale federale il mese
scorso e mi ha accennato a una causa contro dei personaggi pericolosi che ha definito “una banda di
delinquenti”. Ho avuto l’impressione che temesse per la propria incolumità. Forse è a questo che si
riferiva. Non so. È possibile che abbia svolto ricerche approfondite e abbia scoperto che la Double S è
coinvolta in attività illecite.»
«Che cosa si aspetta da te?»
«Che ascolti il suo sfogo, forse. Sa che non dirò niente a nessuno.»
«Che bastardi. I ricchi io proprio non li sopporto.»
«Be’, Lucy è una brava persona. E anche Benton. Avere dei soldi non significa necessariamente essere
stronzi.»
«Almeno Lucy se li è guadagnati.» Come a dire che invece Benton è nato ricco.
«Come faceva a sapere che non lavori più al CFC?»
«Evidentemente gliel’ha detto qualcuno.»
«Non capisco perché le tue dimissioni dovrebbero essere argomento di conversazione.»
«Magari gliel’ha detto un collega del dipartimento» ipotizza Marino. «O qualcuno del CFC.»
«Non vedo perché.»
Al di là dei campi sportivi recintati e di Vassar Street c’è la Simmons Hall, una sorta di monolite
rivestito di alluminio che brilla come una stazione aerospaziale. Vedo che sul marciapiede davanti alla
gigantesca residenza per studenti ci sono altri due poliziotti e un ragazzo che fa jogging e che non rallenta,
mentre un altro in bicicletta, con un giubbetto fluorescente, svolta verso lo stadio.
«Mi è sembrato che avesse paura che Gail sia stata uccisa, che lo ritenesse più che probabile» rimarca
Marino.
«Sì, può darsi che lo tema e che abbia ragione di temerlo, visto e considerato quello che deve sapere a
proposito della Double S.»
«In altre parole, ha paura per se stessa e per la causa che sta seguendo, che molto probabilmente le
frutta un mucchio di soldi» osserva cinico. «Ti ho mai detto che detesto anche gli avvocati?»
«Fra un’ora sarà giorno.» Non mi interessano le sue considerazioni sugli avvocati, che l’ho sentito
spesso definire “degli squali”. «Dobbiamo portare via la morta al più presto.»
Guardo il ragazzo che fa jogging. È distante, vestito di nero, appena visibile. Non so perché abbia
attirato la mia attenzione: è aggraziato, snello, leggero, minuto. Dev’essere giovanissimo. L’ MIT accoglie
piccoli geni anche a quattordici, quindici anni, quando non hanno ancora l’età per andare via da casa. Il
ragazzo attraversa un parcheggio e scompare nel buio verso Albany Street.
«Abbandonare un cadavere all’aperto normalmente vuol dire esporlo all’universo mondo. Ma questo
non è un posto normale.» Marino si guarda intorno, guidando molto piano. «Probabilmente è passato di
qui, a meno che non sia arrivato dall’altra parte, da Vassar Street. Sarebbe dovuto passare praticamente
sopra il posto di polizia dell’MIT, però. Sono le uniche due vie possibili se vieni con un mezzo. E che
avesse un mezzo è abbastanza sicuro, direi. Certo, potrebbe averla portata qua in braccio da una delle
residenze per studenti. Comunque sia, l’ha mollata in un punto molto visibile. Una follia.»
«Secondo me l’ha fatto apposta» ribatto. «Era circondato da persone che guardano ma non vedono.»
«Sì, hai ragione. L’ MIT è peggio della Harvard. Cento volte peggio» dichiara Marino, come se fosse
un esperto in università. «In biblioteca distribuiscono deodoranti e dentifrici, perché quelli si accampano
lì giorno e notte, manco fosse un ospizio per i poveri. Di questa stagione specialmente, perché fra poco ci
sono gli esami. Se non prendono il massimo dei voti, si ammazzano.»
«I tuoi colleghi sono stati molto discreti» sottolineo, pensando che si piglierà il merito pure di questo.
«Se non l’hai saputo da internet, non ti accorgi di niente.»
«Questi geniacci non si accorgono di niente di quello che gli succede intorno, te lo dico io. Vivono in
un altro mondo, rispetto a me e te.»
«Non so se gli augurerei di vivere nel mondo in cui viviamo io e te.»
Arriviamo a un complesso residenziale di mattoni rossi che si chiama Next House, con aiuole di
piante mezzo morte e rami secchi che sfiorano il marciapiede stretto, tremando al vento.
La strada curva bruscamente oltre una scultura di acciaio rossa, a forma di tetraedro, e ci dirigiamo
verso il parcheggio, lungo la cui recinzione c’è una fila di alberi. La sbarra è sollevata. Dentro ci sono
solo auto della polizia e un furgone del CFC senza finestrini, bianco e con il nostro stemma, il bastone di
Esculapio e la bilancia della giustizia. È qui per portare via il cadavere. Rusty e Harold scendono dal
furgone non appena ci vedono.
«Io sarei passato di qui, nei suoi panni» conclude Marino mentre entriamo.
«Ammesso che tu avessi accesso al parcheggio: non è mica aperto al pubblico.»
«Se passi da là, entri anche senza averne diritto.»
Mi indica il lato lungo Vassar Street, dove il cancello dell’uscita pedonale è spalancato e si muove
nel vento. Ci può passare tranquillamente anche un’auto, che però dovrebbe salire sul marciapiede
proprio di fronte al posto di polizia dell’MIT, di mattoni rossi e piastrelle azzurre.
«Se mai, ha avuto un bel coraggio.» Ovunque io guardi, vedo recinzioni, cancelli e parcheggi riservati,
a cui si accede soltanto con la chiave o la tesserina magnetica. Non è un posto in cui possa entrare
chiunque. Come la Harvard, l’MIT è un club privato, esclusivo. Molto privato e molto esclusivo.
«Neanche tanto: saranno state le due, le tre del mattino, e veniva giù che Dio la mandava» mi fa notare
Marino. «Se non hai la tessera per aprire la sbarra, l’unico modo per entrare è quello.»
«La sbarra era sollevata come adesso quando sono arrivati i tuoi colleghi?»
«No. Il parcheggio era vuoto e chiuso, a parte il cancello dell’uscita pedonale, laggiù. Che era aperto
come lo vedi ora.»
«Non potrebbero averlo aperto i due ragazzi che hanno trovato il corpo?»
«L’ho chiesto a Machado: era già aperto.» Marino ferma il SUV e mette la leva del cambio in
posizione P, di sosta. «Pare che non sia mai chiuso a chiave. Non chiedermi perché, visto che allora può
entrare chiunque, anche chi non è autorizzato.»
«È vero» concordo. «Però non è così semplice salire sul marciapiede davanti al posto di polizia. E
suppongo che le auto autorizzate a parcheggiare qui abbiano un contrassegno, un permesso di qualche
genere. Quindi, ammesso che tu riesca a entrare, rischi comunque la rimozione forzata.»
Prima di spegnere il motore, Marino accende varie volte gli abbaglianti per infastidire Rusty e Harold
che stanno aprendo il portellone posteriore del furgone. Loro si riparano gli occhi con un gesto esagerato
e gli gridano di smettere.
«Gesù!»
«Ci vuoi accecare?»
«Spegni quelle luci!»
«Questo è abuso di potere da parte della polizia!»
«Sotto uno di quegli alberi, con il buio, sotto la pioggia... Non ti vede nessuno, manco volendo.»
Marino continua a spiegarmi come si sarebbe comportato lui se fosse stato un assassino psicopatico.
Evidentemente ha deciso che di questo si tratta, e io ho i miei buoni motivi per temere che abbia ragione.
Penso al serial killer a cui sta dando la caccia Benton. Poi mi chiedo dove sia mio marito e che cosa stia
facendo. Marino abbassa un po’ i finestrini.
«Non patisce se lo lasciamo qui?» Parlo del cane. Quincy è sveglio, seduto nella gabbia, e uggiola
come fa sempre quando Marino si allontana. «Non capisco l’utilità di portartelo sempre dietro, se poi lo
lasci in macchina» aggiungo.
«Lo sto addestrando.» Marino apre la portiera. «Deve abituarsi alle scene del crimine, ad andare in
giro su un mezzo della polizia.»
«A questo è già abituato, secondo me: ad andare in giro in macchina.» Scendo, mentre Rusty e Harold
fanno scattare le gambe di una lettiga di alluminio. Mi torna in mente che ho perso il capo del mio nucleo
investigativo.
La lettiga non è adatta in queste condizioni. Ma non sarà Marino a dirlo a Rusty e Harold. Piove
ancora a tratti, però il cielo si sta aprendo. Non mi tiro su il cappuccio e non mi chiudo neanche la
giacca. Osservo la recinzione che separa il parcheggio dal Briggs Field. Da una parte all’altra del
cancello aperto è stato teso del nastro giallo.
Immagino l’assassino che lascia la macchina nel parcheggio e forza il cancello, magari tagliando la
catena, poi porta il cadavere oltre la recinzione e lo deposita una cinquantina di metri più avanti, in
mezzo a un campo da baseball in terra rossa, dove durante il campionato probabilmente c’è il monte di
lancio. Mentre mi guardo intorno, penso a quello che ha detto prima Marino: “Questo è il primo di una
lunga serie”. Su una cosa non sono d’accordo: questo non è il primo.
Lo immagino intelligente, calcolatore, determinato nel perseguire i propri scopi. Non è un novellino.
La sua non è stata la reazione a una svolta inaspettata negli eventi. Non era nel panico. Ha un metodo ben
collaudato. Se ha portato qui la morta e l’ha lasciata come l’ha lasciata, lo ha fatto perché per lui ha un
significato. Ne sono abbastanza sicura. Potrei sbagliarmi, naturalmente. Anzi, lo spero. Continuo a
pensare a Washington, ai casi che mi ha sottoposto Benton. Di una cosa sono certa: qui l’assassino ha
lasciato delle prove. È inevitabile. È il principio di interscambio di Locard: ogni contatto lascia una
traccia. L’assassino ha portato qualcosa sulla scena e dalla scena si è portato via qualcosa.
«L’erba è bagnata e il terreno è fangoso: non si può usare la barella» dico a Rusty e Harold, che
Marino chiama a loro insaputa “Cheech & Chong”. «Portatela via con la tavola spinale. Prendete un bel
po’ di teli e del nastro.»
«Non la mettiamo in un sacco mortuario?» mi domanda Rusty.
«Vogliamo che resti nella posizione in cui si trova. Dobbiamo portarla via esattamente com’è. Non
voglio metterla nel sacco: troveremo un altro modo.»
«Va bene, Kay.»
Rusty sembra un superstite degli anni Sessanta: capelli lunghi e grigi, pantaloni larghi e berretti di lana
fatti a mano. Marino dice che si veste da surfista. Stamattina, visto il brutto tempo, si è messo una giacca
a vento con una saetta stampata davanti, jeans sbiaditi, galosce e bandana in testa.
«Non prendiamo più ordini da te, adesso. Ricordatelo, eh?» Prende in giro Marino, che fino a poco
tempo fa era il suo supervisore.
«E io non devo più far finta di trovarvi simpatici» ribatte Marino, serissimo.
«Hai una pistola sotto quella giacca o sei semplicemente contento di vedermi?» Ci si mette anche
Harold, che invece si veste da becchino: completo nero e impermeabile doppiopetto. Peraltro, prima di
venire a lavorare al CFC, era dipendente di un’impresa di pompe funebri. Oggi ha i calzoni rimboccati
sopra gli stivali. «Vedo che ti sei portato appresso il cane, caso mai non riuscissimo a trovare il
cadavere.»
«L’unica cosa che sa trovare Quincy è la ciotola con il mangiare.»
«Attento, tu. Non far arrabbiare l’investigatore Marino, altrimenti ti fa la multa.»
Rusty e Harold continuano a prendere bonariamente in giro Marino. Riportano la barella nel furgone e
prendono lenzuoli, tavola spinale e altre attrezzature. Io intanto recupero dal sedile posteriore del SUV la
mia valigetta. Quincy piagnucola.
«Torniamo presto, cucciolo. Fai il bravo e schiaccia un pisolino.» Mi ritrovo a parlare di nuovo con il
cane. Quincy uggiola, mentre Sock non mi risponde mai. «Siamo qui vicino: tranquillo.»
Alzo gli occhi verso le finestre illuminate delle residenze universitarie intorno a noi e conto almeno
venti persone affacciate a guardare cosa succede. Sono quasi tutti giovani e in pigiama. Forse stavano
studiando e hanno passato tutta la notte sui libri. Non vedo nessuno che ciondoli per strada. Dall’altra
parte dei campi sportivi ci sono solo gli agenti che pattugliano il marciapiede lungo la recinzione.
Immagino di essere uno studente che guarda dalla finestra della sua camera proprio nel momento in cui
l’assassino passa con un cadavere sulle spalle, sotto la pioggia, avanzando nel fango sotto gli occhi di
tutti. Sarebbe stato troppo buio per capire che cosa succedeva, a parte che era qualcosa di insolito. Ma
gli studenti dell’MIT non prestano attenzione a quel che li circonda: su questo Marino ha ragione. Non
guardano nemmeno quando attraversano la strada nel traffico e hanno scarsissima consapevolezza di
quello che hanno intorno, soprattutto in questo periodo dell’anno.
Fra pochi giorni, stanchissimi ed esauriti, partiranno per le vacanze di Natale e il campus rimarrà
deserto. Non riesco a fare a meno di pensare alla tempistica: la sessione d’esame, meno di una settimana
prima di Natale. Anche la vicinanza mi turba: proprio di fronte alla stazione di polizia dell’ MIT, a poco
più di un chilometro dal CFC.
10
Prendo dalla borsa la mia torcia tattica e dirigo il fascio di luce brillante verso la recinzione.
A quanto vedo, gli altri cancelli sono tutti chiusi con un lucchetto e non so perché questo non lo sia, a
meno che non abbia ragione Marino a ipotizzare che l’assassino avesse la chiave o abbia tagliato il
lucchetto con un tronchese. Illumino i montanti di acciaio zincato e vedo numerosi segni e graffi nel punto
in cui ci sarebbe il chiavistello se il cancello fosse chiuso.
«Penso che ci fosse un lucchetto.» Indico i graffi a Marino. «Ma questo solco qui?» Avvicino il fascio
di luce a un segno profondo che brilla come platino. «Sembra recente. Probabilmente l’ha lasciato lo
strumento che è stato usato per tagliare il lucchetto. Ammesso che sia andata così.»
«Sì, è fresco.» Marino prende la sua torcia. «L’ MIT non sarà molto contento, ma conviene che
preleviamo il palo e lo portiamo ai laboratori per fare un confronto tra i segni e lo strumento che li ha
lasciati, sempre che lo recuperiamo.»
«Sono d’accordo.»
«Lo facciamo come ultima cosa.» Marino non smette un momento di guardarsi in giro, controllando
tutto quello che ha intorno. Si porta la radio vicino alla bocca. «Delta Tredici.» Chiama Machado e
chiede che gli mandi qualcuno che metta in sicurezza il parcheggio e il cancello. «Bisogna che uno stia
qui a controllare che non entri nessuno, che nessuno contamini i reperti» dice a voce alta. «E facciamo in
modo di non essere in duecento. Perché siete così tanti, lì?»
«Siamo solo due.» La radio nasconde la parte bassa della faccia di Machado.
«Solo due? Non mi pare proprio. Guarda che so contare. Bisogna che prendiamo nota di tutti quelli
che entrano o tentano di entrare. Lo stiamo facendo?»
«Affermativo.»
«Quanti reporter, finora?»
«Una troupe televisiva un’oretta fa, Channel 5. Continuano a girare qui intorno in attesa che arrivi la
dottoressa.» Machado ci guarda dal campo fangoso, con la cerata gialla ancorata per mezzo di allegre
bandierine arancioni. «Venti minuti fa, poi, sono arrivati quelli di Channel 7. Appena cominciano a
trasmettere i filmati in diretta, ne arriveranno altri.»
«È già su internet» ricordo a Marino.
«Troppo tardi. Colpa dell’intervista che hai rilasciato a Fox» dice Marino alla radio, a beneficio di
tutti quelli che ascoltano. «Di’, vuoi partecipare a qualche reality?»
Ripete che dobbiamo prendere nota di tutti quelli che entrano ed escono e stare attenti alla presenza di
“soggetti non essenziali,” ovvero guardoni e curiosi, tra i quali potrebbe nascondersi l’assassino. Lo
rivedo com’era ai vecchi tempi, quando fumava una sigaretta dopo l’altra, era acido, maschilista e
brontolone, ma sapeva fare il suo lavoro. È sempre stato un ottimo investigatore. Me l’ero quasi
dimenticato.
Si accuccia vicino al varco nella recinzione e punta la torcia oltre il nastro giallo fluorescente teso a
bloccare il passaggio. Il fascio di luce intenso illumina l’erba marrone e fradicia, che presenta alcuni
solchi piatti dove sembra sia stato trascinato qualcosa, sempre meno visibili a mano a mano che si
avvicinano al campo di terra rossa, in prossimità del quale sono appena accennati, intermittenti, più
immaginati che reali, come se li avesse lasciati una lumaca fantasma.
«L’ha trascinata» decreta Marino rialzandosi.
«Sono d’accordo» dice Harold.
«È passato da questo varco qua» aggiunge Marino. «Deve aver forzato la chiusura, a meno che il
cancello non fosse già aperto, senza catena e senza lucchetto.»
«Improbabile» decide Harold. «La polizia del campus controlla tutto manco fosse la Città del
Vaticano.»
«Figurati se non lo notano, un cancello forzato o senza lucchetto» interviene Rusty.
«Ho sentito un’eco?» chiede Marino come se Rusty e Harold fossero invisibili. «Oh, no, scusate. È il
loggione. Stavo dicendo...» riprende, rivolto a me. «Non è stato un gesto impulsivo: l’assassino aveva
programmato dove e come lasciare il cadavere.» Guarda la cerata gialla in un mare di rosso a una
cinquantina di metri da noi. Il vento la scuote e sembra che quel che c’è sotto stia cercando di liberarsi e
di uscire.
«Sapeva che per entrare in questo parcheggio non bisogna per forza avere la tessera» continua. «Che
si può salire sul marciapiede con la macchina e accedere dall’uscita pedonale, che è larga abbastanza.
Che il cancello per arrivare ai campi sportivi era chiuso e che occorreva forzarlo.»
«A meno che non avesse tessera, chiavi e permesso di entrare. Tipo se studia o lavora all’ MIT» dice
Rusty.
Marino lo ignora.
Guarda le finestre illuminate delle residenze degli studenti, la faccia bagnata da un velo di pioggia
talmente sottile che pare sudore, l’espressione dura e rabbiosa come se la morte di quella donna lo
colpisse personalmente e fosse pronto a prendere a pugni il responsabile. Fulmina con una lunga occhiata
il furgone di Channel 5 che sta entrando nel parcheggio. Ha un’antenna satellitare sul tetto e una a
microonde dietro. Le portiere anteriori si aprono.
«Dovete restare oltre la recinzione» urla Marino alla giornalista che scende dal furgone, una bella
donna che riconosco. «Non si può superare il nastro giallo. State indietro, ho detto!»
«Se aspetto qui e mi comporto come si deve, me la rilascia una breve dichiarazione?» La giornalista
si chiama Barbara Fairbanks. Ho già avuto a che fare con lei, e non mi ha lasciato bei ricordi.
«Non ho niente da dichiarare» risponde Marino.
«Veramente stavo parlando con la dottoressa Scarpetta» dice Barbara Fairbanks. Viene verso di me
sorridendo, con il microfono in mano e un cameraman al seguito. «Che cosa avete scoperto finora? Potete
confermare che si tratta della donna scomparsa?»
Il faretto della telecamera si accende e segue Barbara Fairbanks come una luna piena. So che non devo
dire assolutamente nulla. Se rispondo che sono appena arrivata, non so ancora niente, non ho ancora
esaminato il corpo, le mie parole verranno citate a sproposito e fuori contesto su internet, e poi condivise
da chissà quante persone.
«Può dirmi qualcosa a proposito di Newtown, dottoressa? Pensa che studiare il cervello del killer
potrebbe essere utile?»
«Andiamo» dico a Rusty e Harold.
«Non passate su quei segni nell’erba, mi raccomando» ci avverte Marino. «Tenetevi da una parte.
Devo fotografarli, se non ci ha ancora pensato nessuno. Preleverò anche qualche campione di terra, non
sia mai che ci troviamo qualche fibra del lenzuolo in cui è avvolta. Dobbiamo cercare di ricostruire come
sono andate le cose.»
Camminiamo sull’erba fradicia, con il fango che si appiccica alle suole, per raggiungere Machado e i due
agenti che sono con lui. Uno appartiene al dipartimento di Cambridge, l’altro al corpo di polizia dell’MIT.
Essendo di guardia al cadavere da un’ora e passa, sono zuppi d’acqua e infreddoliti e hanno gli stivali
sporchi di terra rossa. Machado ha la faccia stanca e tirata e un po’ di barba sul mento. Mi accorgo che è
preoccupato. Ne ha ben donde.
Cambridge è la città della Harvard, dell’MIT e di molte società di tecnologia da diversi miliardi di
dollari, ed è frequentata da personaggi famosi della politica e dello spettacolo provenienti da tutto il
mondo. Il procuratore distrettuale e il sindaco vorranno che il dipartimento risolva il caso al più presto e
in modo semplice e indolore e staranno con il fiato sul collo del nucleo investigativo finché non avrà
trovato il colpevole.
«Non vedo nessuno di guardia al cancello» dice Marino. «C’è una troupe pronta a saltarci addosso
peggio che gli avvoltoi. Quella stronza di Barbara Fairbanks, per la precisione. Non avevo chiesto
rinforzi? Dove sono?»
«Sta arrivando un’autopattuglia.» Machado si volta verso il parcheggio, dove il furgone di Channel 5 è
fermo con il motore e i fari accesi.
Reggo lo sguardo di Barbara Fairbanks, che è alta, magra, con occhi scuri imperscrutabili e corti
capelli corvini. È di una bellezza un po’ dura, come una pietra preziosa o una statua intagliata in un
blocco di spinello nero o di tormalina. Si volta dall’altra parte e risale sul furgone, ma non è il tipo da
rinunciare così facilmente a uno scoop.
«Potrebbe averla posata su qualcosa e averla trascinata fin qui» dice Marino a Machado. «L’erba
davanti al cancello è appiattita e in certi punti si sono smosse delle piccole zolle.»
«Tante piccole zolle smosse» conferma Machado. «E tante piccole buche.» Non sembra offeso che
Marino si comporti come se comandasse lui. «Resta da capire a quando risalgono. Ed è difficile
accertarlo, viste le condizioni meteo.»
Harold e Rusty posano le valigette nel fango e ci sistemano sopra la tavola spinale e alcuni teli, in
attesa di mie istruzioni. Marino si fruga in tasca, tira fuori un paio di guanti e chiede che gli passino la
macchina fotografica. Io penso a come procedere, a come gestire quello che immagino succederà tra
poco, e intanto guardo il furgone della TV che esce dal parcheggio. Non ho dubbi sul fatto che Barbara
Fairbanks tornerà all’attacco. Probabilmente farà il giro del campo sportivo per cercare di avvicinarsi
dall’altra parte e riprendere la morta e noi da dietro la recinzione. Non ho intenzione di cominciare il
sopralluogo prima di aver capito esattamente che cosa vuol fare.
«Faccio due foto in giro» annuncia Marino accendendo la torcia. Muove guardingo qualche passo,
puntando il fascio di luce su pozzanghere e fango rosso.
L’agente dell’ MIT mi dice: «Secondo me, non l’ha ammazzata qui. Ce l’ha portata dopo perché la
trovassimo subito. Ne sono abbastanza sicuro».
Poso la mia valigetta, mentre lui continua a espormi la sua teoria. Fisico perfetto e mascella volitiva,
probabilmente è abituato a donne che pendono dalle sue labbra. Ho già lavorato con lui in un’altra
occasione, qualche settimana fa, quando uno studente dell’MIT del primo anno è morto improvvisamente
durante un allenamento di lotta libera.
«Droga» sentenzia. «Io la penso così.»
Non mi ricordo come si chiama, ma non dimenticherò mai la faccia di Bryce quando l’ha visto entrare
nella sala radiografie mentre io iniettavo il mezzo di contrasto nell’arteria femorale del lottatore morto
con un apparecchio per imbalsamazione, una procedura che può sembrare bizzarra a chi non conosce
l’angiografia post mortem. Le immagini tridimensionali della tomografia computerizzata mi hanno svelato
la causa della morte prima che prendessi in mano il bisturi per sezionare il cadavere.
«Ci conosciamo» gli dico accucciandomi accanto alla valigetta. «Si ricorda il caso del lottatore?»
«Eccome se me lo ricordo. Sa che quando l’ho vista che iniettava liquidi a quel poveraccio per un
attimo ho pensato che fosse una scienziata pazza che stava cercando di farlo tornare dal regno dei morti?
Andy Hunter» si presenta di nuovo fissandomi con occhi grigi e penetranti. «Sa che il padre di quel
ragazzo è un premio Nobel? Avrei detto che uno così poteva impedire che il figlio morisse, magari
facendogli fare un check-up...»
«L’aneurisma dell’aorta addominale è chiamato “killer silenzioso” perché spesso è asintomatico e non
dà nessuna avvisaglia.» Faccio scattare le chiusure di plastica della valigetta.
«Mio nonno è morto perché gli è scoppiato un aneurisma.» Hunter mi fissa. Quando è venuto al CFC,
qualche settimana fa, mi ha corteggiato apertamente. «Faceva l’operaio, buonanima. Non aveva
assicurazione, mai andato da un medico in vita sua... Gli è venuto un mal di testa fortissimo e subito dopo
è morto. Avevo pensato di fare lo screening, ma preferisco evitare le radiazioni, se appena posso.»
«Nessuna radiazione se fa la risonanza magnetica con mezzo di contrasto.» Mi sistemo più vicino alla
cerata gialla che protegge la morta. «Se non soffre di reni, può farla senza problemi.»
«Mai sofferto di reni. Finora.»
«Parlane con il tuo medico, va’» interviene Machado. «Visto che lo paghi...»
«L’ultima volta che Gail Shipton è stata vista era allo Psi Bar, fra le cinque e mezzo e le sei di ieri
pomeriggio, giusto? O è cambiato qualcosa?» domando.
«No, è giusto. Abbiamo anche un’identificazione provvisoria» mi risponde Machado. «La foto che
gira su internet in queste ore è molto somigliante. Certo, non è ufficiale, ma io sono abbastanza sicuro che
sia lei. Pare sia uscita dal bar verso le cinque e mezzo, sei, per parlare al telefono. Di questo siamo
certi.»
«E quando è uscita non pioveva, immagino.» Strappo l’ovale perforato di una scatola di guanti usa e
getta. Sono del tipo che preferisco, senza lattice e con i polpastrelli ruvidi. «È stata fuori un po’, almeno
diciassette minuti, visto che tanto è durata la prima telefonata, con un numero sconosciuto.»
«Quando è scomparsa, non pioveva.» Vedo un lampo di curiosità negli occhi infossati di Machado.
Forse si chiede perché insisto sulle condizioni meteo. «Ha cominciato dopo.»
«A che ora esattamente? Lo sappiamo? Quando sono andata a dormire io erano le undici e non
pioveva ancora. Ma minacciava di cominciare da un momento all’altro.»
Noto che la troupe di Barbara Fairbanks adesso è davanti alla Simmons Hall, in Vassar Street.
Proprio come mi aspettavo.
«Quando la scopro, dovete bloccare la visuale con qualcosa» dico a Rusty e Harold. «Non voglio che
la riprendano.»
«Abbiamo un bel po’ di teli.»
«Se si avvicinano, ci faremo trovare pronti.»
«Il temporale è scoppiato verso mezzanotte» mi risponde Machado. «Pioggia, poi grandine, e poi di
nuovo pioggia. Fortissima.»
«Se pensiamo che possa essere stata rapita intorno alle diciotto, vuol dire che l’assassino conosceva
il meteo, sapeva che tempo avrebbe fatto quando intendeva portare qui il cadavere.» Prendo due
termometri e un bisturi retrattile sterile. «Ed evidentemente non gli importava che fosse brutto, che
piovesse forte.»
«Se deve fare una cosa la fa» dice Andy Hunter. «Da queste parti la gente è abituata a non lasciarsi
scoraggiare dal maltempo.»
Osservo Barbara Fairbanks che cammina lungo la recinzione seguita dalla troupe. Vogliono provare a
riprenderci da lì, attraverso la rete, ma io non ho nessuna intenzione di consentirglielo. E neanche
Marino. Torna verso di noi di buon passo, con le scarpe che affondano nel fango. Rusty e Harold
prendono i teli per erigere una barricata.
«Passamene un po’ uno» dice Marino, e Rusty gli lancia un lenzuolo usa e getta ancora nell’involucro,
come se fosse un frisbee.
Marino lo afferra al volo, strappa l’involucro, avanza a passo pesante verso la troupe, spiega il telo e
lo appoggia contro la recinzione, bloccando loro la visuale.
«No!» protesta uno.
«Sono certa che lo sai già» dico a Machado. «Ma Gail Shipton era coinvolta in una causa legale che
sta per essere dibattuta in tribunale. Il processo comincia tra meno di quindici giorni.»
Mi viene la tentazione di controllare nuovamente il telefono, ma mi trattengo. Ho il timore che Lucy
conosca Gail Shipton, che studiava informatica e teneva lo smartphone dentro una custodia di tipo
militare. Il fatto che mia nipote non mi risponda mi insospettisce ulteriormente. Ormai sono quasi sicura
che tra Lucy e Gail Shipton ci fosse un qualche tipo di rapporto. Janet mi ha promesso di avvertirla che la
stavo cercando. Se mia nipote mi ignora, vuol dire che c’è sotto qualcosa. Qualcosa di brutto.
«Non ne sapevo niente» mi risponde Machado.
«Hai mai sentito nominare una finanziaria che si chiama Double S?» gli chiedo, mentre Marino si
sposta lungo la recinzione seguendo quelli della troupe di Channel 5, per continuare a bloccargli la
visuale con il telo.
«Non mi risulta. Così come non mi risultano cause legali in corso» replica Machado. Capisco dalla
faccia che fa che gli ho dato qualcosa su cui riflettere.
Forse adesso la smetterà di pensare che questa ragazza sia morta di overdose accidentale. E forse la
smetterà anche di preoccuparsi della pubblicità negativa e delle PR.
«Harold, tu e Rusty potete rimanere lì» dico.
«Va bene.»
La barricata si erge come una vela che sbatte rumorosamente al vento. La plastica fruscia quando
sollevo la cerata gialla.
11
Vedere la morta mi provoca un moto di turbamento, lo stesso che ho provato guardando le foto che mi ha
mandato per e-mail Marino poco fa. Ha una posa aggraziata, in mezzo a un mare di fango rosso.
Ha gli occhi appena socchiusi, come se stesse per addormentarsi, e le labbra semiaperte che lasciano
intravedere il bianco degli incisivi superiori. Studio la posizione delle braccia, il polso flesso e la mano
posata sul ventre, lievemente a coppa. Ripiego la cerata e la porgo a Harold, dicendogli di conservarla
tra le prove. Non voglio perdere eventuali particelle microscopiche che possano esserci finite sopra.
«Che roba» commenta Rusty. «Voleva farla sembrare una vergine?»
«Cosa ne sai tu di com’è una vergine?» Harold non riesce a trattenersi.
«Per favore» intervengo. Non sono dell’umore adatto per le loro battute goliardiche e non voglio il
loro parere, almeno per ora. Continuo a osservare il cadavere, prima da un’angolazione e poi da un’altra,
sempre più preoccupata. Guardo la pelle troppo pulita, le mani prive di graffi, il volto troppo tranquillo e
senza un segno.
La posizione non ha nulla di lascivo o di sessuale. Le gambe sono unite, seno e genitali sono coperti
dal telo in cui è accuratamente avvolta, dalle clavicole fino quasi alle caviglie. La gola è lattea, liscia,
senza lividi né segni di strangolamento. C’è soltanto un pallido rossore nella parte posteriore del collo,
dovuto alla stasi del sangue dopo che il cuore ha cessato di battere. Non vedo ferite alle caviglie o ai
polsi. A un primo esame, sembra che non abbia opposto resistenza all’assassino. Nulla indica che si sia
ribellata in qualche modo alla morte. Lo trovo anormale, profondamente strano.
Mi chino a guardarla più da vicino e sento l’odore della terra e della pioggia. Per il momento non
vedo tracce di decomposizione, ma so che compariranno di colpo quando la porteremo al CFC, dove la
temperatura è considerevolmente più alta. Sento l’odore del suo profumo fruttato, floreale, con un tocco
di sandalo e vaniglia. È più forte in corrispondenza del viso e dei lunghi capelli castani. Il telo color
avorio sembra di tessuto sintetico, con l’orlo, ed è pulitissimo. Ne tocco un lembo. È stato drappeggiato
intorno al corpo della morta in maniera attenta e deliberata, sul petto e sotto le ascelle, come se fosse un
telo da bagno.
«Non è un lenzuolo» decido. «È di tessuto sintetico lievemente elasticizzato, ripiegato doppio in
maniera da essere abbastanza lungo ma non troppo largo.»
«Un tendone?» domanda Machado, perplesso.
«Non mi pare. Non ha guarnizioni né passanti per il bastone, e non vedo asole o segni di anelli che
possano essere stati scuciti o rimossi.» Controllo il telo senza spostarlo. «È liscio da una parte e ruvido
dall’altra. Mi ricorda la lavorazione dei collant, tipo tricot.»
«Sarebbe?» chiede Machado.
«Il tricot è un tipo di maglia usata per esempio per guanti, leggings e felpe leggere.»
Studio la posizione della morta e il modo in cui le è stato sistemato addosso il telo, che la copre
pudicamente dal petto fino a sotto il ginocchio.
«Mi fa venire in mente l’antica Roma, oppure Gerusalemme. O le terme» dico. Penso ai casi che
Benton sta seguendo a Washington.
«Be’, le mettono in posa apposta, questi psicopatici» sentenzia Marino, che nel frattempo mi ha
raggiunto e si è accucciato vicino a me, rischiando di scivolare nel fango. «Per farci venire in mente delle
cose.»
«Nella mia esperienza, non lo fanno per noi, ma per se stessi.» Vorrei potergli parlare dei casi di
Washington e del modo in cui erano posizionate le vittime, ma non oso. «Sono fantasie loro, emozioni che
provano in quel momento.»
«A me il telo fa venire in mente un sudario» dice Harold, che di queste cose se ne intende. «Sono
sempre più richiesti per le sepolture cosiddette “verdi”. Certi sono fatti a mano. Fino all’anno scorso
lavoravo in un’impresa di pompe funebri e lo so: vanno molto i funerali ecologici, tutto naturale e
biodegradabile.»
«Questa stoffa non è né naturale né biodegradabile» ribatto. Sono seduta sui talloni e guardo la morta,
facendo caso ai dettagli, senza ancora toccarla.
Fibre chiare, forse provenienti dal telo, aderiscono alla pelle esangue e bagnata. Noto che sotto le
unghie corte, senza smalto, intatte, ci sono fibre azzurre e mi chiedo da dove provengano. Forse da
qualcosa in cui è stata avvolta prima di morire: non sarebbero penetrate così in profondità se non fosse
più stata in grado di muoversi. Prendo una lente di ingrandimento e la lampada a raggi ultravioletti dalla
valigetta.
«Ci sono imprese di pompe funebri da queste parti che vendono teli come questo?» Machado sta
scattando altre foto.
«Accessori biodegradabili tipo urne, sicuro.» Harold allunga il collo per controllare dove si è
piazzata la troupe. Lui e Rusty continuano a tenere sollevato il telo usa e getta per bloccare loro la
visuale. «Non so se vendano anche sudari fatti a mano, da queste parti. I pochi che ho visto io venivano
dalla West Coast. Oregon, o posti del genere. Si possono comprare su internet.»
«Questo è sintetico e non biodegradabile» ripeto. «Non so cosa sia.»
Accendo la lampada a ultravioletti e la lente d’ingrandimento brilla di viola, emanando luce nera non
visibile all’occhio umano. Un esame preliminare del corpo mi dirà se ci sono tracce materiali, compresi
fluidi biologici come liquido seminale. Voglio assicurarmi di raccogliere tutto quello che potrebbe
venire spostato o addirittura perduto durante il trasporto del corpo al CFC. Dirigo la luce sul cadavere,
provocando un’esplosione di colori elettrici e fluorescenti: rosso sangue, verde smeraldo, blu violaceo.
«E cos’è ’sta roba?» Andy Hunter si china a guardare. «Brillantini? Glitter?»
«È più fine. E dubito che glitter e brillantini avrebbero questo tipo di fluorescenza agli ultravioletti.»
Sposto il fascio di luce e, ovunque lo punti, ottengo gli stessi tre colori brillanti. «È una specie di polvere
fluorescente finissima che sta su tutto il telo e su tutto il corpo, soprattutto in corrispondenza di naso e
labbra. È anche sui denti e all’interno delle narici.» Sposto la luce mentre parlo.
«Hai mai visto niente del genere?» Machado si avvicina, affondando con gli scarponi nel fango.
«No, non direi. Qualsiasi cosa sia, resiste alla pioggia. A meno che non ce ne fosse molta di più,
prima.» Passo il fascio di luce sul fango intorno alla morta.
Si accende qualche scintilla qua e là, sempre negli stessi tre colori. Allungo la mano per prendere una
confezione di tamponi.
«Ne raccolgo qualche campione da analizzare» dichiaro. E procedo. «Poi le misuro la temperatura e
la portiamo al CFC.»
Sigillo i tamponi dentro appositi contenitori e scrivo sull’etichetta con un pennarello. Tocco il braccio
sinistro della morta, che è teso e con il polso piegato. È fredda e rigida, in pieno rigor mortis.
Allento il telo sul petto e lo apro. Ha solo un paio di mutandine addosso, troppo grandi per lei. Sono
color pesca, di taglio alto, rifinite in pizzo nella parte superiore. Controllo l’etichetta: sono di marca,
Hanro, una M, che corrisponde a una 44-46. Noto una macchia color paglierino in corrispondenza
dell’inguine e penso, spaventata, a quello che mi ha detto Benton.
Le tre donne uccise dal serial killer a cui sta dando la caccia indossavano biancheria che apparteneva
alla vittima precedente o, in un caso, a una donna non identificata. Ed erano tutte macchiate di urina.
Secondo Benton, le vittime perdono il controllo della vescica quando l’assassino le soffoca. Avevano
addosso anche fibre azzurre e bianche che potrebbero provenire da rivestimenti per arredi o da qualche
indumento sportivo che l’assassino indossava.
Pratico una piccola incisione nella parte superiore destra dell’addome, da cui esce sangue di un rosso
spento, innaturale. È sangue che non è più ossigenato, sangue morto. Freddo e scuro come acqua
stagnante.
Inserisco un lungo termometro nel fegato e ne metto un altro sopra la mia valigetta, per misurare la
temperatura ambiente.
«È morta da un po’» dichiaro. «Sei ore come minimo, ma forse anche di più. Dipende.»
«È morta ieri pomeriggio, quando è scomparsa?» Machado mi guarda fisso, con un’espressione
spaventata negli occhi.
Non ha mai avuto un caso come questo, ne sono sicura. Neanch’io, a dire la verità. Ho visto immagini
di cui non posso parlare né a lui né a Marino. Dovrà pensarci Benton.
«Se è stata rapita intorno alle sei, sarebbero quasi dodici ore» calcolo.
Le palpo il cuoio capelluto alla ricerca di fratture o altre lesioni: non ne trovo.
«Dubito che sia morta da così tanto. È rimasta viva per un po’» spiego.
«L’ha tenuta in ostaggio, dici?» chiede Machado.
«Non lo so.» Controllo ancora se il corpo presenta lesioni, sollevandole le braccia e le mani, che
sono rigide, ed esaminando accuratamente i palmi e il dorso. «Finora non ho visto niente che faccia
pensare che sia stata legata o che abbia opposto resistenza.» Sento la carne fredda sotto i miei guanti usa
e getta, come se fosse stata in frigorifero. Ma è meno fredda dell’aria. «Non vedo lesioni da difesa, segni
di lotta.»
Mi sposto verso i piedi nudi, punto su di essi la luce a raggi ultravioletti e vedo brillare la stessa
polverina scintillante rosso sangue, verde smeraldo e blu violacea. La combinazione di colori mi fa
pensare che provengano dalla stessa fonte, un materiale fine composto da tre sostanze che diventano
fluorescenti alla lunghezza d’onda dei raggi ultravioletti. Ne raccolgo altri campioni con degli stub – dei
tamponi adesivi – che emettono scintille elettriche quando li ripongo dentro le bustine per le prove.
«Potrebbe essere un cosmetico particolare che si è messa?» suggerisce Andy Hunter. «Le ragazze
usano un sacco di roba luccicante per truccarsi, oggigiorno.»
«Su tutto il corpo? E anche sul telo?» Sono dubbiosa. Mi infilo un paio di guanti puliti perché non
voglio trasferire il residuo su altre parti del corpo. «Io penso che sia stata in un posto in cui c’era
abbondanza di questo residuo, che è rimasto sia sul corpo sia sul telo in cui è stata avvolta.»
Sollevo le gambe già rigide e noto che il telo è abbastanza pulito anche sotto.
«Polvere o terra che brilla agli ultravioletti» riflette Machado.
«Secondo me non è terra. Un residuo che diventa fluorescente in maniera uniforme mi fa pensare a
qualcosa di sintetico, commercializzato per chissà quale uso» replico. «Proviamo a vedere cosa
scopriamo con il microscopio elettronico a scansione. Spero che oggi Ernie sia al lavoro.»
Le piante dei piedi sono pulite, con qualche schizzo di fango soltanto, probabilmente causato dalla
pioggia forte di poco fa. Il residuo luccicante è dappertutto, dalla testa ai piedi. Sembra quasi che le sia
stata spruzzata addosso con un aerografo una sostanza che si illumina alla gamma di radiazioni
ultraviolette, invisibili all’occhio umano. Usando una lente d’ingrandimento e una pinza, comincio a
prelevare le fibre azzurrine che ha sotto le unghie e le metto in una bustina di plastica.
«Non è stata trascinata fin qui. A meno che non sia stata messa su un supporto di qualche genere.» La
volto su un fianco.
«Forse l’hanno portata in braccio» ipotizza Andy Hunter. «Più di una persona. Oppure una sola, molto
robusta.»
La schiena è di un rosso scuro piuttosto uniforme, a parte in corrispondenza delle scapole, che
dovevano essere posate su una superficie rigida quando il sangue, non più pompato dal cuore, ha smesso
di circolare e si è accumulato in basso per effetto della gravità. Le macchie ipostatiche sono ben visibili.
Dev’essere rimasta supina per ore, dopo la morte, forse distesa per terra in un luogo abbastanza caldo,
mentre si irrigidiva nella posizione in cui è adesso. Non è morta così, però. L’assassino l’ha messa in
posa dopo averla uccisa e prima che si manifestasse il rigor mortis, con le gambe tese e unite, un braccio
disteso e uno piegato.
Vedo scattare ripetutamente un flash: è Machado che fotografa il cadavere, mentre Marino lo assiste
con un righello di plastica da quindici centimetri che serve da riferimento. Dall’altra parte della
recinzione lungo Vassar Street si sta raccogliendo una folla di curiosi che tentano di fotografare la scena
con il cellulare. Diversi agenti cercano di tenerli a distanza.
«Va’ a dargli manforte» dice Marino a Hunter. Capisco perché lo fa.
Vuole mandarlo via perché è un bell’uomo e mi ronza attorno.
«Cerchiamo di prendere nota di chi guarda e fa le foto» aggiunge Marino. Sembra un ordine.
Hunter si controlla per non rispondergli male. Sorride. «Vado. Ma non lavoro per il tuo dipartimento,
collega. Forse ti è sfuggito, visto che sei appena entrato. Ti piace il nuovo lavoro, eh?»
Si incammina nel fango, diretto verso la linea di minor resistenza nel parcheggio. Tolgo i termometri e
li controllo.
«La temperatura corporea è quattordici gradi, quella ambiente dieci. È morta da otto ore se non di
più» calcolo. «Per la maggior parte del tempo è stata in un luogo più caldo di questo, perché altrimenti
rigor e livor non sarebbero così avanzati. Freddo e pioggia avrebbero rallentato notevolmente il
processo. Qui all’aperto la temperatura è molto vicina a quella di una cella frigorifera.»
«Questo significa che è morta qualche ora dopo essere scomparsa dallo Psi Bar» dice Machado. «È
andata da qualche parte con qualcuno. Forse conosceva l’assassino.»
«Non so dire se ci sia andata di propria spontanea volontà o se l’abbiano costretta» puntualizzo. «Non
ancora.»
«Ma se non ha lesioni da difesa...» Machado ripete quello che gli ho detto prima. «Significa che non
ha opposto resistenza, no?»
«Io non ne ho visto, ma non l’ho esaminata bene, in condizioni di luce adeguate» rispondo. «Potrebbe
avere lesioni interne. Vediamo cosa scopriamo quando le facciamo la TAC.»
Mi cambio di nuovo i guanti e metto quelli usati nella tasca della giacca.
12
Le mie dita rivestite dai guanti viola aprono delicatamente le palpebre della morta, scoprendo petecchie
sulla congiuntiva. Il bianco degli occhi è quasi completamente rosso.
«Non è una morte accidentale.» Punto la lampada a raggi ultravioletti negli occhi e vedo brillare anche
lì lo stesso residuo che ha su tutto il corpo.
Rosso sangue, verde smeraldo, blu violaceo.
«Questa cosa è dappertutto» osservo. «Probabilmente è morta soffocata, anche se le emorragie
petecchiali non sono un segno incontrovertibile. Non vedo contusioni, segni di lacci sul collo tipici dello
strangolamento. Ma è successo qualcosa che le ha provocato la rottura dei capillari.»
«Cosa, per esempio?» Marino si accuccia vicino alla testa della morta per capire di cosa sto
parlando.
«Un aumento della pressione endotoracica che ha provocato l’effetto Valsalva.» Mi tolgo i guanti. Ho
le tasche piene di guanti usati, ormai. «In altre parole, le è salita la pressione al punto che le si sono rotti
i capillari.»
«E quale potrebbe essere stata la causa di questo aumento di pressione?» chiede Machado.
«Panico, chiusura dell’epiglottide, tentativo disperato di liberarsi... Qualcosa che le ha provocato un
problema cardiocircolatorio. Non posso affermare con certezza che sia una morte violenta, ma per il
momento dobbiamo trattarla come tale, penso. Carichiamola sul furgone. Ci vediamo al CFC.» Sto
parlando con Rusty e Harold. Mi alzo in piedi. «Lasciatele il telo senza spostarlo e cercate di mantenere
il corpo così com’è. Copritelo bene con dei lenzuoli.»
«Come fa Anne a metterla nel tomografo con il braccio in quella posizione?»
«Non so mica se ci entra.»
«Io penso di sì» dico. «Comunque voi non dovete muoverla. Okay?»
Spiego che voglio che il braccio teso con il polso piegato venga avvolto in un lenzuolo chiuso con il
nastro adesivo, e il resto del corpo in un altro lenzuolo. Testa esclusa, perché quella voglio proteggerla
con un sacchetto di carta. Idem mani e piedi. E nel tomografo dev’essere infilata con tutta la protezione.
«Posate la tavola spinale su un telo pulito, in maniera che non si infanghi. Mi raccomando, fate
esattamente come ho detto.» È molto importante: la posizione del cadavere è una prova che va preservata
e documentata.
È una prova che ricorre in altri tre casi di cui non posso fare parola con Marino e Machado e che mi
mette un’ansia sempre più forte. Non vorrei mai che Benton finisse nei guai per aver fatto ciò che riteneva
più giusto. Voleva un mio parere per un motivo ben preciso, che adesso mi riempie di paura. Il Bureau ha
imposto il segreto istruttorio sul serial killer di Washington, che potrebbe aver cambiato città, e chi
indaga sulle nuove vittime rischia di non riconoscere la sua mano. Il Capital Killer potrebbe essere qui a
Cambridge, la città di una delle sue vittime, Klara Hembree, ma Benton non lo sa e io devo trovare il
modo per dirglielo.
«Portatela direttamente nella sala radiografica.» Continuo a spiegare cosa voglio che venga fatto.
«Avverto Anne che si faccia trovare pronta. Abbiamo fotografato tutto, dico bene?»
Machado me lo assicura guardando in direzione di Andy Hunter, che ha raggiunto i colleghi sul
marciapiede, dove la folla di curiosi è sempre più numerosa. Barbara Fairbanks è davanti alla Simmons
Hall e intervista tutti quelli che accettano di parlarle. Percepisco un suono in lontananza, ma non sono
sicura che sia ciò che credo.
Una macchia blu di Prussia all’orizzonte indica che sta albeggiando. Chiedo a Machado di mandarmi
le foto appena possibile, mentre il suono diventa riconoscibile. Ci voltiamo di scatto verso il fiume,
alzando gli occhi contemporaneamente. Il rumore si fa più forte: è un elicottero che vola basso sopra il
fiume Charles a sudest, avvicinandosi rapidamente.
«Spero che non sia un’altra TV, cazzo» dice Marino.
«Non credo.» Osservo il cielo scuro. «È troppo grosso.»
«È militare. O forse della guardia costiera» ipotizza Machado.
«Non mi pare.» Riconosco il rombo acuto dei motori turbo dell’Eurocopter e il frastuono ritmato delle
pale che ruotano quasi alla velocità del suono.
«Copriamola di nuovo» esclama Harold. «Non possiamo tener su il lenzuolo con questo spostamento
d’aria.»
«Andate bene così» dico, perché non voglio che si spostino. Preferisco che continuino a bloccare la
visuale alla troupe e ai curiosi. Alzo la voce fin quasi a gridare. «Restate dove siete. Non succede
niente.»
L’elicottero appare in una tempesta assordante di luci stroboscopiche sulle residenze degli studenti,
tagliando attraverso il campo sportivo. Viene direttamente sopra di noi, a circa mille piedi di quota,
abbastanza alto da risparmiarci la turbolenza. Lucy sa come avvicinarsi a una scena del crimine e vola a
punto fisso a distanza di sicurezza, inondando di luce il campo di terra rossa con il suo faro Nightsun da
cinquanta milioni di candele, poi si sposta.
Ci ripariamo gli occhi e ci voltiamo contemporaneamente, tutti dalla stessa parte, seguendo l’EC135
dall’aria sinistra che sorvola in cerchio il campo, scendendo lentamente. Dopo la ricognizione alta, Lucy
sta facendo un secondo giro a quota più bassa per controllare che non ci siano ostacoli quali antenne,
pali, cavi dell’alta tensione e altri pericoli. Intravedo il suo casco dalla forma particolare al posto di
guida di destra, la visiera ambrata abbassata sul volto. Non riesco a distinguere chi c’è di fianco a lei,
con le cuffie sulle orecchie, ma lo intuisco. Non capisco perché sia qui, tuttavia sono felicissima di
rivederlo.
«Restate dove siete» grido a Rusty e Harold, per farmi sentire sopra il frastuono. «Non vi muovete!»
Mi avvio a passo svelto nel fango e nell’erba bagnata verso il parcheggio, mentre l’elicottero, grande
e con il muso corto, scende in hovering, sospeso nell’aria, facendo piegare gli alberi intorno all’asfalto
nella luce abbagliante. Si posa delicatamente. Lucy mette i motori nella posizione di minimo a terra. Non
ha intenzione di fermarsi a lungo.
Lo sportello anteriore sinistro si apre e Benton posa sul pattino prima un piede e poi l’altro.
I lembi del cappotto sbatacchiano nel vento quando apre il portello posteriore per prendere i bagagli.
Mia nipote, con il casco in testa, si volta verso di me dal sedile di destra e mi fa un cenno di saluto. Alzo
una mano. Non so perché abbia fatto quello che ha appena fatto, ma sono contenta. È quasi un miracolo:
avrei pregato che succedesse, se fossi abituata a pregare.
Benton mi viene incontro a passo svelto e io gli prendo una delle borse. Mi cinge la vita con un
braccio e mi stringe a sé, dandomi un bacio sulla testa.
L’elicottero si alza in verticale e vira verso il fiume. Lo guardiamo prendere velocità sopra edifici e
alberi e dirigersi verso Boston. Luci e rumore se ne vanno, veloci come sono arrivati.
«Sono felice che tu sia qui. Ma non capisco» dico a mio marito appena il rumore si attenua.
«Volevo farti una sorpresa per il mio compleanno.»
«Non so perché, ma non credo sia l’unica ragione.»
«Infatti. Non pensavo di arrivare così presto.»
«Mi avevi parlato di sabato.»
«No, intendo dire così presto oggi.» Mi bacia e guarda il punto del campo sportivo illuminato dai
riflettori, dove Rusty e Harold continuano a tenere sollevato il telo plastificato che si gonfia nel vento
come una vela. «Un regalo per me, una sorpresa per te. E poi non ne potevo più di stare a Washington.»
«Lucy ha ricevuto il mio SMS.» Comincio a capire. Forse.
«Sì.» Benton osserva l’erba bagnata e il fango rosso, poi rivolge l’attenzione al cadavere avvolto nel
telo bianco. «Ma è da mezzanotte che sa della scomparsa di Gail Shipton. I suoi motori di ricerca hanno
trovato la notizia sul sito di Channel 5.»
Mi spiega che Lucy è andata a Washington in elicottero ieri, che è atterrata al Dulles nel tardo
pomeriggio. L’idea era di cenare con lui e poi accompagnarlo qui oggi, perché mi facesse una sorpresa a
casa, dove pensava di trovarmi ancora a letto a riprendermi dall’influenza. Quando però ha saputo che
Gail Shipton era scomparsa, ha deciso che era meglio partire immediatamente.
«Ha detto subito che doveva esserle successo qualcosa, che con ogni probabilità era morta» mi spiega
Benton. «Quel telo bianco in cui è avvolta è tuo?»
«No. È stata trovata così.»
Guarda in silenzio la morta da lontano e capisco che sta vagliando dati e memorizzando particolari
nella sua testa. Sta già facendo due più due.
«La prima vittima, Klara Hembree, era di Cambridge.» Gli dico cosa mi preoccupa. «Il telo è
inconsueto e il modo in cui è avvolto intorno al corpo mi ricorda molto Klara Hembree e le altre due
vittime più recenti. Sotto le ascelle, come un telo da bagno.»
Gli spiego che a un primo esame del cadavere non sembra che abbia opposto resistenza o abbia
cercato di difendersi. Poi gli descrivo la posa in cui è stata messa e il residuo fluorescente sul corpo e
sul telo, che sospetto sia di tessuto sintetico lievemente elasticizzato, tipo Lycra. Addosso alle vittime del
suo serial killer sono state recuperate fibre di Lycra. Infine, gli comunico che la morta ha addosso un paio
di slip macchiati di urina troppo grossi per lei.
Benton mi ascolta attentamente, ordinando le informazioni nella sua testa, vagliandole con cura, e mi
accorgo che le cose che gli dico lo colpiscono, ma vuole essere cauto e non tirare conclusioni affrettate.
«Che tipo di slip?» mi domanda.
«Vuoi sapere la marca?»
«Sì.»
«Costosa» rispondo.
Cotone di alta qualità, color pesca, di una famosa marca svizzera, gli spiego. Lì per lì Benton non dice
nulla. Ma glielo leggo negli occhi: è un particolare importante, che gli suggerisce qualcosa.
«La terza vittima» mormora dopo un momento. «Julianne Goulet. Portava biancheria costosa, svizzera,
marca Hanro.»
«È la stessa. E mi pare di ricordare che fosse alta poco meno di un metro e settanta e pesasse
sessantatré chili. Una taglia media, insomma.»
«Gli slip potrebbero essere suoi. L’assassino ha un qualche legame con Cambridge e ho motivo di
pensare che avesse già puntato Klara Hembree quando abitava qui e che l’abbia seguita a Washington
dopo che si è trasferita.» Benton sta riflettendo a voce alta. «L’aveva presa di mira, mentre le due vittime
successive sono state scelte a caso. Adesso ha colpito di nuovo, quindi. Almeno tre omicidi in un mese.
Si trova a suo agio in questa zona, a Cambridge, ma sta perdendo il controllo. Ecco perché uccide con
questa frequenza. Ho bisogno di dare un’occhiata in giro. Non voglio dire niente finché non sono
assolutamente sicuro.»
Non parlerà con Marino, Machado né con nessun altro degli investigatori coinvolti in questa indagine.
Non farà parola del serial killer finché non si sarà tolto ogni dubbio.
«Se è lui, c’è un problema grosso» mi annuncia. «Il Bureau lo negherà. Mi devi dare un po’ di tempo
prima di portarla via.»
Non mi spiegherà nulla adesso. Ha fretta di mettersi al lavoro.
«Immagino che tu non abbia scarpe adatte, in valigia.» Guardo i mocassini che ha ai piedi, di pelle,
leggeri, lucidi, color marrone. «Figurati se ti porti appresso un paio di galosce. Non c’è nemmeno da
chiederlo.»
Benton non possiede galosce: impossibile che ne abbia un paio in valigia. Veste elegante anche per
lavorare in giardino: è fatto così. Alto, magro, benfatto, ha l’aria aristocratica del gentleman anche
quando esamina un cadavere in un campo fangoso.
«L’identificazione è confermata?» Si volta verso di me, l’espressione serissima sul viso bello, dai
lineamenti fini. Il vento gli scompiglia i capelli folti e grigi.
«Non è ancora ufficiale.» Mi incammino verso il SUV di Marino per caricare i bagagli di Benton. «Ma
è abbastanza sicuro che sia lei. Riteniamo che sia la donna scomparsa ieri pomeriggio, Gail Shipton.»
«Lucy dice che le somiglia. Ovvio, era molto distante, ma l’ha zumata.» Benton si abbottona il
cappotto di cachemire con una mano sola. «L’ha ripresa: la posizione del corpo, il modo in cui è coperta
con il telo, che è significativo. Molto significativo. Puoi avere le immagini dall’alto, se vuoi. Capisco
che c’è tanto da spiegare, ma adesso non si può. Dopo.»
«Dimmi almeno perché adesso non si può.»
«Marino ha recuperato il cellulare di Gail Shipton allo Psi Bar. Ce l’ha ancora, pare.»
«Non capisco come tu faccia a sapere che...» comincio a dire mentre ci avviciniamo al SUV e Quincy
si mette a piangere.
«Non ora, Kay» mi interrompe Benton, calmissimo. «Non possiamo parlarne davanti a Marino. Né del
telefono né del fatto che l’ha recuperato. E tanto meno del fatto che Lucy lo sa. L’ha letteralmente visto
mentre lo prendeva, perché stava monitorando il cellulare da remoto. Ha cominciato a monitorarlo
appena ha saputo che Gail era scomparsa. A mezzanotte, Lucy sapeva già che il telefono era fuori dallo
Psi Bar, dove Gail l’aveva usato l’ultima volta.»
«Lavoravano assieme.» Ne sono certissima, ormai. «La custodia di tipo militare... È uguale a quella
che abbiamo io e Lucy.»
«È un problema.»
Benton sta dicendo che Lucy è un problema, o che sta per diventarlo. Se mia nipote ha un interesse
proprietario sullo smartphone di Gail Shipton, vuol dire che fa parte di qualche progetto che lei sta
portando avanti. Lucy interferirà con le indagini, se non ha già cominciato a farlo.
«Sei consapevole della tempistica, immagino. Gail Shipton doveva testimoniare a un processo tra
meno di due settimane.» Non ho dubbi sul fatto che Benton lo sappia già. Sono molto turbata.
“In che guaio si è cacciata Lucy?”
«Dobbiamo parlare di parecchie cose, io e te.» Benton mi accarezza la nuca, ma non mi sento per
nulla rassicurata.
«È coinvolta nel processo?» Almeno questo lo devo sapere. «Ha a che fare con la causa legale da
cento milioni di dollari intentata da Gail Shipton contro la Double S, la finanziaria che ha sede a
Concord, vicinissimo a dove abita lei?»
Siamo fermi dietro il SUV di Marino. Benton posa le borse e Quincy comincia a uggiolare più forte.
«Lucy è una dei testimoni della difesa» mi informa Benton. «Nominata tale dall’estate scorsa.»
«Perché non ci ha mai detto niente?» Mi chiedo se sia di questo che mi vuole parlare Carin Hegel.
«Ormai dovresti saperlo: Lucy fa sempre di testa sua.»
«Lo so. Ma mi turba che conosca quella che potrebbe essere l’ultima vittima del tuo serial killer»
ribatto. «Può darsi che la tempistica sia casuale, ma è comunque inquietante. E non poco. So che Carin
Hegel, l’avvocato di Gail Shipton, era talmente preoccupata per la propria incolumità da decidere di
trasferirsi temporaneamente altrove. Sostiene che quelli della Double S sono gente pericolosa e mi ha
lasciato intendere che siano collusi con personaggi di grosso calibro.»
«Non mi pare sia trapelata notizia della posa o dei teli» dice Benton, mentre Quincy si mette ad
abbaiare.
«Quindi non può essere un emulatore.»
«Non credo sia per paura degli emulatori che Granby si rifiuta di rendere noti certi particolari ma, nel
caso specifico, va bene così.» Benton lo dice nel tono aspro e amareggiato che usa sempre quando parla
del suo capo.
Scrivo un SMS a Harold per dirgli di venire ad aprire il furgone del CFC.
«Non puoi camminare nel fango con quelle scarpe. Spero che abbiamo un paio di stivali di gomma da
prestarti. Buono, buono» dico a Quincy posando la mano sul finestrino posteriore del SUV. «Va tutto
bene.» Cerco di calmarlo.
Benton guarda il cucciolo di Marino che si agita e abbaia nella sua gabbia, infelicissimo.
«Povero cane» commenta.
13
La scena del crimine è uno spiazzo fangoso al centro di un impero accademico che si sta svegliando.
Sono le otto passate da pochi minuti e il cadavere è al CFC. Lo hanno portato via da un po’, quando
cominciava a rischiarare.
Il sole è ancora basso dietro i fabbricati di mattoni, dove il fiume Charles scorre languido verso la
baia di Boston e l’oceano Atlantico. In cielo, chiazze di azzurro si alternano a cumuli che cambiano forma
e si muovono spinti dal vento, che pure è notevolmente calato. Non minaccia più pioggia mentre aspetto
Benton nel parcheggio, vicino al cancello aperto. Non voglio andarmene prima che lui abbia finito di fare
quello che deve. Da solo. Un compito difficile per lui. Anzi, quasi intollerabile.
Cammino avanti e indietro sull’asfalto bagnato, faccio un paio di telefonate e lo osservo mentre si
aggira solitario alla ricerca di indizi. Ripenso a cosa mi ha sempre attratto di lui, ancor prima che mi
rendessi conto di essere attratta da lui. Lo guardo e penso che lo amo. Mi sembra di amarlo da sempre,
ma non è proprio così. All’inizio, appena l’ho conosciuto, quando ero stata nominata da poco direttrice
dell’Istituto di medicina legale della Virginia, mi era molto antipatico: mi sembrava che fosse fin troppo
consapevole di essere intelligente, oltre che bello. Lo trovavo austero e inamidato come gli abiti firmati
che indossava.
In quel periodo mi piacevano uomini un po’ più alla buona, che non avevano bisogno di troppe
attenzioni e non pativano i lavaggi in lavatrice. Li preferivo semplici, non troppo cari, facili da
smacchiare: uomini con cui fare sesso per dimenticare gli orrori del lavoro, con cui distrarmi un poco e
niente più. Non mi interessava un famoso profiler dell’FBI, altolocato, preceduto dalla propria fama come
da un alone di dopobarba, e per giunta sposato.
Ero a Richmond da poco, alle prese con difficoltà che non avrei potuto prevedere quando avevo
accettato un incarico in una comunità gestita da uomini. La prima impressione di Benton Wesley,
insomma, fu molto negativa. Sapevo che era di buona famiglia, che veniva dal New England, che era
considerato molto bravo nel suo lavoro e che il “Time” lo aveva citato perché aveva dichiarato che i
maniaci sessuali violenti e psicopatici sono i Rembrandt degli assassini.
Era un’analogia che mi offendeva nel profondo. Ricordo che, quando me lo disse, pensai che fosse
pedante e narcisista. Con il senno di poi, mi chiedo come mai non diventammo amanti prima. Bisognò che
andassimo fuori città per un caso, centinaia di chilometri a sudest di Richmond, in un motel da quattro
soldi in cui tornerei con lui mille volte, se esistesse ancora, e che ricordo fin nei minimi particolari.
Mentivamo come tossici, come alcolisti, ci appartavamo non appena ne avevamo la possibilità, senza
vergogna e senza pudore. Diventammo abilissimi a non farci beccare. Ci incontravamo nei parcheggi,
usavamo telefoni pubblici, non scrivevamo lettere e non lasciavamo messaggi in segreteria. Ci vedevamo
per discutere casi che non avevano bisogno di essere discussi, andavamo agli stessi convegni, ci
invitavamo l’un l’altra a tenere conferenze, ci registravamo negli alberghi usando nomi falsi. Non
lasciavamo indizi e non facevamo scene. Continuammo così anche dopo il suo divorzio, quando le sue
figlie smisero di rivolgergli la parola: come se non potessimo fare a meno l’uno dell’altra, come se il
nostro amore fosse illecito.
Benton scompare dentro la Simmons Hall, la residenza studentesca di Vassar Street con le finestre
cubiche che ricordano un alveare o una spugna di metallo. Non so cosa stia facendo né perché, ma
immagino che voglia capire che sentimenti gli suscita quella specie di astronave monolitica, se è
coinvolta in quello che io non dubito sia un omicidio, anche se a un occhio meno attento potrebbe passare
per una morte naturale. So che quella donna ha sofferto, che non se n’è andata serenamente. Glielo leggo
negli occhi rossi di sangue e immagino la pressione insopportabile nella sua testa, il fischio terrificante
che deve aver sentito nelle orecchie.
Abbasso lo sguardo sul cellulare mentre mi arriva un SMS di Anne, la tecnica radiologa del CFC, una
donna simpatica e con la testa sul collo, competente in più di una disciplina. Ha sottoposto la morta a una
TAC e ha scoperto una cosa piuttosto curiosa.
«Un piccolo pneumotorace al polmone destro» mi spiega appena la chiamo. «Si vede una raccolta
d’aria nello spazio pleurico del lobo superiore, a indicare un qualche tipo di trauma.»
«Quando l’ho esaminata in situ, non ho notato lesioni al torace» rispondo. «Ma avevo solo una torcia:
non ho potuto vedere granché.»
«Qualcosa ha provocato il collasso del polmone.»
«Che cosa? Hai qualche idea?»
«Non posso procedere all’esame esterno se non la scopro. Lo faccio?»
«No, aspetta che arrivi io.» Guardo Marino e Machado che cercano di rimuovere il paletto del
cancello per portarlo in laboratorio. «I tessuti molli sono danneggiati? Ci sono emorragie interne?»
«Un sanguinamento minimo nella parte superiore destra del torace» mi risponde Anne mentre io
passeggio lentamente intorno al parcheggio, inquieta, con troppi pensieri per la testa. «Appena sopra il
seno, sulla sinistra.»
«Non risultano fratture delle coste, immagino.»
«Non risultano fratture, punto. Non abbiamo i vestiti, vero?»
«Solo una scarpa, ma non è certo che sia sua. Nient’altro, finora.»
«Peccato. Se avessimo i vestiti...»
«Lo so. Altre anomalie?» Capisco che il tempo sta migliorando dal fatto che la copertura gonfiabile
dei campi da tennis è più bianca di prima.
La temperatura supera i dieci gradi: troppo caldo per questa stagione.
«Aree dense all’interno del naso e della bocca, dovute alla presenza di un qualche materiale» mi
risponde Anne.
«E nei seni nasali, nelle vie aeree e nei polmoni? Ha aspirato questo materiale oppure no?»
«Non mi sembra.»
«Be’, questo è significativo. Se fosse stata soffocata con qualcosa che lascia questo residuo
fluorescente, ne avrebbe aspirato una parte.» Mi sembra che i riscontri siano contraddittori, e mi lasciano
perplessa.
«Qualsiasi cosa sia, ha in media trecento unità Hounsfield, che è la densità tipica di un piccolo
calcolo renale, per esempio» mi informa Anne. «Non so proprio cosa possa essere.»
«L’ho trovato in grande concentrazione intorno al naso e alla bocca e negli occhi.» Vedo che Marino
prende un tronchese dalla cassetta degli attrezzi. «Mi lascia perplessa che non ne abbia aspirato neanche
un po’. Mi chiedo se non sia venuta a contatto con questo materiale solo dopo la morte.»
«Possibilissimo. È presente nella cavità orale e nelle narici, ma non in profondità. Quindi può darsi
che ci sia finito quando ormai non respirava più. Ne vedo parecchio anche tra le labbra e i denti.
Sembrano piccoli grumi» dice Anne. «Alla TAC si vedono benissimo.»
«Grumi?»
«Non so come altro descriverli. Hanno forma irregolare e sono più densi del sangue, ma meno delle
ossa.»
«Io non ho visto “grumi”, come li chiami tu. All’esame esterno non risultavano. Il residuo fluorescente
è finissimo, simile a polvere, e dubito si veda senza ingrandimento. Potrebbero essere tracce del
materiale più denso che ha nel naso e nella bocca.»
«Se fosse stata a faccia in giù, per esempio...» riflette Anne.
«Non ci sono contusioni o abrasioni sulla faccia e sul collo. Se uno è prono con la faccia per terra, nel
fango o in una pozza d’acqua poco profonda, labbra, naso e guance presentano lesioni significative. E, se
cerca di respirare, c’è aspirazione, con conseguente presenza di terra o acqua nei seni nasali, nella
trachea e talvolta anche nello stomaco e nei polmoni.»
«A quanto vedo alla TAC, posso affermare con ragionevole certezza che non è morta per il collasso
polmonare.»
«Certo» concordo. «Ma se la respirazione era già compromessa, era più vulnerabile all’asfissia.»
Ho il sospetto, sempre più forte, che il materiale fluorescente che Gail Shipton ha su tutto il corpo sia
stato depositato post mortem. Perché? Dov’era? È stato un trasferimento accidentale o l’assassino voleva
che lo trovassimo? Non si tratta di un materiale indigeno: non viene dal campo sportivo, ma da qualche
altro posto.
«Un polmone collassato, da solo, non l’avrebbe uccisa» continuo. «Non so di cosa sia morta, ma
certamente non per cause naturali. Intendo trattare il caso come un omicidio, fino a prova contraria.
Possibile soffocamento con complicanze che hanno contribuito al decesso. Per favore, lo dici a Bryce?
Voglio tenerlo aggiornato. Ma ricordagli che ai giornalisti per ora non diciamo niente. Prima dobbiamo
avere l’identificazione ufficiale.»
«A proposito, Lucy mi ha riferito che il suo dentista è Barney Moore. Ci abbiamo già lavorato una
volta. Per quel cadavere recuperato in mare l’estate scorsa, mi ha detto. Come se ce ne fosse stato uno
solo.»
«Il dentista di Gail Shipton?» Sono frastornata.
«Sì. Ha promesso di mandarmi la cartella. Dovremmo riceverla a momenti.»
«Probabilmente è il modo più veloce per avere la certezza che sia lei» concordo. Mi chiedo come
facesse Lucy a sapere chi era il dentista di Gail Shipton. «Puoi chiedere a Bryce di chiamare il dottor
Adams, già che ci sei?»
Ned Adams è l’odontoiatra a cui ci rivolgiamo quando abbiamo bisogno di una consulenza o di una
perizia. È un uomo eccentrico e ossessivo, che ama il proprio lavoro. “Non c’è niente di meglio di una
bocca che non ti può rispondere” dice sempre per scherzo.
Mentre parlo con Anne, cerco Benton con lo sguardo. Dev’essere ancora all’interno della Simmons Hall,
da cui stanno uscendo diversi studenti con lo zainetto in spalla. Alcuni salgono sulla bici, altri si
incamminano a piedi.
Sembrano ignari di quel che è successo, o solo moderatamente curiosi. Ora che il cadavere è stato
portato via, ci sono soltanto due agenti in borghese che trafficano con il paletto di un cancello, un
cucciolo di pastore tedesco che abbaia da un SUV e un’anatomopatologa che parla al cellulare nel
parcheggio.
«La lascio nel tomografo in attesa che arrivi tu?» mi chiede Anne.
«No. Portamela sul tavolo autoptico. La devo preparare per un’angio-TAC» rispondo. «Dobbiamo
provare a capire che cosa può averle fatto collassare il polmone e voglio controllare le coronarie, visto
che è evidente che ha avuto un forte rialzo pressorio che le ha provocato numerose piccole emorragie.
Fatemi trovare pronto il mezzo di contrasto, per cortesia. Quattrocentottanta millilitri di liquido per
imbalsamazione.»
«Plasmol 25 arterioso? Da iniettare manualmente o con la macchina?»
«Manualmente. Mi servono degli angiocateteri 5F standard e un trocar per imbalsamazione, più i soliti
trenta millilitri di Optiray 320.»
«Quando arrivi?»
«Entro un’ora, spero.» Guardo Marino che taglia la recinzione facendo tintinnare il metallo. «Se non
finiscono in tempi brevi, io e Benton veniamo via. Torniamo a piedi. Mi sa che loro ci metteranno un
po’» decido, mentre un pezzo di recinzione cade a terra facendo un rumore come di cascata metallica.
«Sembrano archeologi alle prese con la tomba di Tutankhamon, da tanto discutono su ogni più piccolo
particolare.»
Il paletto graffiato è più difficile da rimuovere del previsto, essendo affondato nel cemento per un bel
tratto. È un’ora che sento Marino e Machado discutere se segarne via un pezzo o sradicare tutto il palo e
magari prendere anche il resto del cancello. Nel frattempo, Marino ha fatto scendere dal SUV Quincy per
impartirgli brevi lezioni che non so se siano più ridicole o patetiche.
Sono settimane che tenta di addestrarlo. Ha deciso che Quincy deve diventare un cane poliziotto. Gli
nasconde uno straccio intriso di fluidi di decomposizione umana, che immagino si sia procurato in
qualche cella frigorifera del CFC, e lo fa annusare al cucciolo, che ci urina o ci si struscia sopra. Non è
propriamente ciò che dovrebbe fare un cane da cadaveri. Stamattina gliel’ho già visto fare tre volte e
Marino, l’addestratore, lo ricompensa soffiando in un fischietto.
Ho osservato i suoi assurdi tentativi di rimuovere il palo e di addestrare il cane, ma soprattutto ho
osservato Benton. È raro che facciamo un sopralluogo insieme e vederlo lavorare con tanta
concentrazione mi colpisce e mi commuove: sembra guidato dalla bacchetta di un rabdomante mentre si
sposta da un punto all’altro, i calzoni infilati dentro un paio di galosce arancioni troppo grosse per lui.
Ha esaminato il cadavere prima che lo portassero via con la spinale, drappeggiato come una statua
antica. Senza rivolgere la parola a nessuno, neanche a me, Benton ha osservato la morta da tutte le
angolazioni possibili, girandoci intorno come un leone che soppesa la sua preda.
Non ha espresso pareri riguardo al residuo brillante, non ha fatto ipotesi sulla sua possibile natura.
Non ha esternato commenti né posto domande. Si è limitato ad ascoltare in silenzio, imperscrutabile,
quello che gli dicevo io a proposito degli artefatti post mortem e della possibile ora del decesso, che
stimo essere avvenuto non più di tre ore dopo la scomparsa, intorno alle venti o alle ventuno di ieri sera.
Ha degnato appena di uno sguardo la ressa dei curiosi assiepati davanti alla Simmons Hall, studenti
sbigottiti, certi vestiti e certi ancora in pigiama. Era come se si fosse già fatto un’opinione sul loro conto,
come se sapesse già con chi ha a che fare.
L’ho osservato con un misto di stupore e inquietudine, affascinata da quella danza macabra di cui
sembrava conoscere ogni passo bene quanto il diavolo che l’ha architettata e al quale lui dà la caccia. Ha
camminato dietro il cadavere quando lo stavano portando via, oltre il cancello del parcheggio, fino al
furgone su cui è stato caricato, che poi ha seguito fino a Memorial Drive. Quindi è tornato indietro ed è
rientrato nel campus da solo, alle prime luci grigie del mattino, attraverso il parcheggio vuoto. È stato lì
un momento, fermo immobile, a guardare tutto dal punto di vista del “soggetto”, come chiama i
delinquenti a cui dà la caccia.
14
Guardo Benton uscire dalla Simmons Hall e tornare verso di noi.
Non parla né con Marino né con Machado. Non dice nulla neppure a me. Varca di nuovo il cancello e
cammina sull’erba, nel fango, verso il punto dov’era la morta, come se avesse appreso o intuito qualcosa
che lo ha spinto a tornare nel posto dove qualcuno ha lasciato il cadavere di una giovane donna
intelligente per cui è stato fatale un errore banalissimo come uscire da un bar al buio per sentire meglio
una telefonata. Ma Benton non pensa questo. La voce dentro di lui non gli sta dicendo questo. Lo capisco
da come si muove, in un modo che mi ricorda un missile a raggi infrarossi che si dirige verso una fonte di
calore.
Mi ritrovo a riflettere su ciò che lo guida nella vita, una sorta di software necessario ma pericoloso
che viene dall’aver assaggiato il frutto proibito del peccato originale. “Hýbris”, lo definisce. Tutto nasce
da lì. Vogliamo essere come Dio. Se non possiamo creare, distruggiamo e, fatta l’esperienza della
distruzione una volta, non ci accontentiamo e la ripetiamo. È così che funziona, secondo lui: in modo
semplice e prevedibile. E il suo compito è comprendere i desideri incontrollabili senza cedervi,
integrare in sé emozioni senza permettere loro di prendere il sopravvento. Lo so da quando ci siamo
messi insieme, ma provo sentimenti ambivalenti quando mi trovo faccia a faccia con questo aspetto del
suo essere: temo che il veleno finisca per corrodere il contenitore che lo racchiude.
Benton si piazza esattamente dove era stata fissata la cerata gialla. Si accovaccia nel fango rossastro e
si guarda intorno, gli avambracci posati sulle cosce. Poi si alza. Si allontana di qualche passo, nota
qualcosa ai margini del diamante e si china. Si accovaccia, osserva, tira fuori un paio di guanti di nitrile
neri, tocca l’erba, solleva la mano guantata e si annusa un dito. Si rialza, si volta verso di me, che sono
dall’altra parte del campo, e i nostri sguardi si incontrano. Mi fa cenno di avvicinarmi e capisco, da
come evita di guardare Marino e Machado, che si aspetta che io lo raggiunga da sola.
Torno nel campo con la mia valigetta di plastica nera e, quando arrivo da Benton, la poso per terra. Lui
mi mostra qualcosa che sembra vaselina, una goccia traslucida dai margini irregolari, grossa come una
monetina da un centesimo.
Luccica sui fili d’erba marrone al limitare del campo. Benton mi avvicina il dito guantato, sporco di
quello che presumo sia lo stesso materiale, perché anch’io ne senta l’odore. È forte e penetrante, di
mentolo.
«Vicks» dice.
«O qualcosa di simile.» Apro la valigetta.
«Non è idrosolubile, per questo non si è sciolto sotto la pioggia.» Scruta il campo fradicio. «Ciò
nonostante, un violento acquazzone l’avrebbe spinto giù, in mezzo all’erba, e probabilmente non
l’avremmo visto.»
Tiro fuori un righello e la macchina fotografica. «Stai dicendo che è finito qui dopo che ha smesso di
piovere.»
«O quando la pioggia si è attenuata. Com’era il tempo verso le due, le tre?»
«Diluviava, per lo meno a casa nostra.» Non capisco dove voglia andare a parare.
«Qualcuno dei poliziotti usa il Vicks?» Benton mi guarda mentre scatto fotografie. «Chi ricorre ancora
a quel trucco da mentecatti?» Lancia un’occhiata verso Marino e Machado.
Il cadavere non aveva ancora cominciato a decomporsi. Non puzzava, gli ricordo, e io avrei sentito
sicuramente odore di Vicks o di mentolo. Lo riconoscerei lontano un miglio, aggiungo. Marino non se lo è
messo di certo. Ormai ha imparato: gli ho fatto perdere quella brutta abitudine la prima volta che gli ho
visto usare il Vicks all’obitorio. Gli ho detto: “Ecco, così ti sei intrappolato nel naso tutte le molecole
della putrefazione, come mosche sulla carta moschicida”. Da allora non l’ha mai più usato.
«Sono stata tutto il tempo con Marino» spiego a Benton. «Siamo sempre stati vicini. E sono vent’anni
che non lo vedo usare il Vicks.» Mi infilo un paio di guanti nuovi. «Non credo che lo usi nemmeno
Machado. Anzi, lo escludo. Tranne rare eccezioni, i poliziotti di questa generazione sanno che è meglio
evitare, che dagli odori si possono ricavare informazioni e che qualsiasi sostanza introdotta sulla scena
del crimine, che si tratti di vaselina o di fumo di sigaretta, può essere causa di contaminazione.»
«E sul cadavere non c’era.» Benton vuole esserne sicuro.
«Se ci fosse stato, avrei sentito odore di Vicks. Invece ho notato un lieve profumo e basta.»
«Non gliel’ha spalmato addosso, dunque» sentenzia Benton come se fosse ragionevole pensare che un
assassino spalmi unguento mentolato sulla sua vittima.
«Non ho sentito odore di mentolo. Non può essermi sfuggito, perché è un odore intenso, che
difficilmente passa inosservato.»
«E allora da dove caspita viene?» La domanda suona minacciosamente retorica.
«La polizia è intervenuta verso le quattro» gli ricordo. «Se qui ci fosse stato un individuo sospetto,
così vicino al cadavere, lo avrebbero notato sicuramente.»
«Com’era il tempo a quell’ora? Pioveva o no?» Benton guarda lontano, immerso nei suoi pensieri.
Chiamo Marino. Lo vedo rispondere al telefono e voltarsi nella mia direzione mentre gli chiedo a che
ora è intervenuta la polizia stamattina. Lui dice qualcosa a Machado, poi mi risponde: «Non erano ancora
le quattro. Saranno state le quattro meno dieci, forse, quando è arrivata la prima autopattuglia».
«E pioveva molto forte qui, a quell’ora? Quando sei arrivato da me, in quella parte di Cambridge
pioveva forte. E quando ho portato fuori Sock diluviava» replico.
Marino consulta di nuovo Machado. «Qui pioveva a tratti» mi informa. «Ma ormai era tutto fradicio.
Hai visto quanto fango c’è.»
Lo ringrazio, chiudo la telefonata e riferisco a Benton quello che mi ha detto. «Probabilmente questo
gel è caduto qui poco prima che arrivasse la polizia. Forse solo pochi minuti prima» ne deduce. «Quando
stava spiovendo.»
«E i due studenti che hanno trovato il cadavere e chiamato la polizia?» ipotizzo. «Se ci fosse stato
qualcuno in giro non pensi che l’avrebbero notato?»
«Giusto. Però, anche se l’avessero visto, non avrebbero avuto motivo di preoccuparsi.»
Benton mi sta dicendo, indirettamente, che conosce l’assassino e che si tratta di una persona che passa
inosservata o sparisce facilmente. Mi sta facendo capire che è stata questa persona a lasciare il Vicks
nell’erba vicino al cadavere.
«Pensi che ce l’abbia lasciato apposta?» Ripongo la macchina fotografica e il righello nella valigetta.
«Non saprei» risponde.
«Ha preso una ditata di gel mentolato da un barattolo, oppure l’ha spremuto da un tubetto, e gliene è
caduto un po’? O dici che si è pulito il dito nell’erba?» Percepisco un fondo di perplessità, di dubbio.
«Non lo so. L’importante è che usarlo potrebbe far parte del suo modus operandi.»
«Fai queste considerazioni sulla base di quello che hai osservato in questo caso specifico?» domando,
perché non è possibile giungere a una conclusione sulla base di dati così scarsi. «O negli altri casi?»
«Negli altri casi questo non l’ho visto. Ma potrebbe averlo lasciato stavolta senza accorgersene.
Secondo me sta perdendo il controllo.» Benton ripete quello che ha già detto varie volte. «Gli sta
succedendo qualcosa di tremendo» dice, come se sapesse chi è e che cosa fa l’assassino, e i miei brutti
presentimenti aumentano.
Temo che Benton si sia avvicinato troppo all’assassino. Non è la prima volta che ho questo timore.
Spero non sia per un motivo fondato che i suoi colleghi dell’Unità di analisi comportamentale non gli
danno retta.
«Potrebbe essergli venuta questa idea dell’unguento al mentolo. Non è una novità» continua Benton.
Metto in una busta per prove il suo guanto sporco e la etichetto. Separatamente, raccolgo il gel
mentolato e i fili d’erba a cui aderisce, mentre Benton mi spiega che gli addestratori spalmano il Vicks
sotto le narici dei cavalli da corsa per aumentare la loro concentrazione.
«Soprattutto i maschi» continua con lo stesso tono ragionevole.
Come se stesse parlando di un film che abbiamo appena visto o di che cosa mangeremo per cena. Ciò
che è anormale deve diventare normale, per lui, altrimenti non riesce a decifrarlo. Non può permettersi di
provare repulsione per i demoni, altrimenti non gli parlano: per poterli evocare deve accettarli. Vederlo
entrare in questa forma mentis mi turba. Oggi più che mai.
«Perché elimina le distrazioni» spiega. «Se l’unico odore che sentono è quello del mentolo, si
concentrano solo sul correre.»
«Non sentono più l’odore delle femmine.» Chiudo la valigetta, facendo scattare i grossi ganci di
plastica.
«Non sentono più nessun odore interessante. Ma sì, più che altro si tratta di escludere l’odore delle
femmine» replica. «Inoltre il mentolo ha il vantaggio di favorire la respirazione. In un modo o nell’altro,
lo scopo è lo stesso.»
«E cioè?»
«La performance» risponde. «Vincere. Essere più furbo degli altri, e il brivido che questo gli dà.»
Mentre torno nel parcheggio ci penso su, sforzandomi di analizzare quello che ha detto Benton. Cerco di
capire. Cavalli da corsa e Vicks.
Citare un’informazione così curiosa nel contesto di un omicidio mi sembrerebbe assurdo, ma Benton
sa di cosa parla. Non l’ha detto tanto per dire. Lo sa per motivi che mi preoccupano non poco.
«Che cosa avete trovato?» mi chiede Machado con un accompagnamento di colpi di vanga su un
terreno duro e roccioso, un rumore che ricorda lo scavo di una fossa.
«Qualcuno di voi ha usato il Vicks?» Poso la valigetta sul marciapiede, vicino al SUV di Marino.
«Immagino di no, ma voglio esserne sicura.»
«Figuriamoci!» Marino si massaggia la schiena con lo sguardo torvo, come se lo avessi accusato di un
peccato che non commette da anni.
«Perché qualcuno lo ha usato, e poco fa» ribatto. «Se non è Vicks, è un unguento al mentolo molto
simile.»
«A me non risulta.» Machado guarda Benton che, dall’altra parte del campo, cammina nel fango con le
galosce arancioni. Sta tornando verso di noi. «Ha trovato del Vicks? Nell’erba?»
«Qualcosa di simile» rispondo.
«Potrebbe essere balsamo di tigre o una pomata per i muscoli. In fondo è un campo sportivo.»
Machado ha smesso di scavare.
Guarda Benton come se lo trovasse diverso dal solito, un po’ più sconvolto. Hanno lavorato insieme
in passato, ma nel vedere il giovane detective che osserva mio marito rabbrividisco, agitata.
«Cosa pensa? Lo sai?» mi domanda Machado scettico, come se avesse il sospetto che Benton sia una
tavola Ouija umana, di cui non è possibile fidarsi.
«Sta fingendo di essere stato lui» dice Marino, senza lasciarmi il tempo di aprir bocca. Non che io
avessi intenzione di rispondere. Sicuramente, non come ha risposto lui.
Non mi pronuncio su quel che pensa Benton. Anche se lo sapessi, mi guarderei bene dal dirlo. Non sta
a me. E comunque spesso non lo so e non mi sorprende che non frequenti amici, colleghi dell’FBI,
poliziotti, altri agenti federali o avvocati e non metta piede in locali tipo Tommy Doyle’s, Grafton Street
o il pub preferito di Marino, Paddy’s.
Benton è un enigma. Forse lo è fin dalla nascita, contraddizione vivente fra interni delicati e superfici
granitiche, perfettamente bilanciati in un corpo alto e snello, capelli corti brizzolati da che lo conosco,
abiti eleganti, calzini in tinta e scarpe sempre impeccabili. È di una bellezza pulita e spigolosa che pare
riflettere la lucidità delle sue percezioni, e il riserbo per lui è una camera di equilibrio che lo rende meno
vulnerabile alle persone che entrano ed escono dal suo spazio vitale.
«Deve entrare nella loro mente, sai.» Marino lancia una palata di terriccio pietroso da una parte,
mancando per un pelo Benton che sta varcando il cancello.
Non ci rivolge la parola. In momenti come questo sembra un bizzarro erudito, asociale e scostante.
Non è raro che si aggiri sulla scena di un crimine per ore senza parlare con nessuno. È sempre rispettato,
ma non necessariamente gradito, e spesso viene frainteso e giudicato in maniera sbagliata. Molti lo
definiscono freddo, strano, e immaginano che non abbia reazioni emotive al male di cui è spettatore
perché è riservato e controllato. Pensano che non mi dia niente.
Lo guardo uscire a grandi passi dal parcheggio, diretto verso Vassar Street e il dormitorio metallico.
«Deve vedere il mondo con i loro occhi, mettersi nei loro panni.» Nel descrivere cose di cui in verità
sa ben poco, Marino ha un sorrisetto sulle labbra e un tono derisorio.
Benton non si limita a entrare nella mente dei violenti. Il suo lavoro è ancora più brutto: si introduce
nella loro anima tenebrosa, si addentra in quell’oscurità malvagia che gli permette di entrare in
comunione con la preda e batterla al suo stesso gioco. Spesso, quando lavora per settimane a un caso
raccapricciante, torna a casa talmente esausto che dà segni di squilibrio mentale: si lava continuamente,
non mangia, non beve e non mi tocca.
Dopo parecchie notti agitate e insonni, l’incantesimo si rompe e gli passa tutto, come una febbre che
sparisce di colpo. Io gli preparo qualcosa di appetitoso, magari un piatto siciliano, uno dei suoi preferiti,
tipo pasta con salsiccia e fagioli accompagnata da un buon barolo o da un rosso di Borgogna, entrambi in
abbondanza, e poi andiamo a letto. Allora lui scaccia i mostri, disperatamente, aggressivamente,
esorcizzando quello che ha dovuto accogliere nella mente e nel corpo. La forza vitale ritorna
prorompente e io gliela restituisco e andiamo avanti finché non ne possiamo più. È sempre così, per noi.
Non siamo come molti pensano, riservati e pudichi, e non ci saziamo mai l’uno dell’altra.
Adesso guardo mio marito che cammina sul marciapiede davanti alla Simmons Hall.
Entra nel parcheggio e gira fra le auto di studenti posteggiate qua e là, scattando foto con il telefonino.
Arrivato dietro il dormitorio, guarda da una parte e dall’altra prima di attraversare i binari oltre i quali si
trova uno spiazzo sterrato pieno di semirimorchi, macchine per movimento terra e baracche.
Va verso un pick-up nero, fermo vicino a un cassonetto pieno di calcinacci. Guarda dentro l’abitacolo
e nel pianale come se qualcuno gli avesse detto qualcosa, e in effetti è così: ad avergli suggerito di
andare lì è la sua mente, il flusso di pensieri inconsci che lo guidano come subroutine di un programma
informatico.
Si sposta verso un bulldozer giallo, con la benna bloccata nella posizione sollevata, che sembra un
granchio che fa pugilato. Si china vicino alla chela posteriore, lo scarificatore, e guarda dalla mia parte
mentre il mio telefono comincia a squillare.
15
«Uno di loro deve venire subito qui» mi dice la voce di Benton nell’auricolare. «Ma prima vorrei che tu
mi ascoltassi con attenzione, Kay.»
Lo vedo rialzarsi in piedi e poi aggirarsi nel cantiere continuando a guardare me nel parcheggio.
Tengo d’occhio Marino e Machado per accertarmi che non capiscano con chi sto parlando.
«Quello che sto per dirti per il momento deve rimanere tra noi. Posso dare loro indicazioni, ma non
posso entrare nei particolari. Dobbiamo avere l’assoluta certezza.» Ma capisco che ce l’ha già. «E non
sappiamo di chi ci possiamo fidare. Il problema più grosso è questo. Un solo passo falso, e Granby avrà
quello che gli serve per tagliarmi fuori da questo caso.»
«Da questo o dagli altri?» domando.
«Da tutti. Non so per certo quanti siano, ma almeno quattro.»
«C’è una discrepanza, e piuttosto importante.» Mi riferisco ai sacchetti di plastica che le tre vittime di
Washington avevano sulla testa.
«Stavolta è stato disturbato. È l’unica spiegazione che mi viene in mente. Oppure vuole farci credere
che questo caso non sia collegato agli altri. Ma non credo. Cambridge è un terreno di caccia conosciuto,
per lui. Ci è già stato e non mi stupisco che sia tornato a colpire qui. Questa non è una vittima casuale.
Nemmeno la prima, Klara Hembree. Forse lo erano la seconda e la terza.»
Benton non sembra agitato né turbato: non sarebbe da lui. Ma io lo conosco, percepisco ogni sua
sfumatura e so che quando si avvicina alla preda parla con voce tesa, come se avesse preso all’amo
qualcosa di grosso, che fa resistenza. Lo ascolto e so che cosa sta per dire, ma c’è dell’altro e mi
vengono di nuovo i brividi. Sento il pericolo con sempre maggiore intensità, mentre parliamo al telefono
a pochi metri di distanza.
Nelle ultime settimane Benton ha continuato ad accennare a un problema di fiducia. È un discorso che
è venuto fuori più volte da quando è partito per Washington. Qualche sera fa, dopo aver bevuto uno
Scotch di troppo, l’ha detto chiaro e tondo: il caso del Capital Killer non verrà mai risolto. C’è qualcuno
che non vuole che venga risolto, ha detto, e io non gli ho creduto.
Come avrei potuto? Tre donne sono state brutalmente uccise e Benton, che è nell’ FBI, insinuava che
l’FBI non volesse la cattura dell’assassino? Adesso sembra che il serial killer abbia ucciso di nuovo e
Benton ha gli stessi timori. Ho paura che si sia lasciato coinvolgere troppo. Come se questo non fosse già
abbastanza grave, ho il terrore che gli sia successo qualcosa di terribile. Che, alla fine, abbia perso il
controllo. Forse, in fondo, era inevitabile.
«Il cassone porta attrezzi sul pianale del pick-up è stato forzato» mi dice al telefono. «C’è un attrezzo
per terra. È bagnato, ma non sembra che sia lì da molto. Ha smesso di piovere parecchie ore fa, quindi
deve essere stato lasciato lì poco prima.»
«Che tipo di attrezzo?» domando.
«Un tronchese a cricchetto, forse per tagliare dei tubi di metallo. È stato lasciato lì deliberatamente,
con una pietra sopra.»
«Una pietra?»
«Un sasso abbastanza grosso, che è stato raccolto da terra e posato sull’attrezzo.»
«Per quale motivo?»
«Carta, pietra, forbice.»
Aspetto di capire se sta scherzando. Ma dice sul serio.
«Un gesto suggerito da una mente malata, infantile, di un individuo che non si è mai sviluppato
pienamente e poi è regredito. Adesso sta malissimo e sta scompensando velocemente. Mi sembra un po’
presto, anche se non saprei spiegarti perché. Gli sta succedendo qualcosa» dice Benton. «La pietra e il
tronchese sono una regressione atavica a un gioco del suo passato. È la sensazione che ho avuto sin dalla
prima volta che ho notato ciò che lasciava nei pressi del cadavere. Bisogna pensare a cercare quel che
non è ovvio, cosa che la polizia di solito non fa.»
«Ma tu invece sì.»
«L’ho trovato sempre io, in ognuno degli omicidi, anche quando sono arrivato due giorni dopo»
replica. «Sasso vince forbice e forbice vince carta, e i poliziotti non sono altro che carta: gente che
riempie moduli e stabilisce regole di cui lui si fa beffa. Non li ritiene un pubblico degno e mette un sasso
su un attrezzo che ha usato per commettere il reato, come la pietra sulle forbici, per ricordare alla polizia
che è indegna e lui è superiore. È una cosa che lo fa godere, che lo esalta e lo diverte.»
«La polizia sarà anche indegna, ma tu no.»
«Non mi considererebbe tale, no. Si renderebbe conto che io capisco quello che fa, nella misura in cui
è possibile capirlo. Più di quanto lo capisca lui stesso, peraltro: come tanti serial killer, ha una
consapevolezza limitata. Sono moralmente squilibrati e lo squilibrio mentale genera scarsissima
consapevolezza. O forse non ne ha proprio.»
Mi volto a guardare Marino: scava intorno al palo, che si staglia solitario ora che la rete metallica è
stata tranciata. Prevedo già che si metterà sulle difensive con Benton. È molto suscettibile nei confronti di
mio marito e tra loro scoppierà una guerra, adesso che Marino ha di nuovo del potere. Si preannuncia una
situazione non facile. Si risolverà, ma chissà quando. In questo momento non riesco a immaginarlo.
Mi preoccupano i tempi. Benton torna a casa tre giorni prima del previsto e il Capital Killer colpisce
di nuovo qui, come un tornado che cambia improvvisamente direzione e investe in pieno casa nostra.
Continuo a pensare allo sconosciuto che guardava la mia porta da dietro il muro del giardino, a capo
scoperto sotto la pioggia. È tutta la mattina che mi sento osservata.
«Credi che l’assassino sapesse che saresti venuto qui?» Non ci voglio nemmeno pensare.
«Francamente, è una cosa che mi preoccupa» risponde Benton.
Non sarebbe la prima volta che succede. Diversi criminali gli hanno lasciato biglietti, lettere, pezzi di
cadaveri, fotografie, registrazioni video e audio di torture e uccisioni. Macabri moniti, raccapriccianti
souvenir: carne umana cotta, l’orsacchiotto di un bambino ucciso. Ho assistito a spaventose minacce e
provocazioni strazianti e non c’è più nulla che mi sorprenda, ma questo... Non voglio credere a ciò che
Benton invece sta prendendo in considerazione. C’è un motivo, e io non posso ignorarlo. O forse non
voglio.
Benton sarebbe dovuto rimanere a Washington fino a sabato. Se non avesse deciso di tornare a casa
prima del previsto, non sarebbe qui in questo momento a dire queste cose e non avrebbe trovato un
tronchese e una pietra.
«Come faceva a sapere che saresti stato qui, Benton?»
«Probabilmente mi ha visto. Ci avrà visto tutti quanti» risponde. Mi guardo intorno: palazzi illuminati
dal sole, studenti che passano a piedi e in bicicletta, auto che luccicano ferme nei parcheggi. «Era
inevitabile che venissi. Magari non subito, ma appena lo avessi saputo... Dopo qualche ora, o al massimo
un giorno, è chiaro che sarei stato qui a fare quello che sto facendo.»
«Tenerti d’occhio è un conto, ma sapere che saresti tornato a casa oggi è un altro.»
«Può darsi che non sapesse che sarei rientrato proprio oggi, ma avrà immaginato che sarei arrivato
presto. Non so risponderti, ma devo prendere in considerazione anche questa possibilità. Quello che so
per certo è che la scena del crimine è come le altre tre. L’attrezzo e la pietra sono chiaramente una firma.
All’Unità di analisi comportamentale sono convinti che lo faccia per depistarci. Dicono che è come il
Cecchino di Washington e la carta dei tarocchi trovata vicino a un bossolo nel luogo in cui aveva sparato
a un tredicenne. Dieci vittime, alcuni omicidi commessi in Virginia più o meno nel periodo in cui tu sei
venuta via.»
“Nel periodo in cui ti credevo morto.” Questo pensiero mi arriva inaspettato, e mi fa male. Torno con
la mente al sogno che ho fatto, ma solo per un attimo. Benton comincia a camminare a grandi passi nel
cantiere, vicino al bulldozer giallo. Adesso parla più veloce, con più foga del solito.
«“Chiamatemi Dio” e “Non rivelare alla stampa”, aveva scritto sul tarocco» racconta. «Per prendere
in giro gli investigatori e depistarli, facendogli credere che l’assassino avesse a che fare con la magia o
l’occulto. L’FBI non l’aveva preso sul serio, e in quel caso aveva fatto bene. Adesso però fa lo stesso con
gli attrezzi, le pietre, i teli bianchi, i sacchetti di Octopus... Dicono che sono stronzate, ma non è vero. Ti
assicuro che non sono stronzate: per lui significano qualcosa. Gioca, si mette in mostra. Temo che sia
spinto da idee deliranti.»
«Anche su di te?»
«È possibile che si illuda di far colpo su di me» dice Benton con disinvoltura, nel modo in cui il
guardiano di uno zoo parlerebbe di un animale feroce. «Non posso averne la certezza, ma credo che
sappia cosa faccio ed è abbastanza narcisista da pensare che io lo ammiri.»
«Forse ha colpito adesso per un altro motivo» replico con calma, ragionevolmente. «Un motivo che
non ha nulla a che fare con la tua presenza qui. Tu non c’entri niente.»
«È una cosa che mi preoccupa» ripete. «Potrebbe aver sentito dire qualcosa, non so. Ma ha un legame
con questa zona, un legame molto forte. Ha lasciato qui il cadavere perché questo luogo significa
qualcosa per lui. Sarebbe prematuro parlarne direttamente, o specificamente, comunque» dichiara. «Ne
parlerò, ma non ora. Prima devo fare delle telefonate. La decisione non spetta a me, secondo loro, e non
per via delle indagini, ma per un piano sotterraneo estremamente inquietante. Devo informare Granby. È
il protocollo. E sarà un problema.»
Riferirà al suo capo, l’agente speciale Ed Granby, che fa sempre dell’ostruzionismo e che io detesto.
So già come andrà a finire: miseramente.
«Immagino che vorrà assumere lui la direzione delle indagini, come le altre volte» replico.
«Non possiamo permetterglielo, Kay.»
«Dove può aver sentito l’assassino che volevi tornare a Cambridge oggi?»
«Appunto. Come faceva a saperlo? Può darsi che sia in contatto con qualcuno che è vicino alle
indagini.»
Mi sovviene quello che ha detto Carin Hegel sulla corruzione, che arriva molto in alto, più in alto di
così non si può, e penso al dipartimento della Giustizia, all’FBI. Preferirei non farlo. Le mie riflessioni si
spostano su un terreno più sicuro, su quel che mi ha detto Benton alcune ore fa appena sceso
dall’elicottero, e cioè che l’idea di rientrare prima del tempo per essere a casa il giorno del compleanno
era di Lucy.
«Quando di preciso è venuta fuori l’idea di tornare a casa prima del previsto?»
Riprendo in mano la valigetta e mi allontano un po’ di più da Marino e Machado perché non sentano
quello che dico.
«Tre giorni fa» risponde Benton. «Ne abbiamo parlato domenica mattina. Lucy sapeva che cosa avevi
passato nel Connecticut e temeva che ti fossi ammalata per quello.»
«Mi sono ammalata perché ho preso un virus.»
«Voleva che io tornassi a casa, e anch’io volevo tornare, te l’avevo detto, ma tu mi hai risposto che
non era il caso. Ero sicuro che, se ti avessi avvertito, mi avresti detto di nuovo di no.»
Sentirmelo rinfacciare in modo così crudo mi ricorda spiacevolmente altre recenti rivelazioni: spesso
non manifesto quello che provo e non dico che cosa voglio. È un errore e fa male.
«Abbiamo deciso di farti una sorpresa» aggiunge Benton.
«Chi altri era al corrente?»
«Internamente, si sapeva.»
Mi sta dicendo che domenica all’FBI si sapeva che sarebbe partito da Washington prima del previsto.
La divisione di Boston, a cui appartiene, doveva autorizzare il suo rientro a Cambridge e Ed Granby era
ben contento che lui se ne andasse. Ha incoraggiato la sua partenza, dice Benton. Mi viene in mente
l’albergo dove alloggiava.
Anche in albergo dovevano essere al corrente dei suoi spostamenti. Immagino che li abbia avvertiti
appena ha deciso di tornare a casa, forse già domenica scorsa. Naturalmente Lucy era d’accordo e mi
ritrovo a pensare di nuovo a lei. Mi domando se abbia accennato al rientro anticipato di Benton con Gail
Shipton e, se mai, per quale motivo.
Deve aver presentato il piano di volo alla FAA, l’ente federale che sovrintende all’aviazione civile,
prima di decollare dal Massachusetts per l’aeroporto internazionale di Dulles. Per motivi di sicurezza, i
velivoli privati non possono atterrare nell’area di Washington senza prima chiedere l’autorizzazione e
presentare il piano di volo. In albergo, all’FBI, in aeroporto, fra i controllori di volo... Mi domando
quante persone fossero a conoscenza di particolari quali orari, destinazioni, tipo di velivolo, magari
anche il numero di coda dell’elicottero di Lucy e le attrezzature che ha a bordo. Chi sapeva che cosa
volevano fare lei e Benton, dove e quando?
È possibile che qualcuno al corrente di questi dettagli privati li abbia riferiti alla persona sbagliata.
Non posso escludere che l’assassino, squilibrato e intelligente, si sia fissato su Benton e commetta atti
efferati per attirare la sua attenzione o per dimostrare di essere più in gamba di lui. Succede raramente.
Non ricordo nessun serial killer che avesse sviluppato una fissazione erotomaniacale per uno psicologo
forense o un profiler. Ma ciò non significa che non ce ne siano stati. È probabile che qualche volta sia
successo.
Quando si tratta di comportamento umano, tutto è possibile. Ho assistito a episodi di violenza e
sadismo che, fuori dal contesto, avrei considerato inconcepibili. Non saprei inventarmi un crimine atroce
che non sia già stato commesso, nulla che non sia già stato fatto, e Benton non è un uomo qualunque. Ha
scritto libri e articoli, compare spesso al telegiornale e il suo nome è stato fatto pubblicamente in
relazione ai casi del Capital Killer, soprattutto dopo le ultime due vittime. Se l’assassino si tiene al
corrente, sa che Benton era a Washington e che le ricerche sono state intense, anche se i particolari degli
omicidi sono stati tenuti nascosti, avvolti nel manto di segretezza dell’FBI.
Benton prevedeva che l’assassino avrebbe colpito altrove e che questo era un momento favorevole per
cambiare città: forse quest’uomo astuto e crudele riesce a indovinare le sue deduzioni, le sue intuizioni.
Benton è convinto – e lo è stato sin dall’inizio – che il Capital Killer abbia dei legami con Cambridge,
luogo che conosce e rappresenta per lui un porto sicuro.
Lo sostiene da aprile, da quando è stata assassinata Klara Hembree, che si era trasferita a Washington
meno di un mese prima. Klara era sotto tiro già a Cambridge, dice Benton, e l’assassino l’ha seguita nella
capitale. Non l’avrebbe fatto se a Cambridge non fosse stato nel suo ambiente e se non avesse conosciuto
bene la zona di Washington. È uno che gioca in casa. Si sposta, si ferma dove si sente al sicuro e forse ha
colpito anche in luoghi di cui noi non sappiamo nulla. Benton l’ha detto e ripetuto da quando è partito,
prima della festa del Ringraziamento.
Se teme di essere stato preso di mira da questo assassino, o da uno qualsiasi degli assassini a cui dà la
caccia, lo posso capire. Quanto potrà reggere ancora prima che le sue barriere comincino a incrinarsi,
prima che tutto questo lo intossichi, gli si insinui sottopelle come un parassita? Me lo chiedo da quando
ho iniziato ad amarlo.
«Era ovvio che sarei venuto a dare un’occhiata qui» mi dice Benton al telefono, dall’altra parte del
campo pieno di fango. «O che ci sarebbe venuta la polizia. Qualcuno avrebbe controllato anche qui,
benché sia lontano da dove è stato trovato il cadavere.»
«Perché?» chiedo.
«Per via del pick-up.»
«Quello che è stato forzato.» Osservo il pick-up nero intorno a cui Benton gira lentamente mentre
parla.
«È strano che sia qui, è fuori posto» replica. «Non c’entra niente con il cantiere. È un veicolo privato,
che non dovrebbe essere parcheggiato qui. Era prevedibile che mi saltasse subito all’occhio.»
Si ferma e mi guarda.
«Questo nell’ipotesi che il tronchese sia stato usato per tagliare il lucchetto e la catena del cancello.»
Vedo Marino e Machado che rinunciano a scavare e decidono di usare un seghetto da ferro.
«Ha usato questo attrezzo e voleva che lo trovassimo» dice Benton. «Quando sarà esaminato in
laboratorio, vedrai che ho ragione. Siamo il suo pubblico e vuole farci sapere tutto quello che si è preso
la briga di fare. Lo eccita...»
«“Quello che si è preso la briga di fare”?» Lo interrompo, arrabbiata, perché mi sta mettendo paura.
Per un attimo sento montare una di quelle vampate d’ira che faccio così fatica a soffocare.
Poi mi impongo di ritrovare la freddezza. Non serve a niente reagire come una persona normale.
Scaccio tutto ciò che può interferire con il mio ragionamento e la mia disciplina clinica, lo allontano il
più possibile. Dopo tanti anni, so come si fa a svuotare la mente.
Guardo Marino frugare nella sua valigetta, che praticamente è un’officina portatile. Faccio un bel
respiro e, ora che sono più calma, penso di nuovo a Gail Shipton. Sarebbe logico che il nesso fosse lei.
In tal caso vorrebbe dire che aveva qualche legame con l’assassino anche se non lo conosceva, anche se
non lo aveva mai visto, come dice Benton.
16
Il tronchese ha un manico rosso in fibra di vetro e una lama d’acciaio. Sembra una chiave inglese e può
tagliare metalli duri come l’ottone, il rame, l’acciaio.
A Marino basta un’occhiata per poterci dire tutto questo. Scatta foto dell’attrezzo con la pietra posata
sopra. Un comunissimo sasso delle dimensioni di una palla da softball. Poi sposta la pietra e prende in
mano il tronchese.
«Okay. Dove sono il lucchetto e la catena?» Il tronchese sembra piccolo nelle grosse mani guantate di
Marino.
Lo gira, lo studia, stando attento a non distruggere eventuali impronte, ma io ho il sospetto che non ce
ne siano.
«Se voleva che trovassimo l’attrezzo che ha usato per tagliarli, tanto valeva lasciare anche il lucchetto
e la catena, no?»
Mette il tronchese in un sacchetto per prove.
«Se vuole prenderci per i fondelli, più ci fa correre più si diverte, no?» Da tetro, l’umore di Marino è
diventato acido, sarcastico.
È la prima scena del crimine che affronta da poliziotto dopo dieci anni e si sente disorientato,
strumentalizzato. In presenza di Benton si sente sminuito e ha voglia di litigare.
«Secondo me non dovremmo dare per scontato che l’abbia usato lui.» Strappa un pezzo di nastro
adesivo. «Non è mica detto. Sei andato un po’ più in là e hai trovato una cosa che magari non c’entra
niente.»
Si rivolge a Benton e lo fissa con aria di sfida mista a qualcos’altro: dubbio. Poi guarda me, come se
si aspettasse che io prenda le sue parti. O forse vuole capire che cosa penso e che cosa pensa Benton,
perché è lui il primo a non sapere cosa pensare. Siamo solo noi tre, vicino a un bulldozer in un cantiere, e
mi domando come farà Benton a dirgli quello che deve. Non può parlare apertamente e Marino non lo
aiuterà, neanche se gli crede. E prevedo che non gli crederà, per lo meno non subito.
«Okay, qualcuno ha forzato un pick-up. Non è particolarmente strano.» Marino continua con lo stesso
tono beffardo. «Succede ogni giorno. Forse è tutto qui. Non c’è altro.»
«Ti consiglio di prelevare anche la pietra» dice Benton. «L’ha toccata. Molto probabilmente aveva i
guanti, ma può anche darsi di no. Dipende dallo stato mentale in cui è in questo momento.»
«Di chi diavolo parli?»
«Dell’uomo che stai cercando. Non c’è dubbio che abbia toccato la pietra. L’ha presa e l’ha messa
esattamente dove l’abbiamo trovata. Conviene controllare se ci sono tracce di DNA o altri residui.»
«Oh, Gesù, Giuseppe e Maria! Dimmi che stai scherzando.»
«Ha portato qui il cadavere in macchina» dice Benton in un tono che non lascia spazio a obiezioni.
«Prima ha parcheggiato là.» Indica il posteggio accanto al dormitorio. «È sceso dall’auto, è entrato nel
cantiere, ha forzato il cassone del pick-up e ha preso il tronchese. Poi è risalito in macchina ed è andato
con il cadavere laggiù.» Questa volta indica il posteggio dove ho appena passato un’ora al telefono.
Il cancello pedonale è ancora spalancato e ondeggia al vento, e io faccio notare a Benton che sarebbe
stato molto rischioso, visto che è proprio di fronte al posto di polizia dell’MIT. L’assassino – e lo chiamo
così apertamente, senza riserve – sarebbe dovuto salire con l’auto sul marciapiede.
«Con la possibilità che un agente lo vedesse» concludo.
«No» ribatte secco Benton. «È un individuo calcolatore, che osserva, spia. E che ama il rischio: il
pericolo lo eccita. Ma passa inosservato perché riesce a mimetizzarsi perfettamente in qualsiasi
ambiente. È entrato in quel parcheggio, ha tagliato il lucchetto e la catena per aprire il cancello, ha messo
il cadavere su una specie di slitta che ha schiacciato l’erba, strappandone dei ciuffi, lo ha trascinato nel
campo da baseball e lo ha messo in posa.»
«Perché?» Marino lo fissa, poi guarda me quasi alzando gli occhi al cielo.
«Perché lo eccitava e perché è un gesto simbolico. Non sappiamo esattamente per quale motivo. È
impossibile saperlo. Ma quello che vediamo sono i geroglifici incisi sul muro della sua psiche malata.»
«Stronzate.» Marino si mette le mani sui fianchi con aria di sfida. «Mica devo risolvere il Codice da
Vinci per capire che fine ha fatto quella povera ragazza, cazzo: è morta ammazzata. A me della psiche
dell’assassino non me ne frega un cazzo.»
«Devi tenerne conto, invece» gli dice Benton. «Ha impiegato del tempo per mettere in posa il
cadavere, girarci intorno, guardarlo da angolazioni diverse. È questo che lo fa sballare. È un gioco che
sta diventando sempre più audace e imprevedibile. Ha i suoi metodi e tutto quello che fa ha un significato
per lui, ma è come una trottola che gira sempre più vicina al bordo del tavolo: fra poco cade e si
schianta.»
«E tu hai capito tutto questo da ’sta roba qui?»
«Conosco il genere e da quello che vedo capisco che ha ucciso altre volte e che ucciderà ancora.»
Mentre Benton parla, io penso all’unguento mentolato che abbiamo trovato sull’erba non lontano da
dove è stato rinvenuto il cadavere. Immagino l’assassino che guarda da diverse angolazioni il corpo
messo in posa, ammirando il risultato del proprio lavoro, come Benton ha appena spiegato. L’ultimo atto,
il trionfo del male in un campo da baseball fradicio di pioggia, al buio, e lui che si spalma una ditata di
Vicks, assaporandone l’odore forte e penetrante per non perdere di vista il proprio obiettivo e non
commettere errori. Che forse invece ha già commesso. Come un cavallo da corsa che galoppa potente,
concentrato, ma sta per inciampare, abbattere un ostacolo o volare giù da un burrone.
«Quando ha finito, è tornato qui, ha pulito il tronchese e lo ha lasciato per terra» dice Benton. «Lo ha
lasciato per noi.»
«Qui potevamo non notarlo» obietta Marino, ostinato. «Questo cantiere non è per niente vicino a dove
è stato lasciato il cadavere.»
«Sapeva che prima o poi l’avremmo trovato.»
«Cosa cazzo gliene fregava?» Marino si toglie i guanti rabbiosamente. «E come faceva a sapere che
cosa c’era nel cassone porta attrezzi del pick-up? Dovremmo credere che il tagliatubi venga da là dentro?
Che senso ha? Non mi sembra una gran furbata. E se nella cassa non ci fosse stato nessun tronchese? Si
sarebbe ritrovato con un cadavere in macchina e senza niente per tagliare la catena del cancello.»
«Si documenta, raccoglie informazioni» replica Benton con pazienza. «Non è stato un gesto impulsivo,
Pete. È stato un omicidio premeditato e con un movente, anche se alla fine il vero motivo per cui l’ha
uccisa è che gli andava di farlo. Perché per lui è una coazione. Sicuramente lui non la pensa così, ma la
realtà è questa.»
«Parli come se sapessi chi è.»
«Conosco il genere» ripete Benton, senza aggiungere altro.
Non ha intenzione di spiegare il resto. Non ora.
«Sai qualcosa che non mi vuoi dire» lo accusa Marino, arrabbiato e a disagio.
«È il genere che sceglie in anticipo le sue vittime, raccoglie informazioni dettagliate sul loro conto,
entra in casa loro, curiosa nei loro spazi privati, cerca notizie su internet, accumula tutti i dati che può»
spiega Benton. «Fa parte dei meccanismi che lo eccitano.»
«Abbiamo controllato: Gail Shipton non ha mai sporto denuncia per furto o effrazione» ribatte Marino.
«Dovresti chiedere ai suoi amici se ultimamente aveva l’impressione che qualcuno la osservasse o la
pedinasse.»
«Hai fatto bene a dirmelo, perché da solo non ci sarei arrivato.» Marino è paonazzo. «Potrebbe
benissimo essere uno di queste parti, che ha ucciso solo lei. Come fai a escludere che sia un caso
isolato?» Marino guarda nella direzione della Simmons Hall, con le sue migliaia di finestre quadrate e il
suo involucro di alluminio anodizzato. «Forse è a conoscenza di certi particolari perché colpisce nel suo
territorio. Forse siamo fortunati e questo è il suo pick-up. Forse ha lasciato lì il tronchese per errore.
Forse voleva rimetterlo sul pick-up e si è dimenticato.»
«È uno che osserva» ribadisce Benton, come se Marino non avesse neanche aperto bocca. «Sapeva
che avrebbe trovato qui il pick-up. Probabilmente scopriremo che il proprietario lo ha già lasciato qui
tutta la notte. Forse ce lo lascia spesso, perché gli piace bere dopo il lavoro.»
«Sono pure illazioni» sbotta Marino. Sembra un avvocato difensore che sollevi un’obiezione. «Del
tutto infondate.»
«Probabilmente scopriremo che ha preso una multa per guida in stato di ebbrezza in passato e non
vuole rischiare di prenderne un’altra.» Benton è implacabile e impassibile. «E che ha dei privilegi
particolari, magari perché lavora all’MIT e può lasciare qui il pick-up senza che nessuno protesti. Gli
attrezzi gli servono per il suo lavoro e chiunque, volendo, potrebbe sapere quali sono.»
«A che scopo?» ribatte Marino dopo avermi lanciato varie occhiate.
«Lui ne ha uno. Per lui tutto questo ha un significato. Il suo è un comportamento calcolato che nasce sia
da quello che vede sia da quello che immagina.» Benton fa previsioni, proiezioni, dice cose che
potrebbero sembrare ridicole se dette da un altro.
Purtroppo, però, Benton ha quasi sempre ragione, e non perché è fortunato o chiaroveggente. Le sue
previsioni sono frutto di un impenetrabile database costruito in anni di atrocità viste e analizzate nei
dettagli. Per diventare bravo nel suo lavoro ha pagato un prezzo molto alto.
«Tieni presente quello che ti ho detto, durante le tue indagini. Altrimenti avrai dei problemi.» Benton
indica il pick-up con un cenno del capo. «Fossi in te, controllerei il cassone porta attrezzi. Penso che ci
troverai dentro qualcosa, oltre agli arnesi.»
Marino comunica via radio a Machado che bisogna esaminare un pick-up nel cantiere, che qualcuno ha
forzato il cassone porta attrezzi.
«Hai guardato dentro?» La voce forte di Machado si sente anche senza la radio, mentre parla con
Marino dall’altro lato del Briggs Field.
«Non ancora.»
«Pensi che sia legato all’omicidio?»
«Dobbiamo comportarci come se lo fosse» risponde Marino in tono annoiato a beneficio di Benton.
«Chiamo la centrale, vediamo che cosa riusciamo a scoprire.»
Machado smette di armeggiare intorno al palo, che ormai è stato scalzato da terra ed è parzialmente
avvolto in una spessa carta marrone. Viene verso di noi mentre Marino via radio chiede all’operatore di
controllare la targa del pick-up.
«Una volta individuato il proprietario, potrò capire da quanto tempo è fermo qui e farmi un’idea di
quando è stato forzato» ci informa Marino.
«Penso che abbiamo già un’idea al riguardo.» Tutta l’attenzione di Benton è rivolta ai binari che
corrono tra il cantiere e il retro della Simmons Hall. «Il cadavere è stato scoperto intorno alle tre e
mezzo del mattino.»
«La chiamata è arrivata alle tre e trentanove.» Marino non resiste alla tentazione di puntualizzare.
La ferrovia Grand Junction attraversa il campus dell’MIT e traccia una linea retta fra Boston e la parte
orientale di Cambridge, passando dietro il CFC e attraversando il fiume Mystic. Mi viene in mente che i
circhi, ogni volta che arrivano in una città della zona, lasciano il treno nel tratto della Grand Junction più
vicino a dove ci troviamo adesso.
A parte questo utilizzo molto visibile e molto pubblicizzato, su questa linea ferroviaria quasi dismessa
passa soltanto occasionalmente qualche convoglio merci, per lo più durante il weekend. Mi è capitato più
di una volta, tornando dal lavoro, di dovermi fermare al passaggio a livello per un treno carico di frutta e
verdura fresca diretto al mercato ortofrutticolo di Chelsea. Alcune settimane fa ho dovuto aspettare per
colpa del treno del Cirque d’Orleans: rosso con le scritte dorate, sarà stato lungo un chilometro e veniva
dal Sud della Florida, dove sono nata io.
«Voleva che il cadavere venisse trovato subito e probabilmente ha assistito al ritrovamento e al
sopralluogo proprio da qui, da questo cantiere.» Benton continua a spiegarci quello che ritiene abbia fatto
l’assassino. «All’alba se n’era già andato.»
Nel frattempo Machado ci ha raggiunto e guarda incuriosito il pick-up nero. Poi guarda Benton.
«Stai dicendo che è rimasto in zona per tutto il tempo del sopralluogo?» gli chiede, dubbioso.
«Tutto il tempo no, ma abbastanza per vedere Kay al lavoro e l’atterraggio dell’elicottero di Lucy»
risponde Benton.
«E per osservare te?»
«Può darsi. Se n’è andato quando era ancora buio, a piedi. Molto probabilmente si è allontanato lungo
i binari, evitando in tal modo di incontrare macchine, personale del campus, studenti. Qui dietro, lungo i
binari, nessuno lo poteva vedere. Non c’è illuminazione e non ci sono sentieri» aggiunge Benton.
«Doveva sapere che qui ci sono i binari. Doveva conoscerli bene.»
«Sospetti che sia uno studente che conosce la zona come le sue tasche» ipotizza Machado.
«No.»
«Allora come mai hai fotografato le auto nel parcheggio del dormitorio?» Marino si infila un paio di
guanti nuovi, allargando le dita robuste, aprendole e chiudendole più volte.
«Perché erano lì e bisognava farlo, più che altro a scopo di esclusione. Non vedo altra utilità a parte
questa.»
«Capisco. Sei piovuto dal cielo per venire a dirci come fare il nostro mestiere.» Marino prende dalla
valigetta un kit per il rilievo delle impronte.
«Sono piovuto dal cielo perché Lucy mi ha dato un passaggio fino a casa» replica Benton senza
polemica e, di nuovo, non aggiunge altro.
Marino si sporge a guardare dentro il pick-up nero, che è sporco e pieno di graffi e ammaccature: è un
Toyota di parecchi anni fa, che non viene lavato né lucidato da un pezzo. «Per tua informazione, abbiamo
preso nota di tutte le targhe di tutti i veicoli parcheggiati nella zona» dice. «Ovunque fosse possibile
fermarsi per scaricare un cadavere.»
«Ottimo» commenta Benton in tono neutro.
Marino studia la parte danneggiata del coperchio di acciaio del cassone porta attrezzi. Vicino alla
serratura il metallo è piegato. Solleva il coperchio e lo appoggia al vetro posteriore della cabina di
guida. «Merda» mormora.
17
Marino infila un braccio nel cassone e tira fuori una borsa di pelle marrone con due manici, un bauletto
poco vistoso e di buona qualità. Apre la cerniera.
«Tombola» esclama, sarcastico. «Un altro regalo per farci incazzare.»
«Non è per questo che l’ha lasciata lì» commenta Benton, pragmatico.
Non sembra sorpreso né particolarmente interessato quando Marino estrae dalla borsa un portafoglio,
lo apre e ci mostra la patente di Gail Shipton.
«Se prima l’ha portata da qualche parte, e questo spiegherebbe il fatto che non abbiamo trovato i
vestiti, perché poi ha lasciato qui questa?» Marino, con la mascella contratta, studia la patente. «Perché
non l’ha buttata in un cassonetto?»
Nella foto Gail Shipton ha diciotto o vent’anni e i capelli molto più corti, con la frangia. Ha un paio di
occhiali dalla montatura spessa che la imbruttiscono e un’aria impacciata, il sorriso forzato, lo sguardo
perso nel vuoto. Non ha il viso aperto e cordiale di una persona estroversa o affabile, ma forse non le
piaceva essere fotografata.
«Non voleva farci incazzare» dice Benton mentre Marino esplora i vari scomparti del portafoglio. «La
sua è una forma di esibizionismo. Tutto quello che fa ha un significato personale: lo fa per sé, non per
noi.»
«Perché lasciare lì il portafoglio sarebbe una forma di esibizionismo?» chiede Marino.
«È pura sfacciataggine. Ci aiuta a identificare la vittima. Si esalta a farlo» dice Benton e deduco che
ha trovato anche i documenti delle altre vittime.
«Non capisco» replica Marino.
«Ne parli come se fosse una specie di psicopatico, un serial killer» interviene Machado in tono
ammirato, ma anche un po’ incredulo. «Finché non siamo sicuri, ai piani alti io non dico niente.»
«Non dire niente a nessuno, per ora» replica Benton.
«È sul processo imminente che dovremmo concentrarci, se volete il mio parere» dice Machado in un
tono che vuole ricordarci che il caso è di competenza del suo dipartimento. «Voglio dire, magari
qualcuno la voleva morta. Non vedo perché dobbiamo pensare a uno squilibrato, uno psicopatico, e non
voglio assolutamente che si sparga una voce del genere. Se vogliamo coinvolgere l’FBI, dobbiamo
stabilire delle regole.»
Fissa Benton e posso immaginare cosa sta pensando. L’ FBI non è stato ufficialmente invitato a
partecipare alle indagini. La presenza di Benton è tollerata per cortesia, visto che ormai è qui, è mio
marito e lo conoscono. Percepisco di nuovo perplessità, dubbio. Ho la sensazione che Marino abbia
parlato male di Benton con Machado, denigrandolo per darsi delle arie.
«Bancomat, carte di credito.» Marino le lascia negli appositi scomparti. «American Express, Visa.
Forse ne aveva anche altre. Niente contanti. Manderemo tutto in laboratorio per la ricerca di DNA e
impronte.»
«Se aveva dei contanti, l’assassino se li è presi, e quindi direi che non l’ha uccisa per via del
processo» osserva Machado. «Non mi intendo particolarmente di omicidi su commissione, ma se le ha
rubato i soldi vuol dire che non è un sicario. Di solito evitano i contatti con la vittima, o sbaglio?» La
domanda è rivolta a Benton. «Accenno a questa possibilità dal momento che Gail Shipton era coinvolta in
una causa da centinaia di milioni di dollari.»
«I killer professionisti di solito non rubano.» Benton guarda Marino che, con i guanti, esamina il
contenuto della borsa prendendo gli oggetti uno per uno delicatamente, con la punta delle dita, toccandoli
il meno possibile.
Un portacipria. Rossetto. Mascara. Alcune biro nere. Un pacchetto di fazzoletti di carta. Pasticche per
la gola. Una spazzola per capelli rotonda.
«Lo dico con beneficio di inventario» continua Machado. «Ma è sicuro che agli imputati fa comodo
che sia morta.»
«Di solito chi uccide su commissione evita il più possibile il contatto fisico con la vittima e non lascia
prove vistose, come un attrezzo o una borsa, in posti dove la polizia le possa trovare» replica Benton.
«Non gli interessa darsi delle arie o fare colpo sugli investigatori. Al contrario: normalmente non
vogliono attirare l’attenzione e non sono maniacali.»
«Questo è maniacale?»
«Sto dicendo che i sicari di solito non lo sono.»
Marino tira fuori dalla borsa un quadernetto nero chiuso da un elastico verde, toglie l’elastico e lo
apre.
«Quindi non è stato casuale» dice Machado. «L’assassino aveva un movente, che comprende anche la
rapina.»
Marino sfoglia il quadernetto. Pagine bianche a quadretti piccolissimi, tipo carta millimetrata, piene di
date e numeri incolonnati in una grafia piccola e ordinata. Sembrano una sorta di codice misterioso, fino
a circa metà del quaderno. L’ultima annotazione, in inchiostro nero, è:
61: RIC 18/12 1733 (<18m) REC 13-9-14-1-3-3-9-1
«Se non ti dispiace...» Scatto una foto con il mio telefono protetto da una custodia di tipo militare
molto simile a quelle di Gail Shipton e di Lucy.
«Sembra una specie di registro. Di qualcosa che gli avvocati le avevano consigliato di segnarsi,
magari.» Marino rimette il quaderno nella borsa e tira fuori un foglio di piccole etichette adesive rosse
con una X bianca al centro. «Non ho idea di cosa sia questo» dice rimettendolo dentro.
Penso all’ultima telefonata ricevuta da Gail Shipton, da un numero sconosciuto.
Secondo me RIC vuol dire “chiamata ricevuta” e l’annotazione si riferisce a una telefonata di ieri
pomeriggio alle 17.33, terminata poco meno di diciotto minuti dopo, ovvero quando Gail era dietro lo Psi
Bar, vicino a un cassonetto, al buio.
Non sono sicura del significato del resto dell’annotazione, ma REC potrebbe voler dire che la
telefonata è stata registrata ed è possibile che la serie di numeri successiva sia un messaggio cifrato.
Immagino Gail Shipton che, conclusa la chiamata, si ferma ad appuntarsi queste informazioni. Forse ha
usato la app torcia del suo smartphone per farsi luce e l’impressione che mi sto facendo di lei si precisa.
Introversa e insicura, probabilmente. Pignola, prudente, forse rigida e ossessivo-compulsiva.
La immagino tutta presa a scrivere minuziosamente, in codice, sul suo registro, poco attenta a quello
che aveva intorno. C’era un’auto ferma dietro il locale? È arrivata una macchina e lei non ci ha fatto
caso? L’unica cosa che so è che dopo quella telefonata ha chiamato Carin Hegel, ma è caduta quasi subito
la linea. Deve aver incontrato il suo assassino intorno alle diciotto.
«Quando hai guardato il telefono di Gail, hai notato se c’erano registrazioni?» chiedo a Marino.
«Audio o video.»
«Non c’era niente. Solo chiamate ricevute ed effettuate, e-mail, SMS» mi risponde distratto mentre
ascolta Machado e Benton discutere educatamente ma con ostinazione.
«Si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato» dichiara Machado. «È uscita dal bar per fare
una telefonata e lui era lì, seduto in macchina.»
«Su questa parte non sono d’accordo» replica Benton.
«Lui l’ha vista: un bersaglio facile, una vittima casuale...»
«Era esattamente dove lui sapeva che sarebbe stata.»
«Come fai a dire che il movente non è la rapina?» Machado si incaponisce.
«Non sto dicendo che non le abbia preso soldi o anche qualche souvenir» ribadisce Benton per
l’ennesima volta. «Il comportamento umano non è univoco e, anzi, è spesso contraddittorio.»
«Potrebbe averle rubato i gioielli» faccio notare. «A meno che non portasse proprio nulla, nemmeno
gli orecchini. Non sappiamo che cosa avesse addosso quando è stata rapita.» Non esito a parlare di
rapimento, ormai.
«Quindi le ha portato via i soldi e forse i gioielli. Probabilmente si è tenuto anche i vestiti» dice
Marino mentre alla radio si sente di nuovo la voce dell’operatore. «Se siamo fortunati, avrà lasciato il
suo DNA sul portafoglio o sulla borsa. E sul tronchese» aggiunge, sarcastico. «In ascolto» dice poi alla
radio.
L’operatore lo informa che il proprietario del pick-up è un cinquantunenne di nome Enrique Sanchez,
che fa lavori di manutenzione per l’MIT. Non ci sono mandati di cattura nei suoi confronti e non ha
precedenti penali, salvo una multa per guida pericolosa in stato di ebbrezza nel 2008. È stato contattato e
sta per arrivare. Benton non dice “ve l’avevo detto”. Tace.
«Devo tornare in ufficio» annuncio a tutti quanti andando verso la mia valigetta.
La apro e comincio a raccogliere gli stub imbustati con il residuo fluorescente, le fibre e il gel che
sembra Vicks. Li chiudo in altre buste, che etichetto e metto in borsa. Sento il rumore di una macchina che
si avvicina. Quando alzo gli occhi, vedo una delle auto bianche e nere della polizia di Cambridge.
«Porto subito i campioni in laboratorio, ma preferirei lasciare qui la valigetta, visto che andiamo in
ufficio a piedi» dico a Marino. «Potresti portarmela tu quando vieni per l’autopsia, per favore? Le scarpe
di Benton e i suoi bagagli sono sul tuo SUV. Se non ti dispiace, già che ci sei, porti anche quelli?» Cerco
di fare in modo che non sembri un ordine.
L’auto della polizia si ferma dietro il pick-up nero e ne scende un agente con un taccuino in mano e il
nome sulla targhetta di metallo lucido: G.B. Rooney.
«Non volevo parlarne alla radio» dice a Marino e Machado. «La chiamata a cui ho risposto poco fa,
quella in Windsor Street...»
«Be’? Cerca di essere un po’ più specifico» dice Machado.
G.B. Rooney tace, esitante, e lancia un’occhiata a Benton e a me.
«Puoi parlare davanti a loro. Benton Wesley, dell’ FBI. E la dottoressa Scarpetta, direttrice del CFC.»
Mentre Marino ci presenta con aria indifferente, mi rendo conto che G.B. Rooney è “autopattuglia
tredici”.
Stamattina presto ha risposto alla chiamata relativa al ragazzo che mi spiava e poi è sparito dal
contatto radio per un po’.
18
Alto e magro, sulla quarantina, sembrava affannato quando finalmente si è rimesso in contatto con
l’operatore alle cinque e quarantacinque di questa mattina.
Ricordo di essere rimasta sorpresa che l’autopattuglia tredici fosse già in Technology Square visto
che, pochi minuti prima, era a parecchi chilometri di distanza nel campus della Harvard, dalle parti di
casa mia. Ho immaginato che l’agente avesse cambiato itinerario quando è arrivata la segnalazione dei
furti e degli atti vandalici, ma G.B. Rooney dà un’altra versione dei fatti.
«Ero a nemmeno due isolati di distanza quando ho notato un soggetto a bordo di un veicolo fermo
dietro l’Academy of Arts and Sciences in Beacon Street» spiega. «La descrizione corrispondeva
abbastanza a quella dello spione, la zona anche: ho pensato fosse meglio controllare.»
Lo dice in un modo che stuzzica la mia curiosità. Ho già capito che Rooney pensava che questa
persona avesse qualcosa di insolito e mi sono accorta che Benton lo ascolta con grande attenzione. La
zona di cui parla Rooney è molto vicina a casa nostra.
«Alto, snello, giovane, di razza bianca. Scarpe da ginnastica e pantaloni scuri, una felpa nera con il
cappuccio e la faccia di Marilyn Monroe.» Rooney dà una descrizione che potrebbe essere contenuta in
una denuncia alla polizia. «Ho aspettato che rimettesse in moto e l’ho seguito, ma tenendomi a distanza. È
andato verso le case popolari di Windsor Street. Per questo ero già là quando sono state vandalizzate
quelle auto. Possibile che fosse una gang: ce ne sono molte in zona. Ragazzi che girano per i parcheggi,
rubano quello che trovano e commettono atti vandalici. Io ero in un parcheggio e loro in un altro, a
spaccare vetri o a rubare dentro auto già aperte da altri. Incredibile.»
«Immagino che tu gli abbia controllato la targa» dice Marino.
«Un SUV Audi del 2012, azzurro, intestato a un ventottenne residente a Somerville, vicino al campo da
hockey di Conway Park: Haley Davis Swanson» dice G.B. Rooney.
«Cosa?» esclama Marino, colto alla sprovvista. «Haley Swanson?»
«Ha uno zio che abita in una casa popolare di Windsor Street.»
«Haley Swanson è un uomo?» Marino strabuzza gli occhi.
«Hai ragione, è un nome strano per un uomo. Una tradizione di famiglia, mi ha detto. Tutti lo chiamano
Swan.»
«È assurdo, cazzo.» La frustrazione di Marino è totale.
È così arrabbiato che potrebbe venirgli un colpo.
«Gli hai parlato?» domanda Machado. «Hai scoperto che cosa ci faceva fermo in macchina dietro
l’Academy of Arts and Sciences, vicino al parco?»
«Mi ha detto che aveva comprato due caffè al Dunkin’ Donuts di Somerville Avenue e uno gli si era
rovesciato, così si è fermato per pulire il sedile. Aveva due caffè da asporto sul sedile davanti e uno si
era rovesciato, quindi era la verità.»
«Gli hai chiesto che cosa ci faceva in Windsor Street all’ora in cui noi qui esaminavamo un
cadavere?»
Rooney fa una faccia confusa. «Non ho accennato a nessun cadavere.»
Machado non fa altre domande. Credo di sapere perché: vuole vedere se l’agente dirà spontaneamente
che Haley Swanson era amico di Gail Shipton. Vuole sapere se Rooney sa che Haley Swanson, detto
Swan, è la persona che ha denunciato la scomparsa di Gail Shipton e ha postato la notizia, insieme con la
foto, sul sito web di Channel 5.
«Che cos’altro sai di lui?» chiede dopo un po’ Machado.
«Lavora per uno studio di PR di Boston.» Rooney sfoglia il suo taccuino.
Non pare al corrente del fatto che Haley Swanson e Gail Shipton si conoscevano. Forse Swanson non
ha nominato Gail Shipton all’agente Rooney, e questo è molto sospetto. Ha denunciato la scomparsa della
ragazza e poi è venuto a spiarmi da dietro il muro del mio giardino? Mi sfugge la logica. Perché avrebbe
comprato due caffè da asporto? Non mi torna che si sia fermato a comprare i caffè e poi abbia deciso di
lasciare la macchina in Beacon Street e di venire a piedi a spiare me, di notte e sotto la pioggia.
«Era bagnato quando gli ha parlato? Era stato sotto la pioggia?» chiedo a Rooney. Benton ci osserva
impassibile, ma ascolta con grande attenzione.
«Non mi è parso bagnato» risponde l’agente. «Ho il nome del posto dove lavora.» Torna indietro di
varie pagine. «Lambant & Associates.»
«Sono specializzati in gestione delle crisi.» Benton scorre le e-mail sul cellulare. «Fanno
“comunicazione mirata”: in parole povere, manipolano l’opinione pubblica.»
«Mi domando se Gail Shipton era loro cliente» suggerisco. «Forse è così che si sono conosciuti.»
«È uno studio noto all’FBI di Boston.» Benton non mi risponde in maniera diretta. «Lavora per
personaggi ricchi e di alto profilo, per lo più colletti bianchi, politici corrotti, membri della criminalità
organizzata, di tanto in tanto uno sportivo famoso coinvolto in qualche scandalo.» Lancia a Marino una
lunga occhiata severa e aggiunge: «Recentemente si è occupato della class action per il pick-up che ti ha
dato dei problemi, Pete. Il processo è stato annullato: nessun danno per la casa automobilistica, niente
pubblicità negativa. Anzi, i querelanti hanno finito per fare la figura degli irresponsabili, che guidano
fuoristrada in condizioni estreme, modificano l’assale posteriore, manomettono il telaio eccetera».
«Tutte stronzate.» Marino diventa rosso. «La gente normale mica si può permettere consulenti per
manipolare l’opinione pubblica. Come sempre, sono i poveracci che lo prendono in quel posto.»
Temo che stia per lanciarsi nella sua solita tirata sul pick-up. Invece riesce a controllarsi.
«Sto semplicemente dicendo che Swanson potrebbe sapere chi sei» spiega Benton. «Se si è occupato
di quella vicenda per conto dello studio, potrebbe aver visto il tuo nome tra quelli dei querelanti.»
«Sembra che avremo parecchie cose da controllare.» Machado prende appunti. «A cominciare
dall’esatta natura dei rapporti tra Haley Swanson e Gail Shipton. E dove si trovava lui ieri sera quando
Gail è uscita dal bar per telefonare ed è sparita. E perché ha chiamato per dire che era scomparsa ma non
si è preso la briga di venire al dipartimento a fare formalmente denuncia. Direi che abbiamo un
indiziato.»
Benton non fa commenti e guarda di nuovo la ferrovia.
«Chiederemo allo Psi Bar se qualcuno ricorda con chi era Gail Shipton, se era con Swanson, se
qualcuno lo conosce» propone Marino.
«Volete la mia opinione personale?» Rooney si appoggia al cofano della macchina e infila le mani
nelle tasche della giacca. «Non è politicamente corretto, ma penso di doverlo dire. Non sono sicuro che
sia un uomo. Dalla voce sembra una donna, o per lo meno potrebbe passare per tale. Ovviamente non ho
potuto fargli domande in proposito. Non potevo chiedergli se ha cambiato sesso o se prende degli
ormoni. È irrilevante, in fondo.»
«Si presenta come una donna?» domanda Machado.
«Io sulle prime ho pensato che lo fosse. Quando l’ho fermato alle case popolari, gli ho detto: “Che
cosa fa una bella signorina come lei qui a quest’ora?”. Lui non mi ha corretto e sono quasi certo che
avesse il reggiseno. Le tette ce le ha di sicuro. Mi ha detto che suo zio abita lì. Reduce del Vietnam,
disabile, in quel quartiere malfamato con un sacco di criminalità legata allo spaccio di droga, come noi
ben sappiamo. E l’altro sospetto che mi è venuto è questo: magari Swanson fa il doppio lavoro, è per
quello che si può permettere un SUV di lusso così nuovo. Ho insistito parecchio per farmi dire che cosa ci
facesse lì, e mi ha risposto che a volte passa a trovare lo zio prima di andare al lavoro e gli porta un
caffè. Ho controllato. Ha davvero uno zio disabile che abita lì. Ho il nome e scriverò tutto quanto nel
rapporto.»
«Fammelo avere al più presto» dice Marino, brusco. Si sente stupido.
Ha parlato con Haley Swanson intorno all’una di notte senza accorgersi di niente.
«Tutto qui?» chiede Machado a Rooney. «Non ha dato spiegazioni sul perché era a Cambridge? O sul
perché ha parcheggiato vicino alla Harvard in Beacon Street? Sei sicuro che fosse perché gli si è
rovesciato il caffè e non magari per fare una ricognizione nel quartiere? Ha nominato la casa della
dottoressa Scarpetta? Ha detto di sapere dove abita?»
«Perché dovrebbe interessargli dove abitiamo?» chiede Benton.
Rooney ci rivolge uno sguardo interrogativo e cambia posizione, stando attento a non graffiare la
carrozzeria con il cinturone.
«Un individuo sospetto si aggirava intorno a casa vostra stanotte e io ho mandato qualcuno a
controllare, ecco perché» risponde Marino, senza lasciarmi il tempo di dare spiegazioni. Benton mi
guarda, poi torna a fissare i binari. «Forse stava spiando Kay» aggiunge Marino con gusto, soddisfatto di
sapere qualcosa su di me che Benton non sa.
«Non è un PR che forse spaccia droga nelle case popolari» dice Benton in un tono che non ammette
repliche. «Non è di uno così che vi dovete preoccupare. L’assassino che state cercando non è uno che
denuncia la scomparsa della donna che ha appena ucciso e dà il proprio nome a un investigatore di
polizia.»
«Cosa ne sai?» replica Marino. «Troveremo Swanson e lo faremo parlare.»
«Ha detto che ha avuto una nottataccia, che era agitato, ha girato a lungo in macchina, è tornato a casa
a fare la doccia e a cambiarsi e ha comprato i due caffè prima di andare al lavoro» riassume Rooney.
«Agitato?» dice Machado. «Ti è sembrato agitato?»
«Sì, mi è sembrato nervoso e agitato. E anche spaventato. Ma tanti si spaventano quando vengono
fermati dalla polizia.» Rooney si volta mentre un vecchio furgone Chevrolet bianco con delle scale sul
tetto sbuca da Vassar Street e viene verso di noi. «Non ci sono mandati di cattura su di lui. Non c’era
motivo di trattenerlo.»
«Be’, ora c’è» ribatte Marino.
Con aria preoccupata un uomo tarchiato ci fissa dal sedile del passeggero, spalanca la portiera prima
che il furgone si sia fermato del tutto e scende. Si dirige velocemente verso il pick-up nero ed è evidente
che è il proprietario, Enrique Sanchez, e che è sulle spine. Jeans, giacca a vento e scarponi da lavoro tutti
graffiati, ha il naso rosso, la faccia gonfia e la pancia del forte bevitore.
«Lo lascio qui quando mi faccio dare un passaggio fino a casa. Se bevo una birra con gli amici» dice a
voce alta, con forte accento spagnolo, guardandoci con gli occhi sgranati.
Benton mi fa un cenno e ci incamminiamo verso i binari.
«Lo ha lasciato qui quando? E ha bevuto una birra dove?» chiede Marino a Enrique Sanchez
avvicinandosi.
«Ieri pomeriggio alle cinque. Al Plough. Ci sono stato meno di due ore, poi il mio amico mi ha portato
a casa ed è venuto a prendermi stamattina.»
«Il Plough in Mass Avenue?» chiede Marino. «Fanno degli ottimi sandwich cubani. Le succede spesso
di lasciare qui il furgone di notte?»
19
Camminando lungo i binari superiamo una cabina elettrica, un centro di ricerca sulla fusione nucleare e
poi un grande laboratorio di ricerca sul magnetismo. Procediamo lentamente tra recinzioni di rete
metallica, in mezzo a parcheggi e cassonetti dell’immondizia, su cemento crepato ed erbacce, cercando
tracce dell’assassino.
Benton è sicuro che sia scappato passando di qui prima dell’alba. Non percepisco la minima
esitazione o il minimo dubbio nelle sue parole, ma mi è difficile immaginare che uno voglia fare questa
strada al buio. Non vedo come si possa camminare nel fango, su legno e metallo bagnato e liscio come il
vetro, passando sul retro di edifici deserti con tutte le luci spente. C’è da farsi male. Come riusciva a
vedere dove metteva i piedi?
«Avresti dovuto dirmelo» mi fa notare Benton, non in tono accusatorio, ma sottovoce, preoccupato.
«Se avevi la sensazione che qualcuno ti spiasse, perché non mi hai detto niente?»
«Pensavo che fosse solo un’impressione. Poi stamattina l’ho visto. È scappato via subito. Lì per lì
Marino ha pensato che fosse un ragazzino che voleva rubarci in casa.»
«Ma non lo era.»
«Adesso è convinto che fosse Haley Swanson.»
«Non è lui. E credo tu abbia capito che questo è ancora più preoccupante. Ma ora sono a casa e, se
prima non lo sapeva, adesso lo sa.» Benton parla come se si riferisse a un vecchio amico malevolo.
«Lo sa perché ci spia» dico.
«Esatto. Osserva e ha delle fantasie, e ultimamente i media hanno parlato molto di te. È uno che segue
gli altri casi.»
«Stai dicendo che ce l’aveva con me.»
«Non gli permetterò di farti del male» dichiara Benton.
Arriviamo vicino a grandi condizionatori, generatori e serbatoi di azoto liquido da cui partono tubi in
acciaio incamiciati. Lampioni altissimi sembrano mulini a vento in piazzali di asfalto screpolato e sopra i
tetti piatti sorgono ciminiere alte e coniche che sembrano missili o canne d’organo. Facciamo il giro
largo intorno a un camion carico di bombole di elio e mi prende una gran tristezza. Non so da dove
venga.
Benton è stato via meno di un mese, ma mi sembra una vita. Non è più lo stesso, o forse sono io che
sono cambiata e lo vedo in modo diverso da prima. Mi sento scossa nel profondo. Non oso fidarmi delle
sue intuizioni. Temo che stia diventando paranoico, che la stia buttando eccessivamente sul personale.
Penso a quante volte l’ho messo in guardia contro il pericolo di avvicinarsi troppo a quelli a cui dà la
caccia. “Se vai a cena con il diavolo, portati un cucchiaio molto lungo.” Gliel’ho ripetuto un sacco di
volte.
Mi volto a guardarlo e non capisco cosa c’è che non va. Benton avanza facendo attenzione a dove
mette i piedi, con gli stivali di gomma arancioni infangati, il cappotto di cachemire piegato con cura sul
braccio. Ha un completo grigio antracite, una camicia blu e una cravatta di seta viola fantasia, con tanti
piccoli interruttori ON/OFF di computer, un regalo scherzoso di Lucy.
Il sole che gli batte obliquo sul viso mette in risalto le rughe agli angoli degli occhi e le pieghe ai lati
del naso diritto e fiero. La mattinata limpida accentua i segni sottili del tempo e il suo fisico asciutto mi
sembra smagrito dall’ultima volta che ci siamo visti. Non mangia abbastanza quando non ci sono io.
«Hai fatto così anche le altre volte?» Sono decisa a sondarlo.
Stamattina l’ho visto impegnato in un’attività a cui di solito non assisto e ho intenzione di farmi
spiegare tutto. Anche negli omicidi di Washington ha ripercorso i passi dell’assassino? Ha fatto
esattamente quello che sta facendo adesso?
«Stiamo parlando di ambienti completamente diversi.» La voce è più sommessa di prima. «Nel primo
caso, Klara Hembree, era lungo un sentiero chiuso con una catena che ha forzato.» Continua a guardare il
telefono: una parte di lui è altrove, in un posto dove non è felice.
«E ha lasciato un attrezzo con una pietra sopra.»
«Sì.»
«Rubato?»
«Ha forzato la rimessa di un campo da golf.» Scrive la risposta a un messaggio mentre cammina con
espressione vagamente indispettita. «Un casotto di metallo dove tenevano le attrezzature per la
manutenzione. È lì che ha preso l’arnese, un tagliacavi. Vuol dire che sapeva che cosa c’era dentro.»
«Qualche problema?» È evidente che qualcosa non va.
«Non ho intenzione di mollare tutto per tornare a “lavorare”. Come se adesso non stessi lavorando.»
A quanto pare Ed Granby gli ha scritto, o fatto scrivere, un’e-mail.
«L’assassino sapeva dove andare.» Benton guarda di nuovo il telefono, dapprima irritato, poi senza
alcuna espressione. «Ha tagliato la catena ed è arrivato con la macchina fino all’area picnic, dove ha
messo in posa il cadavere vicino agli alberi. Quando sono andato a fare un sopralluogo alcuni giorni
dopo, ho trovato il tagliacavi con una pietra sopra dietro l’area picnic, vicino ai binari.»
«È entrato con la macchina in un campo da golf? Mi sembra più che rischioso. Mi sembra un gesto
sconsiderato.»
«In tutti i parcheggi che ha scelto c’erano videocamere di sorveglianza, e sicuramente lui lo sapeva.»
Benton si china per tirarsi su le calze dentro gli stivali. «Ragiona come la polizia. Sa che cosa cercare e
che cosa evitare. Fa esattamente quello che la polizia dà per scontato che non faccia, tipo entrare con la
macchina in un campo da golf di notte e forzare una rimessa. Perché, come hai detto tu, è un gesto
sconsiderato. La polizia non mette in conto che faccia una cosa del genere, non se lo aspetta.»
«Ma tu sì.» Lo guardo armeggiare con il risvolto dei pantaloni, per infilarli di nuovo negli stivali.
«Ti sto descrivendo quello che sono convinto abbia fatto.» Benton si rialza e guarda di nuovo il
telefono con una scintilla di collera che subito si spegne. «Ho visto i segni degli pneumatici nel punto in
cui è uscito dal sentiero per salire sul prato. Pneumatici Goodyear da fango, per SUV o fuoristrada. E ho
tratto le mie conclusioni.»
«Ovvero?»
«Età dai venticinque ai trentacinque. Razza bianca» dice Benton. «Pratica attività ad alto rischio, forse
sport estremi, ha un lavoro con orari abbastanza elastici, che gli permette di andare e venire a qualsiasi
ora senza dare nell’occhio. Vive solo, ha un QI molto alto, ma non ha finito gli studi. Affascinante,
cordiale, spiritoso ma permaloso. In sintesi, uno psicopatico violento con tratti di personalità borderline
e narcisistica. Il modo ritualistico in cui cattura, domina e uccide le sue vittime sostituisce l’atto sessuale,
per lui. Ma le ultime due a una sola settimana di distanza, e ora anche questa? Sta perdendo il controllo,
Kay.»
«E i tuoi colleghi non concordano con te.»
«Dire che non concordano è un eufemismo.»
«Hai trovato le impronte degli pneumatici perché cercavi l’imprevedibile, perché non sei la polizia.»
«Ragiono in maniera diversa da loro» dice. I pantaloni non stanno dentro gli stivali e gli risalgono di
nuovo lungo la gamba. «Dimmi se ti sembra che io debba andare in giro conciato così...» Si china per
risistemarseli.
«Ragioni in maniera diversa dalla polizia e dai tuoi colleghi. E sai ragionare come l’assassino.»
«Qualcuno deve pur provarci.» Ricomincia a camminare. «Bisogna che qualcuno lo faccia.»
«Sembri molto sicuro.»
«Lo sono.»
«Fa cose che neanche tu ti aspetti?»
«Non più.»
«Riesci a prevedere le sue mosse. Come il Vicks.»
«Quella è una supposizione. Sulle altre scene del crimine non è stato trovato, ma posso immaginare
perché lo usa e da dove ha preso l’idea.» Benton è infastidito dagli stivali, o forse dalle mie continue
domande. Lo sto sondando implacabilmente.
«Come mai lo puoi immaginare?» Devo capire fino a che punto è sprofondato in questo baratro
oscuro.
«Tu hai letto gli articoli che ho scritto su Albert Fish e, prima ancora, la mia tesi per il master. Il
dolore è estasi, un profumo che brucia. Spalmarsi un unguento mentolato sui genitali voleva dire avere la
certezza di non violentarla. Era fiero del proprio autocontrollo. La strangolò, la tagliò a pezzi e ne fece
uno stufato con verdura e patate, ma non la molestò sessualmente e lo scrisse alla madre. I glutei erano la
parte più saporita, ma almeno non l’aveva violentata.»
«Stai contemplando l’ipotesi che l’assassino si sia applicato un unguento mentolato sui genitali.»
«È un riferimento che ho fatto ai Fiori del male di Baudelaire, e più precisamente al salicilato di
metile usato nei profumi, la fragranza del dolore di cui Albert Fish aveva bisogno. Il dolore era il suo
profumo malvagio. Si infilava aghi nell’inguine e steli di rosa nel pene per provare piacere sessuale.
Godeva a essere picchiato con un remo irto di chiodi. Perché? Perché a cinque anni era stato messo in
orfanotrofio a Washington, dove lo spogliavano nudo e lo frustavano davanti ai suoi compagni, che lo
prendevano in giro perché le botte gli provocavano un’erezione. Ricavare piacere dalle sensazioni
dolorose diventò un riflesso condizionato per lui. Il dolore diventò un afrodisiaco.»
«A Washington» ripeto, sottolineando il nesso. «Pensi che il Capital Killer possa ispirarsi a uno dei
serial killer più famosi di tutti i tempi?»
«Potrebbe aver letto le mie pubblicazioni. Albert Fish era un fenomeno psichiatrico senza precedenti e
l’ha fatta franca per decenni. Era sposato, aveva sei figli e si sospetta che abbia provato piacere al
momento dell’esecuzione.» Benton racconta tutto questo come se fosse normale.
«Speriamo di non avere a che fare con un soggetto del genere.»
«Raggiungere una fama altrettanto sinistra gli piacerebbe. È plausibile che legga le storie di assassini
efferati e riviva le loro violenze, le loro atrocità» dice Benton. «Vive prevalentemente in un mondo
immaginario violento e deviante, radicato in episodi del suo passato. È condizionato a eccitarsi e godere
per cose che in genere sono considerate agghiaccianti. Forse è così fin dalla nascita, o lo è diventato in
seguito a qualche trauma infantile. O, più probabilmente, tutt’e due le cose.»
«Tu questo l’hai detto ai tuoi colleghi?»
«Pensano che dovrei dare le dimissioni finché sono in tempo. “Sei ricco, puoi vivere di rendita”
dicono. “Goditi i soldi di famiglia. Passa più tempo ad Aspen. Comprati una casa alle Hawaii.”»
«Sanno che hai paura che l’assassino abbia letto le tue pubblicazioni e si ispiri a quello che hai
scritto.» Non oso immaginare la reazione dell’FBI.
«Non è venuta a me l’idea. Il primo a parlarne è stato Granby, il che è ancora peggio» replica Benton,
con mia sorpresa.
«È un’accusa terribile» commento.
«Conferma la sua teoria secondo cui il Bureau dovrebbe abbandonare l’attività di profiling, tipica
degli anni Ottanta e Novanta, e l’Unità di analisi comportamentale dovrebbe essere assorbita dalla task
force sul terrorismo» dice Benton. «Vorrebbe concentrarsi soltanto sulla lotta al terrorismo e alle stragi
assurde a cui assistiamo ultimamente, invece che su singoli criminali seriali. Io sono obsoleto e forse
contribuisco addirittura ad aggravare il problema. Le mie pubblicazioni si trovano su internet, non c’è
modo di sapere chi le legge e non dovremmo divulgare informazioni delicate che possono fomentare
eventuali emulatori...»
«È un burocrate dalla mentalità ristretta.» Cerco di rassicurare Benton mentre camminiamo al sole e al
vento. «Disapprova il modo in cui ti vesti, disapprova la tua auto, la tua casa e nemmeno io gli piaccio,
anche se fa finta che non sia così. Gli dà fastidio che tu sia considerato l’inventore del profiling, che tu
sia un pioniere, un’autorità. Lui non lascerà niente di memorabile, e nessuno lo ricorderà. Già ora molti
ne parlano male.»
«Prima o poi riuscirà a mandarmi via, e Marino non mi ha aiutato informando i miei colleghi che sto
collaborando a indagini di cui erano all’oscuro.» Benton si guarda i piedi negli stivali arancioni schizzati
di fango. «Non ho parlato con Granby, ovviamente. Avevo altro da fare.»
«Che cosa ha detto Marino ai tuoi colleghi?» Provo un moto di irritazione.
«Senza pensare, ha chiesto di trovare un momento per parlare con loro del caso.»
«Maledizione. Ci mancava solo questo. È stato stupido da parte sua. Voleva farsi bello e quando fa
così non ragiona. E deve prendersela con te, Benton, soprattutto adesso che si sente insicuro.»
«Non importa perché lo ha fatto. Ma vorrei che fosse stato zitto.»
«Peraltro, è già successo che ti abbiano chiesto di dare le dimissioni. Poi hanno sempre cambiato
idea, perché chi ha un minimo di buonsenso si rende conto che sei prezioso.»
«Questo potrebbe essere il caso che mette fine alla mia carriera.» Infila il telefono nella tasca dei
pantaloni. «Soprattutto se hanno l’impressione che io abbia aiutato qualcuno a diventare un assassino
migliore.»
«È assurdo, e non è detto che abbia letto davvero i tuoi lavori.»
«Potrebbe averne ricavato delle idee, ma non sono stati i miei articoli a spingerlo a uccidere. Non è
così che funziona. Granby mi dipinge molto diverso da quello che sono e io non posso farci niente.»
«È inquietante.» Sono più diretta. «Lo dirò chiaro e tondo: sono preoccupata per te e per il tuo stato
mentale.»
Lui mi prende delicatamente per un gomito, aiutandomi ad avanzare nel fango, e mi posa una mano
sulla schiena come fa quando vuole farmi sentire che c’è. Poi guarda dove mette i piedi e percepisco che
si sta allontanando, sento la distanza che ci separa, un vuoto freddo che mi sconcerta e mi mette in ansia.
Non mi sento al sicuro da nessuna parte e mi ritrovo a guardarmi intorno e a chiedermi se qualcuno mi
stia spiando o seguendo.
«Dimmi come stai, Kay.» Benton mi guarda pur continuando a osservare quel che ha intorno e davanti,
attentissimo.
«Sto bene. E tu? A parte il fatto che non mangi e non dormi abbastanza. Chi dà la caccia a chi?» Ecco,
l’ho detto.
«Secondo me, invece, tanto bene non stai. Anzi, per niente. Quando ciò che credevamo di
padroneggiare diventa imprevedibile, non possiamo stare bene. Il mondo diviene improvvisamente
spaventoso e perde il suo fascino.»
«Fascino» ripeto sarcastica, irremovibile. «Il mondo ha perso il suo fascino la prima volta che ho
incontrato la morte. Siamo state presentate in modo molto sgradevole quando avevo dodici anni. E da
allora non ci siamo più separate.»
«E adesso hai incontrato una cosa che non riesci a sezionare. Per quanto la esamini, non sei in grado
di capirla.»
Non sta parlando né di Washington né di Cambridge. Sta parlando del Connecticut. Non gli rispondo
subito, mentre camminiamo. Mi fermo per rimettermi la giacca perché si è alzato il vento. Affondo le
mani nelle tasche, che sono piene di guanti sporchi. Cerco un bidone della spazzatura, ma non ce ne sono.
«Siamo sinceri, il mondo è sempre stato un luogo spaventoso e privo di fascino.» Cerco di ignorare
questo come ho ignorato l’influenza, come da piccola ho ignorato la morte di mio padre, come ho
ignorato tante cose da quando Benton mi conosce.
«Tu attingi a un pozzo che non sapevi essere senza fondo e adesso hai scoperto che la disumanità è
senza fine» dice Benton. «Che avvengono stragi insensate e tu non puoi farci niente perché quando arrivi
è già tutto finito: stragi in un supermercato, in una chiesa, in una scuola. E non è possibile tracciare il
profilo di chi compirà la prossima, dell’individuo vuoto e demente che sbucherà dal nulla per colpire di
nuovo. Almeno su questo Granby ha ragione.»
«Non dargli credito.»
«Posso solo prevedere le conseguenze, perché questi colpiscono una volta sola e poi muoiono. E a noi
non resta che aspettare il prossimo.»
«Quanti ce ne saranno ancora?» La rabbia rialza la testa. Ne sento il fiato caldo sul collo e non voglio
averci nulla a che fare.
«Più ce ne sono, più ce ne saranno» dice Benton. «Prima, il minimo comun denominatore era
l’animalità primitiva, più che la perversione. Omicidio, violenza carnale, tortura, cannibalismo, persino
le pubbliche esecuzioni orchestrate dai romani per intrattenere la folla al Colosseo. Ma in passato queste
cose non sono mai successe. Non c’erano uccisioni di massa come se fosse un videogioco. Gente che
uccide bambini, neonati, che svuota interi caricatori su folle di sconosciuti per diventare famosa. No, non
stai bene, Kay. Non stiamo bene né tu né io.»
«Fra coloro che sono intervenuti per primi, molti daranno le dimissioni.» Abbasso gli occhi a terra.
«È stato troppo anche per quelli con più esperienza, paramedici e poliziotti. Parevano zombi: facevano
quello che dovevano fare, ma sembravano completamente assenti. Era come se dentro di loro fosse morto
qualcosa.»
«Tu non darai le dimissioni.»
«Io sono arrivata dopo, Benton.» Evito un pezzo di tondino di acciaio e un arpione da rotaia che
spuntano fra le pietre.
«Hai visto le stesse cose che hanno visto loro.»
Gli cingo la vita con il braccio e sento quanto è magro. Gli appoggio la testa sulla spalla e annuso il
suo lieve profumo, un misto di odore della sua pelle, acqua di colonia e giacca di lana scaldata dal sole.
«Proietti su di me paure tue» mi mormora fra i capelli. «Non sono uscito dal seminato. Sei tu che temi
di farlo. Proiettiamo spesso le nostre paure sugli altri quando qualcosa ci colpisce nel profondo. Per
quanti orrori indicibili abbia visto nella vita, uno non è mai pronto.»
«Che quadro fosco! Con tutto quel che abbiamo fatto io e te... Ma il mondo va sempre peggio. A volte
mi chiedo chi ce lo fa fare.»
«Non ci credo.»
«Hai ragione» rispondo. «Non me lo chiedo. Ma forse faccio male.»
«Hai quella piccola torcia che ti porti dietro di solito?» mi domanda.
Siamo arrivati a un istituto di neuroscienze attraversato dai binari del treno: la ferrovia ci passa
letteralmente attraverso, con un tunnel che sarà lungo cento metri. Dentro c’è poca luce e la temperatura è
cinque o sei gradi più bassa. Prendo la torcia e la accendo. Lo scricchiolio della ghiaia e di qualche
sassolino che urta i binari mi ricorda i rumori dietro il muro in fondo al giardino. Foglie e stecchi smossi,
una pietra o un pezzo di mattone spostato, poi il ragazzo che scappa.
Quando sbuchiamo alla luce nel mattino limpido, ripulito dalla pioggia, ripongo la torcia nella borsa.
Scavalchiamo pozzanghere nella ghiaia fino ad arrivare in un tratto dove sui binari si è depositato un
sottile strato di fango grigio. Benton e io vediamo l’impronta nello stesso momento. Sembra lasciata da
un piede nudo.
20
Il mio primo pensiero va a Gail Shipton. Era scalza, ma è assurdo: non può essersi avvolta in un telo
bianco per camminare lungo la ferrovia sotto la pioggia e andare a morire in mezzo al Briggs Field.
Oltretutto, l’impronta punta nella direzione sbagliata, non verso il campus ma dall’altra parte.
Ci fermiamo fuori dal tunnel, in un punto in cui i binari sono arrugginiti e non ci sono traversine: un
tratto di circa due metri dove la ferrovia pare sdentata. Poi le traversine ricominciano e sulla prima c’è
l’impronta, lasciata nella terra che si è accumulata sul legno impregnato di creosoto. Mi chino a guardare
meglio la sagoma chiarissima di un piede, la pianta e le cinque dita, con strane righe in corrispondenza
dell’avampiede e del calcagno. Dal punto di vista anatomico è perfetta. Troppo simmetrica e troppo
perfetta. Sembra volutamente finta.
Tre traversine più in là ne vedo un’altra, identica, poi un’altra ancora; poco lontano, nella terra dalla
parte opposta dei binari, ci sono varie impronte parziali semicancellate dalla pioggia. A differenza delle
prime puntano verso il campus. Deduco che sono state lasciate in tempi diversi: quelle parziali prima,
quando pioveva ancora, e le altre dopo, quando aveva smesso. Hanno tutte i margini leggermente sfumati,
come se chi le ha lasciate stesse correndo o saltando da una traversina all’altra. Doveva essere un
individuo forte e agile, con un ottimo equilibrio, in grado di non scivolare e non inciampare in condizioni
in cui la maggior parte di noi non riuscirebbe neppure a camminare di buon passo.
Hanno un che di disumano, quasi appartenessero a un supereroe in tuta di gomma che si è dileguato
lungo i binari veloce come era arrivato. Un Batman, un Superman, sceso a terra per spiccare subito il
volo con un balzo. Solo che non si tratta di un eroe buono che difende l’umanità da mille pericoli.
Ripenso all’uomo in tuta nera che ho visto fare jogging quando sono arrivata sulla scena del crimine
prima dell’alba: agile e veloce. L’ho notato, non so perché, mentre correva proprio verso la parte del
campus dove la ferrovia passa dietro la Simmons Hall.
«Una scarpa-guanto.» Almeno questo mi è chiaro. «Lucy le usa per correre, a volte. Si chiamano scarpe a
cinque dita, sono un po’ come calzari, per fare jogging minimalista.»
«Minimalista come un lenzuolo bianco. Come sacchetti di plastica trasparente con un semplice fiocco
di nastro adesivo simil-pizzo. Ferite minime. Minima resistenza da parte della vittima, sempre che ce ne
sia stata.» Benton fa le sue considerazioni quasi fossero calcoli ad alta voce. «Uccide in stile
minimalista, ma con grande enfasi, e con dileggio. Sa catturare l’attenzione del suo pubblico.»
«Hai già visto impronte come queste?»
Scuote la testa, con la mascella serrata. Chiunque sia il colpevole, Benton lo odia.
«Non sono state trovate impronte di scarpe in nessun’altra scena del crimine» risponde. «È arrivato in
macchina e ha proseguito a piedi sull’erba. Ciò non significa che non avesse calzature del genere. Non
so.»
«Pare che correre con le scarpe-guanto sia quanto di più simile a correre scalzi. Lucy lo chiama
“correre nudi”» dico. «Sicuramente non ti aspetti che si usino qui, soprattutto con la pioggia e il fango.
Anche se hanno una suola protettiva, senti tutto: sassi, pezzi di legno, crepe nel marciapiede. Almeno,
così mi hanno detto. Lucy di solito le usa per strada e sulla sabbia, ma non sullo sterrato.»
Per un tratto lungo una decina di traversine la massicciata è di nuovo di ghiaia. Il legno è scuro,
bagnato, ma relativamente pulito e mi chiedo se le impronte non siano un’altra sorpresa premeditata.
Forse l’assassino minimalista voleva che le trovassimo, come il tronchese, la borsa e il portafoglio di
Gail Shipton. Oppure ha finalmente commesso un errore. Anche la goccia di pomata al mentolo è stata
una svista? Dal Vicks posso ricavare il DNA. Mi bastano poche cellule cutanee.
Tiro fuori dalla tasca della giacca il telefono per fotografare un’impronta e, quando mi raddrizzo,
vedo tutto nero. Per un attimo, mi sento svenire. Un calo glicemico. Alzo lo sguardo verso le cime degli
alberi spogli che si stagliano contro il cielo limpido, rami che sembrano artigli e ondeggiano: sta
cambiando il vento, lo sento frizzante sulla pelle. Mi guardo intorno in cerca dell’uomo che segue le sue
vittime prima di ucciderle e che adesso forse sta seguendo me. Devo andare al CFC.
Devo far parlare il cadavere, perché so che mi dirà la verità in una lingua che capisco, di cui mi posso
fidare. Con me i morti non fanno capricci, non mentono. Non cercano attenzione a tutti i costi, non sono
prepotenti. Io non voglio penetrare nella mente dell’assassino e guardare ciò che osserva Benton. Mi fa
effetto vederlo entrare in sintonia con chi fa arrivare i cadaveri nella mia sala settoria, ma nel suo
mestiere è inevitabile.
«Chiamo Marino» decido. «Bisogna che venga qui, così io vado al CFC e comincio l’autopsia.» Allego
a un SMS le foto che ho appena scattato.
Il testo del messaggio dice che abbiamo trovato delle strane impronte sui binari all’uscita del tunnel
che passa sotto l’istituto di neuroscienze, a circa quattrocento metri dal pallone dei campi da tennis.
Meno di un minuto dopo che ho premuto INVIO, Marino mi chiama.
«Hai motivo di pensare che le impronte siano dell’assassino?» mi chiede senza preamboli.
«Sono state lasciate in queste ultime ore, quando ha cominciato a spiovere e poi ha smesso del tutto»
rispondo. «Alcune sono in parte cancellate dalla pioggia e puntano verso il campus, altre sono intatte e
rivolte nella direzione opposta. Secondo me, possiamo dedurre con ragionevole certezza che sono state
lasciate da una persona che prima è andata verso il campus e poi è tornata indietro, forse correndo,
quando era ancora buio e noi esaminavamo il Briggs Field.»
«Non può aver portato il cadavere al Briggs Field a piedi» obietta Marino, dubbioso.
«No.»
«E allora cos’è andato avanti e indietro a fare?»
«Non lo so, ma dovresti venire qui e vedere se ne trovi altre che a me possono essere sfuggite.»
«Non capisco perché dovrebbe essere andato e tornato a piedi. Forse sono di persone diverse.»
«Hai presente le scarpe-guanto?» chiedo.
«Quelle scarpe assurde che porta Lucy? Me ne ha regalato un paio qualche anno fa per Natale. Tipo
calze, ma con le dita, di gomma. Sembravo una rana e sbattevo il pollicione dappertutto.»
«A occhio, sono lunghe ventisei o ventisette centimetri.»
«Non potresti dirmelo in pollici? Siamo in America, no?»
«Circa dieci pollici. Che corrispondono a una scarpa numero quarantuno o quarantadue.»
«Quarantuno? Come piede, per un uomo è cortino. Potrebbero essere impronte di un ragazzetto che è
andato lì a giocare lungo i binari, o a fare le stranezze che fanno quei piccoli geni dell’MIT. Certi avranno
sì e no quattordici anni. Non mi stupirei che qualcuno portasse scarpe con cinque dita.»
«Bisogna fotografare le impronte vicino a un righello.» Mi rendo conto di aver detto a Marino che
cosa deve fare esattamente come quando lavorava per me.
Per quanto mi sforzi, non riesco a smettere di dargli ordini. Percepisco la sua irritazione, o forse la
immagino.
«Magari poi verrà fuori che non c’entrano niente» aggiungo diplomatica. Sento al telefono un tintinnio
metallico e il rumore di una portiera.
Marino fa scendere Quincy dal SUV e gli mette il guinzaglio.
«Ma per sicurezza è meglio fotografarle e misurarle» aggiungo. «Non credo che riuscirai a prendere
un calco, però conviene prelevare campioni di terreno per vedere se Ernie trova fibre o prove materiali
di qualche genere.» Ernie Koppel è il più esperto dei miei microscopisti. «Le probabilità di trovare
qualcosa sono poche, ma se non è necessario o non è possibile mantenere intatte le impronte, ti conviene
almeno prelevare subito quello che ti serve.»
«Arrivo» mi dice Marino. «Sono già per strada. Aspetta due minuti, così faccio le foto e quello che
occorre. È assurdo andare in giro con le scarpe-guanto, ma essendo di gomma in effetti si possono lavare
facilmente, come ciabatte. Dev’essere matto da legare. Dovremmo controllare gli ospedali psichiatrici
della zona e vedere chi è stato dimesso di recente.»
«Non è la prima cosa che farei se fossi in te.» Ecco che gli sto di nuovo dicendo che cosa deve fare.
«Lasciami lavorare, okay?»
«Certo. È quello che voglio.»
«Sei con lui?» mi chiede, abbassando la voce.
Guardo Benton che aspetta passeggiando nervosamente lungo la recinzione e si china di nuovo ad
aggiustarsi i pantaloni dentro gli stivali.
«Esatto» rispondo.
Non so se Benton mi stia ascoltando, ma non importa. Non ci vuole molto a indovinare che cosa pensa
Marino, e Benton sicuramente lo sa già.
«Ha detto qualcosa di Lucy?» mi domanda Marino. «Ti ha detto se Lucy la conosceva?»
Marino vuol sapere in che rapporti era Lucy con Gail Shipton e io non posso dirgli niente.
«Non proprio. No» replico continuando a fissare Benton. Lui non mi guarda, ma so di avere la sua
attenzione, adesso.
«No non la conosceva, o no non lo sai?» insiste Marino.
«Non lo so» rispondo.
«Mmh. In qualche modo si conoscevano.»
«In qualche modo sì.» Non intendo mentire. «Ma non so fino a che punto.»
«È successo qualcosa al telefono di Gail. Quando l’ho acceso stamattina presto c’erano delle e-mail e
degli SMS. È così che ho saputo che Carin Hegel voleva che la chiamasse. Be’, ora sono spariti.»
«Sei sicuro che prima ci fossero?» chiedo.
Benton ascolta e mi guarda.
«Cazzo, sì» dice Marino. «E sono spariti tutti, e-mail e SMS. A questo punto, penso che siano sparite
anche le foto. Mi sembra incredibile che non ce ne fossero. Chi non ha almeno una foto sul telefono?
Avevano già cominciato a cancellare roba quando l’ho trovato sul marciapiede.»
«Lo stai guardando ora?» Sono perplessa e capisco dalla reazione di Benton che la cosa gli interessa
moltissimo.
«Perché?» ribatte Marino.
«Bisogna mandarlo in laboratorio.»
«Non è così semplice. Stavo mostrando il telefono a Machado per decidere che cosa farne» dice
Marino. «E adesso ci sono soltanto le telefonate ricevute ed effettuate. Nessun messaggio vocale, niente
app, niente e-mail. Non c’è più un cazzo di niente.»
«Devi mandarlo in laboratorio» ripeto.
«E come diavolo faccio, visto a chi toccherebbe esaminarlo? Con Machado stavamo parlando proprio
di questo. C’è un conflitto di interessi.»
Sarebbe Lucy a esaminarlo, in quanto esperta di tecnologia e informatica forense del CFC. È lei che
analizza tutte le prove relative ai reati informatici. Capisco dove vuole arrivare Marino e perché ne stava
parlando con Machado. Immagino Lucy che cancella informazioni dal telefono appena scopre che è
rimasto sul marciapiede dietro lo Psi Bar, verso mezzanotte.
Durante il volo in elicottero, mentre riportava a casa Benton, ha monitorato da remoto ciò che stava
succedendo al telefono di Gail. Probabilmente, quando si è resa conto che Marino lo aveva trovato nel
parcheggio dietro il bar, si è affrettata a cancellare altre cose e a questo punto ha cancellato quasi tutto.
Marino se n’è accorto ed è sicuro che sia stata lei a svuotare il telefono, eliminando tutte le informazioni
che non voleva finissero nelle mani della polizia né di nessun altro.
«Allora ti consiglio di consegnarlo all’FBI» replico. Benton mi guarda negli occhi e comincia a
scuotere la testa. «Che ci pensino i loro laboratori» aggiungo, e Benton mi sorprende scuotendo ancora la
testa. “No, assolutamente no.”
«Se lo do a loro, perdo il controllo della situazione» ribatte Marino.
«Mi sembra che tu l’abbia già perso.» Dalla faccia di Benton intuisco che non vuole che io nomini più
l’FBI. Non lo farò, ma non capisco. Sono un po’ scioccata.
«Non mi diranno mai cosa ci hanno trovato» continua Marino. «Non collaborano. Giocano sporco.»
«Il controllo della situazione ti sfuggirà comunque.» Confermo i suoi timori nel tentativo di ritirare
quel che ho suggerito poco fa, suscitando tanta resistenza in Benton.
«E, per correttezza, bisogna che prima ne parli con lei» decide Marino.
“Non prima che le abbia parlato io” penso e mi avvicino a Benton. Ci osserviamo a vicenda: capisco
che è arrabbiato e vuole fare qualcosa.
«Potrebbe esserci una spiegazione, no?» mi dice Marino in tono complice. «Se tu lo sapessi me lo
diresti, vero?»
«Sii prudente quando arrivi qui. C’è un sacco di fango e di ferro arrugginito. Si scivola. Siamo
dall’altra parte del tunnel.»
«Ho capito, non puoi parlare. Mi ci mancava solo questo, proprio adesso. Un problema con lei, che
sappiamo com’è fatta. Non mi ci voleva proprio, cazzo» dichiara Marino. «Dopo nemmeno un mese di
lavoro.»
«Non incoraggiare Marino a consegnare il telefono all’FBI» mi ammonisce Benton in tono categorico,
riferendosi all’FBI come a qualcosa di completamente separato da lui, che non lo riguarda.
«Ormai l’ho fatto. Hai sentito anche tu. Mi sembrava logico consigliarglielo.»
«Non è logico.»
«Che cosa c’è che non va?»
«Non consigliarglielo più.»
«Se non vuoi, non gli dico più niente.»
«È una cosa seria, Kay. Maledizione, non voglio che Granby sappia del telefono. Speriamo che
Marino la smetta di parlare a vanvera. Non sa con chi ha a che fare.»
Guardandoci fisso negli occhi, aspettiamo vicino alle impronte su un tratto di binario infangato. Poco
più avanti c’è il reattore nucleare dell’MIT, una specie di grossa bombola del gas bianca, con un’alta
ciminiera di mattoni dipinta di rosso. Sono settimane che Benton parla di un problema di fiducia, e
adesso sta venendo fuori che non si tratta solo di dissidi personali: sta succedendo qualcosa, qualcosa di
gravissimo. La sua reazione mi preoccupa.
«Lucy avrà dei problemi?» chiedo. «Che cosa succede, Benton?»
«Non voglio denunce per intralcio alla giustizia. Lucy rischierebbe di finire in carcere e lui ce la
manderebbe.»
«Marino?» Non riesco a crederci.
«No, non lui, non intenzionalmente almeno. Non ti conviene che venga coinvolta la mia divisione. Che
lo esamini il dipartimento di polizia di Cambridge, quel telefono.» La ghiaia scricchiola sotto le suole di
gomma delle galosce mentre Benton fa qualche passo, con il vento nei capelli. «Uno dei loro investigatori
è in forza al Servizio segreto. Possono fare le analisi forensi qui nella sede di Boston.»
«E perché dovrebbe essere meglio, rispetto all’FBI, dove c’è gente che ci conosce?»
«Il fatto che ci conoscano è peggio. E io non lavoro per il Servizio segreto.» Benton posa un piede su
una traversina per capire quanto è scivolosa. «Per questo è meglio così.»
«Ma cosa dici?»
«Non ti puoi fidare di loro, Kay, ecco che cosa dico. Hai idea di quanto godrebbe Granby se sapesse
di quel telefono? Marino deve imparare a stare zitto.»
Mi spaventa l’idea che il capo di Benton sarebbe contento di prendersela con mia nipote. L’ho sempre
trovato noioso e insignificante, il tipico esempio di persona insulsa che riesce ad arrivare molto in alto,
ma sto cominciando a capire che Benton lo considera molesto, un intralcio non solo per lui ma per tutti
noi.
«E comunque il telefono non ha niente a che fare con l’omicidio di Gail Shipton» dichiara in tono
molto duro. «Lucy ti spiegherà che cosa ha fatto e che cosa sta cercando di prevenire. Ma bisogna che te
lo dica lei. Io devo essere prudente, devo stare attento: ho già parlato fin troppo.»
«A me non sembra proprio che tu abbia parlato troppo. E non mi sembra neanche il momento di essere
prudenti» replico. «È di nuovo la stessa storia. Sei stato così fedele al Bureau, così prudente, e che cosa
è successo? Che siamo finiti uno di qua, l’altro di là, tutti separati.» Sono indignata, e non mi piace.
«Scusami. Sono stanca, ho fame e tutto questo mi mette in agitazione.»
Benton tace e vedo che è combattuto, che è in guerra con se stesso. «Non succederà più.»
«Te l’ho già sentito dire.»
«Sai quali sono le aspettative dell’FBI. Non solo pensa di avere la priorità su tutto, ma ti considera
anche di sua proprietà e, quando non ha più bisogno, si dimentica di te. Se non peggio.»
«Non siamo di proprietà dell’FBI, né tu né io» ribatto. «Lo siamo stati, forse, ma non lo saremo più. I
tuoi amici non devono toccare Lucy.»
«Non sono “miei amici”.» Di nuovo con rabbia.
«Sei padrone di te stesso, Benton.»
«Lo so, Kay. Ti giuro che lo so. Non sarei qui in questo momento se non ne fossi convinto.»
«Di cos’è che non posso fidarmi?» Lo guardo negli occhi. «Mi sembra giunto il momento di parlare
chiaro.»
«Non so se posso parlare chiaro, ma posso dirti che cosa mi preoccupa. E sono l’unico che se ne
preoccupi.» Si allontana dai binari, spezzando ramoscelli sotto i piedi. «Non voglio che tu e Lucy subiate
dei danni, e Granby vi farà del male, se solo potrà. Lo farà volentieri, a tutti noi. Spero proprio che
Marino non dica niente del telefono, né a lui né a nessuno dell’FBI. Cosa cazzo li ha chiamati a fare? Non
doveva. Così come ora non gli deve dare quel telefono.»
«Non glielo darà. Marino detesta i federali.»
«E fa bene.»
«Spiegami che cosa intendi quando dici che sei l’unico a preoccuparti di questo.» Voglio capire.
«Qualsiasi cosa sia, la affronterò con te. La affronteremo tutti insieme.»
«Adesso che l’assassino ha colpito qui, la dovrai affrontare anche tu, questo è sicuro.»
«Non possiamo tenerci dei segreti, Benton. Che l’FBI vada pure al diavolo. Qui si tratta di noi. Sono
morte delle persone. ’Affanculo l’FBI.» Non riesco a credere di averlo detto, eppure è vero.
«Probabilmente sto per essere licenziato per colpa di Marino, ma non me ne frega un cazzo. Non
possiamo permettere a Granby di andare avanti così.»
«No. Dimmi che cosa ha fatto.»
Benton si accovaccia e appoggia la schiena alla recinzione, accingendosi a dirmi quello che è
convinto di non dovermi rivelare.
«Sostengono di sapere chi è stato. Te lo dico perché non devi fidarti di ciò che ti diranno: sono solo
bugie.» Continua a parlare dell’FBI come se non ne facesse parte. «Questi casi ormai ti riguardano
direttamente e non intendo permettere al Bureau di farti questo. Hai ragione. Ti ho promesso che non
sarebbe successo mai più e mai più succederà.»
«Farmi cosa?»
«Te ne hanno fatte abbastanza, sia a te sia a me.»
«Che cosa è successo, Benton?»
Mi spiega che i suoi colleghi dell’Unità di analisi comportamentale sono convinti di sapere chi è il
Capital Killer, ma che lui è altrettanto convinto che si sbaglino. Anzi, che abbiano “torto marcio”, perché
la loro teoria più che sbagliata è marcia, dice. È a questo che voleva arrivare, a questo che alludeva nelle
scorse settimane. È un problema di fiducia. È un’eventualità scioccante e scoraggiante.
«Era troppo evidente, troppo bello per essere credibile» rimarca. «Un individuo così calcolatore non
avrebbe lasciato il suo DNA in maniera tanto palese, facilmente visibile, senza bisogno di raggi
ultravioletti o di test. Non mi convince e per esperienza posso dirti che, quando qualcosa non mi
convince, un motivo c’è.»
«Chi è, secondo l’FBI?»
«Martin Lagos» risponde Benton. È un nome che mi dice qualcosa. «Scomparso diciassette anni fa
dopo aver ammazzato la madre. “Presumibilmente”, dovrei aggiungere. All’epoca aveva quindici anni.
L’FBI sa chi è, ma non dove si trova. Nessuno sa dove sia. L’unico che non è convinto sono io, nemmeno
un po’. Warren, Stewart, Butler, Weir, pensano tutti che io sia impazzito» dice a proposito dei suoi
colleghi dell’Unità di analisi comportamentale.
Sono stupita, perplessa. Non so perché, ma il nome Lagos mi dice qualcosa. Non ricordo cosa.
«Perché, se l’hanno individuato, non vogliono renderlo noto all’opinione pubblica?» domando. «Se si
sapesse, qualcuno potrebbe segnalare dove si trova.»
«Granby dice che Martin Lagos non deve assolutamente sapere che è sospettato degli omicidi di
Washington. Io non sono d’accordo, ovviamente. Martin Lagos non sa che l’ FBI l’ha scoperto: la teoria
ufficiale è questa. Al momento giusto, Granby terrà una conferenza stampa. In pompa magna.»
«Perché proprio Ed Granby? E quando sarebbe il momento giusto?» Guardo lungo i binari deserti per
vedere se arriva Marino.
«Il suo ragionamento è che siccome la prima vittima era di Cambridge, a livello locale c’è molto
interesse e la nostra divisione si occupa del caso fin dall’inizio. Lasciamo passare un po’ di tempo senza
che venga preso nessun altro e senza che lui colpisca, e poi rendiamo pubblica la notizia.»
«Ma l’assassino ha colpito di nuovo.»
«E infatti Granby ha un problema. Se ho ragione io, il DNA stavolta non sarà di Martin Lagos» dice
Benton. «Né in questo caso né in eventuali altri, se ce ne saranno.»
«Non capisco.»
«Non verrà fuori niente che possa compromettere qualcun altro, né ora né mai. Non troveremo più il
s uo DNA, ma nemmeno quello di altri. È questo che temo. I tre omicidi di Washington verranno
eccezionalmente risolti, il caso verrà chiuso e determinate persone potranno passare tranquillamente ad
altro. Sono convinto che sia questo che vuole Granby, per motivi che mi restano oscuri. Me lo sento.
Tant’è che in queste ultime tre settimane ho indagato per conto mio.»
«E che cosa hai scoperto?» chiedo.
«Che non c’è traccia di Martin Lagos da nessuna parte.» Benton raccoglie un bastoncino e comincia a
romperlo. «È ricercato dall’Interpol da quando è scomparso, ovvero da diciassette anni. Ma non è mai
stato avvistato e non sono mai emerse piste utili.»
«Quindi fin dall’inizio si è sospettato che potesse essere scappato all’estero.» Non vedo per quale
altro motivo sarebbe stato coinvolto l’Interpol.
«Si pensa che avesse degli agganci in Europa o in Sud America» replica Benton. «Dalla casa mancava
una somma considerevole e, oltre all’inglese, Martin parlava francese, spagnolo e italiano.»
«A quindici anni?» Lagos. Ho già sentito questo nome, ma non ricordo per quale motivo.
«In casa parlavano varie lingue ed era abituato a viaggiare. Sua madre lo aveva tirato su così.
Intelligentissimo, ma disturbato. Isolato, vittima di bullismo a scuola, non praticava sport di squadra né
altre attività sociali. È stato bravissimo a scuola e con i computer fino al primo anno delle superiori,
quando il rendimento ha cominciato a calare. Si è chiuso in se stesso, era depresso, ha iniziato a bere. Poi
la madre è stata ammazzata.»
«Si pensa che l’abbia uccisa lui. Dove e quando?»
«A Fairfax, in Virginia, nel luglio del 1996.» Benton lancia per aria pezzetti di legno con il pollice,
come fossero biglie.
«Sua madre si occupava di arte a un certo livello e aveva anche a che fare con la Casa Bianca.»
Finalmente mi ricordo: mi tornano alla memoria immagini vivide.
Un cadavere di donna, livido e tumefatto, con la pelle e i capelli che cominciavano a staccarsi, i denti
scoperti in una faccia di un rosso nerastro, gonfia in maniera grottesca. Nuda, semisommersa nell’acqua
torbida.
«Gabriela Lagos. Hai seguito tu il suo caso» dice Benton.
21
All’epoca dirigevo l’Istituto di medicina legale della Virginia, ma non ero stata io a farle l’autopsia. Di
Gabriela Lagos si occupò l’ufficio del distretto nord e io mi resi conto che c’erano dei problemi solo
quando l’esame autoptico era già stato effettuato e il cadavere restituito alla famiglia.
Ricordo di essere andata in un’impresa di pompe funebri di Fairfax, in Virginia, e ricordo l’aria di
disapprovazione con cui fui accolta quando mi presentai con la mia valigetta di attrezzature forensi. La
salma non era in condizione di essere esposta, ma questo non significava che io potessi mutilarla
ulteriormente incidendo le zone rossastre che ritenevo fossero ecchimosi. Passai molte ore in compagnia
di Gabriela Lagos, a esaminare il corpo dopo aver letto i referti e aver visto le fotografie relative alla
sua morte incredibilmente inquietante, che aveva fatto molto scalpore. Mi sentivo come si sente Benton
adesso: la voce fuori del coro, l’unica convinta che si trattasse di un omicidio mascherato da morte
naturale o accidentale.
«Faceva parte della buona società di Washington. Ex moglie dell’addetto culturale presso
l’ambasciata argentina, laureata in storia dell’arte, era una donna colta, vivace e molto bella» dice
Benton. «Lavorava alla National Gallery ed era consulente della Casa Bianca per le opere d’arte. Faceva
le perizie per la First Family, che all’epoca erano i Clinton.»
«Ricordo allusioni a uno scandalo mai arrivato sulle prime pagine dei giornali.» Ebbi la sensazione
che qualcuno stesse cercando di manipolare le informazioni non appena denunciai alla polizia che non si
trattava di un annegamento accidentale ma di un omicidio e tutti i sospetti si concentrarono sul figlio, che
Gabriela Lagos stava crescendo da sola.
Il ragazzo quindicenne, figlio unico, era sparito. Quando nei suoi confronti venne emesso un mandato
di arresto, ricevetti telefonate di tono molto aggressivo dall’ufficio del sindaco e il senatore Frank Lord,
che era un mio vecchio amico, mi consigliò di guardarmi le spalle.
«Era morta da tre o quattro giorni, in piena estate, con il condizionatore spento. Forse era stato spento
deliberatamente, per accelerare la decomposizione» racconto a Benton. «Non occorre che ti dica che era
in pessime condizioni. Le contusioni non erano facilmente visibili, ma c’erano, e sulle caviglie c’erano
anche i tipici segni di quando la vittima viene sollevata per i piedi nella vasca da bagno in modo che
finisca con la testa sott’acqua e anneghi. In questi casi si trovano sempre ecchimosi sulle gambe, sul
dorso delle mani e sulle braccia, che la vittima si procura perché si dibatte e urta contro la vasca.»
«Una fine da non augurare a nessuno» commenta Benton appoggiato alla recinzione, con le gambe
piegate e i gomiti sulle ginocchia, mentre aspettiamo Marino.
«Non era facile vedere i segni perché la decomposizione era avanzata.» I particolari mi tornano in
mente come ricordi di un brutto sogno. «E il mio vice non aveva avuto l’accortezza di incidere le aree
discromiche per controllare se erano dovute a emorragie. Inoltre, aveva preso le contusioni per artefatti
post mortem.»
«Lo so, commise varie negligenze.» Benton lancia altri pezzetti di legno.
«Jerry Geist» dico con disprezzo.
«È difficile dimenticare un cretino così pieno di sé.»
«Per vari motivi, la morte di Gabriela Lagos poteva facilmente passare per accidentale.»
«Se non fosse stato per te, sarebbe andata a finire così.» Benton mi ricorda che dovetti combattere non
poco.
Il procuratore era fermamente convinto che nessuna giuria avrebbe mai condannato Martin Lagos,
minorenne, ammesso che fosse stato trovato e arrestato, perché le prove materiali non erano sufficienti.
Io non ero d’accordo: secondo me bastavano e avanzavano. Una donna giovane e sana, che non era
sotto l’effetto di droghe o alcol, non poteva essere annegata accidentalmente in una vasca da bagno piena
di acqua talmente calda da averle ustionato tutto il corpo. Non avevo riscontrato segni di epilessia, ictus,
aneurisma, infarto, bensì ecchimosi recenti altrimenti inspiegabili. Gabriela Lagos era stata uccisa e
l’assassino aveva cercato di far passare la sua morte per naturale.
«Il dottor Geist voleva scrivere nel referto che si era trattato di un annegamento accidentale, ma io non
glielo permisi.» Erano anni che non pensavo a lui.
All’epoca era sulla sessantina. Patologo della vecchia scuola, apertamente misogino, era stato ben
felice quando avevo dato le dimissioni, liberandolo dalla mia presenza. Ricordo che lo trovavo troppo
influenzabile da chiunque avesse del potere e sospettavo che avesse tramato di nascosto per costringermi
ad andarmene.
«Sosteneva che il distacco della cute e le vesciche erano dovute unicamente allo stato di cattiva
conservazione, quando in realtà il corpo era completamente coperto di ustioni di terzo grado» spiego.
«Mi era chiaro che qualcuno aveva riempito di nuovo la vasca di acqua bollente dopo che lei era
annegata, probabilmente per accelerare la decomposizione e nascondere le lesioni. Aggiungi l’assenza di
aria condizionata in luglio e ottieni un caso difficile sul quale il dottor Geist mi contestò in modo
polemico, irrispettoso e del tutto fuori luogo.»
«Era un bastardo e un arrogante.» Benton si passa le dita tra i capelli scompigliati dal vento che si sta
alzando.
La perturbazione si è allontanata, seguita da un fronte di alta pressione, e il vento soffia a raffiche
lungo la ferrovia che si snoda come una lunga cicatrice. In lontananza vedo Marino con il cane al
guinzaglio.
«Come mai il nome di Martin Lagos è risaltato fuori proprio adesso?» chiedo.
«Il suo DNA è stato presuntivamente trovato nel terzo omicidio, quello di Julianne Goulet. Sulle
mutandine che le ha messo l’assassino, che appartenevano alla vittima uccisa la settimana prima, Sally
Carson.» Benton si rialza e scuote le gambe, come quando ha male alle ginocchia.
«Come avete fatto a capire che erano della vittima precedente?»
«Le ha riconosciute il marito. Gliele aveva regalate lui e ricordava che Sally l’ultima volta che
l’aveva vista indossava proprio quelle. Non c’erano tracce del suo DNA, però.»
«Strano, se le aveva addosso quando è stata rapita e uccisa.»
«Forse cominci a vederla anche tu dal mio punto di vista. Non abbiamo trovato il DNA di Sally
Carson, ma quello di Martin Lagos. Presuntivamente.»
«Ho capito. Lo hai detto due volte. “Presuntivamente.”»
«L’assassino mette alla sua ultima vittima gli slip di quella precedente» conclude Benton. «Da
manuale. L’ho scritto nei miei saggi.»
«E per qualche motivo nel terzo caso, quello di Julianne Goulet, ci ha lasciato il suo stesso DNA.»
«Così si presume che la cosa venga interpretata.»
«Pensi che il DNA di Martin Lagos sia stato lasciato deliberatamente?»
«Penso che qualcuno ce lo abbia lasciato» dice Benton.
Benton si mette il cappotto e intanto guarda nella direzione da cui sta arrivando Marino, che procede a
strattoni perché Quincy lo trascina come un cane da slitta, seguendo chissà quali odori e marcando ciuffi
d’erba qua e là.
«Non riusciamo a trovare Martin Lagos» continua a spiegare Benton. «La teoria è che si sia creato una
nuova identità, forse subito dopo essere sparito. Aveva un amico che credo fortemente lo abbia aiutato a
scomparire o sia stato coinvolto nell’omicidio di Gabriela, anche lui irreperibile. Ma nessuno mi dà
ascolto.»
«Avete provato a usare un software di invecchiamento virtuale per fare un identikit di come sarebbe
oggi Martin?»
«Io ci ho provato.»
«Tu? Da solo?» Sono sgomenta nel vedere che continua a parlare di sé come se fosse nell’isolamento
più totale.
«Abbiamo cercato tra le foto segnaletiche dei dipartimenti di polizia, delle carceri, dell’FBI, degli
uffici passaporti e della motorizzazione, dappertutto, e anche tra i “codici neri” dell’Interpol, i cadaveri
non identificati» risponde. «Niente, nemmeno una vaga somiglianza.»
«A chi ti riferisci quando dici “abbiamo”?»
Benton non mi risponde. Marino si sta avvicinando all’altro lato del tunnel.
«Non pensi che sia ancora vivo» dico a voce più bassa perché non voglio che Marino senta nemmeno
una parola.
«No» conferma Benton. «Anche se avesse cambiato nome o cercato di cambiare connotati, i punti di
repere facciali, tipo la distanza tra la bocca e il naso e la grandezza degli occhi, dovrebbero essere
invariati.»
È un’osservazione che potrebbe fare Lucy.
«Tutto mi induce a pensare che sia morto e che sia per questo che non riusciamo a trovarlo» aggiunge.
«È possibile che sia morto già diciassette anni fa. Potrebbe essersi suicidato, o essere stato ucciso.»
«Forse Lucy può darti una mano.» Suggerisco quel che sospetto sia già avvenuto. «Il software che ha
realizzato è basato su reti neurali e riconosce oggetti e immagini in maniera molto simile a quella del
nostro cervello. So che ha fatto delle ricerche con iridi, caratteristiche facciali e altre tecnologie
biometriche. Ma sono sicura che tu ne sei al corrente. Anzi, forse ne sai più di me» aggiungo leggermente
piccata.
«Un’app forense.» Guarda Marino che si avvicina lungo i binari. «Utilizzabile su veicoli con e senza
pilota. In altre parole, droni che potrebbero essere usati per localizzare gli indagati. Un dispositivo
portatile per fare ricerche ovunque, a condizione di avere accesso a database che per la maggior parte
delle persone sono off limits.»
«Se tu dessi a Lucy la sua foto più recente, oppure un video, o una registrazione, quello che hai...»
Forse l’app forense era sul telefono di Gail Shipton.
Potrebbe essere un progetto a cui stavano lavorando insieme e forse Benton mi sta dicendo che Lucy
lo ha aiutato consultando database cui ufficialmente non sarebbe autorizzata ad accedere. Database
governativi, per esempio.
«La foto più recente è quella del giorno in cui ha compiuto quindici anni» dice Benton. «Quattro giorni
prima che morisse la madre. Non è venuto fuori niente né dai software di invecchiamento virtuale né da
quelli di riconoscimento facciale. Non risulta nessuna corrispondenza. Perché Martin Lagos è morto, ne
sono convinto. Anche se non sono in grado di dimostrarlo.»
Se Lucy lo ha aiutato, non hanno solo violato il regolamento dell’FBI: hanno commesso un reato ben
più grave. Lucy non dovrebbe sapere che cosa fa Benton, e men che meno aiutarlo, senza l’autorizzazione
della divisione e in particolare di Granby. Nemmeno io dovrei sapere nulla delle indagini sugli omicidi
del Capital Killer.
Il fatto che Lucy abbia compiuto ricerche clandestine per conto di Benton è un’ulteriore conferma di
quanto poco lui si fidi dei suoi colleghi. Spiegherebbe perché Lucy ha cancellato tutti i dati dal telefono
di Gail Shipton. Se questa app forense di cui Benton mi ha appena parlato venisse scoperta, qualcuno
potrebbe chiedersi per che cosa fosse usata. E se si venisse a sapere che permette di interrogare database
classificati, Lucy e Benton rischierebbero una denuncia penale. Benton non avrebbe mai fatto una cosa
simile se non fosse stato sicuro di non avere alternative.
«Abbiamo idea del motivo per cui Martin Lagos potrebbe aver ucciso la madre?» Non ricordo che
all’epoca mi fosse stato indicato un movente e non voglio sapere altro su quel che hanno fatto lui e Lucy.
«Un possibile movente c’è. Si presume che la madre abusasse sessualmente di lui sin dall’età di sei
anni.» Benton ha il sole in faccia quando si volta verso il fiume, che da dove ci troviamo non si vede. Poi
si volta di nuovo verso Marino, che sta entrando nel tunnel.
«Da dove viene questa informazione, se la madre è morta e lui è sparito?»
«All’epoca dell’omicidio della madre, trovammo dei dati su un dischetto che la polizia rinvenne
nascosto in camera sua. Il disco fisso del suo computer non c’era più. Probabilmente lo aveva tolto lui»
spiega Benton. «È possibile che fosse sparita anche una videocamera spia che usava per filmare la madre
quando faceva il bagno, stando a quanto Martin aveva scritto nel suo diario.»
«All’epoca Granby non era a Washington?» Ho un’intuizione, sgradevole, di dove stia andando a
parare la storia.
Granby racconta sempre, a chiunque sia disposto a starlo a sentire, del periodo in cui era vicedirettore
della divisione di Washington e non ci si doveva occupare soltanto dell’11 settembre e della guerra in
Medio Oriente. Una sera a cena, poco tempo dopo essersi trasferito qui, mi ha chiesto che cosa ricordavo
di lui dal periodo in cui dirigevo l’Istituto di medicina legale della Virginia e io gli ho risposto che mi
dispiaceva, ma non ricordavo di averlo mai incontrato. Ho capito di averlo offeso, poi però mi è parso
sollevato.
«Oltre all’attività investigativa, faceva parte del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa
Bianca» dice Benton. «Degli abusi subiti da Martin Lagos nella documentazione dell’Istituto di medicina
legale non si parlava sicuramente.» È tornato all’argomento di prima. «Nei verbali della polizia non se
ne faceva cenno. Il medico legale non aveva bisogno di sapere nulla, e i media meno che mai. Fu deciso
così.» Non fu Benton a decidere, ma qualcun altro.
«Credi che Gabriela Lagos abusasse veramente del figlio?»
«Stando a quel che ho letto nel diario, sì.»
Marino è a metà del tunnel semibuio e Quincy lo tira verso di noi, con la lingua fuori. Sembra che
rida.
«Vorrei riesaminare il caso per rinfrescarmi la memoria» dico a Benton. «Tutto quello che hai su
Gabriela Lagos. Preferirei non passare per la Virginia. Un ex direttore che si immischia non fa piacere a
nessuno. Il mio input non sarebbe gradito.» Ho più di un motivo per pensarlo.
Se c’è un problema con il DNA di Martin Lagos, non intendo certo scoprire le carte telefonando
all’istituto che ha eseguito le analisi, anche se all’epoca, nel 1996, lo dirigevo io. Se è successo
qualcosa, è successo dopo che me ne sono andata, e forse molto recentemente, in concomitanza con il
terzo omicidio, avvenuto meno di un mese fa.
«Posso fornirti molta più documentazione io dell’Istituto di medicina legale della Virginia. Basta che
Granby non ne sappia nulla» dice Benton. «Non direbbe di no, ma poi non ti darebbe niente, e chissà cosa
succederebbe.»
«Qualsiasi cosa abbia a che fare con questo caso, appena possibile» replico. «Visto che pensi che ci
sia un nesso con i casi di Washington, ho diritto a visionare i reperti. Confrontiamo il DNA e confrontiamo
le fibre con quelle che ho raccolto stamattina. Fammi avere tutto quello che c’è, prima che puoi.»
«Smettila!» ordina Marino al suo cane.
«Il DNA è più difficile» dice Benton.
«Piede!» Nel tunnel riecheggia la voce di Marino, trascinato da Quincy. «Merda!»
«Posso mandarti le microfotografie delle fibre» continua Benton. «Ma i profili genetici vanno presi
dal CODIS, a cui io non posso accedere direttamente. Dovrei fare una richiesta ufficiale.»
«Chi ha fatto le analisi nel caso di Julianne Goulet?»
«L’Istituto di medicina legale del Maryland. Baltimora.»
«Conosco bene il direttore.»
«Ti puoi fidare di lui? Senza il minimo dubbio?»
«Sì.»
Quincy entra in una pozzanghera e beve. Marino urla: «No! Smettila! Cazzo!».
«Più o meno all’ora in cui si pensa sia morta Gabriela Lagos arrivò la segnalazione anonima di uno
che aveva visto un ragazzo buttarsi nel Potomac dal ponte di Fourteenth Street» mi dice Benton. «Il
cadavere non è mai stato ripescato.»
«Mai?» esclamo. «Mi sembra strano.»
«Non si beve nelle pozzanghere!» È Marino ad abbaiare, questa volta.
«Tu hai partecipato alle indagini su Gabriela Lagos?» Non ricordo che Benton mi abbia mai detto,
all’epoca, di essersi occupato dell’omicidio.
«Sono stato consultato, sì, ma solo riguardo a Martin e al contenuto del suo diario.» Non mi dice altro.
Marino ci ha raggiunto.
Benton tende la mano per invitare il cane ad avvicinarsi. «Bravo, Quincy» dice accarezzandogli il
collo. «Vedo che sei molto ben addestrato» aggiunge poi con pacato sarcasmo.
«Non è bravo per niente» brontola Marino, affannato e di malumore. «Comportati bene» dice dandogli
pacche affettuose sui fianchi. «Sai quello che devi fare. Qui. Seduto.»
Quincy non accenna a sedersi.
22
Da dove siamo non si vede, ma poco più avanti c’è una filiale della Bank of America.
«All’angolo tra Massachusetts Avenue e Albany Street. Per l’assassino sarebbe stato il posto ideale
per lasciare la macchina.» Benton sta parlando dell’incrocio dove mi capita di restare bloccata quando
passa il treno del circo.
L’ultima volta mi è successo non molto tempo fa, il 1° dicembre: il lungo convoglio rosso con le
scritte dorate ci ha messo una vita a passare per andare a fermarsi sulla diramazione della Grand
Junction. Seduta in macchina, ho immaginato gli animali esotici chiusi nei vagoni e ho ripensato a quando
ero piccola e quello stesso circo, che fa base in Florida, si esibiva a Miami varie volte l’anno. Il Cirque
d’Orleans mi mette di umore malinconico ogni volta che si ferma da queste parti, perché mi ricorda la
mia infanzia e mio padre che mi portava a vedere gli elefanti che sfilavano lungo Biscayne Boulevard,
ciascuno tenendo con la proboscide la coda di quello davanti.
«Potrebbe aver lasciato la macchina nel parcheggio pubblico.» Benton continua a parlare di dove
l’assassino potrebbe aver posteggiato mentre io tengo Quincy per il guinzaglio e lo accarezzo. «Non
l’avrebbe notato nessuno. Vanno e vengono auto in continuazione, per via del bancomat. Ha lasciato la
macchina lì ed è tornato indietro a piedi, probabilmente lungo la ferrovia. A quell’ora pioveva e le
impronte si saranno cancellate quasi tutte, tranne le parziali che abbiamo notato. Quelle ancora intatte le
ha lasciate quando è andato via definitivamente, forse poco prima dell’alba, dopo che ha smesso di
piovere.»
«Se mai, è una mezzasega» sentenzia Marino. «Con un piede così piccolo quanto sarà alto? Uno e
cinquanta? Saranno di un ragazzino che è venuto qui a giocare, vedrai.»
«Non possiamo stabilire con certezza quanto è alto» ribatto. «La correlazione tra misura del piede e
statura non è una scienza esatta. Si può azzardare una stima in base ai dati statistici, non una
quantificazione precisa.»
Marino posiziona il righello di plastica gialla che ha già usato prima, ma con un’etichetta diversa.
«Perché non parli come mangi, per una volta?» Se la prende con me.
«In media un soggetto maschio con il quarantuno di scarpe è alto uno e sessantacinque, ma non
significa che chi ha lasciato queste impronte fosse alto così. Ci sono uomini bassi con i piedi lunghi e
uomini alti con i piedi piccoli.» Ignoro il suo gesto volgare, che sospetto abbia fatto più a beneficio di
Benton che mio.
Marino ha bisogno di farsi valere prima di tutto perché gli brucia che quel che Benton ha previsto
finora sia stato confermato. Enrique Sanchez, addetto alla manutenzione dell’MIT, lascia abitualmente il
pick-up nel cantiere, di notte. Il tronchese era suo, fa parte degli attrezzi che usa per lavorare. È stato
beccato una volta mentre guidava in stato di ebbrezza e, siccome alla seconda ti ritirano la patente,
quando beve evita di guidare. Tutte le ipotesi avanzate da Benton finora si sono rivelate corrette e
Marino, per dimostrargli la sua gratitudine, lo ha messo nei guai con i colleghi di Boston, portando acqua
al mulino dell’infido Granby.
«Facciamo uno e sessantacinque, tanto per avere un’idea? Un ragazzo, un uomo basso, non importa: è
comunque un cretino se ha fatto quello che sostieni tu» dice, provocatorio, a Benton. «Sarebbe stato
molto più furbo lasciare lì il cadavere e portar via i cosiddetti. Se torni sulla scena del crimine, rischi di
farti beccare.»
«Non resiste alla tentazione di guardare, di spiare.» Benton ha ricominciato a leggere e-mail sul
telefono. «Ha bisogno di assistere allo spettacolo che mette in scena.»
Continua a parlare di “spettacolo”.
«Era già stato qui dietro. Sapeva dove andare e che cosa fare. Era a suo agio.» Benton continua a
guardare attraverso gli occhi del mostro a cui sta dando la caccia.
“Attraverso gli occhi di Martin Lagos” penso. “O di qualcuno che aveva accesso al suo DNA.”
O, più precisamente, al profilo di Martin Lagos inserito nel CODIS, Combined DNA Index System, il
database genetico dell’FBI. Mi metto a immaginare gli scenari peggiori e rifletto a lungo. Che cosa farei
se fossi un criminale che si intende di computer o, ipotesi ancora più inquietante, se lavorassi in un
laboratorio di analisi genetiche e avessi cattive intenzioni o agissi per conto di una persona corrotta e
molto potente?
Un profilo genetico non è come un campione biologico su un vetrino o il codice a barre di
un’autoradiografia. Non ha l’impatto visivo di una serie di macchie di sangue o delle spire e dei rilievi di
un’impronta digitale. È una sequenza di caratteri che vengono immessi manualmente nel database,
corredata da un codice identificativo assegnato dal laboratorio che effettua le analisi. Quando la sequenza
contenuta nel database corrisponde a quella di un soggetto sconosciuto, attraverso il codice identificativo
si risale al nome e ai dati personali.
La quantità sempre maggiore di informazioni conservate nelle banche dati del DNA è una questione
molto discussa fin da quando sono stati introdotti i primi test alla fine degli anni Ottanta. La gente si
preoccupa per la privacy. Teme discriminazioni genetiche e violazioni dei diritti sanciti dal quarto
emendamento, che protegge da perquisizioni, arresti e confische non motivate. Teme inoltre l’uso
indiscriminato delle tecniche genetiche, come quando vengono richiesti campioni biologici agli abitanti
della zona in cui è stato commesso un reato.
Sono anni che sento queste obiezioni e queste paure e in parte le condivido. Anche le procedure
scientifiche più perfette che esistano possono essere usate in modo scorretto, in buona o cattiva fede, da
esseri umani imperfetti, e non si può escludere che un profilo DNA venga deliberatamente alterato. È
possibile che un tecnico di laboratorio oberato di lavoro commetta un errore nell’inserire i dati su un
computer, o che qualcuno li manometta. Non mi risulta che sia mai successo, ma non vuol dire nulla: non
è garantito che un errore del genere, accidentale o deliberato, verrebbe reso noto.
Se in tutti i database fosse stato messo il codice identificativo di Martin Lagos al posto di un altro, non
avremmo modo di sapere che quel profilo DNA non è suo: si tratterebbe del furto di identità più completo
mai realizzato. Purtroppo non posso parlarne di fronte a Marino.
Lo guardo riporre la macchina fotografica e il righello nella valigetta. Quincy, seduto sui miei piedi, mi
lecca una mano.
«Andiamo» ordina Marino al cane, che non ha voglia di andare da nessuna parte. «Ti raggiungo al CFC
fra poco» dice poi a me, ignorando Benton. «Machado e io abbiamo ancora un paio di cose da fare, tipo
trovare Haley Swanson, che adesso ci evita. Più tardi faccio un salto a casa di Gail Shipton. Vuoi venire
anche tu?»
«Sai che cosa devi fare» gli rispondo. «Prendi tutto quello che c’è nell’armadietto dei medicinali, mi
raccomando. Mi serve sapere che farmaci assumeva e anche che cosa c’è nel frigo e nella spazzatura.»
«Cristo» si lamenta Marino. «Ho una maglietta con scritto CRETINO?»
Aspetto che lui e Quincy abbiano attraversato il tunnel, diretti verso il Briggs Field, poi suggerisco a
Benton che dovrebbe prendere in considerazione altre possibilità per spiegare il DNA prelevato dagli slip
che Julianne Goulet aveva addosso da morta.
«Volendo essere sicuri al cento per cento che sia il DNA di Martin Lagos, l’FBI avrebbe dovuto
confrontarlo con i risultati delle prime analisi fatte dai laboratori della Virginia nel 1996» rifletto mentre
ci incamminiamo. «E il profilo andrebbe anche confrontato con quello della madre. Le cartine FTA con il
suo sangue dovrebbero essere ancora nella cartella.»
«A quanto mi risulta, sono stati fatti tutti i passi necessari» dice Benton con voce assolutamente priva
di inflessioni, come se ripetesse a pappagallo quel che gli è stato riferito. «È stato verificato che il DNA è
proprio di Martin Lagos. Mi hanno assicurato che nel CODIS non è stato immesso alcun dato errato e nulla
è stato alterato.»
«Lo hai chiesto esplicitamente?»
«Ho fatto presente a Granby che esisteva questa possibilità. Solo uno al suo livello poteva informarsi
con discrezione presso il direttore del laboratorio di Quantico.»
«Se prima non avevi nemici, ora certamente li avrai.»
«Non c’è nulla di anomalo. Il DNA prelevato dagli slip che indossava il cadavere mostra la
derivazione filiale da Gabriela Lagos.»
«Sono state fatte nuove analisi del campione di sangue?» insisto.
«Ti sto riferendo quello che mi è stato detto» risponde lui nello stesso tono preoccupante di prima.
«Se davvero si tratta del DNA di Martin Lagos, è meno plausibile che sia morto» gli faccio notare. «I
risultati delle analisi sembrano indicare che abbia ucciso lui Julianne Goulet, a meno che il suo DNA non
sia finito su quegli slip in qualche altro modo.»
«Comincio a pensare che sia l’unica altra spiegazione possibile.»
«Quello che prospetti sarebbe molto raro, se non addirittura impossibile. Mi sembra assurdo che ci
sia stata una contaminazione in laboratorio dopo diciassette anni.»
«Anche a me.»
«Liquido seminale, cellule cutanee?» Immagino che il campione biologico prelevato e analizzato fosse
di questo tipo.
«Sangue» dice Benton.
«Sangue, visibile. Già. Fin troppo logico. Perché l’assassino dovrebbe aver lasciato il suo sangue su
un paio di mutandine? Come può non essersene accorto e non aver pensato che cosa sarebbe successo
quando gli slip fossero stati ritrovati ed esaminati dalla Scientifica?»
«E se qualcuno avesse conservato un campione di sangue di Martin per tutti questi anni?» ipotizza
Benton.
«Avrebbe dovuto conservarlo molto bene. Congelato, cioè» replico poco convinta. «Stai parlando di
un piano elaborato con grande anticipo da una persona che sapeva quello che faceva. Come mai sarebbe
stato conservato un campione del suo sangue? Da chi? E a quale scopo?»
«E quei gioielli con una goccia di sangue dentro che alcuni si scambiano come pegno d’amore? C’è
chi porta al collo un ciondolo con una goccia di sangue...» Benton cerca qualsiasi possibile spiegazione
perché ha dei brutti presentimenti che non vuole esprimere a parole.
Non vuole accusare apertamente nessuno. Vuole che io ci arrivi da sola.
«Martin Lagos potrebbe avere scambiato qualcosa del genere con qualcuno.»
«E diciassette anni dopo questa persona l’ha usato per incastrarlo in una serie di omicidi?»
«Io so solo che il DNA contenuto in un determinato campione di sangue è risultato di Martin Lagos e
sto cercando tutte le spiegazioni possibili, Kay. A parte la più ovvia.»
«E cioè che il database sia stato manomesso e che Granby o altri ti stiano mentendo.»
«Vorrei non avergliene mai parlato.»
«A chi altro avresti dovuto parlarne?»
«A te, a una persona fidatissima.» Non nomina Lucy perché non vuole. «Faccio il possibile per
aggirare Granby.»
Davanti a noi si staglia un magazzino di mattoni scuri, con centinaia di finestre su cui si riflette il sole.
«Supponiamo che qualcuno avesse una goccia di sangue di Martin Lagos in un ciondolo e abbia deciso
di servirsene per incastrarlo.» Approfondisco l’ipotesi. «A distanza di giorni, per non parlare di anni, se
non lo asciughi e non lo conservi adeguatamente, il sangue si decompone, diventa inutilizzabile. Il DNA
viene distrutto dai batteri, o dai raggi ultravioletti, se il contenitore è stato esposto al sole.»
«E se per qualche motivo fosse stato conservato in un laboratorio?»
«Non nel nostro laboratorio della Virginia, né a Washington» gli ricordo. «Non possono essere stati
fatti prelievi, ovviamente, perché non c’è mai stata un’inchiesta né un’autopsia, se Martin Lagos si è
buttato dal ponte di Fourteenth Street e il corpo non è mai stato ritrovato. Durante le indagini
sull’omicidio di sua madre, quando si sono accorti che lui era scomparso, immagino che la polizia abbia
ricavato il suo profilo DNA da uno spazzolino da denti, da un capello, o qualcosa del genere.»
«Sì» approva Benton. «Non sto dicendo che il sangue non sia suo. Quello che dico è che non capisco
come abbia fatto a finire lì e la cosa mi puzza. Qualcuno sta cercando di farcelo credere, ma io non ci
casco.»
«Che cosa dice l’Unità di analisi comportamentale delle tue supposizioni?» Non stento a immaginare
la reazione.
«Pensano che faccia questo mestiere da troppo tempo.»
«Non starai pensando di andare in pensione, vero? Non è da te.»
Benton non andrà a insegnare da qualche parte e non si aggiungerà alla schiera di ex profiler dell’FBI
che si mettono in proprio e vanno in TV ogni volta che c’è un grosso omicidio o un processo importante.
«Faccio incazzare tutti quanti, parlo con te senza essere autorizzato. Ho parlato anche con Lucy e tu lo
sai senza bisogno che te lo dica» replica Benton. «Anche se lo vengono a sapere, che cosa me ne frega?
La faccenda è talmente grave e le implicazioni sono tali che... Cristo, che vadano pure al diavolo, Granby
e tutti quanti.»
23
Sono quasi le undici quando arrivo nel parcheggio sul retro del CFC, un edificio di sette piani a forma di
proiettile rivestito in titanio e sormontato da una cupola geodesica in vetro.
Al di sopra della recinzione, che è alta, dotata di sensori antiarrampicamento e rivestita in PVC nero, si
vedono le antenne di un bianco argenteo che punteggiano i tetti dei laboratori dell’MIT, confinanti su tre
lati con il CFC. Per quelle antenne viaggiano, quasi alla velocità della luce, messaggi invisibili spesso
secretati, militari o relativi a progetti governativi segreti.
Sento suonare il telefono e alzo lo sguardo verso la finestra di Bryce, illuminata dal sole, come se
potessi vederlo. È impossibile, perché i vetri del CFC sono unidirezionali, ma le vecchie abitudini sono
dure a morire. Da dentro vediamo fuori, ma da fuori non si vede dentro. Forse il mio assistente ci sta
guardando: non posso saperlo.
«“L’uomo che sussurrava ai canini” se n’è andato circa venti minuti fa» dice, riferendosi al dottor
Adams. «È Gail Shipton, non ci piove. Era una di quelle persone con una bocca splendida perché piena
di difetti, hai presente? Scommetto che a scuola la prendevano in giro, come succedeva a me.»
Digito il mio codice di accesso e il cancello elettrico emette un bip, ma resta fermo. Non vengo da
cinque giorni e Marino non lavora più qui. Mi rendo conto che questo posto funzionava grazie
all’impegno di entrambi. Riprovo a digitare il codice.
«Forse da piccola ha dovuto prendere della tetraciclina, che lascia i denti macchiati. Sai quei brutti
denti pieni di macchie che ti fanno passare la voglia di andare a scuola perché tutti ti prendono in giro?»
continua Bryce mentre il cancello vibra e finalmente prende vita.
Comincia ad aprirsi, scivolando lentamente sul binario, a scossoni. Non funziona come dovrebbe
dall’ultima volta che è stato riparato, due settimane fa. Ora che non c’è più Marino, nessuno controlla
l’operato del tecnico della sicurezza. Sono finiti i tempi in cui Marino stava addosso a quelli della
manutenzione e verificava che tutto funzionasse. Stento a crederlo, ma purtroppo è vero.
«Anch’io avevo un dente così. Mi era rimasto macchiato una volta che ho avuto la febbre.
Naturalmente era un incisivo e così mi avevano soprannominato “dente di gesso”. “Bryce può scrivere
alla lavagna con i denti”, dicevano. Non sorridevo mai, da piccolo.»
Dall’altra parte del cancello che si è finalmente aperto vedo i furgoni bianchi e i pick-up per i
sopralluoghi parcheggiati disordinatamente e sporchi. Anche il mezzo che usiamo per i grossi incidenti e
le stragi è lurido. Marino farebbe una scenata se lavorasse ancora qui. Penso che bisognerà trovare una
ditta esterna affidabile che provveda al lavaggio e alla manutenzione del parco macchine a un prezzo
ragionevole. Una questione logistica in più da affrontare con Bryce, che continua a blaterare senza
nemmeno prendere fiato.
«Aveva un sacco di ricostruzioni, tutte piuttosto costose. Ma già, aveva i soldi per intentare una causa
da cento milioni di dollari, se è vero quello che dicono i telegiornali» continua. «Con rispetto parlando,
naturalmente.»
«Benton e io siamo qui» dico, per fermarlo. Bryce scopre di avere qualcosa in comune con tutti i
cadaveri che passano per il CFC. «Perché non ne parliamo in ufficio, magari più tardi? Adesso devo
portare i reperti nei laboratori, poi devo farle l’autopsia e controllare gli altri casi.»
Mentre mi sbottono la giacca, mi torna in mente che ho addosso una pistola. Solo i membri delle forze
dell’ordine possono entrare armati al CFC. Tutto il personale, me compresa, è tenuto a consegnare al
banco della sicurezza eventuali armi da fuoco, che vengono messe sottochiave in un apposito armadietto
blindato. Non tutti rispettano il regolamento. Marino non lo ha mai fatto e sono sicura che nemmeno Lucy
lo fa. Mi slaccio il marsupio.
«Lo so che siete qui, vi vedo inquadrati dalla telecamera di sorveglianza e anche dalla finestra, se
voglio. Il cancello è quaaaaasiii aaapeeeertooo» dice con lentezza esagerata. «Eccovi qui! Tu e Benton,
gli sposini felici... Ecco che varcate la soglia, tu premi il pulsante per richiudere il cancello, che ci
metterà un’ora. Ma guarda che begli stivali arancioni! Scommetto che Benton non ha nient’altro da
mettersi perché i suoi bagagli sono rimasti sulla macchina di Marino. Ho indovinato? Benton è arrivato in
elicottero con Lucy, che lo ha accompagnato direttamente sulla scena del crimine, tu hai chiesto a Marino
di portargli i bagagli e adesso lui li tiene in ostaggio. E il povero Benton dovrà girare tutto il giorno con
quegli orribili stivali di gomma. Digli di venire su da me.»
Metto la chiamata in vivavoce in modo che senta anche Benton.
«Ho un paio di scarpe da ginnastica di ricambio che gli posso prestare. Di pelle nera. Meglio di
quell’orrore...» La voce di Bryce riecheggia nel piazzale e io mi chiedo chi altri fosse al corrente del
ritorno di Benton.
Non mi sorprende che Bryce lo sapesse. Ma chi glielo ha detto? E quando?
«Portiamo lo stesso numero di scarpe, credo. O quasi» continua.
«Sapevi che sarebbe tornato a casa oggi?» domando. Benton intanto scrive e-mail dal suo telefono.
Teme che i suoi colleghi non condivideranno o ignoreranno le informazioni che sta inviando loro ed è
titubante, prudente come non è mai stato. Ci sono agenti, per lo più giovani, che all’inizio lo
consideravano un mito e adesso vogliono prendere il suo posto, dimostrare che sono più bravi di lui, e
questo era prevedibile. Il resto, invece, no. Benton sospetta complotti e sabotaggi, che verosimilmente
non sono frutto della sua fantasia.
«Be’, ho avuto sentore di qualcosina. E ho fatto acquisti» aggiunge Bryce, misterioso. «Domani è il
suo compleanno e non ero sicuro che tu ti ricordassi, dato che stavi così male. E che pensassi anche alle
decorazioni natalizie, in modo che arrivando trovasse un’atmosfera festosa, allegra.»
«Quando lo hai saputo e a chi lo hai detto?»
«Lucy e io ci siamo parlati. Voglio dire, non hai fatto l’albero, non hai messo una sola luce o candela
alla finestra.» Mi rimprovera. «L’ho visto benissimo ogni volta che sono venuto a portarti qualcosa e ci
sono rimasto male: la casa era buia, poco accogliente, senza nemmeno il caminetto acceso a una sola
settimana da Natale. Più deprimente di così... Ho pensato al povero Benton che tornava. Non sta sentendo
quello che dico, vero? E sì, lo so, il cancello va riparato di nuovo. Lo vedo che non si chiude, trema
come se avesse le convulsioni. Forse sta cercando di dirci qualcosa. Adesso provo a chiuderlo da qui.»
«Il problema è che non è stato regolato bene l’ultima volta che è stata fatta la presunta manutenzione.»
Mi metto il marsupio sotto il braccio e sento il peso e la forma dell’oggetto che contiene.
«Non dirlo a me. Stamattina c’era la coda fino alla strada, per colpa di quel cancello. Per un pelo non
sono stato tamponato da una Honda Element. Non sarebbe stata colpa mia, ma indovina chi avrebbe finito
per tirar fuori dei soldi? Una bagnarola come quella che va a sbattere contro la mia X6, te lo immagini?
Veramente è di Ethan. Non posso certo permettermi una BMW con lo stipendio che ho. A proposito, che
razza di macchina ha Lucy? E che cosa ti sei appena tolta? Da quando giri armata?»
«Per il momento non voglio che vengano diffuse informazioni sull’identità né su altro» gli dico mentre
passiamo davanti al posto vuoto di Marino, dove non parcheggerà più il suo pick-up con un difetto di
progettazione. «Chi altri sapeva che Benton stava per tornare a casa?»
«Se non ho visto male, hai una pistola nel marsupio. Molto sexy, d’accordo, ma come mai? E perché
la tieni in quel brutto marsupio nero così informe? Non li fanno anche di pelle, o di colori più allegri?
Potrei dire al dipartimento di polizia di Cambridge di rilasciare un comunicato, a loro discrezione, così
noi ce ne laviamo le mani.»
«Probabilmente è la cosa migliore, purché siamo assolutamente sicuri che...»
«Il dottor Adams ci ha messo mezz’ora.» Bryce mi interrompe di nuovo. «Pare che, oltre a tutto il
resto, recentemente le avessero estratto il numero venti...»
«Bryce, a chi hai detto che Benton stava per tornare a casa, e quando? È importante, ho bisogno di
sapere...»
«Un alveolo in fase di guarigione con un perno in titanio per un impianto ancora da “insediare”. Lo so
che si dice in un altro modo.»
«Bryce?»
«Sono i re che si insediano sul trono, non le corone in bocca, perdona la battuta.» Abbassa la voce.
«Non è un granché, lo so.»
Sollevo il coperchio del meccanismo di apertura accanto alla saracinesca e poso il dito pollice sul
lettore della serratura biometrica.
«Non sono sicuro di sapere esattamente che dente è il numero venti» continua Bryce, imperterrito.
«Ma credo che sia un molare.»
«Lucy ti ha detto che Benton sarebbe arrivato oggi?» Premo un pulsante, il motore si avvia e la
pesante saracinesca di metallo comincia a sollevarsi.
«Certo. L’ho incoraggiata io ad andare a prenderlo a Washington con il suo giocattolino volante.
Qualcuno ti ha rovinato la sorpresa? Giuro che non è colpa mia.»
Se Bryce era al corrente, è impossibile accertare quante altre persone lo sapevano, e comunque penso
che non spiegherebbe nulla. Anzi, ne sono sicura. Per quanto Bryce possa essere stato indiscreto, e
ammesso che i sospetti di Benton siano giusti, come avrebbe fatto l’assassino a venirlo a sapere? Perché
avrebbe dovuto interessargli quando tornava a casa Benton? Sarà anche vero che non resiste alla
tentazione di assistere agli spettacoli che mette in scena, ma questo non significa che scelga le sue vittime
o il momento in cui colpire in base agli spostamenti di mio marito. È più probabile che Granby voglia far
leva sulle paure più profonde di Benton, che cerchi di stancarlo e destabilizzarlo sapendo benissimo che
effetto gli fa il pensiero di aver influenzato con i suoi scritti un serial killer. Benton sarà anche un po’
paranoico, ma ne ha ben donde.
«Ernie è in laboratorio?» chiedo. «Ho dei reperti da dargli, e sono in arrivo il montante di un cancello
e un tronchese con dei segni da verificare. E del materiale biologico per il test del DNA. Dovresti
avvertire Gloria, per piacere, e già che ci sei anche il laboratorio di tossicologia per quegli esami in più
che mi servono per il suicidio della settimana scorsa, Sakura Yamagata. Mi serve tutto alla massima
velocità umanamente possibile.»
«Dimmi qualcosa di nuovo, ti prego.»
«Questo che ti sto dicendo è nuovo. Sono molto preoccupata.»
«Non mi dai nemmeno un indizio?»
«No» rispondo. «Dovresti anche prendermi un appuntamento con il dottor Venter, il direttore
dell’istituto di Baltimora.»
«Me ne occupo subito» mi assicura Bryce. «Ernie sta esaminando l’auto di quello che si è schiantato
ubriaco, a cui Anne sta facendo la TAC in questo preciso istante. Abbiamo un presunto suicidio per
overdose in arrivo, una donna a cui è morto il marito in un incidente di moto esattamente un anno fa. Le
disgrazie non vengono mai sole, e sotto le feste è più vero che mai. Una media di dieci suicidi alla
settimana dal giorno del Ringraziamento a oggi. Sempre più alta.»
«È aumentata di oltre il venticinque per cento.»
«Ecco, mi hai rovinato completamente la giornata.»
A mano a mano che la saracinesca si alza, vedo l’enorme SUV che Lucy ha parcheggiato dove non
dovrebbe. Ma mia nipote parcheggia sempre dove vuole, sia le sue supermacchine sia le moto,
infischiandosene delle regole. Noto due barelle abbandonate a casaccio contro un muro e un sacco
mortuario vuoto appallottolato su una di esse. Vicino a uno scarico nel pavimento è arrotolato alla bell’e
meglio un tubo di gomma con la pistola spray che gocciola.
«Come mai stiamo esaminando l’auto di un incidente stradale?» chiedo a Bryce.
«Perché ci ha telefonato l’avvocato.»
«Gli avvocati telefonano sempre. Non è un motivo sufficiente.»
«Non era un avvocato qualsiasi. Era Carin Hegel.»
«Che cosa voleva esattamente?» domando.
«Non me l’ha voluto dire.»
Benton e io ci chiniamo per passare sotto la saracinesca che si sta aprendo. Lui digita con i pollici un
messaggio per qualcuno e io, appena entrata, premo il pulsante STOP e poi CLOSE. Accendo le luci. Gli
armadietti sono tutti chiusi a chiave e il pavimento è pulito, per fortuna. Non sento nessun cattivo odore.
«Qualcosa riguardo al tasso alcolemico. Meglio che chiedi a Luke. Altre cause in vista, che palle!»
dice Bryce mentre la saracinesca si richiude rumorosamente. «Ti va bene se ordino delle pizze da
Armando? Nel primo pomeriggio avremo un certo affollamento, e non di cadaveri. Non puoi non
mangiare, e ti ho già preparato i vestiti per cambiarti. Il solito tailleur blu, fresco di lavanderia, décolleté
classiche con il tacco basso e collant nuovi, senza difetti né smagliature.»
«Per andare dove? Non dovevo nemmeno venire in ufficio oggi.» Mi fermo vicino al rubinetto e lo
chiudo per bene.
«Abbiamo un colloquio per scegliere il sostituto di Marino» dice Bryce. «Jennifer Garate, che fa rima
con “karate”. Te la ricordi? Quella che negli ultimi cinque anni ha fatto investigazioni a New York e
prima era l’assistente di un medico. Abbiamo esaminato la sua domanda di assunzione qualche settimana
fa, insieme a un sacco di altre. Al telefono mi è sembrata simpatica e Luke ha trovato molto carina la foto
allegata al CV. Devo dire che mi è parso un po’ strano che abbia scelto una foto scattata in spiaggia con
un paio di short da palestra fatti apposta per mettere in mostra la mercanzia. Che, per inciso, non le
manca. Grazie al cielo ci sei anche tu. Vuol mica venire anche Benton, già che è da queste parti?»
«No» rispondo. «Benton non vuole.» Tolgo il vivavoce perché Benton non sta più ascoltando.
Immagino che stia scrivendo ai suoi colleghi dell’Unità di analisi comportamentale e che le tensioni
siano in aumento. Mi chiedo se quelli dell’FBI cominceranno a cercare Martin Lagos da queste parti, se
daranno la caccia a un uomo che Benton ritiene morto. Sto già pensando a cosa fare con i risultati dei test
del DNA che effettueremo sulle mutandine che aveva addosso Gail Shipton e sul Vicks trovato nell’erba.
Per la prima volta nella mia carriera ho dei dubbi sul destino dei profili genetici che il nostro laboratorio
immette nel CODIS.
«Be’, è uno dei ruoli più importanti di tutto l’organigramma, visto che influisce su ogni aspetto del
lavoro.» Bryce riprende a parlarmi all’auricolare. «Se ti ritrovi con un capo del reparto investigativo di
merda... Come si dice, merda è e merda resta.»
Attraversiamo il garage, grande come un hangar. Da una parte c’è il SUV nero di mia nipote, due
tonnellate di acciaio balistico a prova di esplosione, telecamere di sorveglianza, fotoelettriche, kit per la
sopravvivenza, sirena e luci stroboscopiche. Ha anche una scatola nera, come i velivoli, e un impianto di
amplificazione con tanto di altoparlanti. Non ho avuto occasione di chiederle quanto è costato questo
mezzo dall’aspetto minaccioso né per quale motivo abbia ritenuto di averne bisogno.
«Chi ha voglia di lavorare con un prepotente che quando beve si ferma a dormire qui su un materasso
gonfiabile, che si cerca le donne su Twitter e vive in una casa che merita un premio per il cattivo gusto
delle luminarie natalizie?» brontola Bryce. «Non gli perdonerò mai di aver dato le dimissioni con un’email. Non ha avuto nemmeno la decenza di dirmelo in faccia. Comunque sia, ordino da Armando o no? E
posso svaligiare il fondo per le piccole spese?»
In cima a una rampa si apre la porta che conduce al piano inferiore e compare Lucy. Ha una tuta da
aviatore che mette in risalto il fisico tonico e asciutto, gli occhi verdi e i capelli biondi tagliati corti, da
ragazzino.
«... Dottoressa Scarpetta? Kay, non ti sento più, dentro il garage. Pronto, pronto?» dice Bryce e io
chiudo la chiamata perché mi sono resa conto che dopo giorni di solitudine e silenzio sono diventata
intollerante alle chiacchiere.
Lucy tiene la porta aperta appoggiandovisi per evitare di baciarmi e io percepisco immediatamente il
suo umore, come se fosse una ventata di aria calda. La abbraccio, che le piaccia o no.
«Non dirmi niente che io non debba sapere» le sussurro.
«Non mi importa che cosa vieni a sapere. Sono sicura che Benton ti ha detto le cose più importanti.»
Di solito rimando le manifestazioni di affetto per mia nipote a quando siamo fuori dal CFC e sul suo bel
viso passa un’ombra di fastidio, mentre si ritrae. Subito dopo la vedo tesa, quasi aggressiva.
«Scusa» le dico, e lei ha una reazione stoica, impassibile, come se quello che è successo a Gail
Shipton non le causasse nessuna emozione.
Intuisco in lei una determinazione che va sempre nello stesso senso, in una direzione prevedibile e
preoccupante. Mia nipote è molto portata per la collera vendicativa e non sa gestire la tristezza.
«Accetto l’offerta di Bryce e mi faccio prestare un paio di scarpe.» Benton si appoggia allo stipite
della porta e, un piede alla volta, si toglie gli stivali. Li posa in cima alla rampa, dove si afflosciano
come birilli spartitraffico appassiti, e passa davanti a noi con le calze. Poi gira a sinistra, diretto
all’ascensore, parlando di nuovo al telefono con un’espressione impenetrabile, come quando si trova di
fronte a resistenze, ignoranza e forse anche qualcosa di peggio.
«Dobbiamo parlare.» Prendo Lucy per un braccio per trascinarla via dalla porta che continua a tenere
aperta.
24
Rimaste sole nel garage, andiamo verso il tavolino rotondo e le due sedie di plastica che Rusty e Harold
hanno soprannominato “Café La Mort”. Nelle giornate miti si siedono lì a bere caffè e fumare il sigaro
con la saracinesca alzata, in attesa dei morti che arrivano e poi ripartono.
Poso il marsupio sul tavolo e Lucy lo prende, apre la cerniera e guarda dentro. Dopodiché lo richiude
e lo posa di nuovo sul tavolo.
«Perché?» chiede.
«Probabilmente è stata la febbre e il fatto di avere troppo tempo per pensare.»
«Probabilmente no.»
«Avevo l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava. Pensavo che fosse perché non stavo bene
e dovevo portare fuori Sock.» Non voglio distrarmi mettendomi a parlare della persona che forse mi
spiava, perché Lucy scenderebbe immediatamente sul sentiero di guerra.
Non voglio che vada a cercare Haley Swanson né nessun altro. Ha già abbastanza problemi con
Marino.
«Dovresti venire ad allenarti al poligono con me, almeno.» Mi osserva attentamente. «Quand’è stata
l’ultima volta che hai sparato?»
«Verrò. Te lo prometto.»
Metto una capsula nella macchina per il caffè Keurig sistemata su un vecchissimo carrello chirurgico
con le giunture arrugginite e le ruote storte, coperto da una tovaglia Vent du Sud con un disegno
provenzale rosso e giallo, su cui sono posati una composizione di girasoli di plastica e un portacenere
dei Boston Bruins.
«Sarai stravolta. Manchi da venerdì, torni al CFC e trovi questo?» Lucy è in piedi dietro la sedia con le
braccia conserte. «Sei pallida e hai l’aria stanca. Avresti dovuto lasciarmi venire.»
«Così ti prendevi l’influenza anche tu?» Apro un pacchetto di asciugamani di carta da pochi soldi, di
quelli che si trovano nei bagni pubblici.
«Me la posso prendere comunque. Non è che ti lascio sola per paura di ammalarmi. Janet e io ti
avremmo portato a casa nostra e ti avremmo curato. Sarei dovuta venire a prenderti.»
«Non mi piace disturbare.»
«Non è un disturbo, come con mia madre.»
«“Disturbo” è un eufemismo, nel caso di Dorothy.»
«Ci tenevo a dirtelo.» Mi fissa intensamente, con gli occhi verdi.
«Lo so, e mi spiace se ti sono sembrata ingrata.»
Lucy non fa nessun tentativo insincero di rassicurarmi. Non sono brava a fingere, lo sappiamo tutt’e
due. Mi ritrovo a pensare alle cose che non mi piacciono di me stessa.
«Non è una questione di ingratitudine» dice lei dopo un po’. «Tu non mi avresti lasciato da sola se
fossi stata al tuo posto. Se io avessi appena passato quello che hai passato tu e mi fossi ammalata. E se
avessi avuto tanta paura da decidere di andare in giro armata.»
«Tu non hai mai paura, eppure vai sempre in giro armata.»
«Se mi fossi ammalata io, ti saresti trasferita da me e mi avresti misurato la febbre ogni cinque
minuti.»
«Ammetto che a volte non rendo la vita facile agli altri.»
Il caffè è pronto, in uno dei bicchieri di carta marrone con il disegno di un pesce che Bryce ordina a
vagonate, surplus della marina militare.
«Latte, zucchero? O nero come al solito?» chiedo.
«Come al solito. Non è cambiato niente.» Mi guarda con una faccia che mi piace, forte e spigolosa,
più particolare che bella.
Ricordo quando era una bambina rotondetta e saputella, fin troppo furba e senza il gene del rispetto
per i confini e le regole. Non appena ha imparato a camminare, ha cominciato a seguirmi da una stanza
all’altra e quando mi sedevo me la ritrovavo sulle ginocchia. Questo faceva arrabbiare moltissimo sua
madre, mia sorella, una donna egoista e infelice che scrive libri per bambini ma è indifferente al
prossimo e alla carne della sua carne. Le interessano solo i personaggi delle sue storie, che può
controllare e far morire quando le pare. È da tanto che non parlo con lei o con mia madre a Miami e per
un attimo mi sento in colpa anche per questo.
«Bryce ordina la pizza. Ho una fame che me ne mangerei una intera da sola.» Poso un caffè e un
tovagliolo di carta davanti a Lucy.
«Questi bicchieri fanno schifo.»
«Sono biodegradabili.»
«Sì. Si sciolgono prima ancora che uno abbia finito di bere.»
«Non inquinano il mare e risultano invisibili ai satelliti spia.» Le sorrido.
«Dovresti mangiartene una intera.» Lucy mi scruta, sempre con le braccia conserte. «Bryce dice a tutti
che sei scheletrita.»
«Ma se mi ha visto cinque minuti fa sul monitor della telesorveglianza! Siediti, Lucy, per piacere.
Dobbiamo parlare.»
Metto la seconda capsula nella macchina. Il profumo di caffè è fortissimo. Ho lo stomaco vuoto e mi
pare sia passato un anno da quando Marino mi ha telefonato stamattina alle quattro. Mi sembra irreale.
«La pizza non è ancora arrivata e lei può aspettare.» Lei è Gail Shipton. «La cosa che mi preoccupa di
più in questo momento sei tu, Lucy» dico. «E se a te non importa che cosa vengo a sapere, a me invece
importa eccome. Non voglio che nessuno resti compromesso. Né tu, né io, né nessun altro.»
Lei mi guarda e so che ha capito che mi riferisco a Benton.
«Compromesso?» Sposta una delle sedie di plastica.
«Non voglio sapere niente di illegale.» Sono di una chiarezza brutale.
«Non c’è niente da sapere.»
«Chi lo dice?» Porto il mio caffè al tavolo e mi siedo di fronte a lei. «Un’idea di quel che hai fatto ce
l’ho. Marino si è accorto che sul telefono di Gail Shipton c’erano cose che non ci sono più. Lo ha detto a
me e forse anche ad altre persone.»
«Non è il telefono di Gail.» Lucy appoggia un gomito sul tavolo e il mento sulla mano. Il tavolino
balla perché le gambe non sono lunghe uguali. «Dovrei dire “non era” di Gail. E quel che le è successo
non ha niente a che fare con un dispositivo unico, su cui Marino non ha nessun diritto perché, ripeto, non
era di Gail.»
«Di chi era allora?»
«La tecnologia è mia, ma ero arrivata al punto che non me ne fregava più niente.» Tiene il bicchiere
con entrambe le mani.
«Dal tono in cui lo dici, non sembra.»
«Non mi fregava più niente di quanto potesse valere quella tecnologia perché volevo chiudere la
collaborazione. È una delle cose di cui Gail e io abbiamo parlato ieri pomeriggio, non per la prima volta
e non amichevolmente: lei vince la causa e rileva la mia quota.»
«Non si ha mai la certezza di chi vincerà una causa.» Mi sorprende che Lucy sia stata così ingenua.
«Le giurie sono imprevedibili e a volte i processi vengono annullati. Può succedere di tutto.»
«Era sicura che all’ultimo momento si sarebbe trovato un accordo.»
«Non credo che Carin Hegel le avesse assicurato una cosa del genere.»
«Infatti. Carin era pronta ad andare davanti al giudice e lo è ancora. Ma il processo non si farà.»
«Con la querelante morta, la vedo difficile.»
«Mancano i presupposti per andare in tribunale, e mancano da parecchio tempo. Ecco perché non si
farà il processo.»
«Carin Hegel lo sa?» Sono stupita e sconcertata da quel che mi sta dicendo Lucy.
«Avevo intenzione di dirglielo non appena fossi stata in grado di dimostrarlo, e mancava poco. Gail
era sicura di ottenere un risarcimento dalla Double S e ha fatto l’errore di dirmelo e promettermi di
rilevare la mia quota. Io non le chiedevo molto, ma qualcosa dovevo chiederle, perché altrimenti sarebbe
sembrato sospetto» dice Lucy fredda, impassibile. «Ci tenevo a tagliare i ponti con lei con precisione
chirurgica e con discrezione. Ero quasi pronta, e ora lei è morta.»
«È un bene che tu non fossi in città quando è scomparsa.»
«Direbbero sicuramente che sono stata io.»
«Sentendoti parlare in questi termini, sicuramente.»
Lucy ha una certa fama e Marino lo sa fin troppo bene. Conosce fin nei minimi dettagli i suoi trascorsi
e le sue potenzialità. Non mi risulta che Lucy abbia mai fatto del male a nessuno gratuitamente, o per
rancore, ma è capace di cose che altri non farebbero mai.
«Comunque non ero qui quando è scomparsa. Non ero qui quando è stata uccisa» dice Lucy. «Ero
appena atterrata al Dulles, poi sono stata in hotel e posso dimostrarlo.»
«Non devi certo dimostrarlo a me.»
«Tu ti preoccupi troppo» dice Lucy. «Gail non mi piaceva e non avevo nessuna stima nei suoi
confronti, ma non le ho fatto del male. Prima o poi gliene avrei fatto, però.»
«Sembri un testimone per la difesa.»
«Non volevo testimoniare per nessuno, ma un processo come questo ruota tutto intorno ai soldi, alla
manipolazione. Hanno scoperto che avevamo cominciato a lavorare a un progetto insieme e in quattro e
quattr’otto mi è arrivata una citazione a testimoniare.»
«Interessante. Il tuo lavoro non è di pubblico dominio. Nemmeno io sapevo dei tuoi rapporti con Gail,
professionali o di altro genere. Come ha fatto a scoprirlo l’avvocato della Double S?»
«Gli avvocati servono a questo: a scoprire le cose.»
«Qualcuno deve avergli dato delle informazioni» ribatto. «È possibile che glielo abbia detto Gail
senza volere?»
«No. Senza volere no. Glielo ha detto deliberatamente» dichiara Lucy.
«Che cosa volevano quelli della Double S da te?»
«Essere miei amici.»
«Dico sul serio.»
«Anch’io.» La rabbia la indurisce. Lucy non ha difficoltà a odiare, se decide che uno se lo è meritato.
Quando si fida, è pronta a fare qualsiasi cosa per te, ma se la deludi non si placa finché non ti ha
distrutto. È costretta a fare così perché non può prendersela con la persona che l’ha fatta soffrire di più
nella vita, sua madre, che gode di totale immunità. Lucy non farebbe mai del male alla persona che le ha
fatto più danni, mia sorella, una donna ingrata e incapace di amare, che morde a tradimento la mano che
la nutre, senza avvertire e senza essere stata provocata. La sua è una sindrome che osservo da anni e che
mi fa diventar matta. Dorothy fa le sue meschinerie, i suoi piccoli atti di crudeltà per il puro piacere di
farli.
«Quando sono andata a testimoniare, mi hanno fatto un sacco di domande personali sul mio lavoro con
i computer e i miei precedenti nelle forze dell’ordine: perché me ne sono andata dall’FBI e dall’ATF e che
cosa voglio dalla vita» racconta Lucy. «I loro avvocati facevano i simpatici, scherzavano. Io sono stata al
gioco perché avevo intuito che cosa volessero veramente.»
«Anche Carin lo ha intuito?»
«Carin li considerava dei bastardi manipolatori.»
«Forse speravano che ti schierassi dalla loro parte, contro Gail.»
«È quello che ha detto anche Carin.»
Le domando se si è mai fidata di Gail Shipton. «Te lo chiedo perché mi sembra che sia durata poco»
aggiungo.
«All’inizio pensavo che fosse una di quelle persone molto intelligenti che sono imbranate negli affari,
che si fosse fatta fregare perché si era impelagata con la gente sbagliata e non capivo bene il motivo»
dice. «Invece mi sono resa conto che era una brava in informatica che non capiva niente nella vita. Se
scavi un po’ più a fondo, trovi cose sulla Double S che ti danno parecchio da pensare, ma devono avere
un PR a tempo pieno che insabbia tutto quanto, e ho il sospetto che paghino dei free lance perché scrivano
bene di loro.»
«Hai il sospetto o la certezza?»
«Non ne ho la certezza, ma è chiaro che funziona così.»
Mi tornano in mente lo studio Lambant & Associates e Haley Swanson.
«Gail non ha nemmeno preso informazioni sulla Double S prima di affidarle tutto quello che aveva,
una cinquantina di milioni di dollari. Che loro sostengono di aver perso in una serie di investimenti
sbagliati» dice Lucy. «A differenza degli altri ex clienti, Gail ha deciso di fargli causa. Non era una
persona coraggiosa, né una che cerca lo scontro, assolutamente no, ma a differenza di tutti gli altri non si
è tirata indietro. C’è da chiedersi perché.»
Lucy parla più animatamente, gesticolando, e la luce si riflette sull’anello d’oro rosa con sigillo che
porta all’indice sinistro. È molto grosso, con un’aquila in volo e un paesaggio naturale. Un gioiello che
da più di cento anni appartiene alla famiglia della sua compagna Janet, a quanto mi risulta.
«Da quanto tempo Gail era alla Double S?» chiedo.
«Più o meno da quando ha iniziato la specializzazione. Ha sempre lavorato, fin da giovanissima. Non
faceva soltanto ricerca e sviluppo, ma anche programmazione di base, ingegneria e progettazione di
database. La Double S l’ha assunta due anni e mezzo fa per realizzare un nuovo sistema di gestione dei
database, e tutto è cominciato da lì. Pian piano l’hanno convinta ad affidare a loro la gestione del suo
patrimonio e dopo pochissimo tempo...» Lucy muove il tavolino per capire qual è la gamba troppo corta.
«Lei ha rescisso il contratto e si è rivolta a Carin Hegel.»
«Hanno perso cinquanta milioni in pochissimo tempo?»
«Sì, quasi tutti. E Carin non ha accettato di rappresentarla in cambio di una percentuale in caso di
vittoria. Come faceva una che aveva perso quasi tutto quello che aveva a permettersi le spese legali?
All’inizio forse poteva anche farcela, ma a questo punto stiamo parlando di parcelle dell’ordine di
milioni.» Lucy ripiega più volte il tovagliolo di carta, si china e lo infila sotto la gamba balorda del
tavolo. «Hai mai riflettuto sul fatto che per certi delinquenti la tecnologia è una merce preziosa? I droni,
per esempio. Immagina cosa può succedere se dispositivi di sorveglianza sofisticati finiscono nelle mani
sbagliate.»
«Non sono ancora in grado di dimostrarlo, ma penso che Gail sia stata assassinata. Lo avrai già
capito, ma voglio essere sicura che tu abbia ben chiaro che molto probabilmente è stata seguita,
sequestrata e uccisa.»
Lucy scrolla il tavolo, che adesso è più stabile. «Vorrei aver attivato la videocamera nel momento
cruciale» dice, come se fosse l’aspetto che la preoccupa di più in quel che le ho detto.
Dietro l’apparente calma piatta, è agitata. È turbata. Lo so.
«Eri in grado di controllare il suo telefono a distanza.» Mi rendo conto di avere ancora indosso la
giacca. Me la tolgo e me la poso sulle ginocchia.
«Il suo telefono?» Negli occhi verdi le si accende un lampo. «La tecnologia di chip stacking, le
caratteristiche della fotocamera, la connettività, la gamma di bande operative, è tutta roba mia. Ho le
specifiche, le fatture e i copyright per dimostrarlo.»
«Ma allora che cosa ci ha messo Gail?» Ho un bisogno disperato di caffè, che mi scaldi la gola e mi
rimetta in circolazione il sangue.
«I sottosistemi multimediali, i dati a pacchetto, la fibra ottica con velocità di caricamento dieci volte
superiori a quelle di oggi, e motori di ricerca che cercano corrispondenze alle intenzioni e non solo alle
parole chiave. La roba di cui mi sono sempre interessata e su cui ho sempre lavorato. Quando ci ha
offerto da bere, mi è sembrato che potesse essermi utile.»
«Capisco. E poi invece si è rivelata inutile, una delusione.»
«Inutile no, ma debole. E dopo ha cercato di fregarmi. Io non le ho fatto capire che me n’ero accorta.
Avevo una app particolare a proposito della quale devo riconoscere che ha avuto alcune idee piuttosto
brillanti. Poi ne ha avuto altre che mi hanno fatto venire la pelle d’oca» dice, e io penso alle
considerazioni di Benton sui software biometrici e le loro potenziali applicazioni ai droni.
«L’hai conosciuta per caso. Da quando in qua ti fidi degli sconosciuti?» chiedo.
«È stato circa otto mesi fa.» Beve un sorso di caffè e fa una smorfia. «Normalissimo caffè del Kenya
che sa di discount. Perché diavolo Bryce risparmia sul caffè? L’ho incontrata con Janet allo Psi Bar e
abbiamo attaccato discorso. Ci capita spesso di incontrare gente dell’MIT e di parlare. Sono le persone
con cui mi trovo meglio.»
«E avete deciso di lavorare insieme a un progetto così, su due piedi.» Il caffè attenua il mal di testa
che sento incombere da quando Marino mi ha svegliato. Mi rendo conto di aver ancora bisogno di
caffeina e spingo la sedia all’indietro.
«Non so perché.» Lucy giocherella con il bicchiere di carta, descrivendo lenti cerchi sul tavolo. «A
volte sono stupida, zia Kay.»
«Non sei mai stupida. Succede a tutti di fidarsi di persone che non lo meritano.»
«Lì per lì mi ha fatto pena perché mi ha raccontato una storia terribile. Un’infanzia infelice in
California, in povertà, con un padre alcolizzato che si è suicidato quando lei aveva dieci anni, e ora sua
madre con l’Alzheimer, che vive con una sorella ritardata. Poi si è fidata di gente che le ha fatto perdere
tutto quello che aveva.»
Mi alzo per farmi un’altra tazza di caffè normalissimo che in questo momento mi sembra squisito.
«Ho pensato che le sue competenze potessero essere utili» continua Lucy. «Purtroppo mi basavo sul
fatto che ha guadagnato un sacco di soldi con le bellissime app per smartphone che ha programmato
quando era poco più che una teenager.»
«Ti sei immedesimata perché ti è sembrata uguale a te. Una bambina prodigio che si è trovata di colpo
ricchissima e circondata da gente che cercava di approfittare di lei. Come tua madre, che si è fatta viva
solo quando sei diventata ricca. Tu la mantieni e più generosa sei, più lei ti tratta male.»
«Chi? Mia madre?» ribatte Lucy sarcastica.
«È una vita di solitudine.»
«Adesso sta con un venezuelano danaroso che ha il doppio dei suoi anni. Te l’ho detto? Si chiama
Lucio non-so-che, ha un sacco di proprietà immobiliari a Miami, South Beach, Golden Beach, Bal
Harbour. Da giovane ha condotto dei talk show e recentemente si è fatto fare un bendaggio gastrico per
dimagrire e conquistare la sua nuova mujer fatal. Lei ci chiama tutti e due “Luci”, così non capisco mai
con chi parla.»
«È la sfortuna di avere per madre mia sorella.» A Lucy è rimasta una vulnerabilità che non credo
riuscirà mai a superare. Si affida completamente e, quando viene delusa, si accanisce contro il nemico
con un’energia straordinaria.
«La scrittura non le rende più molto, da quando ha messo un vampiro nel penultimo libro e,
nell’ultimo, un bambino dotato di poteri magici che ripete continuamente dei brutti incantesimi in rima»
dice Lucy.
«Non li ho letti.»
«Io li leggo per autodifesa. Dovrebbe scrivere la sua autobiografia. Cinquanta sfumature di Dorothy .
Quella sì che venderebbe.»
«Prima o poi la smetterai di odiarla.»
«La nonna sta diventando proprio vecchia.»
«Lo è da un bel po’.»
«Dico sul serio. Non dovrebbe più guidare. Va al supermercato con quella borsa bianca di Chanel
enorme, che ha ereditato dalla mamma, e poi non riesce a ritrovare la macchina. Allora gira per il
parcheggio con il carrello della spesa premendo il telecomando finché non vede accendersi le luci. È un
miracolo che non sia ancora stata scippata.»
«Dovrei telefonarle.»
«Quando uno dice “dovrei”, significa che non ne ha voglia. Spero che tu non lo faccia anche con me»
commenta Lucy.
25
«Le telefonerò e mi dirà che sta malissimo e che io sono una figlia degenere.» Riempio la caraffa filtro al
rubinetto del lavandino in acciaio inossidabile. «Ha fatto così anche il weekend scorso, quando sono
tornata.»
«Sapeva che cos’eri andata a fare nel Connecticut?»
«L’ha visto in televisione.» Non intendo raccontarle che cosa ha detto mia madre in proposito.
Sembrava quasi che fosse colpa mia, si lamentava del fatto che non salvo mai la vita a nessuno e diceva
che dovrei lavorare in un’impresa di pompe funebri. Insomma, le cose che dice sempre. «Spiegami
meglio in che cosa consisteva il progetto con Gail.» Verso l’acqua nel serbatoio della Keurig.
«A lei toccavano soltanto i collaudi, ma ci ha messo un’eternità» mi spiega Lucy. «Mesi e mesi per
individuare gli errori e correggerli. In realtà lavorava di nascosto su copie delle mie app, aggiungendoci
caratteristiche e modifiche che io non avrei mai approvato. Pensava che non me ne accorgessi.» Beve un
sorso di caffè e si appoggia allo schienale della sedia. «Ora non esistono più. Certe cose non si devono
usare.»
«Qualcuno le userà comunque. Se stai parlando di tecnologia biometrica, e in particolare di software
di riconoscimento facciale usato dai droni per la sorveglianza interna, non sarai tu a poter fermare certi
sviluppi inquietanti.»
«Né sarò io a mettere in circolazione occhi digitali capaci di spiare dal cielo normali cittadini, forze
dell’ordine o politici. Il problema è che non li userà soltanto il governo. Immaginati se la criminalità
avesse accesso alla tecnologia dei droni di sorveglianza.» Torna di nuovo sull’argomento. «Oggetti
volanti tanto piccoli da poter entrare da una finestra aperta o capaci di arrivare a trecento metri di quota,
per scoprire dove abita una persona, seguire un’auto, coordinare una grossa rapina, un furto in una casa,
un omicidio... Preferirei studiare le contromisure, piuttosto. A proposito, Benton ti ha parlato del ragazzo
scomparso diciassette anni fa, no?»
Non rispondo né sì né no.
«Non devi rispondere» continua. «So che te ne ha parlato perché doveva dirlo a qualcuno di cui si
fida, oltre che a me. Le cose non gli vanno molto bene al Bureau.»
«Sì, lo so.»
«Invecchiamento virtuale, riconoscimento facciale. Mettiamola così: Martin Lagos non è in nessun
database in nessuna parte del mondo. Quindi l’idea che sia diventato improvvisamente un serial killer e
abbia lasciato in giro il suo DNA è assurda. Posso fare una ricerca del genere dal telefono.»
«È identico a quello che aveva Gail? Quello che adesso è nelle mani di Marino?»
Lucy sgancia il telefono dalla cintura della tuta da aviatore e lo posa sul tavolo. Sembra un
comunissimo smartphone, a parte la custodia di gomma nera militare.
«Perfettamente normale» dice. «È solo un telefono con le solite app sulla schermata iniziale.»
«Così sembra.» Prendo il mio secondo caffè dalla Keurig, che smette di rumoreggiare.
«Quello che gira sotto non si vede. La roba interessante.»
«È pericolosa?»
«Tutto può essere pericoloso: dipende da come lo usi. Ho l’ IP del telefono che aveva Gail e
scavalcavo senza difficoltà i suoi ridicoli tentativi di proteggere i dati. Tutto quello che aveva in
memoria finiva anche sul mio telefono, sul mio tablet, sul mio computer; quindi, quando lei modificava
qualcosa che stavamo sviluppando insieme, vedevo tutto, dal primo all’ultimo comando digitato.»
«Non ti fidavi per niente di lei.» Torno alla mia sedia.
«Per niente. Ho smesso di fidarmi più o meno nel periodo in cui mi è arrivata la citazione.»
Da dove sono seduta vedo benissimo il grosso SUV nero opaco di Lucy, un cacciabombardiere stealth
su gomma con tutti i comfort di un jet privato. «E lei si fidava di te?» Avrei tante domande da farle.
«Non le ho mai dato motivo di non farlo.»
«Hai perso la fiducia l’estate scorsa, ma evidentemente non hai troncato perché hai deciso che non ti
conveniva.»
«Avevo intenzione di farlo entro breve.»
«È per questo che giri su un mezzo blindato?»
Guarda il SUV come se fosse un bambino, un cane o un gatto a cui vuole molto bene. «Non l’ho
comprato per un motivo particolare.»
«Chi altro hai fatto incazzare, oltre agli allevatori di suini?»
«Sto sulle scatole ad Al-Qaeda, ai neonazisti, agli omofobi, ai maschilisti, a chi è contrario al
matrimonio gay, ai jihadisti, e ora anche a quelli della Double S» dice. Sembra compiaciuta dell’idea. «E
anche a un lungo elenco di allevatori di suini e, ultimamente, a un’azienda che produce foie gras nello
Stato di New York. Un postaccio da radere al suolo con un bell’incendio, dopo aver evacuato le oche,
naturalmente. Non sono più tanto simpatica nemmeno a Marino, immagino, e vedi che la lista si allunga.
O forse è solo invidioso del mio SUV. Il suo è un V6, quasi tutto di plastica.» Lo dice in tono cinico, con
rabbia.
«Che cosa sa esattamente Marino?»
«Esattamente niente, e non intendo spiegargli un accidente. Non sa che l’ho visto raccogliere il
telefono di Gail dietro allo Psi Bar in tempo reale. Non se lo immagina e mai lo saprà, vero?» Lucy mi
guarda.
«Da me no di sicuro. Tu però dovresti dirglielo.»
«Non dovrebbe dirglielo nessuno» ribatte, secca. «Marino si diverte a giocare a guardie e ladri, dopo
essersi sentito un lacchè per anni.»
«Spero che non glielo dirai mai in questi termini.»
«Quando ho capito che Gail era scomparsa...»
«E quando lo hai capito? Io ti ho mandato l’SMS verso le cinque e mezzo, mentre Marino mi portava al
Briggs Field. Quando ti è venuto in mente di entrare nel suo telefono?» Il tono è da interrogatorio, non lo
nascondo.
«A mezzanotte.» Conferma quel che mi ha detto Benton. «Quando i miei motori di ricerca mi hanno
segnalato un post sul sito di Channel 5. Ho subito controllato la posizione GPS del suo telefono, ho visto
che era allo Psi e ho telefonato al bar, dove mi hanno detto che era andata via da circa sei ore. Ho capito
subito che era un brutto segno e ho attivato la videocamera in modalità automatica. Ha uno zoom con
sensore di movimento integrato e una dome brandeggiabile ad alta velocità che poteva filmare tutto finché
io non fossi arrivata sul posto.»
«Volevi recuperare il telefono appena tornata?»
«Sì.»
«Ma è arrivato prima Marino.»
«L’ho visto.» Sembra arrabbiata con se stessa, più che altro. «Vorrei aver pensato ad accendere la
videocamera mentre le parlavo ieri pomeriggio, ma non avevo motivo di pensare che stesse succedendo
qualcosa di grave.» Si alza e versa il caffè nel lavandino. «Se avessi avuto il minimo motivo per
preoccuparmi, l’avrei accesa.» Si appoggia al lavandino e mi guarda. «L’avrei vista e avrei visto che
cosa è successo quando era sul retro del bar. È stato un attacco a sorpresa, ne sono sicura. Se avesse
avuto un secondo o due di preavviso, avrebbe attivato la videocamera e io avrei visto tutto in streaming.
Bastava che sfiorasse la app ICE, “in caso di emergenza”: l’aveva sulla schermata iniziale.»
«Dopo aver parlato con te ha chiamato Carin Hegel ed è caduta la linea.» La incoraggio a dirmi quello
che sa.
«Dopo ventiquattro secondi.» Lucy butta il bicchiere di carta nella spazzatura e torna a sedersi.
«È quello che non capisco» replico. «Mi sarei aspettata che Gail dicesse qualcosa, lasciasse capire
che qualcuno le si era avvicinato, che era stata interrotta, spaventata. Secondo Carin, invece, è caduta la
linea. Ha continuato a parlare per un po’ senza accorgersi che Gail non c’era più.»
«Non è caduta la linea.» Lucy prende il telefono che ha posato sul tavolo. «A chiudere la chiamata è
stata Carin, quando Gail ormai non aveva più il telefono in mano.» Digita una password.
«Com’è possibile che Carin non abbia sentito niente? Un’esclamazione, un grido, gente che parlava o
litigava?»
Lucy clicca su un file audio.
“Carin Hegel.” Riconosco la voce dell’avvocato nella registrazione che Lucy deve aver fatto di nascosto.
“Ciao. Novità dall’ultima volta che ci siamo viste? Lasciami indovinare. Hanno presentato altre venti
istanze per farci perdere tempo e farmi spendere più soldi.” La voce di Gail Shipton è modulata, acuta,
infantile.
Non vi percepisco la rabbia sotterranea che mi sarei aspettata. Immaginavo che detestasse la Double S
e fosse piena di rancore, stressata, soprattutto nell’alludere alle spese che le stanno causando
deliberatamente. «Fammelo riascoltare, per favore» dico a Lucy, che mi accontenta subito.
Gail Shipton è troppo calma. Percepisco un che di artificioso: sembra un attorucolo che recita
maldestramente una battuta. Lo noto perché ascolto con attenzione, cercando eventuali anomalie. Lucy fa
ripartire la registrazione.
“Carin Hegel.”
“Ciao. Novità dall’ultima volta che ci siamo viste? Lasciami indovinare. Hanno presentato altre venti
istanze per farci perdere tempo e farmi spendere più soldi.”
“Purtroppo non hai del tutto torto” risponde l’avvocato.
“Sono allo Psi Bar. Sono uscita, ma c’è molto rumore anche qui” dice Gail. “Come, scusa? Hai
bisogno?”
“Volevo avvertirti che ho appena vistato la tua ultima parcella” continua la voce registrata di Carin
Hegel.
Un attimo di silenzio e nessuna risposta.
“È piuttosto alta, come puoi immaginare, a così poco tempo dall’inizio del processo.”
Un altro silenzio.
“Gail? Ci sei ancora? Accidenti.” Carin Hegel sembra spazientita. “Adesso metto giù e provo a
richiamarti.”
«Ed è quello che ha fatto» mi dice Lucy. «Ma Gail non ha risposto.»
Mi fa riascoltare la prima parte della conversazione.
“Come, scusa?” dice la voce di Gail. “Hai bisogno?”
«Non sta parlando con Carin.» Ascoltiamo di nuovo la stessa battuta, con il volume più alto.
“Come, scusa? Hai bisogno?”
Faccio caso ai rumori in sottofondo e sento, attutito, il ritmo della musica dentro il bar. Non capisco
se Gail stesse parlando con qualcuno nel parcheggio. Sento soltanto la musica in lontananza, new age, il
genere che ho sentito tutte le volte che sono stata allo Psi Bar.
«Da quanto tempo registravi le telefonate di Gail?» chiedo.
«È facile, dato che usa un dispositivo mio. Adesso ascolta questo» dice Lucy. «L’ho ripulito, ho
separato i rumori di fondo dalla musica proveniente dal bar e ho amplificato il resto, individuando i
momenti precisi in cui si iniziano a sentire le varie cose. Prima che Gail chiamasse Carin.»
Mi fa ascoltare la registrazione filtrata, precedente la conversazione con l’avvocato, e sento
distintamente il rumore di un motore in folle. Poi sento qualcos’altro. La voce di mia nipote.
“... Faremo preparare una bozza quando torno da Washington” dice la voce registrata di Lucy. “Non è
il momento di creare problemi, con il processo imminente, anche se tu pensi che non si farà. Ti conviene
non avere nemmeno l’ombra di un problema con me.”
“Perché dovrebbero esserci dei problemi? Cercheranno l’accordo. Non preoccuparti, sistemeremo
tutto” replica Gail in un tono conciliante che a me sembra falso. Poi sento anche il resto.
Il rumore di un motore. Un’auto poco lontano, ferma con il motore acceso, al buio dietro il bar, e se
Gail se n’è accorta non sembra essere preoccupata né minimamente spaventata.
26
«Un V8» mi dice Lucy. «Buona potenza, magari quattrocento cavalli. SUV, o berlina di grosse
dimensioni.»
“Pneumatici Goodyear da fango, per SUV o fuoristrada” ricordo che ha detto Benton. Un individuo che
pratica sport estremi o attività ad alto rischio e non esita a rubare un pick-up o ad attraversare in
macchina un campo da golf.
«Non un’auto ad alte prestazioni, il rombo non era da motore high-rev» continua Lucy. «L’ho sentito
per tutto il tempo in cui abbiamo parlato, il che significa che era già lì quando lei è uscita dal bar per
rispondere alla mia chiamata. Non ha manifestato il minimo interesse. Forse non se n’era manco accorta.
Fin qui.»
Lucy clicca su un file e riproduce la stessa clip audio che ho sentito prima.
“Come, scusa? Hai bisogno?”
«Non lo dice a Carin, ma a qualcun altro» mi spiega Lucy, sicura. «Si capisce dal fatto che cambia
tono. È quasi impercettibile, come se le si fosse avvicinato qualcuno con l’aria di volerle parlare
tranquillamente, con calma.»
«Le si avvicina nonostante lei sia al telefono. Non esita a interromperla» rifletto. «E lei non sembra
spaventata o sulla difensiva.»
«Neanche cordiale, però» mi fa notare Lucy. «Non credo che lo conoscesse, ma non è impaurita. È
gentile, non allarmata. C’è un’altra cosa. Se amplifico i rumori di sottofondo all’inizio della
conversazione con Carin... Ho eliminato tutto, eccetto l’auto.»
Fa partire la clip e sento un motore acceso. Non sento altro: un rumore basso e costante, di un motore
a benzina piuttosto potente, in folle.
«Poi parla» dice Lucy.
“Come, scusa? Hai bisogno?”
«Non si sente il rumore della portiera» mi spiega Lucy. «È sceso dall’automobile, ma ha lasciato la
portiera aperta, o per lo meno non l’ha chiusa completamente, altrimenti avremmo un evento audio.
Invece non c’è nessun picco nel livello del suono. Questa persona è silenziosissima e lei non sembra per
niente sorpresa: solo educatamente curiosa, ma per nulla spaventata.»
Lucy me lo fa risentire.
“Come, scusa? Hai bisogno?”
«Si presenta in maniera da non ispirarle nessuna diffidenza, lì per lì.» Mi sembra di vederlo.
Vestito in un certo modo, con un atteggiamento impeccabile e studiato che ha già sperimentato con
successo in almeno altre tre occasioni per avvicinare le sue vittime e chissà quante altre volte in cui non
ha portato a termine i suoi intenti omicidi. Quelli come lui adorano le prove generali. Incontrano una
possibile vittima e si accontentano di fantasticare di rapirla e ucciderla, finché a un certo punto portano il
loro proposito fino in fondo.
«Stai pensando che Gail non sia stata l’unica» mi dice Lucy guardandomi intensamente. «Anche
Benton lo pensa, dopo aver fatto il sopralluogo al Briggs Field? Tu l’hai esaminata in situ, no? Sei giunta
alla conclusione che è stata uccisa? Ne hai la certezza o il tuo è soltanto un sospetto? Hai capito come è
morta? Benton ha scoperto qualcosa?»
«Chi altri poteva essere al corrente di queste caratteristiche, della tecnologia che tu e Gail stavate
sviluppando?»
«Chi l’ha aggredita non sapeva un accidente.» Lucy mi fissa. «Non c’entra niente con la fine che ha
fatto, te lo ripeto. Tu rapiresti uno che ha uno smartphone così? Sapendolo?» Indica il suo cellulare sul
tavolo.
«Sapendolo, me ne guarderei bene» ammetto. «Avrei paura di venire ripreso, registrato.»
«Se lo scopo era rubare la tecnologia, peraltro, il telefono non sarebbe rimasto per terra» dice Lucy.
«Al rapitore non interessava. Non aveva idea che fosse un drone phone.»
«Non so cosa sia.»
«È un dispositivo robotico palmare. Non ti serve come prova.»
«Marino la pensa diversamente.»
«Marino è un coglione.»
«Pare che tu abbia fatto delle riprese di nascosto...»
«Perché non mi potevo fidare di Gail e volevo arrivare fino in fondo. C’ero quasi.»
«Adesso Marino non si fida di te e tu non ti fidi di lui. Non voglio che litighiate» ripeto.
«Non può provare niente. Ho visto tutto quello che ha fatto. Quando ha bypassato la password con
l’analizzatore che ho programmato io e che gli ho insegnato a usare io, ero già dieci step più avanti di lui.
Io lo vedevo e lui non vedeva niente che non gli lasciassi vedere io.»
«Dice che dal telefono sono sparite delle app, delle e-mail, dei messaggi vocali che prima c’erano.»
«Dopo che lui è entrato in possesso del telefono, bisognava prendere un certo numero di precauzioni.»
«Non credo ti concederà sconti, Lucy. Tutt’altro. Vuole dimostrare che non fa preferenze e che il
passato è passato.»
«Può pure consegnare quel telefono alla CIA. Non m’interessa. Nessuno potrà provare niente. Non mi
devo preoccupare più che le porcate di quella stronza o quant’altro finiscano nelle mani sbagliate. Non
più.»
«Porcate per cui potrebbe valere la pena uccidere?» domando.
«Ma figuriamoci! Chi l’ha ammazzata non si è reso conto dell’importanza dell’aggeggio che aveva in
mano quando l’ha abbordata. Per lui era un semplice telefono.»
Lucy mi guarda e dietro la sua indignazione vedo dolore e delusione.
«Gail non era una brava persona, zia Kay. Ha cercato di fottere sia me sia Carin. Non le fregava niente
di nessuno, a parte se stessa, e alla fine ci ha rimesso su tutti i fronti. E non parlo di denaro.»
«Mi spieghi che cos’è esattamente un drone phone?» chiedo.
Suona il citofono del garage. È un suono intrusivo e fastidioso.
«La mia idea era un uso domestico, veramente utile» mi spiega Lucy. «Capace di salvarti la vita.
Immagina di poter comandare dei droni con il tuo telefono. Non nel senso di velivoli militari senza
pilota: droni molto più piccoli. Per riprendere dall’alto proprietà immobiliari, eventi sportivi, monitorare
il traffico in autostrada o il tempo che fa, per fare ricerche faunistiche. Insomma, per tutto quello che può
costituire un rischio per il pilota.»
Si anima nel parlare di cose che le danno gioia. Mia nipote trova più affascinanti invenzioni e
macchine, rispetto a tramonti o mareggiate.
«L’idea era questa. Ma poi lei l’ha portata in una direzione che non andava bene. Forse era sua
intenzione arrivare lì sin dall’inizio: non lo so.» Si rabbuia di nuovo. «Foto compromettenti, violazione
della privacy, caccia agli animali e alle persone, spionaggio, aggressioni per i motivi peggiori.»
Osservo la saracinesca del garage che comincia ad alzarsi e la striscia di luce che compare mi sembra
più grigia e cupa di quanto non fosse prima.
«Le è successo qualcosa.» Lucy è dura, impietosa. «Forse ancor prima che ci conoscessimo: fatto sta
che questa cosa ha preso il sopravvento su di lei. Purtroppo è andata così. L’avrei aiutata se me lo avesse
chiesto. Invece ha cercato di fregarmi.»
Sento entrare una corrente d’aria fredda e umida. Squilla il telefono. Guardo chi è: il direttore
dell’Istituto di medicina legale del Maryland, Henri Venter. Rispondo.
«Dove sono in questo momento il segnale è quello che è» gli dico subito. «Ti richiamo dal fisso.» Mi
alzo e vado al telefono a muro vicino al carrello del caffè.
Compongo il numero di Venter. «Come stai, Henri?»
«Lotto con i tagli dei finanziamenti e con l’organico decimato dall’influenza e dalle feste. E mi hanno
anche consegnato una partita di filtri HEPA sbagliati. A parte questo, bene. Cosa posso fare per te?»
Comincio spiegandogli che c’è un problema con il DNA dei tre casi di Washington e che qui a
Cambridge c’è stato un omicidio che sembra opera dello stesso assassino. È possibile che il Capital
Killer adesso sia nel Massachusetts.
«Naturalmente sono informazioni riservate su più fronti. E potrebbe esserci un problema a livello
federale» aggiungo, sperando che lui capisca.
«Ho visto al telegiornale che è stato ritrovato un cadavere all’MIT» dice Venter. «Non hanno detto
praticamente altro. Presumo avesse un sacchetto sulla testa, con il logo di un centro termale. Fermato con
del nastro adesivo che sembra pizzo.»
«No, niente sacchetto e niente nastro adesivo. Ma la donna era avvolta in un telo bianco abbastanza
inconsueto e ho il sospetto che sia stata asfissiata.»
«Interessante» replica. «Perché la vittima di qui, Julianne Goulet, secondo me è stata soffocata, ma
non necessariamente con il sacchetto di plastica che aveva intorno alla testa. L’autopsia ha evidenziato
elementi che mi lasciano alquanto perplesso. C’erano fibre azzurrognole nelle vie aeree e nei polmoni,
per esempio. Mi chiedo se avesse addosso un certo tipo di tessuto.»
«Lycra.»
«Esatto.»
«E mentre cercava disperatamente di prendere fiato ha inspirato fibre, che sono anche sotto le unghie
perché con ogni probabilità tentava di strapparsi di dosso quello che la stava soffocando» dico.
«Precisamente. Secondo me, il sacchetto e il nastro simil-pizzo sono stati aggiunti dopo. Una sorta di
macabra decorazione. Come il telo bianco e la posa in cui è stata messa. Ma la mia è solo un’opinione,
ovviamente.»
«Henri, quando avremo i risultati del DNA, vorrei confrontarli con i tuoi risultati iniziali del caso
Goulet, non con il CODIS.» Voglio arrivare al punto più importante. «Anzi, mi esprimo meglio: non voglio
confrontare il profilo del DNA che otterremo con i dati attualmente nel CODIS.»
«Attualmente?»
«Non metto in discussione l’integrità del CODIS nel suo complesso, ma solo nel caso che avete gestito
voi: Julianne Goulet e il profilo del DNA che il tuo laboratorio ha ricostruito dagli slip che indossava. Mi
chiedo se non abbiate sbagliato a digitare il profilo quando lo avete immesso nel CODIS» spiego. Lucy mi
guarda attentissima.
«Oh, mio Dio» Venter capisce a che cosa sto alludendo. «È spaventoso.»
La saracinesca del garage è fastidiosamente rumorosa. Vedo che sta per entrare un carro funebre
Cadillac con una corona natalizia appesa alla griglia del radiatore.
«A quanto ho capito, il DNA recuperato dalla biancheria che aveva indosso il cadavere della Goulet
corrisponde a quello di un indagato, latitante da diciassette anni e da alcuni ritenuto morto» continuo, per
dargli la misura del problema.
«Non sapevo che ci fosse un indagato» dice Venter.
«L’FBI ha un indagato.»
«Nessuno me lo ha detto. Nessuno ha verificato che i dati fossero corretti, come vuole la procedura
quando risulta una corrispondenza nel CODIS: il laboratorio che ha effettuato le analisi deve confermare.
Quello che mi stai raccontando è scandaloso.»
«La macchia in questione era di sangue? Ho capito bene?» chiedo.
«Non propriamente. Abbiamo analizzato un misto di fluidi corporei, compresa una macchia sulle
mutandine che aveva indosso Julianne Goulet» mi spiega. «Mutandine che si ritiene appartengano alla
vittima precedente, ritrovata in Virginia la settimana prima. Non mi ricordo più il suo nome, purtroppo.»
«Sally Carson.»
«Giusto.»
«Ma il profilo ricavato dalla macchia sulle mutandine non risulta appartenere a Sally Carson» lo
informo. «Il che è strano, visto che è accertato che le aveva indosso quando è uscita di casa il giorno in
cui è scomparsa. Sembra che il suo DNA non sia stato recuperato.»
«Del caso Carson non so nulla. Se ne occupano in Virginia e non rilasciano informazioni.»
«Per motivi non buoni, temo.»
«Sto cercando il rapporto sul caso Goulet, ma sono abbastanza sicuro che il DNA non era il suo, perché
ovviamente abbiamo ricavato il profilo molecolare dal sangue. Insomma, se il DNA sugli slip fosse suo,
lo sapremmo. Usiamo metodi spettroscopici per i diversi fluidi corporei, principalmente per cercare
marcatori dell’acido ribonucleico: immagino siano le stesse procedure che usi tu. Quindi ti posso dire
esattamente che fluidi erano e se c’erano più profili mescolati. Ma sono abbastanza certo che ce ne fosse
uno solo. Mi pare di ricordare che venisse tutto da un’unica fonte, da una persona soltanto.»
Mentre aspetto che trovi nel suo database quello che gli serve, la saracinesca si ferma e vedo che fuori
il cielo è nuvoloso. Il carro funebre avanza piano, il motore silenziosissimo. È un veicolo nuovo e
aerodinamico, quello che nell’ambiente chiamano con orgoglio “Landau”.
«Ecco: ho il rapporto davanti agli occhi» mi annuncia Venter. «Secrezioni vaginali, urina e sangue
mestruale, tutti della stessa persona. Abbiamo solo l’identificativo che abbiamo assegnato quando
abbiamo caricato il profilo nel CODIS. Come prevedibile, non sappiamo chi sia.»
Sono sorpresa, ma purtroppo non più di tanto. Lo informo che dal referto autoptico di Sally Carson
risulta che la donna era mestruata quando è stata rapita e uccisa. È possibile, se non addirittura molto
probabile, che la macchia sugli slip indosso al cadavere di Julianne Goulet corrisponda al profilo DNA di
Sally Carson. Se non risulta così, è quasi certamente perché qualcuno ha manomesso il database dell’FBI.
Sospetto che al profilo della Carson sia stato sostituito quello di Martin Lagos, ma non lo dico
apertamente. Spiegherebbe come mai il sangue sulle mutandine indosso al cadavere di Julianne Goulet
risulti essere di Martin Lagos.
«Sto guardando, ma non vedo notifiche di una corrispondenza del DNA» mi informa cupo Venter. «Ci
avrebbero dovuto mandare il profilo dell’indagato perché procedessimo al confronto con i nostri reperti.
Invece no.»
«Il profilo di un indagato ottenuto da un’analisi di DNA che ho motivo di pensare sia stata effettuata in
Virginia diciassette anni fa» dico a Venter. «Un individuo di sesso maschile che non è più riapparso.»
«Un maschio?» esclama Venter. «Un maschio non può lasciare secrezioni vaginali e sangue
mestruale.»
«Infatti. Vedi qual è il problema?»
«Anche in Virginia avrebbero dovuto essere informati della corrispondenza per procedere a un
confronto» dice Venter.
«Con loro non ho parlato. L’estate scorsa la direttrice dei loro laboratori è stata promossa e ha
assunto la direzione dei laboratori nazionali dell’FBI. Non la conosco personalmente.»
«È una cosa sconvolgente» mormora Venter. «Ho effettuato io l’autopsia alla Goulet e francamente
avevo qualche perplessità sul modo in cui è stato gestito il caso già prima che tu mi dicessi queste cose.
Il tipo che era a Washington quando tu eri in Virginia e adesso lavora a Boston... Be’, forse non vi siete
mai incontrati.»
«Ed Granby.»
Lucy non ha smesso un istante di guardarmi.
«Mi ha minacciato apertamente» mi rivela Venter. «Mi ha detto che, se non volevo avere grane con la
giustizia, mi conveniva non lasciar trapelare il minimo dettaglio sul caso Goulet, e che stava prendendo
provvedimenti estremi per evitare che qualcuno emulasse il serial killer.»
«Continua a dirlo.» Parlo a Venter del residuo fluorescente che non sembra essere stato trovato
addosso a nessuna delle altre vittime, a parte Gail Shipton. «Volevo essere certa che tu non avessi
trovato niente del genere» concludo.
«Nelle narici e nel cavo orale ho trovato un materiale grigiastro, vischioso.» Apre il rapporto che lo
descrive. «Impronta minerale al microscopio SEM: alite, calcite e aragonite. Esposto ai raggi UVA,
assumeva colorazioni rosso vivo, blu violaceo e verde smeraldo.»
«Mi pare di ricordare che nei referti che ho visionato si accennasse a un materiale viscoso e grigio.
Sui denti e sulla lingua della Goulet.» Non entro nei dettagli.
Ma Venter sa chi è mio marito e può immaginare da chi ho avuto questa informazione. Lucy si alza
dalla sedia e mi viene vicino. Continua a guardarmi fisso, senza nemmeno cercare di far finta di non
ascoltare la conversazione.
«Non vi era cenno alla fluorescenza di questi minerali ai raggi UVA, ma potrebbe non essere
necessario specificarlo in un rapporto di analisi elementare» aggiungo.
«No, hai ragione.»
«Ho trovato un residuo che brilla in quelle colorazioni su tutto il corpo della vittima di stamattina.»
Osservo i due inservienti dell’impresa di pompe funebri in completo scuro che aprono il portellone
posteriore del carro.
Mi sorridono e salutano con la mano, come se il loro fosse un lavoro allegro.
«Alla TAC risulta di media densità» dice Venter. «Ma non c’è stata aspirazione: non c’è traccia di
questo materiale nei seni nasali, nelle vie aeree o nei polmoni.»
«Nel referto autoptico di Sally Carson non c’è alcun riferimento a questo materiale. Ma in Virginia
non hanno tomografo.»
«Sono pochi gli istituti di medicina legale che hanno la TAC. E in fase di autopsia sarebbe potuto
sfuggire» dice Venter.
«Mi mandi tutto quello che puoi per posta elettronica, per favore? Appena possibile.»
«Te lo sto inviando in questo momento.»
Lo ringrazio e lo saluto.
«Tutto a posto?» Tenuto conto di quello che ha sentito, Lucy sa benissimo che non è affatto tutto a
posto.
«Arriveranno dei documenti dal direttore dell’Istituto di medicina legale del Maryland, il dottor
Venter» la informo. «Controlla la mia casella di posta, per piacere, e inoltrali ai laboratori competenti
appena possibile. Sto aspettando anche del materiale da Benton.» Non nomino Gabriela Lagos davanti ai
due inservienti delle pompe funebri: non voglio dire assolutamente niente. Neanche Lucy dirà una parola.
Mentre saliamo la rampa verso la porta che conduce all’interno del CFC, sta già controllando le e-mail
con il suo telefono per vedere se sono arrivati i documenti. Passo il pollice sulla serratura e gli
inservienti delle pompe funebri spingono la lettiga alle nostre spalle, facendo sferragliare le rotelle.
«Come va, dottoressa? Ho sentito che è reduce da un weekend da incubo.»
«Bene, grazie.» Tengo aperta la porta per farli passare.
«Il mondo va a ramengo.»
«Ha ragione.» Chiudo la porta alle mie spalle.
«Che tempaccio, eh? Danno neve, domani o dopo.»
Spingono la lettiga nella sala accettazione, dove sono allineate le grandi celle frigorifere in acciaio
lucido.
«La temperatura è scesa di colpo nel giro di un’ora. Tira vento di mare, sulla South Shore. Qui fa
meno freddo: il cappotto ci vuole, ma puoi anche stare senza. Che tristezza, però. Sembra che un sacco di
gente scelga questo periodo per suicidarsi.»
«Lo so. Colpisce di più perché nessuno dovrebbe farlo in questo periodo dell’anno.» Controllo
l’etichetta del sacco mortuario, che è di finta pelle, blu scuro, con il nome dell’impresa di pompe funebri
ricamato sopra. «Il sacco non mi serve. Potete riprendervelo.» Abbasso la cerniera scoprendo il secondo
sacco, di stoffa bianca e impalpabile, che le braccia rigide della morta tengono tesa, i gomiti piegati
come un pugile.
«Aveva solo trentadue anni» mi dice uno dei due uomini mentre togliamo il sacco esterno in finta
pelle. «Si è messa il vestito della domenica e si è truccata per benino. Era sul letto, con i flaconi delle
medicine vuoti sul comodino. Ativan e Zoloft. Neanche una lettera d’addio.»
«Succede più spesso di quanto si creda» replico. «Il gesto comunica più delle parole.»
27
Ron è seduto nella guardiola protetta da vetri antiproiettile, davanti a una fila di monitor dell’impianto di
sicurezza. Apre la finestrella e io prendo il registro nero per segnare l’arrivo dell’ultimo caso. Firmo e
copio i dati che sono scritti sull’etichetta del sacco mortuario.
Heather Woodworth, F 32, Scituate, MA. Distesa sul letto priva di vita. Possibile suicidio per overdose da farmaci.
Un vecchio nome della South Shore scritto a biro, una giovane donna che ha deciso di farla finita in
una bella cittadina sul mare. Controllo chi altro è arrivato: cinque casi in sala autopsie e in sala
radiografie, a vari livelli di svestizione e sezionamento. Abuso di sostanze, incidente d’arma da fuoco,
caduta dallo Zakim Bridge, una donna anziana morta sola in una casa piena zeppa di cianfrusaglie, e
l’incidente stradale di cui mi è già giunta voce. Leggo il nome e rimango stupita.
Franz Schoenberg, M 63, Cambridge, MA. Incidente stradale.
Lo psichiatra che ho visto nelle foto stamattina. Aveva in cura la donna che si è suicidata gettandosi
dal tetto sotto i suoi occhi. Forse è per questo che guidava in stato di ebbrezza. Quante tragedie senza
senso... La maggior parte delle persone muore come ha vissuto.
«I farmaci dove sono?» chiedo agli inservienti.
«In una borsa dentro il sacco» mi risponde uno di loro. «I flaconi vuoti che erano sul comodino. I figli
erano da sua madre, per fortuna. Sono piccoli: il maggiore ha cinque anni. Il padre è morto esattamente un
anno fa in moto. L’ha trovata una vicina a cui avrebbe dovuto dare una lezione di musica. Ha bussato, non
le ha aperto nessuno, ha visto che la porta non era chiusa a chiave ed è entrata. Erano le dieci precise.»
«Aveva pianificato tutto.» Passo il registro a Ron dalla finestrella perché inserisca i dati nel computer
e programmi il braccialetto con chip RFID da legarle al polso.
«Ha fatto in modo che in casa non ci fosse nessuno. Non voleva far soffrire nessuno» dice uno degli
inservienti.
«Be’, insomma» ribatto. «Adesso i figli sono orfani sia di padre sia di madre e probabilmente
odieranno il Natale per il resto della loro vita.»
«Era depressa, dicono.»
«Certo che era depressa. E adesso si deprimerà anche un sacco di altra gente. Mi mette questo
sottochiave, per cortesia?» Porgo a Ron il mio marsupio.
«Sì, signora direttrice.» Si china per digitare la combinazione e mi aggiorna, senza che io glielo
chieda. «Tutto tranquillo. Abbastanza. È passato il furgone di una TV davanti al portone. Piano piano e
diverse volte.»
«Lasciatela lì sulla pesa» dico agli inservienti. «Ron? Può avvertire Harold o Rusty che è appena
arrivato un caso? Bisogna pesarla, misurarla e poi metterla nella cella frigorifera in attesa che Anne sia
pronta a farle la TAC. Non so chi possa fare l’autopsia. Il medico meno occupato.»
«Sì, signora direttrice.» Ron infila il marsupio nell’armadietto blindato e chiude il pesante sportello di
acciaio. «È venuta quella giornalista che non le è simpatica.»
«Barbara Fairbanks» dice Lucy. «Stava facendo delle riprese davanti al CFC quando sono arrivata.
Potrebbe aver ripreso anche il mio SUV, mentre aspettavo che si aprisse il cancello.»
«Ed è rimasta lì per un po’. Forse sperava di riuscire a infilarsi prima che si chiudesse» aggiunge
Ron. «Ci ha già provato un mesetto fa e io le ho detto che se non se ne andava la facevo arrestare.»
Ron è stato nella polizia militare, è grande e grosso e muove continuamente gli occhi scurissimi. Esce
dalla guardiola e aspetta che gli inservienti se ne vadano.
«Ci servirebbe la lettiga» dice uno di loro.
«Certo. Quando venite a riprendere la donna, ve la restituiamo.»
«Passate nel pomeriggio» dico io.
Superiamo un’altra porta e scendiamo una rampa, verso l’ampio locale senza finestre in cui diversi
tecnici coperti di Tyvek dalla testa ai piedi stanno predisponendo vaporizzatori di cianoacrilato intorno a
una Jaguar verde d’epoca, sotto una tenda azzurra. È sfasciata, senza più il tetto e con il lungo cofano
semidistrutto. Il finestrino dalla parte del guidatore è frantumato e sporco di sangue secco, il bagagliaio e
le portiere ammaccate sono spalancati. Ernie Koppel è chino sul sedile del conducente.
Alza la testa verso di me, gli occhi protetti da una visiera arancione. Su un carrello lì vicino è posata
una fonte di illuminazione alternata. Ernie sta controllando l’abitacolo come se si trattasse di un
omicidio, invece che di un incidente.
«Buongiorno. Che piacere rivederti! Brutta l’influenza quest’anno, eh? L’ha avuta anche mia moglie.»
Ha guance tonde e rosee che gli spuntano dal cappuccio di polietilene bianco, lo stesso materiale
sintetico che viene usato anche per proteggere palazzi, imbarcazioni e autovetture.
«Sta’ attento a non prenderla anche tu.»
«Finora m’è andata bene, grazie a Dio. Ho visto il tuo carro armato nel garage. Che macchina!» dice a
Lucy. «Com’è che non ha la torretta in cima?»
«Non è di serie: la devi ordinare» gli risponde lei.
«Quando hai un momento...» Prendo da un carrello camice e copriscarpe. «Evidentemente non è stato
un semplice incidente, se ti dai tanto da fare.»
«Un’ultima passata al sedile del guidatore e poi cerchiamo le impronte» dice agli altri tecnici
abbassando le luci.
«Aveva la cintura?» Mi allaccio il camice sulla schiena.
«Quando l’impatto è laterale, la cintura serve a poco o a niente. Guarda la gomma posteriore sinistra»
dice Ernie.
Mi infilo i copriscarpe, che fanno rumore di carta mentre mi avvicino alla macchina. Lo pneumatico è
a terra. Non vedo nient’altro di strano.
«Il foro è stato praticato con uno strumento da taglio» mi spiega Ernie.
«Non potrebbe essere successo durante l’incidente? Magari una lamiera affilata... Le gomme si bucano
spesso negli incidenti gravi.»
«È un taglio troppo netto. E poi è nella spalla, non nel battistrada» mi spiega. «Secondo me, è stato un
punteruolo. Lo pneumatico si è sgonfiato lentamente e lui ha perso il controllo del mezzo. C’è anche un
trasferimento di vernice sul paraurti posteriore, che trovo interessante. A meno che non ci fosse già,
ovvio. Ma ne dubito, visto com’era ben tenuta la macchina per il resto.»
Vedo di cosa sta parlando Ernie: è una piccola ammaccatura su cui sono rimaste tracce di vernice
rossa riflettente.
«Potrebbe averlo strisciato un altro veicolo quando ha bucato» ipotizzo.
«Non credo, visto quanto è basso l’assetto di questa macchina» dice Lucy infilandosi i copriscarpe.
«Se è stato urtato, dev’essere stata una macchina con l’assetto altrettanto basso, oppure un veicolo più
grosso e con un rostro sul paraurti. Ne esistono con una vernice riflettente.» Si china a guardare. «I
membri delle gang amano le auto superaccessoriate. E di solito hanno dei SUV.»
«Datemi un secondo.» Ernie si china di nuovo a controllare dentro l’abitacolo e io parlo con Lucy di
Gail Shipton.
Non ho ancora approfondito abbastanza l’argomento.
«Aveva un quadernetto nella borsa» comincio.
«Che era dove, esattamente?»
«L’assassino l’ha lasciata poco distante dal cadavere. Ovviamente voleva che la trovassimo. Nel
portafoglio non c’erano soldi, ma è difficile capire se manca qualcos’altro. Evidentemente il quadernetto
non gli interessava.»
Apro la foto che ho scattato nel cantiere e le mostro la pagina con lo strano codice.
61: RIC 18/12 1733 (<18m) REC 13-9-14-1-3-3-9-1
«L’ultima annotazione che ha scritto» spiego. «Subito dopo aver parlato al telefono con te, pare. Pochi
istanti prima di essere aggredita. Un taccuino nero, piccolo, con pagine che sembrano di carta
millimetrata e degli adesivi rossi con una X al centro. Ti dice qualcosa?»
«Sicuro.» Lucy infila le braccia nel camice di materiale sintetico facendolo frusciare. «È un codice
rudimentale. Lo capirebbe anche un bambino delle elementari.»
«Sessantuno?» Comincio dal principio della stringa, spalla a spalla con Lucy, la foto sul mio
smartphone sotto il naso.
«È il codice che ha assegnato a me» spiega lei, come se fosse normale che Gail le assegnasse un
codice. «Le lettere del mio nome tradotte in numeri. L-U-C-Y uguale dodici, ventuno, tre e venticinque. Fai
la somma e ottieni sessantuno.»
«Ti aveva detto che ti aveva assegnato un codice?»
«No.»
«RIC vorrà dire “chiamata ricevuta”.» Provo a indovinare. «Diciotto dodici è la data di ieri, 18
dicembre, e diciassette e trentatré l’ora.»
«Esatto» dice Lucy. «Abbiamo parlato per meno di diciotto minuti e REC significa recepito. I numeri
subito dopo corrispondono a MINACCIA, secondo lo stesso criterio di prima. Riassumendo: l’ho chiamata
e lei ha recepito la conversazione come una minaccia. L’ho minacciata. Il messaggio è questo.
Ovviamente è una menzogna.»
«E a chi è destinato il messaggio?»
«Ai mastini che prima o poi mi avrebbe scatenato contro. Non vuole essere un codice indecifrabile»
dice Lucy, come se fosse una cosa da nulla, come se Gail Shipton fosse un’inetta. «Anzi, il contrario.
Gail voleva che si capisse, che all’occorrenza questo diventasse una prova. Tagliava le pagine del
quadernetto per paura che ci mettessi le mani io. Così almeno non avrei trovato le annotazioni
incriminanti. Non avrei mai saputo che scriveva cose false sul mio conto. O così si illudeva.»
«Dici che queste annotazioni avrebbero dovuto essere probanti? In questo processo o in un eventuale
processo futuro?» Non capisco.
«Prima o poi avrebbe fatto causa anche a me, credo. Io me ne sono stata buona e zitta. Pensava di
ricevere un risarcimento dalla Double S e poi di passare alla mossa successiva. Avrebbe sostenuto di
aver inventato lei tutto il drone phone. Così si sarebbe trovata ad averne il pieno possesso senza
sborsare un soldo.» Lucy parla con calma, esponendo dati di fatto. «Voleva prendersi il merito di un
lavoro che non sarebbe mai stata in grado di fare da sola, più prezioso ancora dei soldi. Non si sentiva
granché in gamba, alla fine. Patetico.»
«Come avrebbe potuto farti causa se strappava le pagine che contenevano le annotazioni negative su di
te?» ribatto.
«Intanto, è uno scherzo.»
«Non ci trovo niente da ridere, veramente.»
«Non mi sorprende che l’abbiano sfruttata» dice Lucy. «Le pagine sembrano di carta millimetrata
perché questo è uno Smart Notebook. Le fotografava con il telefono per digitalizzare tutte le annotazioni,
comprese quelle false, e per poter effettuare ricerche attraverso tag e parole chiave: gli adesivi con la X
diventano etichette digitali. A quel punto eliminava le annotazioni su carta strappando i fogli che aveva
già fotografato, in maniera che rimanesse solo la documentazione elettronica.»
«Di cui tu eri al corrente.» So cosa significa.
È proprio come sospettavo. Qualsiasi cosa Gail facesse, per quanto furba credesse di essere, Lucy ne
era al corrente. Non si faceva scrupoli a controllarle borsetta, automobile, appartamento, computer. Mi
viene in mente quello che diceva Marino a proposito dell’assenza di fotografie sul cellulare di Gail
Shipton. Le ha cancellate tutte Lucy, comprese quelle delle false annotazioni sul quadernetto.
«Da mesi, ormai, stava raccogliendo presunte prove contro di me. Quando avesse avuto abbastanza
materiale, avrebbe cercato di fregarmi. Era convinta di farcela, penso.» Lo dice in tono pacato, per non
dare a vedere quanto questo la faccia soffrire. «Sai cosa diceva Nietzsche, no? “Sta’ attento a chi ti
scegli per nemico, perché diventerai come lui.”»
«Mi dispiace che fosse tua nemica.»
«Non sto parlando di me. Mi riferivo a Gail e alla Double S. Stava diventando schifosa quanto loro.»
Osservo un tecnico che preme alcuni interruttori su una scatola di distribuzione collegata a spessi cavi
rossi che serpeggiano sul pavimento, mettendo in funzione vaporizzatori di cianoacrilato, ventilatori e
umidificatori. Ernie viene verso di noi togliendosi i guanti e li butta in un bidone. Gli porgo alcuni
contenitori di prove materiali e una penna.
«Vedo che sei pieno di lavoro» dico, mentre lui firma le ricevute. «Mi spiace portarti anche questi.»
«L’ennesima tragedia che potrebbe rivelarsi ancora peggio di quel che sembra.» Ernie indica la
Jaguar distrutta togliendosi gli occhiali protettivi. «Uno psichiatra bisticcia con la moglie e va al pub, che
fra parentesi rischia delle grane per aver servito da bere a un individuo già in stato di ebbrezza. Luke
però dice che il tasso alcolemico è sotto il limite. A uccidere ’sto poveretto è stato qualcuno che gli ha
bucato una gomma facendogli perdere il controllo dell’auto, che è andata a sbattere contro il guardrail.
Questo non te lo dice l’autopsia, ma i segni della frenata e il foro nello pneumatico. Resta solo da
chiarire se gliel’hanno bucato nel parcheggio del pub o davanti a casa. Chi si è avvicinato alla Jaguar? E
chi gli ha bucato la gomma poi l’ha seguito per dargli ancora una spintarella, il colpo di grazia,
lasciandogli la vernice sul paraurti?»
«Gang» dichiara Lucy. «Ultimamente a Cambridge succede spesso di ritrovarsi con una gomma
bucata. Sono ragazzi delle gang, che ne tagliano cinque o sei in un posteggio e poi si nascondono per
vedere cosa succede. Oppure ne seguono una e quando si ferma con lo pneumatico a terra aggrediscono
gli occupanti e gli rubano il portafoglio. Un’automobile così costa più di centomila dollari, se è in
condizioni perfette. Avranno dato per scontato che valesse la pena di derubare il conducente, dopo averlo
costretto ad accostare.»
«E invece con il loro scherzetto stavolta l’hanno ammazzato.» Ernie si asciuga la fronte nella manica
della tuta di Tyvek.
«Perché secondo voi io uso solo gomme run-flat?» Lucy si avvicina all’auto distrutta e guarda
nell’abitacolo i sedili in pelle e il cambio e il volante in palissandro, che sembrano originali. Ci sono
sangue e capelli grigi dappertutto. «Bisognerebbe capire se anche altri veicoli posteggiati fuori del pub si
sono ritrovati una gomma bucata.»
«Mi sembra un’ottima osservazione. Chiederò di informarsi» dice Ernie. «Cos’altro posso fare per
te?» mi chiede.
Gli parlo delle fibre, del residuo fluorescente e del gel che odora come un unguento mentolato.
«Puoi esaminare il residuo al microscopio elettronico a scansione, per piacere? Ho un’idea riguardo
alla composizione. Potrebbe essere la stessa sostanza che hanno trovato in un caso nel Maryland un po’
di tempo fa. Sta arrivando anche il montante di un cancello che potrebbe essere stato danneggiato da un
utensile.»
«Chi se ne occupa?» Vuole sapere in che ordine occorre fare le cose che gli ho chiesto.
«Tu, di tutto. A parte il DNA. Spero di scoprire qualcosa di utile nell’unguento. Poi lo passo a te»
rispondo. «Forse dalla composizione chimica capiremo cos’è esattamente.»
«Magari non la marca, ma se si tratta di mentolo lo capiremo di sicuro» replica Ernie. «È un alcol che
si trova naturalmente negli oli di menta, di eucalipto, Thuja occidentalis, canfora, trementina, per citarne
alcuni. Un rimedio tradizionale usato in tutte le famiglie contro i malanni più strani.»
«Ti è mai capitato in un caso?» gli chiedo.
«Vediamo... Parecchi anni fa ne ho trovato tracce in un tampone anale in un possibile omicidio a
sfondo sessuale. È venuto fuori che la vittima lo usava contro le emorroidi. E una volta era sul cuoio
capelluto di uno. La polizia credeva che facesse parte di qualche rituale sinistro, o che il morto fosse
demente. Invece lo adoperava per combattere la forfora. Una famiglia lo metteva su un vaporizzatore fatto
in casa, una lampada a fiamma libera che purtroppo è esplosa uccidendo un bambino di pochi mesi. C’è
persino chi se lo spalma sulle ferite o sulle labbra screpolate, ma la canfora può essere tossica.»
Spiego che l’unguento a base di vaselina è stato trovato nell’erba del campo sportivo e che potrebbe
essere una pomata per i muscoli senza alcun collegamento con la morte di Gail Shipton.
«Di certo la composizione è simile» riflette Ernie. «Anche se i gel antidolorifici tendono ad avere
concentrazioni maggiori di certi oli. Non so se saremo in grado di accertarlo.»
«Potrebbe non essere importante. Magari ci troviamo del DNA» rispondo. «Ma non capisco perché uno
dovrebbe usare gel mentolato all’aperto, sotto la pioggia.»
«Dipende dal tipo di utilizzo» risponde Ernie. «Magari non se lo spalmava sulla pelle.»
«E cosa ne faceva?» chiedo.
«Certi intridono i cerotti nasali di Vicks per liberare il naso, per non russare, per combattere le apnee
nel sonno.»
«All’aperto? In piena notte?» osserva Lucy, mentre io ripenso a quello che ha detto Benton a proposito
di Albert Fish, il famigerato assassino, in quella che mi era sembrata una divagazione inquietante.
Inalare un odore forte, un profumo che contiene salicilato di metile, aiuta la concentrazione ed elimina
le distrazioni, fa male ma anche piacere. Benton teme l’influenza che può aver avuto. Teme che il Capital
Killer abbia letto articoli che fanno riferimento ai Fiori del male di Baudelaire. A quanto ricordo dai
tempi della scuola, sono liriche di una sensualità crudele, in cui gli uomini vengono dipinti come schiavi
che arrancano attraverso vite caratterizzate da incertezza e fugacità. Ricordo che lo trovavo deprimente
come Edgar Allan Poe. A quell’epoca credevo ancora nell’intrinseca bontà degli esseri umani.
Mi tolgo i guanti e dico a Ernie di avvertirmi appena avrà qualche risultato. In quel momento, mi
suona il cellulare.
«Tranquilla, niente di urgente» mi dice Bryce mentre esco dal laboratorio con Lucy. «Volevo solo
avvertirti che Marino ha sentito una chiamata su un canale che gli piace tenere sempre acceso alla radio,
hai presente? Quando cerca altre frequenze locali. L’ha sempre fatto, no? Quello che io chiamo
“origliare”?»
«Che genere di chiamata?» domando.
«L’operatore del dipartimento di Concord ha nominato il NEMLEC, pare. Suona molto top secret,
qualsiasi cosa sia. Ai notiziari, finora, non ne hanno fatto menzione. Controllo ogni due secondi. Marino
mi ha chiesto se mi risultava che fosse morto qualcuno e io gli ho risposto: “Qui, tutti”. A parte questo,
non mi ha voluto dire altro, ma penso che si tratti di qualcosa di grosso. Non convocherebbero tutte le
truppe in zona, altrimenti.»
«Lui ha risposto alla chiamata?»
«Risponderà di certo, ora che si crede Sherlock. Può darsi che servano anche unità cinofile. E lui ne
dispone, giusto?»
Marino deve essersi offerto di collaborare con il North Eastern Massachusetts Law Enforcement
Council, un consorzio di oltre cinquanta dipartimenti di polizia che condividono attrezzature e
competenze specializzate quali unità motociclistiche, SWAT, artificieri, tecnici della Scientifica. Se si sta
mobilitando il NEMLEC, vuol dire che è una cosa seria.
«Controlla che ci sia un mezzo pronto a partire e con il serbatoio pieno, nel caso» dico a Bryce.
«Senza offesa: chi lo fa? Harold e Rusty sono impegnati con le autopsie, a tecnici e medici non posso
chiedere e non oso rivolgere una simile richiesta a Lucy. È per caso lì con te? Spero che mi abbia sentito.
Finché non sostituiamo Marino... E anche allora, non è mica sicuro. Aspetta. Non vorrai che mi
improvvisi io benzinaio, vero?»
«Non ti preoccupare. Ci penso io.» Non voglio sentirmi ripetere per l’ennesima volta che da quando
non c’è più Marino qua dentro è cambiato tutto. «Vado a cercare Anne. Vedi se Gloria può fare un salto
nella sala radiografica, così le consegno i reperti per il test del DNA.»
28
In una nuvola di luce soffusa seguiamo pareti grigie e mattonelle di vetro riciclato di un marrone
grigiastro detto color “tartufo”, sotto un controsoffitto insonorizzato che nasconde sistemi RFID per
l’identificazione a radiofrequenza e chilometri di cavi. Percorriamo un corridoio che non ha né un
principio né una fine perché il CFC è un edificio a pianta circolare.
La vita si arresta dove comincia e le rette diventano circonferenze; mi piace pensare a questo centro
come a un porto, non un capolinea. Il lavoro che svolgiamo qui è una delle tante tappe di un percorso che
ridefinisce e ricrea, non il punto di arrivo dove tutto si ferma. I morti aiutano i vivi e i vivi aiutano i
morti. I sette corridoi circolari del CFC sono una metafora della speranza, o per lo meno il trampolino di
lancio per una conversazione un po’ meno macabra.
Da molto tempo, ormai, non chiamo più l’Istituto di medicina legale “obitorio”. Non si tratta di questo
e trovo giusto che chi lavora con me abbia un atteggiamento professionale e usi la terminologia corretta in
ogni circostanza. Non si sa mai chi può sentire: non è ammesso mancare di rispetto ai nostri pazienti
chiamandoli in maniera inappropriata... Ustionati, impiccati, annegati sono comunque persone, amici,
famigliari, amati. E questo non è un luogo in cui vengono parcheggiati in attesa del funerale, ma un centro
in cui si effettuano esami di laboratorio per accertare in maniera accurata e scientifica le modalità del
decesso. I loro cari hanno diritto di sapere e noi diciamo loro tutto quello che sono in grado di tollerare.
La trasparenza è un principio fondamentale: i visitatori possono assistere al nostro lavoro attraverso
apposite finestre di osservazione. Quella davanti a cui passiamo adesso Lucy e io è del deposito reperti,
in cui sono appesi ad asciugare all’aria alcuni indumenti insanguinati, all’interno di armadietti dotati di
filtri HEPA. Sopra un tavolo coperto di carta bianca sono posati un paio di occhiali rotti, un apparecchio
acustico, un paio di scarpe, un portafoglio, banconote, carte di credito e un orologio da polso con il vetro
frantumato. Immagino siano gli effetti personali dell’uomo di cui abbiamo appena visto l’automobile
distrutta. Subito dopo c’è la sala identificazioni. Saluto con un cenno del capo i tecnici forensi che stanno
analizzando le impronte su una pistola all’interno di una postazione con impianto di ventilazione
downdraft. In altre postazioni altri tecnici stanno vaporizzando con il cianoacrilato altre armi: un
bilanciere per sollevamento pesi, un coltello, un manico di scopa, una scultura di ottone. Sono tutti
insanguinati.
«L’elicottero del soccorso ha appena chiesto al Logan l’autorizzazione a dirigersi a sudovest, a mille
piedi di quota» annuncia Lucy guardando una app sul suo telefono. «Il loro BK117 è decollato vicino a
Concord e sta tornando a Plymouth.»
«Se non vanno in ospedale, vuol dire che non è niente, oppure che hanno a bordo un morto.» Apro la
porta della sala radiografica.
Lucy fa scorrere le immagini sul telefono controllando gli aggiornamenti del traffico aereo. «È
atterrato a Concord esattamente cinquantacinque minuti fa, evidentemente in risposta a una chiamata.
Forse non c’entra niente con il nostro caso, ma resto collegata.»
Mi siedo alla console di Anne. Dall’altra parte della finestra piombata c’è il cilindro della TAC, in cui
Anne sta facendo rientrare il lettino.
Da dove sono, vedo una testa deformata e capelli grigi impiastricciati di materia cerebrale e sangue.
Vedo un orecchio lacerato e insanguinato. Lo psichiatra sessantatreenne che è finito contro il guardrail,
possibile omicidio a opera di ragazzini che trovano divertente forare la gomma di uno sconosciuto per
poi derubarlo. Oppure a ucciderlo è stato l’alcol. Non occorre avere il tasso alcolemico sopra la soglia
di legge per addormentarsi al volante o perdere il controllo della vettura.
Premo il tasto del citofono per parlare ad Anne, che è dall’altra parte del vetro.
«Chi gli fa l’autopsia?» domando.
«Luke, appena finisce con l’ustionato» mi risponde la sua voce dall’altoparlante. «Gli ha fatto il
prelievo per l’alcolemia.»
«Sì. Me l’hanno detto.»
«Zero virgola quattro: non era nemmeno brillo, poveraccio.» Anne continua a parlare mentre apre la
porta che collega la sua postazione alla sala dove si trova lo scanner. «La sua superavvocatessa ha già
chiamato.»
«Sì, mi hanno detto anche questo.»
«Come sta Lucy?» mi domanda, come se mia nipote non fosse lì con me.
Lucy ha soprannominato la mia radiologa “Anne la Timida”, perché pur essendo una persona deliziosa
e molto competente non ti guarda mai negli occhi e spesso parla di te in terza persona. Immagino sia
sempre stata la più brava della classe, una di quelle a cui i compagni più sportivi ed estroversi rivolgono
la parola soltanto quando hanno bisogno di farsi passare i compiti.
«Vita d’inferno» risponde Lucy. «E tu?»
«A proposito» intervengo io. «Non si parla con gli avvocati dei nostri pazienti, a meno che non
abbiano un’ingiunzione in mano. Okay?»
«Bryce non le ha detto niente di rilevante, ma è stato al telefono con lei abbastanza tempo da farsi fare
una testa così. Che poi ha fatto a me» mi riferisce Anne. Dalla finestra di osservazione vedo Benton nel
corridoio. Sta venendo verso di noi a passo svelto con le scarpe da ginnastica nere che si è fatto prestare.
«Carin Hegel.» Ho tirato a indovinare. Lucy, al mio fianco, sta guardando le immagini dello psichiatra
morto sullo schermo piatto di Anne.
Franz Schoenberg, residente a Cambridge, vicino al Longfellow Park, dove aveva anche lo studio.
Continuano a tornarmi in mente le fotografie che ho visto stamattina. Capelli grigi, un bel viso aperto e
l’espressione sconvolta e sbalordita di fronte a una paziente morta che gli aveva appena mandato un SMS
dicendogli di voler volare a Parigi dal tetto di casa sua.
Forse sragionava perché era sotto l’effetto di sostanze, o forse invece lo ha chiamato apposta per
portarlo via con sé. Molti suicidi sono rabbiosi e vendicativi più che semplicemente tristi.
«Qualche giorno fa era qui una sua paziente» osservo. «La giovane stilista che si è ammazzata davanti
a lui buttandosi dal tetto di casa.»
«Forse è per questo che aveva litigato con la moglie ed è uscito per andare al pub.» Anne si siede
vicino a me. Noto che il suo camice viola ha rifiniture in pizzo, taschine e pince, stile Grey’s Anatomy.
«Di sicuro bene non gli ha fatto.»
Osservo le immagini del dottor Schoenberg. Fratture comminute esposte dell’osso temporale sinistro e
dell’osso parietale, fibre nervose e vasi sanguigni recisi per effetto di forze rotazionali estreme. La testa
ha accelerato e poi decelerato violentemente a causa dell’impatto e probabilmente ha battuto contro il
finestrino, non contro il parabrezza. Mi chiedo a che velocità stesse viaggiando. “Lo capiremo dai segni
sull’asfalto” penso. Noto che l’edema cerebrale è lieve: è morto quasi subito.
«Carin Hegel ha tentato di mettersi in contatto anche con me, prima» dico ad Anne. «Intorno alle
cinque e mezzo di stamattina, quando stavo andando all’MIT a esaminare la morta. Ha detto a Marino che
voleva parlare con me. Ho dato per scontato che si trattasse di Gail Shipton.»
«Tempi d’oro per gli avvoltoi che seguono le ambulanze» commenta Anne.
«Carin Hegel non fa parte della categoria.» Sono divertita, ma anche un po’ perplessa.
Normalmente Carin Hegel e io non abbiamo casi in comune per il semplice fatto che la maggior parte
dei miei pazienti e dei loro cari non si possono permettere un avvocato come lei. In genere io ho a che
fare con il penale e i superavvocati dei super-ricchi non entrano nel mio mondo. Oggi, però, Carin Hegel
ci è entrata due volte.
Mentre Anne prende alcuni documenti da una cartellina sulla scrivania, entra Benton seguito da Bryce.
Il mio assistente ha un paio di grossi occhiali da sole sulla testa, jeans aderentissimi, maglione a trecce,
mocassini di camoscio rossi e tiene in mano una scatola da pizza, tovagliolini e piatti di carta. Lucy si
mette sulla porta per impedirgli di andarsene finché non avremo finito di mangiare.
«Sai se è successo qualcosa a Concord?» chiedo a Benton. Dal modo in cui mi guarda, capisco che la
risposta è sì.
«Un’ora fa, più o meno.» Si posiziona dietro la mia sedia. «Una chiamata per una sparatoria che si è
poi rivelata inesistente.»
«Questo spiega come mai l’elicottero del soccorso è già tornato indietro» osservo.
«Immagino di sì.»
Lo dice in un tono da cui intuisco che c’è dell’altro.
«Abbiamo ulteriori informazioni riguardo a questo caso?» chiedo ad Anne. Voglio sapere se siamo al
corrente di qualche particolare in più sul dottor Schoenberg, il paziente dentro lo scanner.
«È arrivato già morto al Cambridge Hospital intorno alle quattro di stamattina.» Consulta alcuni fogli.
«Sembra sia andato via dal pub verso le due, ma c’è voluto parecchio per tirarlo fuori dall’auto. Se la
vai a vedere, capirai perché. Una vecchia Jaguar che doveva essere uno splendore prima che la aprissero
come una scatoletta di tonno per estrarre il conducente.»
«Una Jag E dei primi anni Sessanta.» Lucy sta un po’ in disparte, sulla porta. «Probabilmente era la
macchina di cui era innamorato quando ha preso la patente e non aveva i soldi per comprarsela. Il
problema delle auto d’epoca è che non hanno airbag.»
«Che pub?» domando ad Anne.
«Quello irlandese che piace tanto a Marino. Mi ci ha pure portato un paio di volte, puntualizzando che
non aveva secondi fini sul mio conto. Devo ammettere che i macaroni and cheese sono buoni da morire.
Ops, scusate. Non volevo. Fado’s, si chiama. Anche il maiale con la salsa di sidro è uno schianto. Uffa.
Meglio che stia zitta.»
«Non è in una bella zona» dice Benton. «È vicino ai quartieri popolari di West Cambridge.»
«Sappiamo dove stava andando quando è uscito dal pub?» chiedo. Mi torna in mente la telefonata alla
polizia in cui venivano segnalati alcuni ragazzotti a bordo di un SUV rosso sospettati di una serie di furti e
atti vandalici in Windsor Street.
«Secondo il verbale, era in Memorial Drive all’altezza del Massachusetts Avenue Bridge. Forse stava
tornando a casa» mi risponde Anne.
Immagino dei ragazzi di una gang a bordo di un SUV rosso che seguono la Jaguar aspettando che la
gomma si sgonfi per derubare il conducente e che si trovano di fronte a una situazione peggiore del
previsto. Magari hanno addirittura speronato la Jaguar per mandarla contro il guardrail.
«Se prendono i ragazzi che sono stati visti scappare da Windsor Street, confrontiamo la vernice del
l o r o SUV con quella che è rimasta sul paraurti della Jaguar» decido. «Informiamo la polizia di
Cambridge.»
«Be’, se Carin Hegel ti ha cercata già alle cinque e mezzo, vuol dire che è una che non perde tempo.»
Anne smette di parlare di cucina e di fare gaffe. «Qui ha chiamato un’oretta fa. Saranno state le undici.
Dice che la colpa è del pub: non avrebbero dovuto continuare a servirgli da bere. E naturalmente noi non
possiamo rispondere che non era ubriaco, perché ci è proibito divulgare qualsivoglia dettaglio se
l’inchiesta è ancora in corso eccetera eccetera. Insomma, le solite cose, dice Bryce. Mi ha raccontato
tutta la solfa cinquanta volte, come fa sempre.»
«Ho sentito il mio nome ed è meglio che non l’abbiate pronunciato invano» interviene Bryce.
«Quindi Carin Hegel non sa che gli hanno tagliato una gomma, che potrebbe essere un omicidio» dico
ad Anne, mentre Lucy tende le braccia con i palmi verso l’alto per farsi consegnare da Bryce quella che
sembra una pizza gigante, con pomodori freschi, cipolla, aglio, peperoni, salsiccia, salame piccante,
manzo, mozzarella e Asiago. È quella che ordino sempre.
Mi viene l’acquolina in bocca. Ho la pancia vuota. Mi sento lo stomaco contratto, praticamente
tubolare. Se i profumi avessero un volume, quelli di questa pizza sarebbero assordanti.
«Aspetta» dice Bryce a Lucy. «Non te la do neanche se mi punti una pistola alla tempia.»
«Non mi far venire strane idee, per favore.»
«Che paura! Non hai pistole, ti ricordo.»
«E tu come lo sai?»
«Sei un mostro anche nei tuoi momenti migliori.»
«Secondo me cercava qualcuno a cui dare la colpa» mi dice Anne. «Probabilmente la moglie vuole i
soldi dell’assicurazione. Non gli abbiamo nemmeno ancora fatto l’autopsia e già si scatena.»
«Presumo che Carin Hegel non parli della sua clientela.» Guardo Lucy.
«So che assiste solo gente ricca. Come facciamo a sapere che lui era suo cliente?» La domanda di
Lucy è per Bryce.
«Be’, l’ho dato per scontato» risponde il mio assistente. «Mi ha chiesto quanto aveva bevuto, se era in
stato di ebbrezza quando ha avuto l’incidente. Sembrava dispiaciuta, sconvolta, tenuto conto che è un
avvocato. Mi avrà detto mille volte che oggi è una giornata terribile per lei. Forse erano amici.»
Sta digitando qualcosa sul telefono.
«Aveva litigato con la moglie?» chiedo a Bryce. «Come facciamo a saperlo?»
«È scritto sul verbale» mi risponde. «Non vedendolo tornare a casa, la moglie ha chiamato il 911 in
lacrime, ha descritto l’automobile e ha raccontato che avevano bisticciato e lui se n’era andato di casa
arrabbiato. Da notare che Schoenberg è stato perito in diversi processi importanti negli ultimi anni.
Indovinate un po’ chi l’ha chiamato a deporre? Quindi forse Carin Hegel era così scombussolata perché
lui era un amico e un consulente prezioso, che la aiutava a guadagnare un sacco di quattrini.»
«Se un avvocato chiama per motivi personali, non gli diciamo niente» ribadisco. «Non facciamo
questo tipo di favori. Non divulghiamo informazioni riguardo a questo o ad altri casi né a lei né a nessun
altro.»
«Granby vuole vederti alle tre.» Benton, in piedi dietro la mia sedia, mi posa le mani sulle spalle.
«Comprensibile.»
«Cosa gli dico?»
«Con tutto quello che c’è da fare, bisogna che venga qui lui.» Mi volto per rispondergli. «Lo ricevo
nella stanza dei bottoni o nel PIT, a seconda degli argomenti che vogliamo affrontare.»
PIT sta per Progressive Immersion Theater, la sala in cui rivediamo i casi in 3D, o realtà virtuale. È
una delle ultime innovazioni di Lucy, che conduce una battaglia personale per eliminare la carta dal
mondo, e comprende un’interfaccia aptica, un sistema di ortoproiezione e altri dispositivi fantascientifici.
«Devo sostituire il proiettore nel tavolo interattivo» mi informa Lucy.
In quel momento entra Gloria, del laboratorio DNA. Le porgo il materiale da esaminare.
«Quando hai finito, passalo a Ernie» le dico, mentre lei firma la ricevuta. «È urgente.»
Poco più che trentenne, capelli neri corti e sparati sulla testa e piercing alla narice sinistra, Gloria è
specializzata in DNA a basso numero di copie e abituata a sentirsi chiedere le cose per ieri.
«Lo metto davanti a tutto il resto» replica.
«Dovrebbero arrivarti dei referti di esami condotti da Venter a Baltimora» la avverto.
«Li ho già inoltrati» mi dice Lucy.
Gloria mi guarda incuriosita avviandosi verso la porta. Il profilo del DNA di uno dei casi del Capital
Killer? La migliore esperta di biologia molecolare del CFC non vive fuori del mondo. Ha capito che è
successo qualcosa di molto grave e molto brutto.
«Non c’è bisogno che ti raccomandi...» La guardo negli occhi.
«Ho già capito. Per domani mattina li ho di sicuro. Se riesco, prima ancora.» Esce e la vedo passare
davanti alla finestra di osservazione e andare a passo svelto verso l’ascensore, parlando al cellulare
come tutti.
«Quando è tornato da Washington Benton?» mi chiede Anne. «Mi sembra dimagrito: sta bene? Hai
visto il carro armato con cui è venuta a lavorare Lucy stamattina? Quando è entrata nel garage, sembrava
che fosse atterrato un elicottero.»
«Sono qui, sai?» Lucy posa la pizza sul tavolo. «Spero che non ci sia carne, altrimenti ti ammazzo,
Bryce.»
«Porgi ad Anne i saluti di Benton, che sta dietro di te» interviene Bryce. «Voglio dire: lo sei o lo fai?»
aggiunge, rivolto ad Anne. «Pomodoro, funghi, broccoli, spinaci e melanzane.» Conta sulle dita
guardando Lucy. «Avanti, su!» Apre la scatola della pizza. «Per te due fette di quella insulsa.» Le porge
un piattino facendole vedere i braccialetti di pelle che ha al polso. «Ti piacciono?» Glieli mette sotto il
naso. «Interamente fatti a mano, con fibbia a forma di drago. Marroni e blu. Cosa vi devo dire? Ethan è
talmente generoso... Anne? Lucy mi ha detto di salutarti. Adesso ricambio da parte tua. Insomma: hai
capito?»
Anne non riesce a fare a meno di parlare della gente come se non fosse presente, ma non c’è da
offendersi: è una delle persone meno provocatorie che io abbia mai conosciuto, molto pratica e dai modi
semplici e cortesi. Non si è mai arrabbiata nemmeno con Marino e sopporta pazientemente le chiacchiere
compulsive di Bryce.
Mi fa vedere la TAC di Gail Shipton, immagini tridimensionali della testa e del torace che si
susseguono sullo schermo piatto.
«J. Crew» continua Bryce, tutto fiero. «Questo è quasi esagerato, a dirti la verità. Ma a caval donato
non si guarda in bocca.» Pizzica il bracciale a fascia di cuoio nero con la catenina di acciaio inox. «Che
fa pendant con...» Tira fuori dal maglione una collana di cuoio nero con accessori di metallo tribali. Poi
mette una fetta di pizza su un piatto e me lo porge.
Il primo morso è un’esplosione di piacere. Che fame che avevo! Ingurgito mezza fetta prima di
riprendere a parlare.
«Questo è significativo» dico pulendomi le dita in un tovagliolino. «Il materiale di media densità che
emette fluorescenza ai raggi ultravioletti. Una specie di polvere di cui era coperta dalla testa ai piedi.»
Indico le aree bianche, il residuo nelle cavità nasali e nella bocca. Lo spazio pieno di aria scuro, dai
contorni non netti, nella cavità pleurica è il piccolo pneumotorace nel lobo superiore del polmone destro,
spiego. Clicco su un’altra immagine, una sezione trasversale del torace e un piano coronale, e vedo
meglio il problema.
«L’accumulo di aria in questo spazio chiuso deve aver aumentato la pressione sul polmone,
impedendone l’espansione» spiego a Benton e Lucy.
«Faceva più fatica a respirare» dice lei.
«Fin lì ci arrivo anch’io!» esclama Bryce.
«Aveva già dei problemi respiratori» mi informa Lucy. «Era spesso in affanno e sospirava un sacco,
come se non riuscisse a prender fiato.»
«Non credo di capire molto bene» dice Benton inforcando gli occhiali. «Di pneumotorace si può
morire?»
«Se non viene curato, provoca la sindrome da stress respiratorio» rispondo. «A lei ha aumentato la
pressione sul cuore e sulle principali vene e arterie.»
«Io non vedo niente.» Benton si china sopra di me per guardare lo schermo da vicino. Sento il suo
fiato nell’orecchio.
«Questa zona scura qui» gli indica Anne. «È la densità dell’aria. Vedi? È uguale dentro e fuori. Non
dovrebbe essere così.»
«Non ci dovrebbero essere zone scure all’interno dello spazio pleurico» aggiungo. «Questa parte
chiara nei tessuti molli del torace è un’emorragia. Ha riportato un trauma che le ha provocato un collasso
polmonare. Prima di tutto, dobbiamo scoprire come l’ha riportato.»
29
Prendo gli indumenti protettivi dagli scaffali nell’anticamera. È mezzogiorno e mezzo.
Mi infilo copriscarpe, guanti e schermo facciale. Lucy e Benton fanno lo stesso, ma intuisco che mio
marito non intende fermarsi a lungo. Cercherà di capire tutto quello che può dal cadavere di Gail Shipton
e poi si dedicherà alle sue battaglie intestine nel Bureau. Percepisco che sta per investirlo una
perturbazione: è la quiete prima della tempesta. Mi vengono in mente le parole del dottor Venter a
proposito del DNA. «Cosa dicono le news?» chiedo a Lucy.
«Le stesse cose che ha detto lui.» Guarda Benton per vedere se ha da aggiungere qualcosa. «Un’ora e
mezzo fa, più o meno, il 911 ha ricevuto una chiamata per una sparatoria a Concord. Sono intervenuti, ma
non c’era stata nessuna sparatoria.»
«In che zona di Concord?»
«Minute Man Park, dove c’era una scolaresca.»
«Ed è partito anche l’elicottero del soccorso?»
«Sì. È tutto qui» interviene Benton. «Un individuo sospetto vestito di scuro è stato visto correre nel
parco. Gli scoppi di una marmitta difettosa in Liberty Street sono stati presi per colpi d’arma da fuoco, i
bambini si sono messi a gridare, le maestre si sono lasciate prendere dal panico. Credevano fosse
un’altra Newtown.»
«L’hanno preso?» domando.
«No.»
«Tutto qui? Fine della storia?» Lo guardo.
«Non credo. Dalle comunicazioni radio di emergenza tra i dipartimenti di polizia a livello regionale
sembra che il NEMLEC sia intervenuto in relazione a fatti che ignoro, ma l’FBI non è stato contattato.
Potrebbero non sapere niente neanche loro. Granby insiste per parlare con te.»
«Perché non mi chiama direttamente?» Mi impunto. «Perché passa attraverso di te?»
«Ha deciso che è meglio se io non ci sono» dice Benton. «È l’ultima in ordine di tempo.»
«Ti fa organizzare una riunione a cui non sei invitato?» mi meraviglio. «Bella faccia tosta.»
«Non si può certo dire che sia subdolo» osserva Lucy. «Che cretino.»
Premo con il gomito il pulsante di apertura delle porte di acciaio ed entro. Sento rumore di acqua
corrente, il tintinnio di strumenti di acciaio sui vassoi, il ronzio di una sega che diventa fragore non
appena tocca l’osso. Voci di medici e inservienti si mescolano in un brusio sommesso. C’è odore di
sangue e di fermentazione. Odore di carne bruciata.
Attraverso le finestre dai vetri unidirezionali filtra la luce del giorno e file di faretti ad alta intensità
incassati nel soffitto alto quasi dieci metri illuminano i lavandini di acciaio inossidabile e i tavoli intorno
a cui stanno lavorando varie équipe.
Luke Zenner sta finendo un’autopsia alla sua postazione, la numero due, che è vicina alla mia, in cui è
disteso il cadavere di Gail Shipton ancora avvolto in teli plastificati, nella stessa posa rigida di
stamattina. Ha solo la testa scoperta: deve averle tolto il sacchetto il dottor Adams quando le ha
esaminato la dentatura.
Non ha più l’aspetto quasi perfetto di stamattina, ora che è in un ambiente meno freddo ed è stata
manipolata da un dentista forense che ha dovuto forzare la mandibola per farle aprire la bocca nonostante
il rigor mortis. Le labbra secche stanno cominciando a ritrarsi e le conferiscono un’espressione rabbiosa,
come se non volesse subire quella violazione che, per quanto degradante, è assolutamente necessaria.
«Mi fa piacere vederti ancora nel mondo dei vivi» mi saluta Luke guardandomi con i suoi occhi
azzurri da dietro i grossi occhiali protettivi, i capelli biondi nascosti da una cuffietta colorata.
«Non mi sembra propriamente il mondo dei vivi, questo» rimarca Lucy. «È la stagione, eh?» Guarda il
corpo carbonizzato sul tavolo di Luke, la cavità toracica vuota e color rosso ciliegia, le coste esposte,
curve come quelle di una nave.
«Livello di CO?» gli domando.
«Sessanta per cento. Ja, in der Tat, meine Freundin » dice Luke, che è madrelingua tedesco.
«Respirava ancora quando la sua casa ha preso fuoco. Fumava e beveva. Tasso alcolemico: zero virgola
ventinove.»
«Ah, be’.»
«Pensiamo che si sia addormentato con la sigaretta accesa e abbia dato fuoco al divano.» Luke si
asciuga le mani coperte dai guanti in un asciugamano già tutto sporco di sangue e chiama Rusty, che è
dall’altra parte della sala, per chiedergli di richiudere il cadavere. «Tutti ubriachi, qui, oggi. Come è
prevedibile prima delle feste di Natale.» Si toglie il grembiule insanguinato e lo butta dentro il
contenitore per i rifiuti biologici. «Ora tocca al dottor Schoenberg. Uno psichiatra che non regge lo
stress. Che ironia, eh?»
Faccio segno a Harold che mi serve una mano.
«Non sono sicura che non ci sia un rapporto di causa ed effetto.» Avvicino un carrello e prendo un
paio di forbici per cominciare a tagliare il nastro adesivo. «Hai fatto l’autopsia a una sua paziente la
settimana scorsa: Sakura Yamagata. La donna che si è buttata dal tetto.»
«Oh, Signore!» Luke spalanca gli occhi. «La ventiduenne cosiddetta “stilista”, grazie ai soldi del papà
imprenditore che ha fatto i milioni con le biotecnologie? Pare che ultimamente avesse dato mezzo milione
di dollari a una star del reality perché facesse atto di presenza a una sfilata della figlia e reclamizzasse la
sua griffe, che fa pietà. Come ha magistralmente detto Bryce, “tutto dramma e niente storia”, un incrocio
tra i Pronipoti e Snooki.»
«Come facciamo a sapere tutto questo?» chiedo.
«Google» risponde Luke. «Incredibile quante cose si scoprono sui nostri pazienti.»
«Ho detto a quelli del tossicologico di cercare allucinogeni come mefedrone, metilone e MDPV.»
«Buona idea. Quando hai un minuto, ti devo parlare. Ho paura che il dottor Schoenberg si rivelerà
impegnativo.»
«Umor vitreo, sangue, urina, fegato: non trascuriamo niente.» Piego i teli e li passo a Harold. «Analisi
del contenuto gastrico, naturalmente. Dobbiamo capire se aveva mangiato da poco, magari al pub. Forse è
andato lì per cenare, non per bere. Magari voleva stare da solo, calmarsi un po’ e tornare a casa dalla
moglie per fare pace. Magari aveva bisogno di riflettere sul perché non era colpa sua se una paziente si
era suicidata di fronte a lui.»
Sollevo il telo avorio dal cadavere di Gail Shipton, che è nuda a parte gli slip color pesca, costosi, di
fabbricazione svizzera, di un filato ad alta densità. La lesione sulla parte sinistra del petto è piccolissima
e sarebbe potuta sfuggire a chiunque.
È un circoletto di pelle più chiara, di un rosa sbiadito, non più grosso di una monetina da dieci centesimi.
Con la lente d’ingrandimento, noto il piccolo foro al centro, procurato da un oggetto sottile e appuntito
che è penetrato nel polmone destro, facendolo collassare.
«Hai mai visto una cosa del genere?» chiedo a Benton, come se fosse un quiz, un’interrogazione.
Non possiamo far parola dei casi di Washington. Non voglio che i presenti capiscano che Gail Shipton
potrebbe essere stata assassinata dal serial killer che terrorizza la nostra capitale da otto mesi a questa
parte. Toccherà a Benton aprire quella porta.
«Sembra una puntura di insetto.» Studia la lesione con la lente d’ingrandimento, facendo frusciare il
suo camice contro il mio. Avverto il suo calore, percepisco la sua tensione.
Poi i suoi occhi nocciola mi guardano da sopra lo schermo facciale e io capisco: non l’ha mai visto. È
una cosa nuova per lui.
«Non so cosa possa essere, a dire il vero» mi risponde. «Ovviamente un insetto non le avrebbe bucato
il polmone. Pensi che possano averle fatto un’iniezione?» mi domanda. Io non ne sono convinta.
Forse abbiamo scoperto come fa l’assassino a ridurre le sue vittime all’impotenza. È possibile che
questo psicopatico ansioso di attirare l’attenzione ci abbia inavvertitamente lasciato una traccia. Ho
capito che cosa fa questo bastardo. Adesso ho un’idea più chiara del suo modus operandi. È un bruto, ma
è anche codardo.
«Non è un’iniezione.» Reggo lo sguardo di Benton: è il mio modo per comunicargli che non intendo
dirgli che cosa ha procurato quella lesione. Non davanti a terzi.
Gail Shipton è stata colpita da un’arma elettrica, un Taser, e non di quelli che si possono comprare
normalmente su internet per autodifesa. Può darsi che l’assassino le abbia sparato più scariche, ma la
lesione che ha sul petto è stata lasciata da un elettrodo che l’ha colpita sulla pelle nuda, dove il dardo le
è penetrato nella carne e nel polmone. Se altri elettrodi l’hanno colpita in altri punti coperti dagli abiti,
potrebbero non aver lasciato segni. Dal momento che non abbiamo gli indumenti che indossava ieri
pomeriggio, non posso cercare eventuali buchi.
Chi viene colpito da uno storditore elettrico rimane immobilizzato per lo shock provocato dalle
scariche da cinquantamila volt rilasciate dai dardi, collegati alla pistola mediante cavetti. È come avere
uno spasmo cadaverico ancora in vita, un rigor mortis istantaneo. La vittima non è più in grado di parlare
o di reggersi in piedi. Il rischio peggiore è quello di battere la testa cadendo a peso morto.
«Ti spiace se vado un attimo nel tuo ufficio?» Benton mi guarda negli occhi. «Devo fare un paio di
telefonate. Poi magari mi faccio accompagnare a casa da Bryce, così prendo la mia macchina.»
«Harold?» Mi alzo la visiera dagli occhi. «Chiami Anne, per piacere? Appena torno cominciamo.»
«Subito, capo.»
30
Accompagno fuori Benton, come se avesse bisogno che gli indichi io la strada. Forse danno tutti per
scontato che voglia passare un momento da sola con mio marito. Nell’anticamera, Benton si toglie gli
indumenti protettivi, strappando la cintura del camice bianco, che appallottola e getta in un contenitore
rosso per rifiuti biologici.
Gli dico la verità, una verità crudele con implicazioni ancora più crudeli.
«Se l’ha ammazzata il Capital Killer, per immobilizzare le vittime usa un Taser. O, per lo meno, l’ha
usato su questa» gli spiego. «Non un Taser qualunque, ma del tipo che spara elettrodi che si agganciano
alla carne come ami, con dardi collegati mediante cavo. In altre parole, il tipo di Taser usato dalle forze
dell’ordine.»
«Potrebbe averlo comprato al mercato nero.» Benton si siede su una panchetta e si toglie i
copriscarpe. «Non è difficile. Ma anche su internet ormai si trova di tutto.»
«Non è escluso. Evidentemente sapeva quale arma prendere, come funziona.»
Benton si sfila i guanti e li lancia tra i rifiuti insieme con la mascherina da chirurgo. «È un sadico
maniaco del controllo» dichiara piegando gli occhiali protettivi. Me li porge. «Già renderti conto che
stanno per spararti addosso una scarica elettrica ti terrorizza.»
«Sì.» Metto gli occhiali su uno scaffale dove ce ne sono allineati diversi, di varie dimensioni. C’è
anche una bomboletta di disinfettante spray.
«Per questo non oppongono resistenza.» Ha lo sguardo perso nel vuoto: sta visualizzando una scena
terribile.
«La paralisi dura il tempo in cui si tiene premuto il grilletto, a meno che non ti vada male, come temo
sia andata a lei. O forse invece le è andata bene, tutto sommato, e ha sofferto poco: lui le ha sparato una
scarica elettrica e lei è morta prematuramente, risparmiandosi eventuali torture successive. Ecco perché
non aveva nessun sacchetto sulla testa, niente nastro adesivo simil-pizzo, niente fiocco.»
«Ha dovuto abbandonare il rituale prima della parte migliore.» Benton si appoggia le braccia sulle
cosce e si guarda le mani nude, che sono lunghe e affusolate come quelle di un pianista, bianchissime per
via del poco sole che prendiamo in Massachusetts. Si gira intorno all’anulare la fede di platino.
«Vedremo cosa ci dirà l’autopsia, ma se ha smesso improvvisamente di parlare con Carin Hegel,
potrebbe essere perché lui le ha sparato con un Taser nel parcheggio buio» aggiungo e gli racconto della
registrazione della telefonata che Lucy mi ha fatto ascoltare.
Gli descrivo il rumore di un motore di automobile dietro lo Psi Bar, la voce di Gail Shipton che dice:
“Come, scusa? Hai bisogno?” e poi si zittisce. Mi siedo vicino a Benton, spalla contro spalla e ginocchio
contro ginocchio, i miei piedi coperti di carta bianca accanto alle scarpe da ginnastica nere che si è fatto
prestare.
«Spiegherebbe come mai si è zittita di colpo» concludo. «Le sarebbe caduto di mano il telefono e in
ogni caso non sarebbe più stata in grado di parlare. Non è crollata a terra, però: avrebbe graffi,
contusioni, traumi anche gravi se avesse battuto la testa. Invece, quando è rimasta paralizzata, qualcosa le
ha impedito di cadere.»
«Potrebbe averla presa in braccio lui, magari per caricarla in macchina.» Benton prova a fare delle
ipotesi e intanto si guarda le mani con aria solenne, come se avesse appena scoperto di essersi lasciato
sfuggire un particolare importantissimo. «Molto probabilmente era disorientata e non ha opposto
resistenza per paura di beccarsi un’altra scarica elettrica. È chiaro che non ha gridato, altrimenti sulla
registrazione che Lucy non dovrebbe avere e che non ha consegnato alla polizia si sentirebbe.»
«Non tutti gridano: alcuni perdono immediatamente i sensi. Se soffriva di cuore, potrebbe essere
andata in arresto cardiaco.» Non ho intenzione di entrare nel merito di quello che Lucy ha fatto e non ha
fatto.
Per il momento non voglio parlare delle infrazioni di legge e delle violazioni al protocollo di mia
nipote. Mi interessano di più quelle del capo di Benton.
«Se è morta per un problema di cuore, il suo aggressore dev’esserci rimasto malissimo» ipotizza
Benton. Ci alziamo in piedi. So a cosa sta pensando.
Lo capisco dal suo viso contratto, dalla luce cupa nei suoi occhi, che hanno visto la sofferenza delle
vittime di tutti i killer spietati che ha incontrato nella sua carriera. Benton si è fatto paladino della loro
causa e vuole rendere loro giustizia. Per fare questo, le deve riportare qui dal regno dei morti, ricostruire
come erano prima che uno psicopatico strappasse loro la vita. Non può lasciarle andare: deve tenere
dentro di sé quella folla sempre più numerosa.
«Non essere così duro con te stesso. Provaci, per lo meno.» Lo guardo e gli accarezzo una mano.
«Non sei un indovino: non puoi prevedere le cose prima che si avverino.»
«Ciò che ha fatto loro deve aver lasciato un segno e io non l’ho colto.»
«Non l’hanno colto gli anatomopatologi che hanno fatto le autopsie, semmai. Ma è possibile che con le
altre non abbia usato un Taser.»
«La mancanza di lesioni mi fa pensare che le abbia ridotte all’impotenza in maniera analoga.» Prende
giacca e cappotto dall’appendiabiti sulla parete.
«Se le ha stordite attraverso i vestiti, è possibile che i dardi non abbiano lasciato segni, oppure li
abbiano lasciati così piccoli da essere sfuggiti a tutti. Specie se erano vestite a strati.»
«Lo eccita assistere alla morte di una vittima in preda al panico, che soffoca lentamente» dice. «Se
l’ultima ha avuto un infarto ed è morta subito, per lui dev’essere stato un coitus interruptus che l’ha
lasciato frustrato e furibondo. È stato interrotto, la sua compulsione non è stata soddisfatta. Lei lo ha
fregato, l’ha tradito. Si era preparato, l’aveva studiata, eppure è successo l’imprevisto: la vittima ha
avuto l’ardire di spirare prima che lui potesse finire di ucciderla. Colpirà di nuovo, e presto. Non
l’avevo messo in conto.»
«Come avresti potuto, Benton?»
«È importantissimo.» Si infila la giacca. «Spiegherebbe un sacco di cose: il fatto che non ha portato il
rituale fino in fondo. Lei gli ha guastato la festa, facendo una cosa che lui non si aspettava, osando morire
prima che lui potesse mettere in atto la sua fantasia.»
«Cercherò di accertare se è andata davvero così, Benton.»
«Forse è per questo che ha usato il Vicks: faceva più fatica del solito, era sbalestrato da un evento che
non aveva preventivato. Era arrabbiato, distratto, e aveva bisogno di ritrovare la concentrazione. Lei non
l’ha lasciato finire, lo ha privato di una cosa che per lui era fondamentale: ecco come vede le cose. Il
fiore del male non è sbocciato e lui è più inferocito di un toro.»
«Dobbiamo vedere che cosa ci dirà il cadavere.»
«Sta perdendo il controllo» continua Benton, in un tono apocalittico. «È uno sviluppo inevitabile. Non
pensavo che succedesse così presto questa volta, invece il crollo era già cominciato. Per questo è tornato
qui. Cristo. È tornato perché si sente allo sbaraglio, alla deriva, in balia di una forza che sfugge alla sua
comprensione e al suo controllo. Questa è casa sua. Qui è dove è cominciato tutto e dove tutto finirà. Se
non tutto, qualcosa.»
Benton prevede cosa succederà, ma non è in grado di fermarlo. È teso, contratto, come se avesse
ricevuto anche lui una scarica elettrica.
«Sta scompensando, è sempre più preso dalle sue fantasie perverse e devianti, che non è in grado di
riconoscere come malate e ingiustificate. Non si ritiene una persona crudele. Dà la colpa agli altri.»
Guarda nel vuoto, senza battere ciglio. «Si ritiene normale, come me e te. Pensa che le sue azioni abbiano
un senso condiviso e riconoscibile.»
Entra Anne, che si deve preparare.
«Vado a prendere la mia macchina. Dico a Granby che, se vuole parlare con te alle quindici, deve
venire qui al CFC.»
«Se vuole parlare con me.»
Lo ribadisco: Benton non è stato invitato.
«A che ora è il colloquio con la possibile sostituta di Marino?» chiedo ad Anne.
«Bryce la riceve alle tre.» Guarda Benton incuriosita. «Gli dico di spostarlo alle cinque?»
«Se c’è la possibilità anche minima che io possa fare un salto...» rispondo. «Dobbiamo vederci per
parlare del caso o di politica?» chiedo a Benton, che ha aperto la porta. «Oppure posso rifiutarmi di
vederlo se non sei presente anche tu» aggiungo. Mi sento gelare.
“Ed Granby può andare a farsi friggere.”
«Non mi interessa parlare dei suoi intrallazzi politici» aggiungo, sentendomi sempre più offesa. «Di
casi di competenza federale e compagnia bella. Sono cose che non riguardano il CFC.»
Non ho voglia di perdere il mio tempo con Ed Granby. E so che non sarò in grado di parlare con lui
senza pensare alle secrezioni vaginali e al sangue mestruale che non possono essere stati lasciati da
Martin Lagos. Il capo di Benton non mi è mai stato simpatico e non voglio avere a che fare con lui finché
non avrò scoperto la verità sulle possibili manomissioni del CODIS. Se Granby ha dato istruzioni a
qualcuno di alterare un profilo del DNA, voglio sapere perché lo ha fatto e voglio che sia punito.
«Il problema è questo, penso.» Benton mi guarda, sulla porta. «Marino ha lasciato intendere che ho
preso parte al sopralluogo nel campus dell’MIT, ma il dipartimento di polizia non ci aveva invitato
ufficialmente. Il sovrintendente di Cambridge ha chiamato stizzito e Granby sta cercando di metterci una
pezza. Questa è la sua versione, ovviamente. Non posso essere presente perché sono l’oggetto del
contendere.»
«Ma tu pensi che questo sia solo un pretesto» dico.
«Vedo che le abilità relazionali di Marino non sono migliorate» interviene Anne. «Perché deve
sempre fare il cretino?»
«È un campo minato» osserva Benton, sapendo che basta poco perché la polizia si arrabbi con
l’onnipotente FBI. «Granby vuole scoprire tutto quello che sai» mi comunica. Ecco perché mi vuole
vedere.
«Tutto?» Se non si trattasse di Granby, riderei. «Mi sa che dovrà mettersi a studiare di buona lena.»
«Non gli basteranno gli anni che gli restano» commenta Anne.
«Dice che vuole chiarire i motivi per cui ero con te al Briggs Field, visto che nessuno ci aveva chiesto
ufficialmente di collaborare.» Benton continua a espormi le scuse assurde accampate da Granby per
parlare con me.
«Gli hai accennato alle tue ipotesi riguardo al caso di stamattina, che ha fatto stizzire il
sovrintendente?»
«Faccio il mio lavoro e riferisco ai miei superiori» risponde Benton, imperturbabile. Ma io intuisco
cosa prova.
Granby è stato avvertito del fatto che l’omicidio di Gail Shipton potrebbe essere stato commesso dallo
stesso serial killer che imperversa a Washington e, se ha manomesso il database, dev’essere andato in
paranoia, perché è chiaro che adesso è nei pasticci. Perciò vuole parlare con me, senza Benton presente,
per farsi dire tutto quello che so.
«Penso che sarò molto occupata alle tre» decido. «Mi sono appena ricordata che ho un sacco di cose
da fare, purtroppo. Sai cosa ti dico? Non posso incontrarlo né oggi né domani. Chiederò a Bryce di
controllare quando ho un momento libero in cui riceverlo.»
Benton mi guarda negli occhi, sorride e se ne va.
«Ti vedo bella determinata.» Anne prende degli indumenti protettivi dagli scaffali.
«Non sarebbe stata una festa in mio onore» spiego. «Sarei stata solo una pedina in un gioco più grande
di me.»
«Ho sentito nominare un Taser?»
«No. Non hai sentito niente di niente.»
«Harold mi ha detto che hai bisogno di me. Cosa vuoi che faccia?» mi domanda Anne.
«Vorrei che mi dessi una mano. Tu assisti me e Harold aiuta Luke. Dobbiamo fare un’angio- TAC e
procedere a un nuovo controllo per vedere se i miei sospetti sono fondati e davvero soffriva di cuore.
Potrebbe essersi trattato di una morte improvvisa cardiaca. Mi raccomando, tutto quello che ho detto sul
caso deve restare tra noi. Tutto quello che hai appena sentito. Okay?»
«Ho la bocca cucita.» Fa il gesto di chiudersi una zip sulle labbra. «Da me nessuno saprà niente. Che
cosa pensi?»
«Che potremmo avere a che fare con un assassino immanicato con le forze dell’ordine, o che ha
accesso a determinate risorse» rispondo.
«Pensi che sia un poliziotto?»
«Non lo so. Non necessariamente. Ma non è da tutti mettere le mani sull’arma elettrica che ha usato su
di lei. O se l’è procurata in modo illegale, oppure è legato alle forze dell’ordine, direttamente o per
interposta persona.»
«È questa la causa dello pneumotorace, dunque? Stavo per dire che sono scioccata. Non mi sembra
che abbiamo mai avuto a che fare con lesioni causate da armi elettriche.»
«Perché in genere non sono mortali.»
«Uscivo con un poliziotto, qualche anno fa. Mi ha detto che il suo addestramento comprendeva farsi
sparare addosso con un Taser.» Si infila un camice usa e getta sopra quello viola che ha già indosso.
«Diceva che non fa malissimo, ma è spaventoso da morire.»
«Hai presente quando picchi un gomito e senti la scossa? È la stessa cosa, ma mille volte più intensa.
Dura cinque secondi, se non di più. È un po’ come avere una crisi convulsiva.»
«Quindi, se ne hai già ricevuto una dose, fai di tutto pur di non beccartene un’altra. Diventi docile
come un agnellino.»
«A meno che tu non sia fatto di cocaina o PCP . Tu lo sapevi che Lucy sarebbe andata a prendere
Benton a Washington per portarlo a casa qualche giorno prima del previsto e farmi una sorpresa?»
Ad Anne posso chiedere qualsiasi cosa: non lo riferirà a nessuno. E non mi giudicherà.
«Sì, me l’ha detto Bryce. Penso che lo sapessero in tanti. Eravamo tutti contenti» risponde. «Ci
dispiaceva per te, che avevi passato due giornate infernali nel Connecticut e subito dopo ti eri ammalata.
È quasi Natale, Benton era via e domani è il suo compleanno... Ti sorprenderà, ma ci sembra che tu non
faccia altro che lavorare e vorremmo che stessi un po’ tranquilla, una volta ogni tanto.»
Mi rendo conto che ho un gran bisogno di parlare. Non riesco a togliermi dalla testa le insinuazioni
inaccettabili di Granby, secondo cui il Capital Killer sarebbe rimasto influenzato dagli articoli pubblicati
da Benton. A detta di Granby, Benton sarebbe in parte responsabile di questi sadici delitti e dovrebbe
dimettersi, e l’FBI dovrebbe smettere di ricorrere al profiling, che definisce una tecnica datata e
pericolosa. Cerca di avvelenare l’esistenza a Benton e ci sta riuscendo.
Mi impongo di essere obiettiva e calma, ma sono piena di rabbia.
«Un sacco di gente sapeva che Benton sarebbe tornato oggi con Lucy» dico ad Anne. «I suoi colleghi
dell’FBI, il suo capo, quelli dell’albergo in cui alloggiava in Virginia e quelli che hanno visto il piano di
volo di mia nipote.»
Voglio percorrere anche questa pista, voglio capire se l’assassino era al corrente dei progetti di
Benton. Mi sembra impossibile, però, adesso come la prima volta che Benton me ne ha parlato. È
stressato, offeso, si attribuisce colpe che non ha. Devo cercare di essere più comprensiva, ma mi riesce
difficile. E comunque è irrilevante. Che l’assassino sapesse o non sapesse, Benton non c’entra niente.
Come fa Granby a sostenere una tesi del genere? Come può invalidare i risultati ottenuti da Benton con
grandi sacrifici?
«Perché?» mi chiede Anne.
«Lucy conosceva Gail Shipton.»
«L’avevo intuito.»
«Benton ha paura che l’assassino sapesse che lui sarebbe stato a Cambridge al momento del
ritrovamento del cadavere, che l’abbia fatto apposta.»
«Mi vengono i brividi.» Ho l’impressione che non ci creda, che lo trovi assolutamente inverosimile.
«Mi domando se Lucy ne avesse parlato con Gail.»
«E lei l’avrebbe detto al suo assassino? “Senti, caro, ti conviene ammazzarmi subito perché Benton sta
per tornare”... È questo che pensa Benton?»
«Be’, detto così suona assurdo, però...» Pigio con il gomito il pulsante di apertura delle porte.
«Probabilmente non lo sapremo mai. Ma non sopporto che lui si tormenti a questo modo.»
«Sai su cosa non ho il minimo dubbio?» Anne mi segue dentro la sala. «È stressato, stanco, teso e un
po’ depresso. Quando mi sento così, personalmente, tendo a pensare che qualsiasi cosa succeda sia colpa
mia. Temo di avere qualche mostro nell’armadio e sotto il letto. Insomma, sragiono.»
«Be’, Granby sta facendo di tutto perché Benton perda la sua lucidità.»
«Dagli una mano tu che sei sua moglie. Aiutalo a smettere di torturarsi.»
«Sto cercando di capire come.»
«Chiedilo a Lucy» mi consiglia lei. «Chiedile se ha detto qualcosa a qualcuno. Almeno così ti togli il
dubbio.»
«Non vorrei che pensasse che do la colpa a lei.»
«Ma non gliela dai, no? Smettila di farti carico di cosa pensano gli altri.»
«È più forte di me.»
Pratico l’escissione della ferita da punta e aspetto che Lucy risponda a una domanda che l’ha messa in
difficoltà. Non gliel’ho posta prima perché avevo troppe cose da chiarire, ma adesso le priorità sono
cambiate e so già come reagirà.
Lucy ha un attimo di esitazione. «Forse gliel’ho detto en passant. Non pensavo che fosse importante.»
Mia nipote, acuta e intelligentissima, non riesce a nascondere l’imbarazzo. Appena intuisce che temo
abbia commesso un errore, comincia ad arrampicarsi sugli specchi. Prendo una pinza dal carrello.
«Mi pare di ricordare di aver detto qualcosa» aggiunge. Non è sulla difensiva, ma indifferente. Non le
piace quello che le sto chiedendo. Me l’aspettavo.
Razionalizza a voce alta che non sarebbe stato fuori luogo se avesse fatto riferimento alla sorpresa di
compleanno di Benton mentre parlava al telefono con Gail. Quando lei era dietro lo Psi Bar, Lucy era
appena arrivata al Dulles per prendere Benton e portarlo a casa il giorno dopo.
«Le ho detto dov’ero e perché» aggiunge. È di fronte a me, dall’altra parte del tavolo di acciaio su cui
è distesa la sua ex amica morta, una donna in cui aveva riposto fiducia e da cui era stata ripagata con
bugie e fregature. Una donna di cui Lucy non sentirà la mancanza.
«Sicura di non averglielo accennato ancora prima?» Infilo il lembo di pelle che ho appena escisso in
una boccetta piena di formalina.
«Non lo escludo» ammette. Non è preoccupata, ma la mia domanda la offende.
È possibile che abbia accennato in precedenza alla trasferta in elicottero per andare a prendere
Benton. Anzi, è abbastanza sicura di averne parlato. Fa di tutto perché io non mi accorga che è arrabbiata,
imbarazzata e offesa con me. Ha la sensazione che la stia torchiando, che non mi fidi di lei. Altrimenti
non la tempesterei di domande come sto facendo. È questo che pensa e si comporta come se io fossi sua
madre, che la sminuisce. Ma io non sono sua madre e non la voglio sminuire. Lucy è prigioniera di
emozioni antiche, che la trasportano in un circolo vizioso, che la fanno girare su se stessa come i corridoi
di questo palazzo, che cominciano dove finiscono, perché rappresentano il ciclo della vita e della morte.
Ma non si sente responsabile. Qualsiasi cosa io voglia insinuare, non è colpa sua e non ha nessuna
intenzione di fingere che le dispiaccia che Gail Shipton non ci sia più. Non le importa niente di quello
che può averle o non averle detto. Mi fa piacere che sia sincera, ma quando assisto alle sue reazioni più
istintive mi viene la pelle d’oca. Mi fa stare male. Quando la definisco “un po’ sociopatica”, Benton mi
ricorda che o si è sociopatici o non lo si è. Non lo si può essere “un po’”, così come non si può essere un
po’ incinte, un po’ stuprate, un po’ morte.
Lucy mi dice che Gail è andata a trovarla domenica scorsa, il giorno in cui è stato deciso che Benton
sarebbe tornato a casa per il suo compleanno. Gail, Lucy e Carin Hegel si sono viste in tarda mattinata a
casa di Lucy, a Concord, per parlare del processo e preparare deposizioni e documenti. È possibile che
in quell’occasione abbia accennato al compleanno di Benton e alla sua preoccupazione per me, che ero a
casa da sola dopo la brutta esperienza nel Connecticut.
«Trovo significativo che sia morta poco dopo.» Lucy sottolinea quello che ritiene l’aspetto più
importante della vicenda e che io stavo completamente trascurando. «Tutti i giornali hanno parlato del
fatto che sei andata nel Connecticut a dare una mano ai tuoi colleghi.»
«Bryce parla troppo» commenta Anne.
Bryce doveva comunicarlo al responsabile degli anatomopatologi delle Forze armate, da cui dipendo,
e il loro addetto alle relazioni esterne evidentemente ha ritenuto conveniente renderlo noto. Il CFC è
sovvenzionato dallo Stato del Massachusetts e dal dipartimento della Difesa e bisogna che ogni tanto
qualcuno mi ricordi che non dipende tutto da me, a meno che non vada storto qualcosa.
«La notizia che hai preso parte alle autopsie dei bambini vittime della strage di venerdì scorso è stata
condivisa da moltissimi utenti internet» dice Lucy, che non riesce a distogliere lo sguardo dalla faccia
della morta, le labbra sempre più secche e screpolate, gli occhi sempre più vacui.
Il rigor mortis si sta attenuando. Presto i muscoli si rilasseranno come se fossero stanchi di rimanere
contratti.
«Io non c’entro niente, credo» dichiaro.
«E io credo che non dobbiamo dare per scontato che c’entri Benton» ribatte Lucy. «Se mai, soltanto in
parte. E tu per il resto. Il tuo ruolo nel Connecticut.»
«Capisco dove vuole arrivare» dice Anne. Concorda con questa nuova teoria, che non mi aspettavo.
«Benton teme che la tempistica dipenda da lui, ma potrebbe benissimo dipendere da te, invece.»
Benton ha detto e ripetuto che voleva dare spettacolo. Un dramma della violenza che non voglio
nemmeno immaginare possa riguardare me.
«Chiunque non viva completamente isolato dal mondo sapeva quando sei andata a Newtown e quando
sei tornata» mi fa notare Lucy. «Una strage in una scuola, la più terribile della storia degli Stati Uniti
dopo quella del Virginia Tech. Non può essere sfuggita a uno psicopatico bramoso di attenzione.»
Benton l’ha definito un narcisista con tratti borderline. L’assassino vuole assistere al dramma che
mette in scena.
«Se ne è parlato tantissimo e questo potrebbe aver dato fuoco alle polveri» continua Lucy.
«Gail Shipton non è stata ammazzata perché io sono andata nel Connecticut» ribatto in tono pacato. «È
assurdo.»
«Preferisci dare la colpa a Benton?» Lucy mi rivolge un’occhiata gelida.
«Preferisco dare la colpa all’assassino.»
«Non ho detto che l’ha fatto per questo.» Lucy ha l’espressione di chi ha trovato la soluzione del
mistero. «Ho detto solo che la strage e il ruolo che hai avuto tu...»
«Ho avuto un ruolo nella strage, secondo te?»
«Per favore, non metterti sulla difensiva» replica Lucy, calmissima. «Quello che voglio dire è che la
notizia della strage potrebbe aver accelerato una cosa che si sarebbe verificata comunque. Solo questo.
Penso che l’assassino avesse già preso di mira Gail e abbia semplicemente deciso di stringere i tempi
perché era eccitato dalla strage.»
«Io ho visto che eri a Newtown alla CNN. Hanno detto anche quando sei tornata a Cambridge.»
Anne è d’accordo con Lucy. Non voglio neanche sentirne parlare.
«È vero che l’assassino potrebbe avere un interesse nei tuoi confronti. Non è mica colpa tua.»
«Siamo pronti?» le chiedo, ripensando al ragazzo che mi spiava nel buio da dietro il muro del
giardino. «Dobbiamo fare in fretta.»
31
Scattiamo fotografie per mezz’ora.
Riempiamo i diagrammi anatomici e raccogliamo reperti materiali dalla cute e dagli orifizi. Trovo
altre fibre azzurrognole nei capelli, in bocca, sulla lingua e tra i denti, nelle narici e nelle cavità nasali.
Mi chiedo come ci siano finite.
Non provengono dal telo bianco elasticizzato in cui era avvolta e non penso proprio che possano
provenire dagli indumenti che indossava quando è stata aggredita e uccisa: non avrebbe senso. Mi
tornano in mente le osservazioni di Venter, che sospetta che Julianne Goulet abbia aspirato fibre di Lycra
azzurra presumibilmente simili a quelle che ho trovato io.
«Durante l’autopsia, dobbiamo controllare le vie aeree e i polmoni per vedere se ne contengono altre»
dico ad Anne raccogliendo una fibra sottilissima con una pinza.
La poso su un vetrino e la copro.
«Dici che le ha aspirate? Mi sembra strano. A meno che non sia un materiale che perde fibre a tutto
andare.» Anne apre l’involucro di un kit per il tampone vaginale.
«Ne dubito» replico. «Sarebbero dappertutto. È più probabile che avesse sul volto una stoffa di questo
colore mentre cercava disperatamente di respirare.»
«Succede quando la vittima viene soffocata con un cuscino sulla faccia» riflette Anne. «Ho visto
piume e fibre nelle vie aeree e nei polmoni dei morti soffocati con un cuscino.»
«Senza lesioni significative, perché i cuscini sono morbidi.»
«Ho sempre pensato che alcune morti nella culla in realtà siano omicidi di questo genere. In preda alla
depressione post partum, la madre soffoca il bebè con una copertina o un guanciale.»
«Gesù! Mi fate venire la depressione, voi due!» esclama Lucy.
Mi avvio con il vetrino verso il microscopio ottico a luce polarizzata, regolo l’ingrandimento a 100×
e la messa a fuoco, poi mi appoggio all’oculare: la fibra è in realtà un gruppo di fibre multicolore, come
un fascio di fili elettrici, verde chiaro, pesca e con una predominanza di azzurro.
«Sintetica.» Torno al tavolo di acciaio. «Ernie scoprirà cos’è» aggiungo, continuando a pensare alle
fibre di Lycra che Venter ha trovato addosso a Julianne Goulet. «Nei capelli, tra i denti, fino ai seni
nasali.» Strappo l’involucro di uno speculum. «Mi fa pensare che sia stata soffocata con un tessuto
elastico, sintetico, multifilamento, con una certa flessibilità.»
«Tipo le braghette di poliestere che mi mettevano quando ero piccola.» Anne taglia le unghie della
morta e le infila in una busta. «Elasticizzate, che evidenziavano tutti i rotoli di ciccia. Perché sì, non ci
crederete, ma ero cicciottella e non sono andata al ballo del liceo. Dunque le fibre non vengono dal telo
in cui era avvolta perché è bianco.»
«Esatto. Dal telo non vengono» dichiaro. «Il telo bianco è un tocco aggiunto quando era già morta.
L’ha tenuta da qualche parte, l’ha messa in posa e l’ha lasciata lì finché non si è irrigidita. L’ha spostata
solo dopo che si era manifestato il rigor mortis.»
«Come fai a dirlo?» mi chiede Lucy, che ci osserva un po’ scostata dal tavolo.
«Dagli artefatti post mortem» rispondo. «La posizione in cui è ora è quella in cui si è raffreddata,
quando si sono manifestati livor e rigor.»
«Le ha sistemato le braccia in questo modo deliberatamente.» Lucy mette le braccia nella stessa
posizione della morta.
«Sì.»
«È come una statua di terracotta, che pian piano solidifica» spiega Anne.
«Che strano» mormora Lucy. «Perché l’ha fatto?»
«Perché ’sta gente fa quello che fa?» osserva Anne.
«Dovrà pure voler dire qualcosa.»
«Secondo me, non lo sanno manco loro cosa vuol dire.» Anne mi porge una busta perché vi apponga la
mia sigla. «Fanno cose terribili e quando gli chiedi perché non ti sanno rispondere.»
«La penso come te» concordo.
«Magari dipende da qualcosa che gli è successo quando erano piccoli, troppo piccoli per
ricordarselo» continua Anne. «Tipo quando io ho sbattuto la porta senza accorgermi che c’era dietro un
gatto e gli ho rotto la coda. Non me ne sono mai fatta una ragione, ma se fossi una criminale magari quello
sarebbe il mio tratto distintivo, la mia firma. Sono rimasta traumatizzata a dieci anni e adesso tormento i
gatti, gli rompo la coda.»
«Sai una cosa, Anne?» dice Lucy. «Tu sei fuori di testa.»
«Diglielo tu, Kay, che non sono per niente fuori di testa.»
Cominciamo a prelevare tamponi da tutti gli orifizi.
«L’ha avvolta in qualcos’altro quand’era ancora viva.» Lucy torna a parlare della morta.
«Spiegherebbe la presenza di queste fibre sotto le unghie, nei capelli e in bocca» replico io, mentre
vaglio mentalmente diverse possibilità.
“Ha un suo modo per tenere ferma la vittima senza lasciare segni.” Ricordo di averlo pensato
leggendo la documentazione dei casi di Washington.
Ricordo che ero seduta sul letto e ho immaginato la morte di quelle povere donne, il sacchetto di
plastica trasparente di un centro termale chiamato Octopus sulla testa, chiuso con nastro adesivo, la
faccia cianotica, gli occhi fuori delle orbite, il terrore che aumenta con l’aumentare della pressione del
sangue arterioso che continua ad affluire alla testa mentre quello venoso non riesce a defluire a causa del
nastro adesivo intorno al collo, i capillari che si rompono formando petecchie sulle palpebre e sulle
congiuntive. È come un palloncino attaccato a una manichetta: l’acqua entra, non può uscire e la pressione
aumenta finché il palloncino scoppia. Immagino il fischio assordante nelle orecchie della vittima, i suoi
sforzi disperati per prendere fiato. Ma Gail Shipton non aveva un sacchetto intorno alla testa. Forse
l’assassino non ha soffocato nessuna delle sue vittime con un sacchetto di plastica.
Forse ha ragione il dottor Venter quando dice che i sacchetti trasparenti potrebbero essere un
accessorio, un elemento decorativo al pari della posa in cui atteggia le sue vittime una volta morte. Nel
caso di Gail Shipton, l’assassino non si è preso la briga di farlo perché lei è morta prima del tempo,
interrompendo il suo macabro rituale. Forse usa un tessuto morbido ed elasticizzato per soffocare le sue
vittime, magari di Lycra. Questo spiegherebbe l’assenza di lesioni da difesa e la presenza di fibre
azzurrognole in profondità nelle cavità nasali di Gail Shipton e nelle vie aeree e nei polmoni di Julianne
Goulet.
Chi viene soffocato reagisce, si dibatte. Ma queste donne non hanno opposto resistenza. Benton dice
che è come se si fossero consegnate volontariamente alla morte. Ma io non lo credo possibile. Nessuno si
lascia uccidere docilmente. Nei suicidi che scelgono di togliersi la vita per asfissia, l’istinto di
sopravvivenza si manifesta con forza. Pur avendo deciso di morire, quando penzolano nel vuoto dopo
aver allontanato con un calcio lo sgabello su cui erano saliti per impiccarsi, si aggrappano
disperatamente al cappio che si stringe lentamente intorno al collo, oppure cercano di strapparsi il
sacchetto dalla bocca e lottano fino all’ultimo quando annegano. Dolore e panico fanno cambiare idea,
ogni cellula dell’organismo grida la sua voglia di continuare a vivere. Immagino l’assassino che
avviluppa le sue vittime in un tessuto sintetico lievemente elasticizzato, che lascia loro una piccola
possibilità di movimento.
L’esame pelvico non rivela segni di violenza sessuale: non c’è liquido seminale, non ci sono
contusioni né infiammazione. Procedo velocemente: ho una missione da compiere, una verifica scientifica
da portare a termine prima dell’autopsia. Metto una nuova lama nel bisturi e pratico l’incisione a Y,
lungo il ventre, deviando in corrispondenza dell’ombelico. Ripiego all’indietro i tessuti, ma non rimuovo
ancora lo sterno. Cerco la biforcazione dell’aorta addominale davanti alle articolazioni sacroiliache, in
corrispondenza della linea terminale, e introduco un angiocatetere nell’arteria iliaca esterna sinistra.
Pompo liquido per imbalsamazione mescolato a un mezzo di contrasto non ionico che alla TAC si
illuminerà come un neon bianco.
Il mezzo di contrasto riempie i vasi sanguigni di Gail Shipton, che si espandono visibilmente sotto la
pelle, come se il sangue avesse ripreso a circolare. Il corpo sembra quasi riprendere vita, ma la mia
postazione odora come un laboratorio di imbalsamazione.
«Rimettiamola nello scanner.» Mi tolgo i guanti e lo schermo facciale. «Voglio controllare le strutture
vascolari e capire se è andata in arresto cardiaco prima che l’assassino avesse modo di ucciderla.»
«Come pensi che sia morta, esattamente?» mi domanda Lucy.
«Andrò per esclusione» rispondo. «Eliminando tutto ciò che non è stato, arriveremo a capire che cosa
può aver causato il decesso. Per esempio, so che a un certo punto ha avuto un picco di pressione che le ha
provocato emorragie petecchiali nella congiuntiva.»
Stacco il tavolo autoptico dal lavandino e rilascio i freni delle rotelle.
«L’ipotesi che in questo momento mi pare più probabile è che abbia avuto un arresto cardiaco per la
scarica elettrica di un Taser» spiego. «O forse quando l’assassino ha cercato di soffocarla con qualcosa
che le ha lasciato addosso quelle fibre azzurrognole. Potrebbe aver cercato disperatamente di respirare,
ma non per molto. Non per il tempo che ci vuole normalmente per soffocare un individuo, specie se
l’assassino è un sadico e gode a veder morire le sue vittime al rallentatore.»
«Tipo che aspetta che svengano, allenta la pressione per lasciare che riprendano fiato e poi
ricomincia» suggerisce Anne.
«Con lei, però, non è andata così. Per via dello pneumotorace. Ti ha mai detto che soffriva di cuore,
che aveva dolori toracici?» chiedo a Lucy.
«Esplicitamente, no. Ma si lamentava dello stress e, come ti ho già detto, aveva spesso l’affanno.
Sospirava, era sempre stanca. Poteva essere l’ansia, però. E faceva vita sedentaria. Il massimo
dell’esercizio fisico, per lei, era qualche minuto di tapis roulant.» Guarda il volto di Gail Shipton e la
sua espressione si fa sempre più dura e cupa.
«Resti?» le chiedo.
«Cosa pensi?»
«Non è necessario.»
«Sì, invece. Mi fa meno impressione di quanto tu creda.»
Trasportiamo Gail Shipton verso la sala radiografica.
«È colpa sua la fine che ha fatto» soggiunge Lucy. «È questo che mi fa impressione.»
«Non si è uccisa da sola» ribatto. «L’hanno assassinata.»
«Non dico questo. Dico che ha messo in moto un meccanismo che l’ha portata alla morte.»
«Cerchiamo di assolverla» insisto. «Nessuno merita di morire ammazzato, indipendentemente da come
si comporta.»
Torniamo nella sala radiografica e copriamo il lettino con teli puliti prima di posizionarci sopra il
corpo. Io inietto altro liquido per imbalsamazione nell’arteria iliaca, poi Anne preme un pulsante per far
scorrere il lettino nello scanner. Regola l’angolazione del gantry e preme un pulsante rosso per centrare il
punto di interesse dei fasci laser sulla testa.
«Cominciamo la scansione dalla carena, la cartilagine tracheale più bassa, e saliamo fino alla cavità
orbitaria» dico.
Ci sistemiamo alla console, dietro il vetro, accendiamo la luce rossa che segnala il passaggio di raggi
e chiudiamo la porta. Il livello di radiazioni nella sala non comporta rischi solo per chi è già morto.
«Rappresentazione tridimensionale dall’interno all’esterno» decido. «Sezioni sottili, un millimetro,
con un incremento di un millimetro tra l’una e l’altra. Cosa ne pensi?»
«Zero virgola settantacinque per zero virgola cinque è meglio.» Anne aziona lo scanner dal computer.
Si incominciano a sentire gli impulsi, la fonte radiogena raggiunge la temperatura d’esercizio.
Sentiamo il rumore del tubo che ruota e Anne seleziona sul menu l’opzione TORACE, evidenziando l’area
di interesse, cioè il cuore. Cominciamo da quello. Voglio scoprire se Gail Shipton aveva un difetto
vascolare che potrebbe averla resa vulnerabile a una morte improvvisa che ha lasciato frustrato e
rabbioso il Capital Killer, come sospetta Benton.
Quando è stata colpita con il Taser, potrebbe aver avuto un’aritmia ed essere morta prima che lui la
soffocasse, oppure il cuore le ha ceduto mentre cercava disperatamente di prendere fiato e l’assassino
non è riuscito a torturarla quanto avrebbe voluto. Ho il sospetto che le emorragie che ha sulla congiuntiva
siano dovute a un’ostruzione vascolare, a un problema a una o più valvole cardiache. Le vittime di
Washington avevano petecchie sulle guance e sulle palpebre, ma la rottura dei capillari di Gail Shipton è
molto estesa.
“Cosa ti è successo?”
«Se segui il mezzo di contrasto lungo i vasi sanguigni, vedi le strutture nel dettaglio, chiare e ben
definite come strade illuminate» spiego a Lucy. «Ecco, il problema è qui. Lo vedi?» Indico un punto sullo
schermo del computer. «Vediamo in tempo reale un difetto che lei probabilmente neanche sapeva di
avere.»
«Poveraccia.» Anne muove il cursore e seleziona un’altra zona d’interesse. «Il pensiero che possiamo
avere una bomba dentro che può scoppiare da un momento all’altro fa paura, eh?»
Mostro a Lucy il restringimento nell’arteria coronarica che ha causato un afflusso insufficiente di
sangue al cuore.
«Stenosi valvolare aortica, che ha provocato un ispessimento della parete muscolare del ventricolo
sinistro» dico. «Potrebbe essere una malformazione congenita, oppure dovuta a un’infezione batterica che
ha avuto da piccola. Una faringite streptococcica che le ha portato febbri reumatiche.» Mi viene in mente
quello che ha detto Bryce a proposito dei denti di Gail Shipton. «Potrebbe essere per questo che aveva
quelle macchie sui denti: magari ha preso antibiotici tipo tetraciclina.»
«Che problemi avrebbe avuto a lungo andare?» domanda Lucy.
«Il cuore avrebbe gradualmente perso la capacità di pompare il sangue in maniera efficiente e a un
certo punto il muscolo avrebbe smesso di espandersi.»
«Ciò significa che prima o poi avrebbe avuto un infarto. Insomma, non aveva davanti una lunga vita in
salute» dice Lucy. Probabilmente è un pensiero che la rassicura.
«Nessuno di noi sa che cosa lo aspetta» sentenzia Anne. «Vi ricordate Jim Fixx, il guru della corsa? È
morto improvvisamente mentre faceva jogging, come tutti gli altri giorni della sua vita. Oppure i riccastri
che vengono colpiti da un fulmine mentre giocano a golf. Patsy Cline è morta in un incidente aereo, Elvis
Presley sulla tazza del gabinetto. Non se lo aspettava di certo quando si è alzato quella mattina a
Graceland.»
«Gail soffriva quasi certamente di astenia, affanno, palpitazioni, mancamenti sotto sforzo... Le cose
che mi hai detto prima, insomma» dico a Lucy mentre guardo lo schermo. «Gonfiore a piedi e caviglie.»
«Effettivamente a volte si lamentava delle scarpe strette.» Lucy sembra più affascinata che triste.
«Portava preferibilmente sandali e scarpe senza lacci.»
Mi torna in mente la ballerina verde di finto coccodrillo che Marino ha trovato dietro lo Psi Bar.
«Stava già scompensando, dunque. Andava dal medico regolarmente?»
«So solo che odiava i medici.»
«Il suo cuore doveva pompare più forte del normale» continuo.
«Odiava il genere umano, per la verità» rettifica Lucy. «Era chiusa, introversa. Avrei dovuto stare più
attenta quando ha cercato di adescarci.»
«Di adescarvi?» Anne si volta sulla sedia, con la bocca aperta. «Te e Janet? In un bar? Le piaceva la
vita spericolata, allora.»
«Allo Psi Bar, una sera, la primavera scorsa» spiega Lucy. Mi viene in mente che la primavera scorsa
non sapevo ancora che Lucy e Janet fossero tornate assieme.
Non mi piace ricordare che mia nipote mi tiene dei segreti. Dovrei essere abituata, averci fatto il
callo, ormai. Perché mi dovrei offendere se non mi dice tutto? In fondo, è meglio che io certe cose non le
sappia proprio. Sono quasi trent’anni che me lo chiedo, da quando era una bambina terribile che mi
curiosava nel computer, sulla scrivania, nella vita privata, dappertutto. Conosceva Gail Shipton e non le
fa impressione vederla morta, aperta in due. È insensibile all’odore della morte, al suo terribile gelo.
«Ci ha fatto portare da bere e poi è venuta a sedersi al nostro tavolo. Abbiamo chiacchierato un po’.
Lì per lì ho pensato che non fosse proprio a posto, ma all’MIT sono tutti un po’ strani...» Lucy si stringe
nelle spalle. «Era particolarmente affabile, quella sera, e dopo ho scoperto perché: faceva finta.»
«Faceva finta perché non stava bene, poveretta» dice Anne. «Immaginati le valvole cardiache come
delle porte: le sue facevano fatica ad aprirsi e a chiudersi. Sicuramente aveva le palpitazioni, o
addirittura dolori tipo angina.»
«Pensava fosse stress» spiega Lucy. «E questo fa parte delle accuse che Carin muove alla Double S.
Lo stress che le procuravano le dava problemi di salute, affanno, oppressione al petto, ansia, una serie di
disturbi che le impedivano di lavorare.»
«Se i problemi di salute erano una delle argomentazioni che intendeva citare in tribunale, perché non
si è fatta fare un check-up?» osserva Anne.
«Aveva paura che le dicessero che non aveva niente. Non voleva che i medici minimizzassero i suoi
sintomi.»
«Impossibile. Vedi il restringimento della valvola mitrale?» Le indico un punto sullo schermo.
«Magari aveva anche un reflusso.»
«Quando scegli la tua vittima, certe cose non le puoi immaginare» sottolinea Anne. «Il dolore fisico
acuto l’ha uccisa prima di quel bastardo.»
«In ogni caso, l’ha uccisa lui» mormora Lucy guardando le immagini 3D del cuore malato di Gail
Shipton, come se fosse una metafora della sua persona. «Un difetto fatale» dice, gelida. «Peccato non
saperlo prima.»
«La causa di morte è arresto cardiaco dovuto a stenosi valvolare associato a pneumotorace destro e
dolore fisico acuto conseguente a una scarica elettrica da Taser» concludo.
«L’ha ammazzata d’infarto» dice cinicamente Anne. «L’avvocato che lo difenderà ci marcerà, vedrete.
Dirà che la Double S l’aveva fregata e lei è morta di crepacuore.» La porta si apre all’improvviso.
Entra Bryce, come una corrente d’aria turbolenta, con un foglio in mano scritto con la sua grafia
elegante e ordinata. «Merda merda merda merda» impreca porgendomelo. È l’appunto di una telefonata
fatta da Marino. «A Concord c’è stata un’ecatombe!»
32
Il rombo del motore V10 del SUV di Lucy è a metà tra quello di un Humvee e di una Ferrari, potente e
felino, accompagnato da un sottofondo di pneumatici spessi che sembrano galleggiare anche sul fondo più
dissestato. Seduta sul sedile di pelle color cognac, mi sembra di volare.
Mia nipote chiama il suo ultimo acquisto un “land crusher”, un fuoristrada con sospensioni ad aria, e
io ho accettato il passaggio perché non avevo nessuna voglia di andare con Rusty e Harold sul grosso
autocarro che usiamo per i trasporti e che chiamiamo “il camion del pane”. Avrei dovuto farli aspettare
perché non ero ancora pronta e non mi andava nemmeno di prendere il mezzo del CFC che Bryce mi
avrebbe messo a disposizione e dovermi fermare a fare il pieno. I medici del CFC hanno troppe autopsie
da fare e non volevo portare con me uno di loro o Anne. Meglio che mi diano una mano Lucy e Marino,
che è già là.
Mi sento più a mio agio a bordo di un veicolo blindato che mi fa venire in mente Dart Fener o i
potentati mediorientali, a prova di guerre galattiche, bombe e proiettili. Mi fa piacere essere sul SUV di
Lucy. E mi fa piacere stare un po’ con lei.
Le informazioni che mi ha dato Marino al telefono mentre uscivamo dal CFC sono scarse, ma quel poco
che mi ha riferito mi ha fatto venire la pelle d’oca. La telefonata di stamattina al 911 a proposito di una
sparatoria non era del tutto priva di fondamento: pare che davvero un pazzo abbia fatto una strage a
Concord.
L’uomo che è stato visto correre nel Minute Man Park in tarda mattinata non ha aperto il fuoco contro
una scolaresca in gita. Non sapeva che i bambini erano lì quando correva come un matto nel bosco che
separa i campi di battaglia della Guerra d’indipendenza americana dai prati, dalle dépendance e dalla
sede della Double S, una società di servizi finanziari con annesso allevamento di cavalli dove sono morte
almeno tre persone. Marino me l’ha descritto come “un bagno di sangue degno di Jack lo Squartatore”.
Le vittime non si sono neanche accorte di quello che succedeva, mi ha spiegato. L’assassino le ha
sgozzate mentre erano sedute alla scrivania o si apprestavano a fare uno spuntino. I testimoni dicono che
era giovane, in jeans e felpa scura con il cappuccio e un ritratto di Marilyn Monroe stile Andy Warhol
davanti. È uscito di corsa dal bosco ed è passato sul ponte di legno, guizzando tra gli alunni di una quarta
elementare che camminavano sul sentiero. Li ha “sparpagliati come birilli”, ha detto Marino. Poi ha
attraversato velocissimo Liberty Street e si è infilato in un parcheggio pubblico pieno di auto.
Il panico e la confusione erano alle stelle e nessuno ha capito dove sia andato, dopo gli scoppi di
marmitta che sembravano colpi d’arma da fuoco: i bambini e i maestri sono scappati via o si sono gettati
a terra abbracciandosi e, quando sono arrivate le autopattuglie e la squadra SWAT, di lui non c’era più
traccia. Nessuno ricorda di aver visto un veicolo che si allontanava ad alta velocità. L’elicottero del
soccorso è stato mandato via e gli agenti avrebbero probabilmente liquidato la cosa come un falso
allarme se non fosse stato per un particolare di una certa importanza.
Perlustrando la zona in cui il ragazzo è stato visto correre, la polizia di Concord ha trovato infatti una
busta sporca di sangue con l’indirizzo della Double S Financial Management prestampato, che conteneva
diecimila dollari in banconote da cento. La busta era sotto il ponte pedonale di legno che l’uomo aveva
attraversato di corsa. Si presume che, spaventato dalla scolaresca e dai maestri che gli bloccavano la via
di fuga, si sia liberato di quella che Marino ha definito “la refurtiva”.
«Sono morte minimo tre persone per diecimila sporchi dollari. Poco più di tremila a testa: misero
prezzo per una vita umana. Ma ho visto di peggio» mi dice Marino per telefono. «Una felpa con Marilyn
Monroe: Haley Swanson. Si era volatilizzato, ma adesso l’hanno visto e sappiamo che tipo è. Gesù, meno
male che ero a casa tua quando ti spiava dal giardino dei tuoi vicini. Te l’immagini? Ha ammazzato Gail
Shipton e subito dopo è venuto a casa tua, a spiarti per rapire pure te. Deve avermi visto scendere dalla
macchina con Quincy.»
Gli piace credere di avermi salvato la vita e io non lo disilludo. Non è importante.
«Non poteva sapere che ti sarei venuto a prendere, che non saresti andata da sola con la tua macchina»
insiste. «Gli ho rovinato la festa.»
La sua teoria non mi convince, ma sto zitta: non mi darebbe ascolto. Ormai ha deciso che è andata
così. Io però non credo che la persona che ho visto stamattina dietro il muro volesse farmi del male
mentre portavo fuori il cane. Non so che intenzioni avesse, ma aveva avuto più di un’occasione per
aggredirmi nei giorni precedenti, quando ero sola a casa con l’influenza. Con il senno di poi, il sogno che
ho fatto nel delirio della febbre alta, con la figura incappucciata ai piedi del letto, mi pare premonitore.
Qualcuno mi stava spiando. Ero nella testa di qualcuno, che mi pensava ossessivamente, e una parte di
me lo sapeva.
Di certo mi sono sentita osservata quando portavo Sock in giardino di sera. Se davvero Haley
Swanson stava tenendo d’occhio me e la mia casa perché voleva derubarmi o peggio, come mai non l’ha
fatto una delle sere precedenti? Forse si è accorto che avevo una pistola. Ma non ne sono convinta. È più
probabile che sia andata come diceva Lucy, e che il Capital Killer si sia interessato a me perché i media
hanno parlato di me e, sì, da cosa nasce cosa. La violenza sessuale incomincia con le fantasie, e
l’immaginazione di un serial killer psicopatico può venire alimentata da quello che legge o vede in TV.
Ripenso alle impronte lungo i binari della ferrovia che andavano verso il campus dell’MIT e a quelle
lasciate successivamente nella direzione opposta, dopo che aveva smesso di piovere. La nostra casa è a
circa tre chilometri da dove è stato abbandonato il corpo di Gail Shipton e, se il suo assassino è uno che
si tiene un minimo informato, poteva immaginare che sarei intervenuta anch’io. Magari mi osservava per
questo. Si è nascosto dietro il muro a guardare le luci che si accendevano in casa mia, ha visto l’auto di
Marino e poi ha visto me che portavo fuori il cane.
Ho percepito la presenza di quello che potrebbe benissimo essere il serial killer che stiamo cercando.
Ho sentito dei rumori in fondo al giardino, l’ho visto e lui è scappato di corsa, con strani calzari ai piedi,
ed è tornato all’MIT a godersi lo spettacolo: il mio arrivo, l’elicottero di Lucy, i tecnici al lavoro. Poi,
come ha detto Benton, si è allontanato definitivamente prima dell’alba, lungo i binari della ferrovia, per
andare a riprendersi la macchina.
“Il movente più semplice, il più vecchio del mondo: denaro” ha sentenziato Marino poco fa. “Ma
adesso sappiamo chi è e non può essere andato lontano. Si sarà nascosto in qualche casolare qui nei
pressi, in un fienile, in un granaio. Chiamiamo rinforzi dai dipartimenti di tutta la zona e lo cerchiamo
porta a porta finché non lo becchiamo”
Parlava al plurale perché intendeva il NEMLEC.
“Haley Swanson è andato alla Double S per rubare, poi la cosa è degenerata e lui ha fatto una strage”
è stata la spiegazione di Marino. Ma io so che c’è di più, che non è andata così proprio per niente.
Non è stata una rapina finita male. La polizia ha sbagliato pista nelle prime fasi di un’indagine che
passerà all’FBI, se non è già successo. Il Minute Man Park è un parco nazionale e quindi di competenza
federale e l’FBI userà questa scusa per assumere il controllo delle indagini. Sono abbastanza sicura che
Benton vi prenderà parte, ufficialmente o no. Non aspetterà di venire convocato dal dipartimento di
polizia di Concord, da Marino, dal NEMLEC o dal suo capo, che peraltro non lo vuole fra i piedi. Non
aspetterà autorizzazioni di sorta. Gail Shipton aveva fatto causa alla Double S ed è morta, adesso anche
quelli della Double S sono morti. Benton non smetterà di pensare al Capital Killer. Mi viene in mente
l’ologramma di un polpo sui sacchetti di plastica che le donne uccise a Washington avevano sulla testa.
Immagino potenti tentacoli che assumono colorazioni iridescenti a seconda della luce, una creatura
marina che si muove con grazia e flessibilità, si mimetizza perfettamente nell’ambiente circostante, si
infila negli anfratti più remoti. Una creatura intelligente, con otto tentacoli e una testa munita di becco. Un
animale invertebrato assurto a simbolo di imperi del male che abusano del loro potere e soggiogano il
prossimo. Dittature, cospiratori, imperialisti, Wall Street. Il dottor Seuss disegnava così i nazisti.
La metafora potrebbe essere casuale oppure no. Forse l’assassino si considera un superuomo che
allunga i tentacoli su tutto ciò che desidera far suo, dominare. Io però lo vedo in maniera più banale e
stilizzata, come una presa multipla con troppe apparecchiature elettriche attaccate che va in sovraccarico,
sprizza scintille, prende fuoco ed esplode.
Otto dispositivi collegati alla stessa presa, un circuito che brucia: è questo che è successo, secondo
me. Sento la rabbia e l’arroganza di un uomo veloce e silenzioso e ripenso alla ferrovia e all’assassino
che correva lungo i binari con scarpe-guanto ai piedi, saltando da una traversina all’altra nel buio, sotto
la pioggia, una versione diabolica di Nižinskij, un ballerino provetto ma non così equilibrato come si
illude di essere. Non emotivamente, mentalmente.
«Pare che si sia introdotto negli uffici della Double S.» Sto riferendo a Lucy quello che mi ha detto
Marino. «La porta era aperta, lui è entrato e ha ammazzato le prime tre persone che ha incontrato.»
«Chi sono?» chiede Lucy, mentre percorriamo Massachusetts Avenue, con la Christian Science Church
da una parte e la Harvard Law School dall’altra.
Noto un gran numero di auto della polizia.
«Non li hanno ancora identificati.» Controllo la posta elettronica per vedere se ho ricevuto allerte o
segnalazioni di emergenze.
«Se sono dipendenti della Double S, come facciamo a non avere i nomi?»
«Marino dice che i morti non avevano addosso documenti o altre forme di identificazione, che
l’assassino deve avere rubato loro i portafogli. Forse un’idea di chi siano ce l’hanno, ma niente di
ufficiale.»
«La Double S non ha solo tre dipendenti, però» mi fa notare Lucy. Evidentemente lo sa per certo.
È stata convocata in qualità di teste nel processo contro la Double S e domenica scorsa è stata ore con
Gail Shipton e Carin Hegel a prepararsi. Conosce bene la situazione. Sa un sacco di cose a proposito
della Double S. Si è documentata non poco, ne sono certa.
«A me hanno parlato di tre morti. Non so se ce ne siano altri» le rispondo. «I dipartimenti di polizia e
le scuole di tutta la zona sono stati avvisati che è in corso una caccia all’uomo.»
«Bravi» borbotta Lucy. «Penseranno tutti a un attentato terroristico.»
«I morti sono come minimo tre, e sembra che sia stata un’esecuzione pianificata» leggo da internet.
«Cosa stai leggendo? Chi è che ha rilasciato comunicati stampa? Fammi indovinare.»
«Harvard, MIT, Boston University e tutti gli istituti universitari stanno chiudendo. Il McLean Hospital
sta mandando a casa tutto il personale non essenziale.» Controllo le allerte che mi stanno arrivando.
«L’FBI...»
«Ci siamo» mi interrompe Lucy disgustata. «Non hanno perso tempo. Vedrai che fra poco avranno
tutto in mano loro.»
«Il direttore della divisione di Boston, agente speciale Ed Granby...»
«Si fa propaganda» mi interrompe Lucy.
«Prega i cittadini che hanno informazioni riguardo all’uomo che è stato visto fuggire nel Minute Man
Park di contattare il numero verde e inoltrare eventuali foto o video presi con il cellulare» riferisco.
«Auguri. Gli abitanti di Concord si disinteressano del bene comune, a meno che non passi con il
fuoristrada su qualche area protetta.» Lucy è piuttosto acida nei confronti dei suoi concittadini.
«Le vittime sono un uomo e due donne. Marino non ha saputo dirmi altro» aggiungo. «Dobbiamo
cercare di farci dire qualcosa da Carin Hegel. Prima è morta la sua assistita e adesso anche quelli contro
cui faceva causa.»
«Non penso che sappia niente di utile» replica Lucy.
Attraversiamo Porter Square, lasciandoci il centro commerciale sulla destra, superiamo l’ufficio
postale, alcune chiese e un’impresa di pompe funebri.
«Gestiva in maniera lineare un caso che era tutto fuorché lineare» dice Lucy.
Ci superano altre auto della polizia, senza lampeggianti né sirena. Cambridge, Somerville, Quincy.
“NEMLEC” penso.
«Se non aveva paura già prima, adesso ce l’ha di sicuro» continua Lucy.
Le racconto che ho incontrato per caso Carin Hegel nel tribunale federale di Boston il mese scorso e
mi ha detto che si era trasferita in un luogo segreto fino alla fine del processo e ha definito la Double S
una banda di delinquenti.
«Tu sai dove è andata a stare?» Vedo che accenna un sorrisetto, come se avessi appena fatto una
battuta spiritosa.
Forse è la luce che cambia, in questo pomeriggio variabilissimo, nuvoloni grigi piatti nella parte
superiore, simili a incudini, oltre il porto, sopra l’oceano. Ha smesso di piovere sulla South Shore e a
South Boston. Guardo le nubi più vicine a noi, il vento che continua a cambiare direzione, come una
bussola impazzita in un negozio di calamite. Sta per piovere di nuovo. Fortunatamente lavoreremo al
coperto.
«È possibile che corra dei rischi?» insisto.
«Personali no. Corre il rischio di perdere la causa, però» replica Lucy. Mi viene in mente dove
potrebbe essersi trasferita Carin Hegel.
«Sta da te.»
«Non corre rischi» ripete Lucy, con lo stesso sorrisetto cupo di poco fa. Ha un profilo spigoloso e
deciso, i corti capelli biondi tirati dietro le orecchie. «È a casa con Janet. Dovesse venire qualcuno a
rompere le scatole, te lo ritroverai al CFC.»
Lucy è capace di uccidere. L’ha già fatto. Non è neppure particolarmente arduo per lei: convive senza
grossi problemi con i propri istinti omicidi. A volte le invidio la sua consapevolezza. Percorro con lo
sguardo la sua gamba destra fino allo scarponcino sull’acceleratore alla ricerca di una fondina alla
caviglia, ma non vedo niente. Ha una tuta da aviatore e una giacca nera da pilota, piena di tasche. Non ho
dubbi sul fatto che sia armata.
Nella parte nord di Cambridge il traffico è intenso e ci sono un sacco di autoarticolati e pullman che
viaggiano nella direzione opposta alla nostra, verso Boston, dove il cielo è coperto e c’è nebbia, ma è
più chiaro che a ovest. Sopra di noi si stanno ammassando nuvoloni bianchi, spinti da nubi meno spesse e
grigie, e nelle rare chiazze di azzurro la luce è intensa e strana, come prima di un uragano o di un violento
temporale. La stessa luce che ricordo dalla mia infanzia a Miami.
Nessuno osa fare gestacci al SUV di Lucy, che sembra un mezzo militare e incute paura. Si limitano
tutti a guardare affascinati con un misto di perplessità, di rispetto e di confusione. Nessuno le si appiccica
al paraurti, nessuno prova a tagliarle la strada. Solo chi è distratto perché parla al telefono o scrive SMS
si avvicina all’imponente veicolo nero che ruggisce come un leone e corre su ruote grosse come zampe di
dinosauro. Lucy non supera il limite di velocità, ben sapendo che i vigili, curiosi, la fermerebbero subito.
«L’ingresso era sicuramente sbarrato» dichiara, come se non ci fossero dubbi. «In tutta la tenuta le
porte che danno sull’esterno hanno una serratura di sicurezza e il portone degli uffici ha una serratura
biometrica che scatta automaticamente quando riconosce le impronte digitali, come al CFC. Uno
sconosciuto non può entrare come se niente fosse e ammazzare gli impiegati seduti alla loro scrivania.»
Rifletto se chiederle come fa a saperlo. Come al solito, devo soppesare pro e contro. Sempre gli
stessi, peraltro: il mio bisogno di sapere è più forte del conflitto che si verrebbe a creare nel caso lei
avesse commesso qualche irregolarità?
«Quando saremo sul posto, controlleremo» rispondo.
«Qualcuno lo ha fatto entrare. Gli hanno aperto la porta. Questo vuol dire che nessuno alla Double S
sospettava che fosse pericoloso.»
«Potrebbe essere un dipendente» azzardo.
«Se era giovane, incappucciato ed è scappato con i soldi attraverso il parco, direi di no. La
descrizione non corrisponde, il comportamento non quadra. Non c’è nessuno sotto i quarant’anni alla
Double S. Non te lo ha detto Marino? Manca qualcuno all’appello?»
«Ha detto che i titolari sono fuori città, in vacanza.»
«Sono quattro soci. Commercialisti, investitori e avvocati, danarosi e ladri, dal primo all’ultimo» dice
Lucy. «Non hanno orari e non ci sono praticamente mai. Non mi sorprende che siano fuori città: saranno a
Grand Cayman, alle Isole Vergini... A rosolare come porcelli al sole e a scialacquare i proventi delle
loro fatiche» aggiunge con disprezzo.
«Marino non mi ha detto se manca all’appello qualcuno. Scappare con una busta piena di soldi in un
parco pubblico è un gesto disperato di uno che si è fatto prendere dal panico. Non è premeditato.»
«Diecimila dollari in banconote da cento? Saranno stati un pagamento.» Lucy riflette sulla provenienza
e sulla possibile destinazione di quei soldi. «Una somma ben precisa che doveva servire a qualcosa.»
In Alewife Brook Parkway svoltiamo tra alberi che in questa stagione sono completamente spogli. Una
pista ciclabile taglia dritto nel bosco, come una cicatrice.
«Hanno un impianto di allarme e videocamere dappertutto» mi dice Lucy. «Possono vedere chi c’è
fuori su monitor, tablet, smartphone, quello che hanno a portata di mano. Non deve aver destato sospetti:
per questo c’è riuscito. Ma non ci sarà niente di registrato da visionare.»
«Perché?»
«Perché saprebbero già chi è stato se il DVR avesse registrato tutto quanto e fosse ancora lì, cosa di
cui dubito fortemente. Videocamere, impianto di videosorveglianza IP ... Senza registrazioni però non
servono a niente. Sarà anche stato disperato o fuori di testa, ma stupido non è.»
«Sei già stata alla Double S?» Decido di chiederglielo.
«Non sono mai stata invitata.»
«Se hai fatto qualcosa che può essere ricondotto a te, è il momento di rifletterci. Non vogliamo che tu
appaia nei filmati delle videocamere di sorveglianza, specie se c’è di mezzo l’FBI.» Penso a Granby e mi
chiedo cos’altro mi riserverà questa giornata.
Che bomba sta per deflagrare e che responsabilità ha Ed Granby? Si presenterà sulla scena del
crimine, prima o poi, e mi conviene prendere velocemente tutte le prove che spettano al CFC e fare in
modo che lui neanche le tocchi.
«Non appaio in nessun filmato» mi risponde Lucy. «E, se il DVR è ancora lì, farò i miei controlli. A
meno che non ci abbiano già messo su le mani i federali.» Parla con sprezzo dell’FBI, da cui praticamente
è stata licenziata quando aveva meno di trent’anni.
«Per l’amor di Dio, Lucy! Non è un telefono da cui puoi cancellare i dati.»
«Il telefono è mio. È diverso.»
I suoi principi morali sono molto discutibili, trovo.
«Non c’è da preoccuparsi» dice. «Ma quando vedrai come lavorano alla Double S, capirai che è
gentaglia, che rimesta nel torbido quando non ha direttamente a che fare con la malavita. Non hanno orari
d’ufficio perché l’ufficio è una facciata e il business si fa altrove. Si vocifera sul loro conto da anni, ma
le prove non sono mai saltate fuori. L’ FBI ci ha rinunciato diverse volte. Vogliamo chiederci perché?
Adesso che sono morte delle persone, vedrai cosa verrà fuori. E non solo riguardo alle vittime.»
«Riguardo a chi?»
«Mi dispiace per Carin» dice Lucy. «Non è colpa sua, ma dovrà dare parecchie spiegazioni.»
«Non vorrei che fossi implicata anche tu.» La guardo.
«Non sono implicata. Ho fatto solo un paio di ricognizioni. Come faccio con l’elicottero, dall’alto.»
Non sembra preoccupata, ma determinata.
«Hai fatto una ricognizione dall’alto?»
«Non sarebbe servita a niente e mi avrebbero visto. Il mio elicottero fa un sacco di rumore» risponde.
«Quello che ti posso dire è che se ti presenti alla Double S senza appuntamento, non vai oltre la scuderia,
che ha videocamere su tutti i lati ufficialmente per proteggere purosangue inglesi da corsa di enorme
valore. L’assassino non si è introdotto di soppiatto. Ci sono un sacco di dipendenti con un orario fisso
alla Double S: la governante, gli stallieri, il guardiano, lo chef... Qualcuno sa benissimo chi è stato, ma
non parla.»
«Marino pensa che sia stato Haley Swanson, l’amico di Gail. Amico intimo, pare.»
«Quello che ha postato le informazioni su di lei sul sito di Channel 5. Ho ricevuto un alert e ho visto il
nome, ma non so chi sia e non mi risulta che Gail Shipton avesse amici intimi.» Guarda gli specchietti e
passa da una corsia all’altra con gran disinvoltura, come se camminasse per strada, sempre davanti a
tutti, sempre attenta a ciò che le sta intorno.
«Quindi Gail non ti diceva tutto» le faccio notare.
«Non era obbligata a farlo. Non so tutto di lei, no: ma so un sacco di cose.»
«Haley Swanson lavora per uno studio di pubbliche relazioni, Lambant & Associates. Forse si
occupava di gestione delle crisi per Gail.»
«E a cosa le serviva? Non era mica un personaggio pubblico. Non aveva attività pubbliche, o una
reputazione da salvaguardare. Benché in effetti stesse per perdere la faccia» aggiunge.
«Era allo Psi Bar, ieri pomeriggio» dico. «Con chi?»
«Non me l’ha detto quando ci siamo parlate al telefono. Non gliel’ho chiesto perché non
m’interessava. Se era con questo signore delle pubbliche relazioni, non me l’avrebbe detto, specie se
pensava di avere qualcosa da nascondere. E aveva quasi tutto da nascondere, disonesta com’era. La gente
è stupida a pensare che nessuno si accorgerà mai di nulla. Non so come si faccia a essere così stupidi»
dice.
Non capisco se sia più arrabbiata o addolorata, o se si vergogni di essersi lasciata ingannare da Gail.
«Parlo di Swanson al maschile perché sulla patente risulta così, anche se sembra ci sia qualche
dubbio riguardo al suo sesso. Un agente che gli ha parlato stamattina presto dice che ha le tette.»
«Se Gail lo conosceva, doveva avere le sue buone ragioni per non parlarmene. Forse gli è stato
presentato da amici comuni» mi dice Lucy e ho la sensazione che stia alludendo a qualcos’altro.
Qualcosa di brutto, di spiacevole.
«È stato lui a chiamare il 911 per denunciare la scomparsa di Gail e, quando gli è stato detto che per
sporgere regolare denuncia doveva recarsi in centrale, ha preferito postare la notizia sul sito di Channel
5. Poi ha richiamato la polizia e ha chiesto di parlare con Marino» spiego a Lucy, mentre scendono le
prime gocce. «Questo comportamento mi fa pensare che Gail fosse con lui allo Psi Bar. È uscita per
telefonare e non è più tornata.»
«Lambant & Associates avrà curato le PR di qualcun altro: si saranno conosciuti così.» Lucy riflette
più che altro fra sé e sé.
Il suo atteggiamento distaccato continua a colpirmi: è come se il suo rapporto con Gail fosse morto
irrimediabilmente come è morta Gail. Lucy è bravissima a fare questo: è capace di provare un affetto
profondo per una persona e dall’oggi al domani essere completamente indifferente, senza neanche un
briciolo di rabbia o di dolore, perché anche queste emozioni dopo un po’ si spengono e le resta soltanto
quello che, sin da quando era bambina e stava quasi sempre sola, io chiamo “il cilindro magico
dell’amicizia”. “Dov’è il tale?” le chiedevo, e lei con un’alzata di spalle infilava una mano in un cilindro
immaginario e la tirava fuori vuota. “È sparito” rispondeva e a volte piangeva. Ma poi le passava. Il
dolore andava via, come sua madre, che non le ha mai voluto bene.
33
Sento tuonare in lontananza, come un rullo di tamburi che riecheggia e riverbera nell’aria, e subito dopo
sul parabrezza cominciano a cadere goccioloni grossi come monete. Dico a Lucy che da quando sono
tornata dal Connecticut c’è qualcuno che mi spia.
«Stamattina alle cinque e mezzo, quando ho portato fuori Sock, era dietro casa» le spiego. «Pensano
che potrebbe essere Haley Swanson.»
«Chi è che lo pensa?»
«La polizia. Marino ne è convinto.»
«Perché?»
«Considerando il posto e l’ora in cui è stato visto il suo SUV, potrebbe essere stato lui» rispondo.
«L’agente che gli ha parlato ne è persuaso.»
«E Swanson lo ha ammesso quando l’hanno interrogato? Ha detto che sa chi siete tu e Benton, che era
vicino a casa vostra alle cinque e mezzo di stamattina?»
«No. Ma penso che non glielo abbiano chiesto direttamente. Peraltro è prevedibile che non ammetta di
avermi fatto stalking, o di aver spiato la nostra proprietà. Soprattutto se ha parecchio da nascondere.»
«Se è il Capital Killer, vuoi dire.»
«Non ho elementi per affermare una cosa del genere, ma non credo che lo sia.»
«E la descrizione della felpa con il cappuccio? Con un ritratto di Marilyn Monroe stile Andy
Warhol?» domanda Lucy.
«Non ho visto se chi mi spiava ne aveva una così. Era a capo scoperto, ma forse non si era tirato su il
cappuccio.»
«Pioveva?»
«Ho avuto l’impressione che non fosse vestito adeguatamente per il tempo che faceva. Non da pioggia,
comunque.»
«Era su di giri, accaldato, sovreccitato. Non si accorgeva nemmeno del fatto che pioveva.
Probabilmente non era Haley Swanson» dice Lucy.
«Quando la polizia l’ha interrogato, non sembrava che fosse stato sotto la pioggia. Presumibilmente
non era lui quello che mi spiava. Chiunque fosse, non aveva intenzione di farmi del male, penso.»
«Chissà. Tu tendi sempre a minimizzare i rischi contro la tua persona. Non vuoi pensare di poter
attirare individui pericolosi.»
«Se avesse voluto, avrebbe avuto più di un’occasione per farmi del male.»
«Magari non era pronto, e tu avevi la tua SIG. O sbaglio?»
«Armata o non armata, avrebbe potuto spararmi con il Taser, se fosse stato lui. Sarei caduta per terra
senza potermi difendere.»
«Il fatto è che non sai chi fosse» dichiara Lucy in tono piatto. «Haley Swanson era dalle tue parti,
okay: non vuol dire che fosse lui a spiarti. Probabilmente era qualcun altro. Marino avrà pure deciso che
l’uomo che correva in Minute Man Park era Swanson, ma questo non vuol dire niente. Non voglio trarre
conclusioni affrettate.»
«Non dobbiamo farlo, nessuno di noi.»
«Marino si basa su una felpa. Ha deciso che Swanson è l’assassino sulla base di una felpa con il
cappuccio.»
«Non è l’unica ragione. Ma dobbiamo andare con i piedi di piombo» replico.
«Tu sai dove abita Swanson?»
«Vicino a Conway Park. Sembra si sia fermato al Dunkin’ Donuts in Somerville Avenue, prima.» Le
ripeto quello che mi ha detto l’agente Rooney.
«Se uscendo dal Dunkin’ Donuts è andato verso le case popolari di Windsor Street, è plausibile che
sia passato dietro la Academy of Arts and Sciences, a pochi isolati da casa tua. Avrà percorso Park
Street verso Beacon Street.»
«Immagino che non abbiate parlato di lui, con Carin Hegel.»
«No, ma non mi sorprende. Se non l’ho mai sentito nominare io, non l’avrà mai sentito nominare
neanche lei.»
«Quando ha chiamato il 911, ha chiesto espressamente di Marino. Pensavo che Gail gli avesse fatto il
nome di Marino perché tu l’avevi fatto a lei.» So che non le fa piacere sentirselo dire.
«Non ho mai parlato di Marino con Gail» mi risponde, accalorandosi. Mi vengono in mente le cose
che ha detto Benton a Marino stamattina all’MIT.
Lo ha fatto arrabbiare ricordandogli che il suo pick-up difettoso gli è costato un sacco di soldi, dopo
la class action che ha intrapreso e perso. La concessionaria era rappresentata dallo studio Lambant &
Associates, che ha dato la colpa ai proprietari dei veicoli, sostenendo che avevano provocato loro il
danno guidandoli in maniera scorretta. È una cosa recente ed è possibile che Haley Swanson sia venuto a
conoscenza in questo modo di Marino e del suo lavoro. Espongo a Lucy questa teoria.
«Non spiega perché abbia telefonato al 911 e chiesto specificamente di lui, però» concludo.
«Se era disperato...» mi fa notare Lucy. «Se con il primo che gli ha risposto non arrivava da nessuna
parte, magari ha deciso di riprovare e chiedere di un investigatore che conosceva di nome.»
«Hai mai parlato di Marino con Carin Hegel?»
«Né di Marino né di nessun altro di noi. Ma non è un segreto che lavoro al CFC e che vi conosco»
risponde Lucy. «Siamo o siamo stati tutti nelle forze dell’ordine e Gail sicuramente era consapevole che
questo poteva costituire un pericolo per lei. Aveva preso una brutta strada e forse è un bene che sia
morta. Non aveva speranze. Avrei dovuto porre rimedio alla situazione, purtroppo. Mi dispiace che mi
avesse messo in quella posizione, ma è stata tutta colpa sua.»
La guardo: non mi sembra turbata. Anzi, sembra molto sicura di sé mentre guida con una mano sul
volante e l’altra posata sul pomo della leva del cambio in fibra di carbonio, in una macchina piena di
strumentazioni, leve e pulsanti degni di un velivolo.
«Come avresti posto rimedio alla situazione, esattamente?» le domando.
«Avrei detto a Carin tutta la verità.» I tergicristalli puliscono il parabrezza, mentre imperversano tuoni
e fulmini. «E lei avrebbe smesso di rappresentarla. Ma non sarebbe bastato.»
«Visto quello che mi hai detto, avevi tutti i motivi di essere arrabbiata.»
«Stavo raccogliendo prove su prove, ma aspettavo di avere qualcosa di schiacciante» replica. «Sono
stata stupida. È per questo che non si può odiare nessuno. Quando provo odio, cerco di mollare, di
lasciar perdere. È difficile, ma bisogna andare fino in fondo. Con lei non l’ho fatto e ho sbagliato. L’odio
rende stupidi.»
Il vento soffia sull’acqua grigia oltre il finestrino di Lucy. Dalla mia parte c’è una lunga fila di casette a
schiera che mi fanno venire in mente quelle del Monopoli o le caserme militari.
«Vi siete conosciute allo Psi Bar, avete bevuto un paio di drink e avete deciso di intraprendere un
progetto insieme» dico a Lucy. «Tu non avevi mai sentito parlare di Gail Shipton, otto mesi fa, ma lei
forse sì. Magari sapeva anche che vai allo Psi Bar con una certa frequenza.»
«Non dovrei andare da nessuna parte con una certa frequenza. Non è prudente.»
«Forse non è stato un caso se vi ha offerto da bere ed è venuta a sedersi al vostro tavolo, la primavera
scorsa.»
«Non è stato un caso, ma non era neanche quello che è diventato in seguito» ribatte Lucy. «Stava per
finire i soldi che le erano rimasti e durante l’estate la Double S ha fatto di tutto per far lievitare i costi
della causa. Era in grave difficoltà, ma non voleva dirlo a nessuno perché era orgogliosa. Quelli della
Double S lo sapevano, però. Sapevano quanti soldi le erano rimasti e quanto tempo le ci sarebbe voluto
per finirli. L’hanno portata esattamente dove volevano che arrivasse.»
Sento tuonare e annuso l’odore della pioggia che filtra dalle prese d’aria. Lucy non ama il ricircolo
d’aria e non vuole avere caldo. Sento profumo di cuoio e l’aroma agrumato della sua acqua di colonia.
Gliene ho comprato una boccetta per Natale e devo ancora fare il pacchetto regalo.
«Chi c’era quando ti hanno convocato in qualità di testimone?» le domando. «Hai conosciuto qualcuno
della Double S?»
«Solo i loro viscidi avvocati.»
Tra le nuvole che si spostano in cielo spunta un raggio di sole che fa brillare l’asfalto bagnato, ma è
una luce sinistra, la luce dei temporali. Non faccio altre domande. La pioggia è tanto meno fitta quanto
più procediamo verso ovest. Davanti a noi si apre una distesa di prati, boschi, corsi d’acqua e aree
protette.
«E Gail?» domando. «Dov’era quando sei stata convocata?»
«Era lì, seduta al tavolo.»
«E com’era? Che atteggiamento aveva?» Mi sto insospettendo.
«Non mi fidavo di lei» dice Lucy. Avrebbe dovuto capire prima che non era una persona di cui si
poteva fidare, ma non glielo faccio notare. «Non era brava a recitare. Non era più brava a far niente.»
Ci avviciniamo a Concord e fra i boschi si aprono radure, pascoli e campi arati che mi fanno venire in
mente toppe di velluto a coste. Vedo fattorie, granai e fabbricati discosti rispetto alla strada. In questa
zona, che è ricca da sempre, la gente tiene qualche gallina o qualche capra oppure chiede la non
edificabilità dei terreni per ottenere sgravi fiscali. Tutelano il verde e la quiete, curano i loro famosi
cimiteri e considerano inqualificabile abbattere un albero. In questa regione le bottigliette di acqua sono
proibite perché la plastica è un peccato mortale e il SUV di Lucy, che consuma un sacco, deve essere
piuttosto malvisto. Conoscendo mia nipote, mi viene il dubbio che l’abbia comprato apposta.
Percorriamo Main Street verso il centro della città, in cui si possono visitare le case e le tombe di
Ralph Waldo Emerson, Louisa May Alcott, Thoreau e Hawthorne, i negozietti e i ristorantini sono molto
pittoreschi e ci sono monumenti e lapidi a ogni angolo di strada.
Attraversiamo un ponte e seguiamo Lowell Road, poi svoltiamo in Liberty Street e passiamo davanti
al Minute Man National Park. Vedo gente che passeggia tranquillamente e il personale del parco in
costume del periodo coloniale. Sembra che non sia successo nulla, che nessuno noti le auto civetta e gli
agenti in borghese che perlustrano il parco. Nessuno fa caso alla troupe televisiva. Di nuovo Channel 5.
Riconosco Barbara Fairbanks che parla a un microfono davanti a un ponticello di legno che forse è
quello dove l’assassino si è imbattuto nella scolaresca.
La strada che stiamo percorrendo curva a sinistra e il bosco si fa impenetrabile, si trasforma in una
tipica foresta del New England, con fronde fittissime e niente sottobosco. Superiamo una zona meno
alberata e ci ritroviamo davanti a un cancello elettrico aperto accanto a una colonnina di pietra con la
scritta SS e nessun numero civico. Lucy rallenta ed entra, abbassa il finestrino e si ferma vicino a una
macchina della polizia di Concord parcheggiata subito oltre il cancello. Prendo le mie credenziali dalla
borsa e porgo il portadocumenti nero a Lucy, che cerca nella tasca il badge del CFC.
«Cambridge Forensic Center. Lucy Farinelli. La dottoressa Scarpetta.» Mostra i documenti e il badge
all’agente, che avrà sì e no vent’anni. «Come va?»
«Posso chiederle che macchina è?» Si china a guardare dal finestrino, ammiratissimo.
«Un semplice SUV.» Lucy mi restituisce il portadocumenti.
«Sì, certo. E la mia è un’astronave. Le spiace se curioso un momento?»
«Mi segua.»
«Non posso.» Oltre che dal veicolo, l’agente è affascinato anche dalla guidatrice. «Ho il compito di
non far entrare nessuno che non sia autorizzato e ho dovuto già mandar via una decina di giornalisti.
Fortuna che il tempo fa schifo, altrimenti sarebbero venuti anche con l’elicottero. Mi chiamo Ryan, a
proposito.»
«È stato sul luogo della strage, Ryan?»
«Un macello. Dev’essere scappato un matto dall’MCI.» È un penitenziario di media sicurezza lì nei
pressi. «Quanto fa all’ora?»
«Senta, Ryan, se quando si libera mi raggiunge, le faccio fare un giro» dice Lucy. Cerco Marino al
telefono.
Lucy innesta di nuovo la marcia del suo bestione e ci avviamo lungo un viale lastricato, simile a una
strada di campagna, verso distese di maneggi, scuderie e fabbricati vari. C’è anche la scuderia rossa di
cui mi parlava prima. Il viale è fiancheggiato da betulle dai rami praticamente spogli. Marino risponde e
io gli annuncio che saremo da lui nel giro di due minuti.
«Parcheggiate davanti. Vengo sulla porta» mi dice. «Ho io la tua valigetta. Copritevi bene: sembra che
abbiano rovesciato un pentolone di boršč, qua dentro.»
34
La sede della Double S è un edificio di legno a due piani in cima a una collina, oltre un laghetto e un
gruppo di fabbricati collegati da passaggi coperti. Davanti ci sono i maneggi e prati curatissimi e dietro
altre costruzioni che dal lungo viale lastricato non si vedono perché rimangono al di là di una curva. Lucy
mi spiega com’è fatto il complesso e io non le domando più come fa a saperlo.
Il tetto a spiovente è color rame brunito, come le monetine da un penny, e la veranda davanti al
portone, sormontato da vetri a piombo, è retta da due colonne di pietra. Ai due lati del portone ci sono
ampie finestre da cui immagino si goda una splendida vista sulla campagna e si possa vedere chiunque si
avvicini all’edificio, a meno che le tende non siano tirate, come adesso. Penso alle videocamere
dell’impianto di sorveglianza, che riprenderebbero eventuali ospiti sgraditi.
Non piove più, quasi la Double S potesse comprarsi anche il bel tempo. Mi volto e sento il vento
umido sulle guance e nei capelli. Il fiato mi si condensa davanti alla bocca. Il cielo è gonfio e scuro come
se fosse il crepuscolo, anziché le due del pomeriggio. Penso a Benton, a quello che sta facendo, a quello
che sa. Sarà qui a momenti. Non è immaginabile che non venga e mi ritrovo a cercarlo con lo sguardo.
Seguo con gli occhi le due file di betulle le cui fronde nella bella stagione devono incontrarsi sopra il
viale, il laghetto verde e immobile come uno specchio, i maneggi marroni e vuoti protetti da palizzate
grigie. Immagino che i cavalli siano tutti nella scuderia, con questo tempo, in questo scontro di fronti
caldi e freddi che potrebbe portare grandine e nevischio. Oltre la recinzione e un campo delimitato da
ciuffi di panico verga, ci sono fitti boschi nella direzione del parco in cui stamattina un uomo con il
cappuccio della felpa abbassato sul volto ha spaventato scolaretti e maestri correndo come un pazzo.
Calcolo che in linea d’aria sia a meno di due chilometri da qui e decido che alla Double S lo
conoscevano.
In un ampio spiazzo asfaltato sono ferme sei macchine di servizio e auto civetta della polizia di
Concord, un lussuoso Lincoln Navigator bianco e una Land Rover bianca. Presumo siano di qualcuno
della Double S. Il SUV di Marino ha i finestrini leggermente abbassati e il suo pastore tedesco uggiola e
zampetta agitato nella gabbia sul sedile posteriore perché ci ha riconosciuto.
«Marino lo lascia dormire nel suo letto» dice Lucy. «È un cane viziato e inutile.»
«Lui non la pensa così» ribatto. «E poi parli tu, che a Jet Ranger prepari pesce fresco e invece dei
biscotti dai verdure disidratate. Il tuo è il bulldog più viziato del pianeta.»
«Da che pulpito viene la predica...»
Lucy ha parcheggiato vicino al solarium di pietra e vetro che è staccato dall’edificio principale, in
mezzo a sempreverdi. Le tende alle finestre non sono tirate e vedo mobili moderni in pelle – un divano e
due poltrone – e un tavolino in ardesia con alcune riviste posate sopra, due tazze da caffè e un piatto con
tre o quattro pirottini vuoti e un tovagliolo di carta blu appallottolato. Noto che sul piano del tavolo,
vicino al piatto, ci sono briciole di cioccolato. Sembra che l’altra persona che ha preso il caffè non abbia
mangiato. Evidentemente nessuno ha sparecchiato e pulito il tavolo.
Lucy continua a descrivermi il ranch e mi spiega che il solarium non c’era quando la proprietà è stata
acquistata: è stato costruito dopo.
«La sede è di quercia rossa e questo è pino verniciato in maniera da fare pendant. Lo hanno costruito
la primavera scorsa, combinazione quando sono cominciati gli omicidi di Washington» mi dice. «Ci sono
videocamere dappertutto, ma qui no.»
«Combinazione?» chiedo.
Guardo il tetto e la porta di vetro della piccola dépendance e non mi sembra che ci sia un impianto
d’allarme: non vedo nessun tastierino. È un locale piuttosto piccolo, con la stanza che ho visto dalla
finestra e probabilmente un bagnetto.
«Sto solo dicendo che l’hanno costruito nello stesso periodo.» Lucy apre il bagagliaio del SUV e
prendiamo tute, occhiali protettivi, manicotti e guanti di nitrile abbastanza lunghi.
Lucy controlla di nuovo il telefono, mentre io tiro fuori respiratori con filtri HEPA, salviette
antimicrobiche e sacchi per rifiuti biologici, perché non ho idea di cosa ci aspetti.
«È su Twitter.» Fa scorrere le immagini con il pollice. «Ecatombe a Concord.»
«Spero che non sia stato Bryce, santo cielo!» Ho paura che gli telefonino i giornalisti e che lui parli
troppo.
«Secondo me, l’ha definita così perché l’ha letto su internet. Newsfeed pieni di notizie false e
tendenziose.» Lucy continua a leggere. «Se ne parla dappertutto da quasi un’ora. “USA Today”, Piers
Morgan, Reuters, tutti che twittano con tutti. “Almeno tre persone uccise in una finanziaria, forse durante
una rapina.” Mi chiedo chi sia stato a scrivere ’sta fesseria. Purtroppo c’è anche di peggio. “L’ FBI nega
che l’assassino sia lo stesso della donna ritrovata all’MIT stamattina, Gail Shipton, che con la Double S
aveva un contenzioso. Non ci sono le prove che si tratti di due episodi collegati, ha dichiarato il capo
della sede di Boston dell’FBI, Ed Granby.” Chi ha mai detto che i due episodi fossero collegati? “La
causa del decesso non è ancora stata accertata: la donna potrebbe essere morta per cause naturali” ha
detto Granby.»
«Chi si crede di essere? Come fa a smentire, se non sa niente di questo caso?» ribatto, di nuovo in
preda a un’angoscia senza nome. «Benton non può avergli detto niente, visto che non ho rilasciato
dichiarazioni ufficiali a proposito di Gail Shipton e non lo farò finché non avrò i risultati di tutte le
analisi.»
«Non è stato Benton» replica Lucy. «Lo stronzo scrive quello che gli fa comodo.»
I l CODIS è stato manomesso, Granby ha minacciato il direttore dell’Istituto di medicina legale del
Maryland e adesso sta manipolando i media riguardo a casi di mia competenza. Mi viene il nervoso, ma
sono anche spaventata.
«Praticamente, parla a nome tuo e del CFC. Perché, secondo te?» Mi guarda e io so cosa ha sentito
quando parlavo con Venter e che anche Benton le ha passato parecchie informazioni.
Ci appoggiamo al paraurti per infilarci i copriscarpe di lattice con il carrarmato sotto, che usiamo
quando sulla scena del crimine c’è molto sangue.
«Il suo scopo è manipolatorio» aggiunge. «Perché è successo un pasticcio con il database del DNA,
vero?»
«Più che un pasticcio, temo.»
«Granby ha un interesse tutto suo. Forse protegge personaggi danarosi per procurarsi un avvenire
migliore di quello che gli consentirebbe la sua pensione.»
«Stai attenta a quello che dici, Lucy.»
«C’è un motivo se ha tirato fuori Martin Lagos» riflette. «Se vuoi sostituire un profilo genetico con
quello di qualcun altro, perché usi il DNA di un ragazzo scomparso diciassette anni fa? Perché a Granby è
venuto in mente proprio lui?»
«Non sappiamo se sia venuto in mente proprio a lui.»
«Supponi che sia stato Granby: perché proprio Martin Lagos? Provo a darti una risposta io: sa che
Lagos è morto, motivo per cui non è mai più ricomparso e per cui io non lo trovo in nessun database. Se
vuoi rubare l’identità di qualcuno, è utile che la persona interessata non sia più in grado di protestare.»
«Granby lavorava a Washington, ai tempi» replico. «Potrebbe ricordarsi di Gabriela Lagos. Fu un
caso che fece sensazione.»
«Che se lo ricorda è sicuro. Resta da vedere se era coinvolto. Che vantaggio potrebbe avere nel far
passare il figlio della Lagos per il Capital Killer?»
«L’unica cosa che sappiamo con certezza è che c’è qualcosa che non va nelle analisi del DNA di
Julianne Goulet, di cui si è occupato il dottor Venter: la macchia sulle mutandine che aveva addosso da
morta non può essere stata lasciata da un maschio. Martin Lagos non può aver macchiato quegli slip con
secrezioni vaginali e sangue mestruale. Da ciò deduco che il CODIS è stato in qualche modo manomesso e
che il responsabile non si è preoccupato di controllare di cos’era esattamente quella macchia, altrimenti
si sarebbe reso conto che il profilo di un uomo non andava bene.»
«Un errore stupido, tipico di un maschilista che crede di sapere tutto, come Granby. Se si presenta qui,
sappiamo per certo che ha un interesse personale nel caso: un capo divisione non va ai sopralluoghi, non
si sporca le mani» dice Lucy. «Ma scommetto che verrà. Lo considera terreno suo e deve controllare
l’andamento dei lavori perché ha un secondo fine. Perché è marcio.»
«Veramente, è terreno mio.»
Lucy guarda il solarium, le tazze da caffè sul tavolo, il luogo dove qualcuno ha avuto una
conversazione privata prima che morissero tre persone.
«Bel posticino comodo per farsi una bella chiacchierata.» Sbircia dalla finestra. «Se vuoi venire qui a
parlare di attività illecite e compromettenti...» Si sposta a guardare da un’altra finestra, mettendosi le
mani vicino agli occhi. «Non ci sono telefoni in cui nascondere cimici e c’è un impianto di sound masking
di buon livello. Vedi quei piccoli altoparlanti nel soffitto? Probabilmente ce ne sono altri nelle condotte
ed emettono suoni di copertura. Li installano anche nelle aule dei tribunali, da un po’ di tempo a questa
parte, in modo che quando il giudice parla sottovoce con accusa e difesa non si senta quello che si
dicono.»
Mi indica le videocamere sul tetto, sopra il portone di mogano dell’edificio principale e sui lampioni
di rame tutto intorno e lungo il viale di accesso.
«Resistenti all’acqua, alta risoluzione, infrarossi, del tipo che passa automaticamente dal colore al
bianco e nero quando c’è poca luce come adesso» mi spiega. «Non wireless, però. Vedi i cavi? E sai
qual è il problema, con i cavi? Che li puoi tagliare. Cosa che però non mi sembra sia stata fatta.
Interessante.»
«Per poterli tagliare, devi sapere dove sono» sottolineo. «Devi pensarci prima di entrare.»
«E lui non lo ha fatto» decreta Lucy, mentre il portone si apre. «Primo punto a favore dell’assenza di
premeditazione.»
Marino compare sulla porta, tenendo aperta con un piede la controporta interna. Dovrebbe farsi la
barba e ha la faccia agitata. Ha i guanti di lattice, ma gli vedo spuntare i peli scuri sui polsi.
Alle spalle di Marino, oltre la porta che sta tenendo aperta per noi, vedo due tecnici della Scientifica in
tuta mimetica. Uno sta scattando fotografie, l’altro è al laser scanner.
Sono un uomo e una donna, probabilmente del NEMLEC. Non mi pare di conoscerli. Nonostante il tasso
di criminalità in questa zona sia piuttosto basso, alcuni dipartimenti di polizia dispongono di personale
esperto e apparecchiature speciali, finanziati grazie a donazioni di privati, e non si avvalgono dei servizi
del CFC.
«Siamo pronti: aspettavamo tutti te, Kay» dice Marino tirando fuori dalla tasca un pacchetto di
sigarette. Ne prende una. «Due investigatori di Concord, un tecnico di Watertown e io. Gli altri sono
scappati tutti. Non è un bello spettacolo.»
«Lo sarà presto: stanno arrivando i federali» commenta sarcastica Lucy.
«Ho detto di non chiamarli prima che fosse arrivata la nostra dottoressa.» Fa scattare l’accendino.
«Farebbero solo confusione, adesso, e non voglio rischiare contaminazioni.»
«Non hanno bisogno che li chiami tu: se vogliono venire, vengono. Mica gli serve il tuo permesso.
Granby ha già fatto dichiarazioni ai giornalisti. E mi è sembrato di vedere un paio di agenti dell’FBI al
Minute Man Park, mentre venivamo qui. Arriveranno, vedrai. Che tu li voglia o no.» Lucy controlla di
aver chiuso il SUV. «Tempo due ore piglieranno loro il comando delle operazioni.»
«Con i giri di soldi e le porcate che abbiamo visto finora, gli dovremo servire il caso su un piatto
d’argento.» Aspira una lunga boccata di fumo. «Gli omicidi non sono niente in confronto a quello che
abbiamo trovato.»
La punta della sigaretta, che tiene fra le dita come ha sempre fatto, gli brilla nel palmo della mano.
Sento odore di tabacco bruciato. È un rito che faccio fatica a guardare.
«Sembrano illeciti gravi.» Scrolla la sigaretta con il pollice per far cadere la cenere. «E non abbiamo
controllato manco la metà di quel che c’è. Ci sono stanze chiuse con porte blindate che neanche in una
banca...»
«E non le avete ancora aperte» dice Lucy.
«Volevo toccare il meno possibile, in attesa che arrivasse lei. I cadaveri, per esempio.» Comincia a
manifestare irritazione nei confronti di Lucy. La prova da sempre e in questo momento trapela
chiaramente. «Vedrete con i vostri occhi che questi uffici sono solo una facciata, che c’è dietro qualcosa
di losco.»
«Da quand’è che abbiamo ripreso a fumare?» gli chiedo. «Credevo avessi smesso definitivamente
dopo l’ultima volta che avevi smesso definitivamente.»
«Non ricominciare.»
«Dovrei dirlo io a te.»
«Faccio due tiri e la spengo.» Soffia il fumo da un angolo della bocca mentre parla.
“Come ai vecchi tempi” non riesco a fare a meno di pensare. Quando fumavamo sulle scene del
crimine, tenendo la sigaretta fra le dita protette dai guanti, e nessuno ci faceva caso. Cosa non darei per
una boccata del mio veleno preferito. Se sapessi di avere un’ora di vita soltanto, mi accenderei una
sigaretta. Mi siederei sui gradini con Marino a bere birra e fumare come facevamo una volta per prendere
le distanze dalle tragedie.
«Quante vittime?» gli chiedo. «Mi hai parlato di tre. Ne avete trovate altre?»
Lucy e io saliamo sulla veranda, dove sono sistemati alcuni tavolini rustici e sedie a dondolo. Un
angolo per il relax che sembra scarsamente usato. Sedie e tavoli sono perfettamente allineati e bagnati di
pioggia. Ho l’impressione che i colloqui riservati alla Double S si tenessero solo a porte chiuse e
preferibilmente in locali dotati di impianto di sound masking e vetri spessi alle finestre. Non riesco a
togliermi dalla testa l’allusione di Lucy al fatto che il solarium è stato costruito nello stesso periodo in
cui il Capital Killer ha cominciato a uccidere a Washington. Un caso complicato, con la manomissione di
un profilo del DNA nel database CODIS, che potrebbe essere stata voluta da un dirigente dell’FBI che ha
minacciato un mio collega, se non più di uno.
«Vi faccio un piccolo briefing: sono un maschio e due femmine.» Marino muove la sigaretta mentre
parla, poi butta fuori il fumo. «Temevamo che ci fossero altri morti in altri locali o nelle dépendance,
visto che non siamo potuti entrare nelle stanze chiuse a chiave. È un posto grandissimo, con questi
corridoi coperti che collegano un edificio all’altro, come raggi di una ruota. Incredibile, cazzo: uno in
fila all’altro sarebbero lunghi quasi due chilometri. E ci sono dei carrelli da golf, così i ciccioni come
Dominic Lombardi non facevano neanche un passo.» Noto che ha usato il passato.
«Nessuno ha le chiavi?» domanda Lucy.
«Sì, ma non volevo toccarle prima che tu avessi finito quello che devi fare, visto che sono sotto un
cadavere, in un lago di sangue.» Lo dice a me, non a Lucy. «A quanto ho capito parlando con un paio di
lavoranti del ranch, direi che dovrebbero essere solo tre: il resto del personale risulta presente. A parte
l’assassino, ovviamente.»
«Nessuno ha visto niente, immagino.»
«Così dicono. Secondo me, sono balle.»
«Li avete identificati?» Noto che Marino è ancora vestito come quando mi è venuto a prendere
stamattina prima dell’alba.
Sento l’odore del suo stress, un odore muschiato e virile che irrancidisce se lavora ininterrottamente,
senza dormire e senza lavarsi. Fra otto o dodici ore Marino puzzerà talmente di sudore e sigarette che lo
si sentirà a dieci passi di distanza.
«Dominic Lombardi. O Dom, come si faceva chiamare, come lo champagne. Brutta annata per Dom»
dice. «E aspetta di sentire il resto.»
Si infila una mano in tasca, protetta dal guanto di lattice, la sigaretta all’angolo della bocca, un occhio
strizzato. Sfoglia un bloc-notes e lo allontana un po’ per leggere senza occhiali.
«Impronunciabile: Jadwiga Caminska, detta Ika, la sua assistente amministrativa. Il SUV bianco nel
parcheggio, che costa un sacco di quattrini, è il loro. Dom e Ika sono stati riconosciuti in via provvisoria
dagli investigatori di Concord, che adesso ti presento» mi dice. «Sono stati qui venerdì scorso, di sera,
perché Lombardi aveva chiamato la polizia segnalando la presenza di un possibile intruso nella
proprietà.»
«C’era veramente?» chiede Lucy.
«Non si sa.» Marino la guarda. «Hanno cercato dappertutto, in ogni angolo e in ogni anfratto. Nelle
registrazioni di una videocamera della scuderia appariva un’ombra. Qualcuno che sapeva come
muoversi, che stava attento a non farsi riprendere e che poi ha tagliato i cavi. I monitor si sono oscurati
mentre Lombardi era seduto alla sua scrivania, intorno a mezzanotte.» Non le toglie gli occhi di dosso.
«Lombardi era talmente grato che ha promesso una donazione di diecimila dollari alla polizia di Concord
per Natale, che ha prelevato in contanti dalla sua banca due giorni fa. Nel cassetto della scrivania c’è la
ricevuta, ma i soldi no. E alla polizia di Concord non è arrivato un centesimo.»
«È la stessa cifra ritrovata nella busta sotto il ponte nel parco» fa notare Lucy.
«Brava. Saresti un’ottima poliziotta.»
«Già fatto.» Lucy regge lo sguardo di Marino come se fossero impegnati in un duello.
«Quindi l’assassino probabilmente ha rubato quelli e tutti gli altri soldi su cui è riuscito a mettere le
mani.»
«Mi sembra una deduzione sensata.» Lucy incrocia le braccia, fissandolo, sfidandolo a chiederle cosa
ha fatto.
Marino spegne la sigaretta contro una delle colonne di pietra, spargendo cenere e scintille per terra, si
mette il mozzicone in tasca e butta fuori l’ultima boccata di fumo. Lucy non sarà mai stata invitata alla
Double S, ma questo non significa che non ci sia mai stata.
«Suppongo che l’intruso non sia stato preso» dice Lucy.
Marino la fulmina con un’occhiata. «Se hai fatto quello che penso, dimmi perché l’hai fatto» le intima
a voce alta.
«Posso dirti perché qualcuno avrebbe potuto farlo» gli risponde lei. «Se una persona volesse fare un
giro per vedere che cosa succede, dovrebbe mettere fuori uso le videocamere. Quelle lungo il viale si
possono evitare, ma una volta superata la scuderia è impossibile non farsi riprendere, a meno di
attraversare il laghetto a nuoto.»
«Arrivano due investigatori e l’intruso è ancora nella proprietà?» Marino sta perdendo la pazienza.
Quasi grida.
«Guarderebbero nella scuderia, dove stanno i loro preziosissimi purosangue. Poi controllerebbero che
tutto sia chiuso, per accertarsi che non ci siano problemi. A quel punto, concluderebbero che non c’è
pericolo.»
«Perché una persona dovrebbe voler vedere che cosa succede qua dentro?» Marino non è più
arrabbiato e aggressivo, ma incredulo.
«Forse non tanto cosa succedeva, ma chi c’era. Con chi si accompagnava il boss.»
«Ed è stato chiarito?» Marino non si capacita.
«Chiedilo ai due investigatori.» Lucy indica l’interno della casa. «Quando sono arrivati, ventitré
minuti dopo che Lombardi ha chiamato il 911, Gail se n’era già andata da un pezzo.»
«Gesù, avresti anche potuto dirmelo prima!» sbotta Marino, frustrato. «Gail Shipton era qui venerdì
sera e adesso è stata ammazzata... e tu me lo racconti così, en passant?»
«Sapevo da parecchio che era collusa con il nemico, che era coinvolta in una truffa assicurativa e
chissà cos’altro» dice Lucy. «Cercavo una risposta dimostrabile.»
«Era d’accordo con il tipo che aveva portato in tribunale?» esclama Marino disgustato.
«Non perché volesse» replica Lucy. «Aveva bisogno di soldi.»
35
«Dicevi che sono tre.» Sollecito Marino, perché sono impegnanta e non ho tempo di fare ulteriori
domande a Lucy. Forse non ho neanche più voglia di sentir parlare delle malefatte commesse da Gail
Shipton e dei provvedimenti che prenderà Carin Hegel quando lo verrà a sapere. La controversia, in ogni
caso, è andata a farsi benedire, Lucy ha ragione. È una truffa, un ammasso di bugie. La Double S prima ha
messo finanziariamente alle strette Gail Shipton e poi ha fatto leva sulla sua disperazione. Gail era in una
posizione di debolezza estrema sotto diversi punti di vista, deteriorata in maniera forse irrimediabile. E
non solo per il difetto cardiaco.
«Della terza vittima non so assolutamente nulla» dichiara Marino. «Era in cucina quando è stata
aggredita. Può darsi che stesse aprendo il frigorifero o un armadietto. La vedrai fra poco.»
«I dipendenti non sanno chi sia?» Mi sembra inverosimile.
«Dicono che Lombardi è andato a prendere una persona alla stazione ferroviaria di Concord,
stamattina, ma che non sanno chi sia. Lombardi ha preso il suo Navigator bianco, è andato a Concord ed è
tornato con questa signora, che sfortunatamente si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Probabilmente è una balla, ma dicono tutti così.»
«Perché dovrebbero mentire?» chiede Lucy.
«Perché sono abituati a mentire su tutto quello che succede qui dentro» risponde Marino. «Gli altri
due sono morti sul colpo, ma lei no. La prima coltellata non è andata a segno, forse perché si è voltata
sentendo arrivare l’assassino. Che quindi ha dovuto finirla in un secondo tempo.» Muove per aria un
coltello immaginario. «Ha fatto uno o due passi e si è accasciata nel punto in cui è ancora adesso, dietro
il bancone della cucina.»
«Avete trovato l’arma?» Lucy va in fondo alla veranda e scruta il soffitto e gli alberi alla ricerca di
videocamere.
«No.» Marino la guarda con occhi diversi.
«E il tipo con il cappuccio non aveva armi con sé quando è stato visto correre nel parco» dichiara
Lucy.
«No. Non sembra che Haley Swanson fosse armato. Perché è di lui che parliamo.»
«Solo perché aveva indosso una felpa con la faccia di Marilyn Monroe? O hai altri elementi per
affermare che era lui?» dice Lucy.
«È una felpa molto particolare e Swanson la indossava stamattina quando è stato interrogato dalla
polizia dopo essere stato beccato vicino a casa di tua zia. Basta fare due più due, ti pare?»
«No, non mi pare» ribatte Lucy.
«Forse Swanson curava le PR per questi signori.»
«E siccome curava le PR ha ammazzato Gail e spiato mia zia?» ribatte Lucy. «Secondo te è lui il
responsabile di tutto?»
Marino non risponde, ma dal modo in cui la guarda capisco che, suo malgrado, prova grande
ammirazione per lei e ha smesso di desiderare che si tolga dalle scatole. Anzi, sta cercando il modo
migliore per utilizzarla.
«I cadaveri non sono stati toccati? Né quello in cucina né gli altri due?» domando.
«Riprese, foto e stop. Ho fatto in modo che stessero tutti alla larga. Ma non riusciremo a tenere alla
larga anche i federali. Non per molto.»
«Né per molto né per poco» puntualizza Lucy.
«Ti conviene fare il fieno finché splende il sole» sentenzia Marino, esortandomi a cominciare.
«Nessuno ha idea di chi possa essere la signora in cucina?» Mi pare poco plausibile.
«Non abbiamo lasciato entrare nessuno, quindi nessuno l’ha vista. Accesso riservato solo al personale
autorizzato. In altre parole, polizia e basta.»
Si appoggia allo stipite della porta e guarda distrattamente la mano protetta dal guanto e la macchia
giallastra di nicotina che cerca di fregar via con il pollice. Deve aver fumato un bel po’: chissà quanti
mozziconi ha in tasca. E meno male che non li ha sparsi qua e là per la scena del crimine.
«Non potevamo rischiare che un inserviente o chi per lui entrasse, lasciasse in giro il suo DNA
toccando questo o quello e magari vomitasse pure.»
«Il DNA dei dipendenti sarà un po’ dappertutto» gli fa notare Lucy.
«Non voglio neanche andare dal personale con foto di cadaveri mezzo decapitati per vedere se li
riconoscono» insiste Marino.
«Però hai verificato con loro chi avrebbe dovuto essere presente» ribatte Lucy.
«Gesù! La smettete di starmi con il fiato sul collo, voi due?»
«Io so chi lavora qui» dice Lucy, in un tono tranquillo da cui si capisce che non ce l’ha con lui.
«Nomi, età, indirizzi. So un sacco di cose a proposito di questi farabutti, più di quante vorrei. Descrivimi
la vittima che non avete ancora identificato.»
«Alta più o meno come te, stessa età: fra i trenta e i trentacinque, direi. Non sono sicurissimo, visto
che ha la testa quasi completamente staccata dal collo. Capelli scuri, tagliati corti. Bianca. Magrissima.
Mi sa che faceva un sacco di sport. E mi sa anche che aveva un caratteraccio e che non le piacevano gli
uomini.»
Lucy non batte ciglio. «Non c’è nessuno che corrisponda a questa descrizione alla Double S. Sono tutti
più vecchi. Gli stallieri e il guardiano hanno quarantaquattro, cinquantadue e sessant’anni,
rispettivamente, e sono nati in Texas, Arizona e Nevada. Lo chef, francese, ha quarantanove anni. La
governante sudamericana ne ha quarantatré e dice di parlare poco l’inglese. Due soci sono americani e
due britannici e hanno superato tutti i quaranta. Poi c’erano Lombardi e la Caminska, che si vocifera
fossero legati da qualcosa di più di un semplice rapporto professionale. E, sì, lui la chiamava Ika.»
Pronuncia il nome in maniera corretta, non come ha fatto prima Marino.
«L’assassino è entrato in casa dal punto dove siete voi, dalle colonne, è salito sulla veranda e ha
aperto questa porta» dice Marino, che non dà più per scontato che l’assassino sia Haley Swanson.
«Come ha fatto ad aprirla?» Lucy indica la serratura biometrica di nichel satinato e si infila un paio di
guanti.
«Fino a due ore fa il tempo era bello: può darsi che avessero lasciato il portone aperto e chiuso solo
questa.» Spalanca la controporta, che si apre semplicemente schiacciando un pulsante. È possibile che fra
quelli della Double S e l’assassino ci fosse solo quella protezione?
«Chi ti ha detto che lasciavano il portone aperto?» Lucy non ne è affatto convinta. La guardo e ripenso
a quando le indagini erano il suo mestiere.
È stata nell’FBI prima e nell’ATF poi ed era talmente brava che si sono liberati di lei appena hanno
potuto. Forse è nel nostro DNA: non possiamo lavorare alle dipendenze di nessuno, siamo lupi solitari,
dobbiamo comandare noi e infilarci in situazioni pericolose.
«Mi hanno detto che potrebbe essere una spiegazione» risponde Marino. «Uno degli inservienti con
cui ho parlato sostiene che nelle belle giornate l’ha visto aperto, specie se c’era un sacco di gente che
doveva entrare e uscire.»
«È una balla» dichiara Lucy. «Sanno chi è stato.»
«Meno male che ci sei tu. Così io posso tornarmene a casa e non pensarci più.»
«Se i quattro titolari erano fuori città, chi è che sarebbe dovuto entrare e uscire?» ribatte Lucy. «A
parte il fatto che stamattina non faceva tutto ’sto caldo, se anche c’era il sole.»
«Ci sono una porta sul retro e una nel seminterrato, tutt’e due chiuse a chiave e con una serratura di
sicurezza. Quindi è entrato da qui, esattamente come voi» ribadisce Marino. «Non possiamo escludere
che la serratura riconoscesse anche la sua impronta, che avesse diritto di entrare. Insomma, che fosse una
persona conosciuta.»
«Sarebbe bellissimo se avessimo la sua impronta. Hai ragione» dice Lucy. «Puoi tornartene a casa e
non pensarci più.»
Marino trattiene a stento un sorriso. Si sforza talmente di fare il severo che rasenta il ridicolo.
«Data l’attenzione alla sicurezza che dimostrano, stento a credere che lasciassero aperto il portone.»
Sono d’accordo con Lucy.
«Non esiste» ribadisce lei. «Hai controllato i filmati delle videocamere?»
«Macché: sono scemo» è la risposta di Marino.
L’open space ha quattro postazioni di lavoro una in fila all’altra, costituite da una console a ferro di
cavallo con scrivania e cassetti incorporati.
Ogni postazione ha un telefono multilinea e un certo numero di schermi. Dobbiamo credere che questi
esperti di finanza monitorassero costantemente investimenti e mercati azionari. Non vedo fogli di carta,
matite, penne o segni del fatto che chi lavora qui abbia anche una vita al di fuori della Double S.
L’impressione è di un’azienda trasparente, di un clima di aperta collaborazione, e nello stesso tempo ho
la sensazione che sia tutta una finta, come se invece che un ufficio questo fosse un set o uno showroom.
Non percepisco niente di vitale, come se chi lavorava qui fosse già morto prima di venire ucciso.
In fondo a destra c’è una scala a sbalzo in metallo, tenuta su da cavi d’acciaio, vicino a una parete di
mattoni a cui sono appese stampe di arte moderna; di fronte, c’è un mobile a muro di frassino. È un
ambiente maschile, freddo e privo di creatività, grande almeno trecentocinquanta metri quadri. Vicino c’è
una stanza che non vedo, ma dalla cui porta di acciaio, tenuta aperta da un fermaporta magnetico, sento
uscire delle voci. Sono i due investigatori di Concord e la stanza dev’essere lo studio privato del CEO,
nell’ala sinistra dell’edificio, in cui hanno trovato la morte Lombardi e la sua assistente.
Dietro l’open space c’è una cucina arredata con mobili di un legno rosso scuro che mi sembra bois de
rose, che di solito viene usato per gli strumenti musicali. Dal punto in cui mi trovo, vedo un paio di
pantaloni scuri insanguinati, con le tasche rivoltate e la fodera bianca in vista, e scarpe da ginnastica
intrise di sangue. È la vittima che non è ancora stata identificata. Il suo sangue sta coagulando sul parquet,
dietro una scultura in legno zebra nell’angolo bianco a sinistra di un bancone di granito che mi impedisce
di vedere il resto della stanza. Chiedo a Marino informazioni sulle tasche.
«Non avete trovato niente che ci aiuti a identificare il cadavere? Ci avete guardato?»
«Erano così come sono adesso: rovesciate. Ricordati che ha preso portafogli, documenti e soldi.»
«Si è portato via tutto quello che è riuscito a rubare e, scappando, ha buttato i portafogli nel laghetto,
probabilmente.» Lucy fa un paio di passi nella stanza. «Il posto perfetto per liberarsi di qualcosa. Se vai
verso il bosco a piedi, te lo trovi davanti passata la scuderia.»
Osservo le postazioni di lavoro con le poltroncine ergonomiche in ordine, senza alcun segno di
violenza, e mi colpisce nuovamente la sensazione di vuoto che emana quest’ufficio. Come mai di
mercoledì mattina c’erano solo tre persone oltre al killer?
«Il DVR è sparito» dice Marino a Lucy, con una certa riluttanza. Forse gli dà fastidio ammettere che
aveva ragione lei.
«Secondo punto a favore dell’assenza di premeditazione» replica Lucy.
«Doveva sapere cosa cercare e dove cercarlo.» Marino si asciuga il sudore con un lembo della
camicia. Ha sempre caldo e adesso è anche iperteso, perché fa il poliziotto e ha ripreso a fumare.
«Non mi sembra tanto difficile» osserva Lucy.
Stiamo parlando nell’ingresso davanti all’agente che lavora al laser scanner, circondato da valigette
rigide aperte. Il caricatore è collegato a una presa nel muro, ma l’agente e lo scanner sono in modalità di
attesa. L’agente non ci guarda, forse perché non vuole fare la figura di quello che ascolta le conversazioni
altrui.
«Di là c’è un armadio con tutti i componenti per sound surround, server e reti wireless, impianto
telefonico e di videosorveglianza.» Marino va ai piedi della scala a prendere la mia valigetta.
«Il server.» Lucy è come un serpente che aspetta al varco una lucertola e colpisce. «Il server della
Double S. Adesso sì che ci siamo.»
Si avvicina alle scrivanie contro il muro, che sono quattro, in fila. Sposta una seggiola con il
ginocchio e prende il telefono.
«Devi comunque sapere dove tengono il DVR.» Marino mi porge la valigetta. «Uno non ci pensa, se
non è esperto di videosorveglianza.»
«Non ci vuole una laurea, mi sembra. E l’assassino poteva essere già stato qui. Dobbiamo portare il
server nel mio laboratorio.» Guarda il display del telefono e preme un tasto. «Firmo una ricevuta ai
colleghi di Concord e me lo porto via.»
Si avvicina a tutte le scrivanie e controlla anche gli altri telefoni. Poi torna dal primo e alza di nuovo
la cornetta.
«Vuoi prenderti un appunto?» dice a Marino. «Nessuno di questi telefoni ha effettuato chiamate esterne
da venerdì scorso, come se qui non fosse più venuto nessuno a lavorare. A parte questo.» Indica il
telefono che tiene in mano e gli detta un numero. «Lambant & Associates» legge sul display.
«Che cosa?» Marino si avvicina a guardare. «Ma che sorpresa! Dunque ho ragione io: Haley Swanson
è stato qui e ha chiamato il suo ufficio.»
«Qualcuno ha chiamato il suo ufficio, sì» dice Lucy. «È stata effettuata una chiamata a quel numero da
questo telefono stamattina alle nove e cinquantasei, della durata di ventisette minuti. Se il tipo che
correva nel parco è stato visto verso le undici, chi ha fatto questa telefonata ha riagganciato più o meno
nel momento in cui è avvenuta la strage.»
«Sappiamo chi è, quello con la felpa di Marilyn Monroe con il cappuccio, e ora sappiamo che è stato
qui e ha usato questo telefono.» Marino sembra aver capito tutto. «Haley Swanson.» È di nuovo convinto.
«Lambant è lo studio che si occupa di gestione delle crisi in cui lavora l’amica barra amico di Gail
Shipton» dichiara.
Lucy lo guarda in silenzio.
«Se ne può dedurre che lo studio Lambant gestiva le PR della Double S» dico. «Forse era Swanson
quello che Lombardi è andato a prendere alla stazione stamattina.»
«Esatto» replica Marino.
«Immagino sappiamo come ha fatto Gail a conoscerlo, comunque, visto che avevano entrambi a che
fare con la Double S» osserva Lucy in tono assolutamente piatto. «Hai scoperto con chi era allo Psi Bar
ieri pomeriggio?»
«Parlava con qualcuno che non frequenta normalmente il locale, che potrebbe essere Swanson, visto
che è stato lui a denunciarne la scomparsa. C’era un sacco di gente e Gail era al banco in mezzo a
tantissime persone: questo hanno dichiarato baristi e camerieri e più di così non credo scopriremo.»
«Perché uno decide di venire in treno invece che in macchina?» chiedo. «Se si occupa di pubbliche
relazioni, per giunta?»
«Haley Swanson» dice Lucy dubbiosa. «E immagino concluderemo che dopo un’ora, un’ora e mezzo,
ha fatto una strage ed è scappato di corsa.»
«Tu non devi concludere niente» ribatte Marino, sgarbato.
«Qualche ora fa era a bordo di un SUV Audi, ci hanno detto» gli ricordo.
«Che stiamo cercando. Non è vicino a casa sua, a Somerville, e nemmeno vicino al suo ufficio a
Boston» dice Marino. «I suoi colleghi dello studio non hanno visto né lui né il SUV, oggi. Però li ha
chiamati.»
«Da qui» dice Lucy. «Qualcuno li ha chiamati da qui.»
«Perché Swanson non è venuto in macchina?» ripeto.
«Quando lo becchiamo, glielo chiederemo. Insieme a un sacco di altre cose. Secondo me, non voleva
che qualcuno vedesse il suo SUV davanti alla Double S perché aveva già in mente di uccidere» dice
Marino. «Se vuoi commettere un omicidio, non prendi la tua macchina.»
«Non sono d’accordo» replica Lucy. «Non sembra proprio che ci sia premeditazione.»
«Nessuno ha chiesto la tua opinione» le dice Marino, ancora più sgarbato.
Lucy non si lascia intimidire dalla maleducazione di Marino. Sembra non farci neanche caso.
«Qualcuno è andato a parlare con lo zio di Swanson?» domando.
«Ho mandato Machado, ma non l’ho ancora sentito.»
Lucy abbassa la cerniera della tuta bianca e si sfila i guanti, come se avesse caldo o le fosse venuto in
mente qualcosa di importante da fare.
«Devo portare via di qui il server» dice a Marino. «Finché è possibile farlo.»
«Ti ho sentito.» Marino sa cosa ha in mente Lucy ed è combattuto, come è combattuto per il telefono di
Gail Shipton.
Vorrebbe l’aiuto di Lucy e al tempo stesso lo teme. Sa che se l’ FBI metterà le mani sul server prima di
noi non ne sapremo più niente. Granby indirà una conferenza stampa e parlerà di cooperazione e sinergie
fra agenzie federali e locali e impegno congiunto per la risoluzione del caso, ma la realtà è che quando
tutte le prove finiscono nei laboratori di Quantico e il responsabile dell’inchiesta è il ministro della
Giustizia, la collaborazione non esiste.
Questo nella migliore delle ipotesi. Marino non è al corrente della manomissione delle prove, non sa
di Gabriela Lagos e di suo figlio Martin, che è scomparso da anni ma risulta aver lasciato una macchia
sugli slip dell’ultima vittima del Capital Killer. Non sa che ci verranno messi i bastoni fra le ruote, che
se vogliamo seguire questo caso dobbiamo essere spietatamente proattivi. Decido di dare la colpa ai
media, che Marino è sempre pronto a vedere come un ostacolo da evitare.
«Dipende dall’entità della cosa. Se il caso fa scalpore, succede come nel Connecticut. Giornalisti e
televisioni dappertutto, che non ti lasciano fare il tuo lavoro.» Lo guardo e vedo che ha capito.
«Sicuro» dice.
«Hai parlato con Benton?»
«Brevemente.»
«Allora sai cosa succederà» insisto. «Ha dovuto rivelare certe informazioni a Granby, che adesso
rilascia dichiarazioni alla stampa.»
«Fasulle» dice Lucy. «I federali hanno deciso che il caso è loro e stanno venendo qui.»
«Evviva! Sta arrivando Babbo Natale» esclama Marino arrabbiato. «Sento già il rumore della slitta.
Atterrerà sul tetto da un momento all’altro, cazzarola. Quanto mi girano i coglioni... Perché non possiamo
fare il nostro lavoro, proteggere i cittadini, come siamo pagati per fare?»
«Vent’anni fa dicevi le stesse cose» gli faccio notare.
«Non è migliorato niente.»
«Non abbiamo molto tempo: fra un po’ arrivano.» Torno a bomba sulla questione più importante.
«Se ti porti via il DVR, è perché ti è sfuggita di mano la situazione. A meno che tu non sia deficiente»
sottolinea Lucy. «Vieni qui tranquillo, le videocamere ti riprendono ma a te non interessa perché sei
venuto per un motivo legittimo, non per fare una strage. Poi però scoppia un casino e allora cerchi di
rimediare andando a cercare il DVR, perché ormai è troppo tardi per tagliare i cavi delle videocamere.»
«Sì, potrebbe essere andata così» ammette Marino con irritazione. «Ma per cercare un DVR devi prima
sapere cos’è.»
«L’avrà buttato chissà dove. Non credo abbia corso nel parco con un videoregistratore sotto l’ascella.
E neanche che lo abbia gettato nel bosco, dove avremmo potuto recuperarlo. Vuoi mandare i sub a
controllare il fondo del laghetto?»
«Se è finito nel lago, non funziona più.» Marino fa finta di essere oppositivo, ma è d’accordo con lei.
Siamo tutti e tre dalla stessa parte, come sempre.
«Non so cosa si potrebbe recuperare» dice Lucy. «Dipende dalla marca, dal modello, dalla protezione
dei dati registrati nella memoria digitale. Vorrei tanto sapere se video e audio venivano trasferiti in rete a
un computer da qualche altra parte della tenuta per il monitoraggio da remoto. Se c’era qualcuno a
controllare, potrebbe aver visto cos’è successo.»
«Non ho fatto in tempo a guardare dappertutto.» Marino distoglie lo sguardo da Lucy: gli dispiace
provare quello che prova nei suoi confronti e pensa di riuscire a nasconderlo. Ma non ci riesce. Non con
noi.
«La scuderia, le camere da letto, le dépendance» dice Lucy.
«Ovunque ci possano essere computer, portatili o iPad. Qualcuno potrebbe aver visto qualcosa che
non ti ha detto.» Sta cercando di essere diplomatica. «Ti spiace se controllo?»
«Non toccare niente» replica Marino.
«E mi porto via il server.»
«Stai lontana da quell’armadio di là e non toccare niente.»
«Chi si fa carico di evitare una cancellazione di dati a distanza, magari da New York, Grand Cayman
o da chissà dove in questo preciso momento?»
«L’esperta di cancellazione a distanza sei tu.»
«Chi è in grado di superare i vari livelli di sicurezza? Vuoi chiedere la password dell’amministratore
di sistema? Magari qualcuno te la dice.»
«Non ti ho chiesto consigli.»
«Buon Natale, Marino. Fra poco scenderà dal camino l’FBI» dice Lucy. «Dallo a loro, quel server, e
vedrai che forse prima che tu vada in pensione ti diranno che cosa c’era dentro. Forse.»
Va verso il portone. Sento i suoi passi leggeri sulla veranda e sugli scalini, poi silenzio.
«Dovresti andare adesso, sai?» dico a Marino sottovoce. «Anche Benton te lo raccomanderebbe,
penso.» Sto attenta a come parlo, visto che abbiamo gente intorno, ma dal modo in cui lo guardo Marino
capisce che c’è un problema, e che è molto più grave di quanto lui immagini.
«Gesù.» È paonazzo. Guarda l’agente al laser scanner dall’altra parte della stanza.
Se ci sta sentendo, non lo dà a vedere. Ma nessun poliziotto all’interno del NEMLEC farebbe una
soffiata all’FBI.
«Lucy sa quello che fa. Anch’io lo so. E tu stai per venire a sapere un sacco di cose.» Reggo il suo
sguardo: non sa a cosa mi riferisco, ma sa che è una cosa grossa.
«’Sti cazzi» impreca. Prende il telefono e fa una chiamata. «Fai quello che devi» dice, non appena
Lucy risponde. «Non spostare niente e non dire niente a nessuno. Prendilo e portalo al CFC prima che puoi
e sta’ attenta a non combinare casini. Mi fido di te. Capito?» Chiude la comunicazione e si volta verso di
me. «Adesso ti accompagno e ti faccio vedere com’è andata secondo me.»
«Dopo.» Mi sistemo i copriscarpe. «Prima voglio che me lo dicano le vittime.»
36
Voglio rimanere sola con i morti e sola con i miei pensieri.
Vado verso l’agente che si occupa della stazione totale, fissata su un robusto cavalletto giallo. Sta
riponendo un computer portatile e un cavo Ethernet. Il sistema è in pausa e lo specchio oscillante e il
fascio laser sono immobili, silenziosi.
«Ha già fatto qui?» chiedo. Indico la cucina verso cui mi sto dirigendo, presumendo che abbia già
eseguito i rilievi topografici e fotografici.
«Piacere di vederla, dottoressa Scarpetta. Sono Randall Taylor, polizia di Watertown.»
Ha la faccia larga, stanca, i capelli radi brizzolati e pettinati all’indietro, gli occhiali da presbite sulla
punta del naso. In tenuta da campo – pantaloni militari azzurri e camicia coordinata con le maniche
rimboccate – mi sembra un vecchio guerriero che ha imparato modi nuovi per fare il suo lavoro, ma non
ne ha più voglia. I poliziotti, anche i più grintosi, si usurano come pietre di fiume. Taylor mi fa pensare a
qualcosa di liscio, levigato, molto diverso da Marino, che si difende dalle aggressioni come un riccio di
mare o un cespuglio di rovi.
«Non credo che si ricordi di me» mi dice. «Ci siamo conosciuti l’anno scorso alla cena per il
pensionamento del capo della polizia.»
«Spero che il suo ex capo si stia godendo un po’ di tranquillità.»
«Si sono trasferiti in Florida.»
«Dove? Io sono cresciuta a Miami.»
«A nord di West Palm, Vero Beach. Sto cercando di farmi invitare. Di qui a gennaio, penso che lo
implorerò.»
«Che cosa ha fatto finora?» chiedo.
«Ho eseguito una serie di rilievi che combinerò con le misure punti-superfici, un calcolo delle linee di
visuale e un’analisi della traiettoria delle macchie di sangue» spiega Taylor. «In pratica, quindi, di ogni
scena avremo una ricostruzione 3D volumetrica, che le farò avere appena tornerò in ufficio.»
«Sarebbe molto utile, grazie.»
«Ho fatto prima l’altra stanza e qui ho quasi finito.»
«Le do fastidio?» domando.
«Ci sono quasi, ma volevo essere sicuro che non le servisse altro.»
«Farà anche lo stringing?»
Voglio sapere se usa il buon vecchio metodo, simile alla triangolazione, che consiste nel ricostruire la
traiettoria degli spruzzi di sangue tendendo dei nastri per determinare il punto di convergenza. È un
metodo matematico affidabile che permette di ricostruire la posizione di vittima e aggressore nel
momento in cui sono state inflitte le ferite.
«Per ora, no. Con questo non ce n’è più bisogno» risponde toccando il laser scanner con la mano
protetta dal guanto.
È un’affermazione opinabile, ma mi astengo dal farglielo notare.
«Schizzi di sangue chiaramente arterioso, con un punto di origine abbastanza evidente» continua. «La
vittima qui in cucina era in piedi, le altre due erano sedute. Non sono scene complicate, a parte che non si
capisce come abbia fatto una sola persona a ucciderne tre in questo modo. Dev’essere successo tutto
molto in fretta. Possibile che nessuno abbia sentito niente, però?»
«Con la trachea recisa, la vittima non può gridare. Non può emettere suono.»
«I due di là...» Indica la porta di metallo aperta. «Morti alla scrivania, così.» Fa schioccare le dita
coperte dai guanti azzurri, che producono un suono attutito, gommoso. «Sono stato attento a non toccare i
cadaveri e a non avvicinarmi troppo, in attesa che arrivasse lei. Sono esattamente come li abbiamo
trovati.»
«A che ora?»
«Non sono stato io il primo a intervenire, ma a quanto mi risulta...» Taylor solleva il braccio sinistro e
guarda l’orologio. «Quelli di Concord saranno arrivati circa due ore fa, in seguito al ritrovamento nel
parco della busta piena di soldi, che secondo me veniva dal cassetto della scrivania di Lombardi. Vedrà
che hanno frugato dappertutto e che in uno dei cassetti c’è la ricevuta di un prelievo di diecimila dollari
fatto due giorni fa, lunedì. Forse il movente è la rapina, ma condivido quel che le ho sentito dire poco fa.
Chiunque sia stato, non è venuto qui per fare una strage. È andato storto qualcosa.»
«Ma in tutta la tenuta nessuno sa cos’è successo.» Non riesco a capacitarmene.
«Noi due siamo sulla stessa lunghezza d’onda.» Sceglie l’opzione spegnimento su un menu del laser
scanner. «Suppongo che non vogliano grane. Aspettavano tutti che si muovesse qualcun altro.»
«Perché dice questo?»
«Dovunque guardi, ci sono monitor e video.» Va verso una presa nel muro e stacca il caricabatteria.
«Vuole dirmi che nessuno lo ha visto scappare? Che nessuno ha fatto almeno una telefonata per sentire
che cos’era successo, se andava tutto bene? Mi sembra stranissimo. Fortuna che sono arrivati quelli di
Concord e hanno trovato i cadaveri. Ma se non fossero venuti? Lo avrebbero chiamato il 911?»
«Sembra incompatibile con la natura umana vedere uno che fugge e voltarsi dall’altra parte, sono
d’accordo.» Non mi sbilancio.
Ho imparato a mie spese a essere prudente nel manifestare le mie opinioni, che tendono a venire poi
riferite come se fossero vangelo.
«Questo posto non mi piace.» Taylor allenta alcune viti, stacca il laser scanner dal cavalletto e lo
ripone nella valigia antiurto. «C’è troppo silenzio, è troppo tranquillo. Nessuno vede o sente niente: è
tipico delle aziende che sono solo una copertura e dei quartieri dove tutti hanno qualcosa da nascondere.»
Mi tiro su il cappuccio bianco sintetico per proteggermi i capelli, cerco un punto vicino alla cucina
dove posare la mia valigetta ed entro facendo attenzione a dove metto i piedi. Ci sono gocce, schizzi e
tracce da strisciamento, sangue scuro e secco sugli elettrodomestici, sui mobili, sul pavimento. La morta
è tra il frigorifero e il bancone in mezzo a una chiazza scura, stagnante, più spessa al centro e frastagliata
ai margini. Sento odore di sangue in decomposizione e di caffè bruciato.
È stesa sul dorso. Ha le gambe allungate e le braccia piegate all’altezza della vita. Capisco subito che
non è morta in quella posizione.
La osservo a lungo, attentamente, cercando di mettere da parte tutti gli altri pensieri e di lasciare che mi
racconti la sua verità, che nessun altro conosce.
Percepisco nettamente l’odore intenso del sangue. Nei punti in cui è coagulato e quasi secco, è rosso
scuro, quasi marrone, viscoso, appiccicoso. Non mi parla di una persona che barcolla mentre si
dissangua e alla fine stramazza a terra. L’assassino le ha frugato nelle tasche, lasciandole rovesciate
all’infuori. Ma non ha fatto solo questo. Apro la valigetta, tiro fuori un pennarello indelebile e un foglio
di etichette adesive, scrivo su una la data e le mie iniziali e la applico a un righello di plastica che userò
come scala di riferimento. Poi prendo la macchina fotografica.
È una donna alta, più di uno e settanta, con lineamenti delicati, zigomi alti e mascella decisa. Capelli
scuri corti e tanti piercing alle orecchie. Gli occhi sono socchiusi, di un azzurro intenso, ormai quasi
opachi. Le iridi sbiadiranno e si offuscheranno a mano a mano che la morte opererà le sue trasformazioni,
un gelido irrigidimento che sulle prime può sembrare una forma di indignata resistenza seguito da
un’escalation distruttiva, una resa disperata della carne.
Le ferite al collo sono profonde, beanti, e sui pantaloni blu scuri e sulle scarpe da ginnastica bianche,
di pelle, ci sono gocce di sangue di forma allungata e altre di forma rotonda, perché sono cadute da
angolazioni diverse. Non mi sorprende che i palmi delle mani siano insanguinati. È normale quando viene
recisa la carotide. All’altezza della terza falange dell’indice sinistro c’è un taglio che ha quasi troncato
l’articolazione. La immagino che si porta le mani alla gola per fermare l’emorragia. Ma questo era
impossibile e, mentre aveva le mani sollevate, l’assassino l’ha aggredita di nuovo tagliandole quasi
completamente la punta del dito.
La cosa che non quadra per niente è che il pile verde Kelly con i bottoni che indossa è intriso di
sangue nella parte posteriore, soprattutto sul collo, mentre davanti è pulito. Sembra che nella parte
anteriore non sia caduta una sola goccia di sangue, tranne qualche macchia intorno ai bottoni. La parte
interna della manica destra, invece, è zuppa di sangue dal polso quasi fino al gomito. Non dovrebbe
esserlo, se avesse avuto il pile addosso quando è stata sgozzata, in piedi.
Osservo la chiazza di sangue semicoagulato che da sotto il cadavere si allarga per quasi un metro e
mezzo e ne deduco che sia morta dissanguata qui, in questo punto della stanza. Ma non in questa
posizione. Qualcuno ha spostato il cadavere. Scatto varie foto per documentare la posizione esatta in cui
si trova. Poi le sollevo le braccia ed esamino le mani, che sono grandi, robuste. Ha un anello d’argento
con ametista, stile dark, al medio della destra e un braccialetto di pelle nera intrecciata al polso destro. Il
rigor è già cominciato nei muscoli più piccoli e la temperatura del corpo è bassa, perché era magra e ha
perso quasi tutto il sangue.
Le ferite alla gola sono due. La prima parte da sotto l’orecchio sinistro e continua per sette o otto
centimetri lungo la mandibola, visibile in mezzo ai tessuti sanguinolenti che stanno cominciando ad
asciugare. Accanto al taglio c’è uno strano solco, largo e poco profondo, con i margini abrasi; in alcuni
punti la pelle è sollevata e arricciata, come un truciolo di legno. Non ho mai visto nulla di simile. Corre
parallelo al primo taglio dall’inizio fino alla fine, come una pista sterrata lungo una strada asfaltata. Non
ho idea di cosa possa averlo procurato. L’arma del delitto deve avere una forma inconsueta, oppure la
punta storta.
La seconda ferita è quella che ha provocato la morte, rapidamente, ed è un taglio netto, accompagnato
anch’esso da uno strano solco parallelo poco profondo. Entrambi partono dal lato destro del collo. Il
punto più profondo è sotto la mandibola destra, dove una lama robusta e affilata è stata conficcata nella
carne, e continua sul piano orizzontale dove sono stati recisi in un colpo solo carotide, muscoli
sottoioidei e trachea, fino ad arrivare alle vertebre cervicali. Mi rialzo in piedi.
Osservo centimetro per centimetro la cucina, con i due piani di lavoro in granito l’uno di fronte
all’altro, uno vicino all’ingresso e l’altro con i fornelli e il frigorifero in mezzo. Noto una scatola bianca
di cartone con il logo di un negozio di alimentari di Main Street, nel centro di Concord: dentro ci sono
due cupcake che sembrano freschi e che profumano di caffè e cioccolato. Forse li ha comprati Lombardi
mentre andava alla stazione a prendere il suo ospite. Penso ai tre o quattro pirottini vuoti e al tovagliolo
usato sul tavolo del solarium e mi domando se una sola persona abbia mangiato tutti quei cupcake. Se sì,
ha ingurgitato una bella dose di zuccheri.
Vicino alla scatola c’è una macchina per il caffè in acciaio, una di quelle con il serbatoio invece della
caraffa. Sollevo il coperchio e sento l’odore del caffè forte, amaro. Il filtro dorato non è stato svuotato.
Controllo il livello dell’acqua: basterebbe per preparare ancora quattro tazze. Penso alle due sul tavolo
del solarium, dove è possibile parlare in privato, senza essere spiati né sentiti per caso.
Mi guardo intorno e non vedo tazze da caffè sulle scrivanie né nel lavello. Apro la lavastoviglie:
vuota, a parte un cucchiaio. Provo ad aprire i cassetti e scopro che alcuni sono finti e altri vuoti. In uno ci
sono strofinacci piegati, nuovi e puliti, e in un altro un servizio di posate per quattro persone. Non vedo
coltelli affilati. Controllo il compattatore di rifiuti e vedo che dentro non c’è nemmeno un sacchetto.
Nei mobiletti con le ante di vetro sopra la lavastoviglie ci sono pile di piatti di semplice porcellana
bianca, un servizio per quattro, e altre tazze come quelle del solarium. Mi accosto al frigorifero,
tenendomi alla larga dal sangue vicino alla maniglia e sul pavimento, e lo apro. C’è del sangue sul bordo
interno dello sportello, che ha sporcato anche la guarnizione.
Latte, latte di soia, bottiglie di acqua sia gasata sia naturale e un contenitore di polistirolo di un takeaway. Sollevo il coperchio. Dentro c’è un avanzo di kebab fasciato nella carta oleata. Non sembra
fresco, potrebbe risalire a molti giorni fa. Nella porta del frigorifero ci sono salse e condimenti per
insalata a basso contenuto di grassi e nello scomparto freezer cubetti di ghiaccio che mi sembrano vecchi
e una confezione di chili con carne con la data del 10 ottobre.
La vittima è entrata in cucina per un motivo, forse per fare il caffè o prendere una bottiglia d’acqua.
Tiro fuori dalla valigetta la lampada a raggi ultravioletti. Cerco l’interruttore della cucina e spengo tutte
le luci, poi mi accuccio vicino al cadavere. Sposto il peso all’indietro, sui talloni, e di nuovo guardo il
sangue e le ferite al collo. Accendo la lampada facendo brillare di viola la lente di ingrandimento. Punto
il fascio di luce nera sulla testa e lo sposto lentamente verso il basso. Vedo subito la fluorescenza
colorata, nelle stesse sfumature: rosso sangue, verde smeraldo e blu violaceo.
Il pile manda bagliori colorati e appena spengo la lampada a ultravioletti ridiventa verde Kelly. Sono
gli stessi residui che ho visto stamattina e sono solo sul pile. Mi chiedo, sempre più insospettita, chi sia
questa persona e com’è possibile che sia vestita così. Raccolgo alcuni campioni con gli stub, mi tolgo i
guanti e chiamo Lucy al cellulare. Mi risponde con una TV accesa in sottofondo, in spagnolo: dev’essere
la Dish Latino Network.
«Dove sei?» chiedo.
«Sto perlustrando la scuderia. Ci sono monitor e videocamere per controllare i cavalli.» Sta dicendo
che, se davanti ai monitor della sorveglianza ci fosse stato qualcuno, avrebbe visto inquadrato
l’assassino.
«Sei sola?»
«C’è la governante, seduta a guardare la TV. Gracias por su ayuda. Hasta luego» grida Lucy. «E io
sto per andare a prendere il server, prima che arrivino i federali. Ho appena visto passare Benton in
macchina, quindi fra poco saranno qui.»
«Ho del materiale che dovresti portare a Ernie. Digli che lo esamini subito.»
«Buone notizie?» chiede Lucy, ormai fuori dalla scuderia. La sento respirare forte: si è messa a
correre.
«Di buono non c’è niente, in tutta questa faccenda» le dico mentre sento il rombo familiare del motore
di un’auto sportiva nel parcheggio.
Il motore si spegne e torna il silenzio. Immagino Benton che scende dalla Porsche. Farà un giro di
ricognizione prima di entrare.
I passi di Marino sono pesanti e distanziati: non cammina mai svelto, ma avanza determinato e
inarrestabile come un treno. Un attimo dopo è dall’altra parte del bancone della cucina e ha in mano un
kit per il rilievo delle impronte digitali.
«Le si è avvicinato alle spalle e ha inferto prima questa ferita.» Indico il taglio sul lato sinistro del
collo e della mandibola.
«Non ho ancora rilevato le impronte né qui né negli uffici sul retro» dice. «Preferisco aspettare che tu
abbia finito.»
Conosce la routine. Abbiamo lavorato insieme per più di vent’anni.
«Finora io non ne ho visto, né digitali né di piedi. Nessuna impronta insanguinata» gli comunico.
«Ma l’assassino non può non aver messo i piedi nel sangue. Benton è appena arrivato e sta facendo
una ricognizione fuori.»
«Non vedo nulla che indichi che abbia messo i piedi nel sangue. Le due ferite alla gola sono state
inferte in rapida successione. È possibile che poi si sia allontanato lasciandola morire dissanguata. Nel
giro di pochi minuti ha perso conoscenza ed è andata in shock.» Continuo a guardare verso le finestre
dall’altra parte della cucina come se potessi vedere attraverso le tende tirate e penso alle previsioni fatte
da Lucy.
Ed Granby si presenterà qui e noi avremo la conferma che ha un interesse tutto suo nella faccenda.
Protegge personaggi danarosi, ha detto mia nipote in macchina, mentre venivamo qui.
«Se il sangue è tanto, di solito finiscono per metterci i piedi.» Anche Marino ha tirato fuori la sua
torcia e punta il fascio di luce obliquo sul pavimento. Lo spesso strato di sangue è di un rosso intenso. «È
difficile non lasciare impronte.»
«Non ho visto impronte e neanche tentativi di cancellarne. Solo una di suola, parziale.» Gliela indico.
«Ma è della vittima, che ha messo un piede nel suo stesso sangue, probabilmente dopo essere stata ferita
la prima volta.»
«Il SUV di Haley Swanson è ancora vicino a casa dello zio» mi informa Marino. «Con tutt’e quattro le
gomme a terra. Tagliate dai vandali che imperversano nel quartiere, probabilmente. Parcheggia spesso da
quelle parti il suo Audi di lusso, ha detto a Machado lo zio. Nuovo, quel SUV costa sessantamila dollari.
Ho la sensazione che non andasse da quelle parti più volte la settimana soltanto per trovare lo zio.
Trafficherà con gli spacciatori della zona, magari. Ultimamente quelle droghe sintetiche stanno
ammazzando un sacco di gente.»
«Lo zio non sa dove sia il nipote?»
«Dice di no.» Marino si aggancia la torcia alla cintura. «È uscito stamattina alle otto, a piedi, perché
doveva prendere il treno per andare in un posto. Mi sa che abbiamo scoperto chi è andato a prendere
Lombardi alla stazione di Concord.»
«Ti dispiace prendere due termometri nella mia valigetta?» chiedo. «Potresti aiutarmi a fare le foto. E
c’è anche un bloc-notes nella valigetta. Era in piedi davanti al frigo, con la mano sullo sportello aperto,
quando è stata aggredita alle spalle.»
«Come fai a dire che il frigo era aperto?» Marino si china sulla mia valigetta posata per terra. «Come
fai a sapere che aveva la mano sullo sportello?»
«Perché qui c’è del sangue.» Indico alcune macchie vicino alla maniglia. «Queste gocce sono
all’altezza del collo e del mento della vittima, se era in piedi con lo sportello aperto quando l’ha colpita
sul lato sinistro del collo. Il sangue è schizzato sullo sportello di taglio, e può essere successo solo se lo
sportello era aperto. Da qui si è trasferito sulla guarnizione quando è stato richiuso.»
«E chi l’ha richiuso?»
«Questo non te lo so dire.»
«Pensi che la vittima, ferita, abbia richiuso lo sportello del frigo?» Marino mi si avvicina, con la
macchina fotografica in mano, e mi porge due termometri.
«Può darsi. So solo che qualcuno l’ha chiuso.»
La controporta dell’ingresso si apre. È arrivata Lucy. Le porgo il pacchetto contenente gli stub e lei lo
infila in uno dei tasconi della tuta da aviatore.
«Benton sta facendo un giro. Gli altri arriveranno tra poco» le dico.
«Dieci minuti al massimo e me ne vado.»
«Non è venuto con loro. È venuto da solo. Intendevo questo» puntualizzo.
«Voleva arrivare prima» replica. Sa che cosa significa questo.
Se ne va, corre verso gli uffici sul retro a prendere ciò che le interessa e che è chiuso in un armadio.
Sono le tre passate. Tendo le orecchie per sentire se arrivano altre macchine. Cerco Benton e aspetto che
arrivino gli altri. Benton non si sta comportando come se facesse parte del gruppo. Ripenso alle cose che
ha detto mentre camminavamo lungo i binari. Parlava dell’FBI come se lui non ne facesse parte, e forse in
questo momento è così. È qui per risolvere il caso, mentre Granby arriverà con intenzioni molto diverse,
che mi ispirano la massima diffidenza.
Slaccio i primi bottoni del pile verde, infilo un termometro sotto l’ascella della morta e sistemo l’altro
sul bancone.
«Potrebbe non averlo chiuso apposta.» Misuro la ferita a sinistra. «Può darsi che, come dici tu, lui si
sia avvicinato da dietro e lei si sia voltata di scatto mentre lui cercava di sgozzarla, tanto che invece di
recidere la carotide la lama è finita sulla mandibola. Così facendo, potrebbe aver chiuso lo sportello del
frigo, o magari ci è caduta contro. Il taglio è lungo nove centimetri, da sinistra a destra, dal basso verso
l’alto.»
Marino strizza gli occhi e prende nota. Si tocca le tasche in cerca degli occhiali, li trova, li pulisce
nella camicia e se li infila.
«Ci sono strani solchi paralleli alle ferite, con i margini abrasi e alcuni lembi di pelle sollevati.» Gli
detto le misure. «Non so cosa possa averli prodotti, a meno che la punta della lama non fosse piegata.»
Marino alza gli occhi dal bloc-notes. «Perché avrebbe dovuto usare un coltello con la lama piegata?»
«Magari l’ha piegata facendo qualcosa. Ho già visto lame con la punta molto deformata dopo un forte
impatto contro un osso, in casi di pugnalate.»
«Ha pugnalato qualcuno?»
«Lei no.»
«Nemmeno gli altri due, per quel che ho potuto vedere» dice Marino.
«Non li ho ancora visti.»
«Non hanno sangue sulla schiena e non sembra che abbiano altre ferite. Penso che li abbia
semplicemente sgozzati» mi riferisce.
«Basta e avanza.»
«Altroché.»
«Il secondo taglio è di tredici centimetri e mezzo e penso sia stato inferto frontalmente. L’assassino
era di fronte alla vittima.» Gli mostro il profondo taglio sulla punta dell’indice sinistro, all’altezza della
terza falange. «Così.» Mi alzo per fargli una dimostrazione. «Il primo quando sono di schiena e mi sto
voltando.» Simulo la scena.
«Non mi piace quando fai il manichino anatomico. Mi fa accapponare la pelle» dice Marino.
«Poi porto la mano al collo, sul lato sinistro, mentre il sangue gocciola a terra perpendicolarmente.»
Faccio il gesto e gli mostro la traiettoria delle gocce. «Le gocce sono perfettamente rotonde, come quelle
vicino alla porta del frigo e sulle scarpe. A questo punto sono di fronte all’assassino, che sferra un altro
colpo e mi taglia l’indice sinistro. Sono ancora in piedi, ma mi sto spostando da questa parte.» Vado a
destra del frigorifero. «Sono girata in avanti, verso il bancone. Forse mi ci appoggio, con le mani sul
collo.»
«Potrebbe averla trattenuta in quella posizione» dice Marino guardando gli schizzi di sangue arterioso
sui mobili della cucina. «Con una mano sulla schiena, finché non è stata troppo debole per scappare o
opporre resistenza. Penso che gli altri due li abbia tenuti giù. Mentre morivano dissanguati alla scrivania,
gli ha premuto una mano sulla schiena per impedirgli di alzarsi. Questione di pochi minuti. Spiegherebbe
come mai c’è sangue solo sulle scrivanie e sotto i cadaveri. La maggior parte della gente avrebbe cercato
di alzarsi e scappare, loro invece no.»
«Vedremo. Prima devo esaminarli» rispondo. «Questi sulla credenza sono schizzi di sangue arterioso
e questi sul vetro sono gli spruzzi che le sono usciti dalla trachea. Aspirava sangue, che le si è
accumulato nelle vie respiratorie e nei polmoni, e quando è crollata a terra ha lasciato questi segni sui
mobiletti sotto i fornelli e il lavello.»
Indico gocce di sangue che sembrano disegnare delle onde, con creste e avvallamenti che
corrispondono ai fiotti che sgorgavano al ritmo del battito cardiaco. Gocce grosse, di sangue secco, con
lunghe code che scendono verso il basso, che seguono un andamento sinuoso, curve con picchi sempre
più bassi e più deboli.
«A questo punto è in ginocchio» continuo. «Questo spiega gli schizzi sul pavimento, formati dal sangue
gocciolato su altro sangue, e anche il fatto che dalle ginocchia in giù i pantaloni sono completamente
zuppi. E questo lago vuol dire che è morta qui, ma non in questa posizione.»
Alzo lo sguardo e vedo Lucy che passa veloce nell’open space con il server in braccio, attraversa
l’atrio e apre la porta spingendola con un piede. Marino sposta il righello di plastica che usa come
riferimento per le foto e io gli indico le macchie di sangue per terra che mi stanno raccontando la parte
più importante della storia. Sento il rombo del SUV di Lucy, che mette in moto e parte veloce.
«Il sangue aveva già cominciato a coagularsi quando è stata spostata.» Indico una traccia tondeggiante
con i bordi rossi e una strisciata di forma caratteristica, che sembra un grosso girino. «Questa è una
goccia che aveva cominciato a coagularsi quando ci è stato trascinato sopra qualcosa. Era passato già un
po’ di tempo. Ce ne sono altre: qui, qui e qui.»
Marino comincia a scattare, posando il righello vicino a ognuna delle macchie. «Mi domando se anche
tu hai notato quello che ho notato io» dice. «Ha le braccia posate sulla pancia come se dormisse. Mi
ricorda Gail Shipton.»
«Una somiglianza c’è.»
«Sistema il cadavere in una posizione tranquilla. Come se gli dispiacesse.»
«L’ha guardata in faccia quando l’ha colpita alla gola la seconda volta. Se gli fosse dispiaciuto...
Vedrai che il pile non è suo.» Tolgo il termometro da sotto l’ascella e noto che ha un reggiseno nero
push-up imbottito.
La circonferenza del torace è notevole, ma il seno è piccolo.
«Ventisette.» Prendo il termometro sul bancone. «La temperatura ambiente è ventuno virgola sei. È
morta da almeno tre ore, probabilmente quattro.»
«Come sarebbe a dire “il pile non è suo”?» Marino è perplesso.
«Penso che le sia stato messo quando era già morta. Ai raggi ultravioletti appaiono gli stessi residui
fluorescenti, su tutto il pile. E le macchie non sono compatibili con le ferite e il modo in cui si è
dissanguata.»
Sbottono il pile fino in fondo e sollevo leggermente il cadavere voltandolo su un fianco e
appoggiandomelo alla coscia protetta dalla tuta di Tyvek. Sul dorso ci sono i primi segni di livor, ma se
premo con il dito la pelle sbianca ancora. Noto che ha la muscolatura ben definita. La giro di nuovo sulla
schiena, le sbottono i pantaloni e abbasso la cerniera. Ha un paio di slip da donna neri. Poi le tocco la
faccia con il dito, che si sporca di trucco. Chiedo a Marino di aprire uno dei kit che mi sono portata.
«Dovrebbero esserci delle salviette umide» gli dico.
Me ne porge una. La passo sulle guance e sul labbro superiore del cadavere. La barba non si notava
perché è rasata di fresco e coperta da strati di fondotinta e di cipria. Il petto e la parte bassa dell’addome
sembrano depilati con la ceretta e quando le abbasso gli slip ho la risposta.
«Mi prendi per il culo?» Marino sgrana gli occhi.
«Un uomo che prendeva ormoni femminili. E l’assassino gli ha messo il pile che doveva avere
indosso lui.»
«Perché?»
«Si è scambiato i vestiti con la vittima perché doveva mascherarsi in qualche modo, in caso fosse
stato visto. L’individuo sospetto che correva nel parco verso le undici...» gli ricordo. «Non ti comporti
così se hai già deciso di uccidere. È venuto per un altro motivo, ma qualcosa è andato storto e adesso è in
fuga.»
«Merda! La felpa nera di Marilyn Monroe con il cappuccio che Rooney ha detto che portava
stamattina Haley Swanson. Merda!» esclama Marino esterrefatto. «Ha ucciso Swanson e poi si è messo
la sua felpa? Sarà stata sporca di sangue anche quella. Quanto bisogna essere fuori di testa per fare una
cosa del genere?»
«Trovami al più presto una foto di Haley Swanson» gli dico mentre la controporta dell’ingresso si
apre. «Dobbiamo capire se è davvero lui.»
«Certo che è lui, cazzo» dice Marino mentre si allontana per telefonare, probabilmente a Machado.
Vedo Benton venire verso di me nel preciso istante in cui sento in lontananza il rumore di un altro
veicolo che si avvicina, o forse più di uno.
«Sono arrivati» dice Benton semplicemente.
«Sanno che sei qui?» gli domando mentre osserva il cadavere e il sangue.
«Tra poco lo sapranno» risponde.
37
Sono le sei passate ed è buio come in una notte senza luna quando comincio a radunare le mie cose per
andarmene.
Ho fatto quel che potevo, molto poco alla fin dei conti, quando si tratta di esaminare il disfacimento
della biologia, di sentirne i cattivi odori e toccare ciò che non sembra più naturale, una volta cessata la
vita. So come sono morte le tre vittime alla Double S, ma mi trovo di fronte a un problema molto più
grosso, che non si può risolvere con TAC o autopsie. I cadaveri hanno detto quel che avevano da dire, ma
adesso devo dare la caccia all’assassino e al dirigente federale che lo protegge.
Mi tolgo la tuta, i copriscarpe e i guanti e li butto in un sacco rosso per rifiuti biologici pericolosi
vicino alla porta, dove Benton mi aspetta con la ferrea determinazione di fare ciò che abbiamo intenzione
di fare. Devo scoprire che tipo di arma è stata usata e non credo che l’assassino l’abbia trovata nella
cucina dell’ufficio né in nessun’altra stanza di questo edificio. Dubito fortemente che l’abbia portata con
sé quando è arrivato alla Double S stamattina.
I cadaveri e tutti i relativi indizi sono di mia competenza, armi comprese. La mia argomentazione è
questa, ma i motivi per cui non voglio andarmene dalla scena del crimine non finiscono qui. Sto
esercitando la mia autorità di direttrice del CFC, ma in realtà mi sento un’intrusa, una spia, mentre tramo,
pianifico e proseguo le indagini di nascosto. Granby e i suoi agenti non mi permetterebbero mai di entrare
nella casa di Dominic Lombardi, mai e poi mai, a dispetto di tutte le mie argomentazioni. E io ci vado lo
stesso.
Mi ci porterà Benton, contravvenendo apertamente a un ordine preciso, perché lui non è spinto da
motivazioni politiche, interessi personali o disonestà. È immune da tutto questo ed è scandalizzato dalla
situazione in cui si è venuto a trovare, che non è del tutto nuova ma è tanto più grave del solito da essere
scioccante. Rispettare la mia professionalità e soddisfare la mia richiesta gli potrebbe costare il posto di
lavoro, ma in realtà non ha nulla da perdere: Granby lo ha privato del suo potere e della sua dignità
davanti a tutti. “Non occorre una sfera di cristallo per capire come sono andate le cose” ha avuto la
faccia tosta di dire. “Beveteci sopra” ci ha detto. “Buon Natale e felice anno nuovo.” Granby è un uomo
finito: me ne farò carico personalmente.
Vedrò tutto quello che c’è da vedere prima che qualcuno manometta le prove. Fotograferò tutto per
salvaguardare la verità prima che lui possa ricominciare a distorcerla e manipolarla in modo da
soddisfare la sua ambizione patologica e il suo bisogno di coprire le balle che ha raccontato e i reati che
ha commesso. Pagherà tutto. Non gli permetteremo di sfangarsela. Dobbiamo muoverci con oculatezza,
non fare nulla che in seguito ci costringa a rendere false dichiarazioni: questo abbiamo convenuto Benton
e io poco fa, mentre mettevamo a punto la strategia da adottare parlando sottovoce vicino al furgone
bianco del CFC fermo davanti alla casa con il motore acceso, il portellone posteriore aperto e la pedana
idraulica abbassata.
Siamo d’accordo sul fatto che, se venissimo sorpresi a commettere un solo errore, se venissimo
accusati di aver falsificato qualcosa, tutto il nostro lavoro verrebbe screditato. Quindi documenteremo
ogni nostra mossa e proteggeremo tutto il possibile in maniera da poterlo dimostrare e Benton non
verbalizzerà nulla che non sia autorizzato a rivelare a sua moglie, alla donna che ama. Io sono qui perché
ho il diritto di esserci. In tribunale mi verrà chiesto qual è l’arma del delitto e dovrò essere in grado di
rispondere. Quanto alle informazioni riservate che Lucy sta mandando a Benton per via telematica,
purtroppo le ho lette per caso, quando mi è caduto l’occhio sul telefono di mio marito...
Non occorre che Benton mi riveli informazioni secretate sulla mafia russa o israeliana, sul riciclaggio
di denaro sporco o altri gravi reati, omicidi su commissione compresi. Non posso farci niente se ho
sentito per caso o visto con i miei occhi cose che potrebbero spiegare perché Granby continua a
proteggere un serial killer ormai fuori controllo. Mi sembra quasi di vederlo: pelle chiara e capelli scuri,
fisico compatto, scarpe-guanto numero quarantuno che lasciano impronte come di piedi nudi di gomma. A
questo punto non c’è dubbio che era l’assassino a spiarmi da dietro il muro del giardino di casa,
stamattina, e mi pare di vederlo nella notte piovosa con un pile verde abbottonato davanti e la testa
scoperta, incurante della pioggia e del freddo.
Lo immagino con gli occhi spalancati, le pupille dilatate, il sistema limbico che bruciava come le
fiamme dell’inferno quando ha visto accendersi la luce della mia camera poco dopo le quattro di
stamattina. Poi si è accesa anche la luce del bagno, e dopo si sono illuminate quella sulle scale e le
vetrate a piombo, mentre lui assisteva di nascosto alla mia reazione alla sua malvagità.
Immagino l’emozione intensa che avrà provato nel vedermi uscire dalla porta di servizio e sentirmi
parlare con il mio vecchio cane pauroso, io, la dottoressa che si preparava a esaminare il cadavere di
una donna uccisa da un individuo profondamente disturbato, che si illude di essere più potente e più
professionale di tutti noi. Lo vedo come un mostro crudele e dissennato e forse è vero che dopo la strage
nel Connecticut ha scompensato. Forse l’ho incuriosito. E mi chiedo come si sarà sentito quando ho
aperto la porta e gli ho gridato come a un vicino di casa molesto.
Non credo si sia spaventato. Anzi, si sarà divertito, emozionato, eccitato. Lo immagino tornare nel
campus dell’MIT di corsa, agile e veloce, lungo i binari, per assistere di nascosto al mio arrivo con
Marino, all’atterraggio dell’elicottero di Lucy e allo sbarco di Benton. Che goduria, per un sadico
narcisista! Sono certa che mi ha osservato per giorni mentre preparava l’omicidio di Gail Shipton
raccogliendo informazioni su di lei, pedinandola, fantasticando sulla fama di supereroe che avrebbe
raggiunto seminando altro panico e nel contempo eliminando quello che nella sua mente malata era un
problema per la Double S.
Non c’è stato bisogno di chiedergli di uccidere Gail Shipton e infatti nessuno glielo ha chiesto. Benton
l’ha detto e ripetuto più volte nelle ultime ore. Questo maniaco ha preso da solo l’iniziativa di eliminare
quella che secondo lui era una spina nel fianco per Lombardi. Quando stamattina si è presentato alla
Double S, spontaneamente o perché convocato, forse si aspettava di essere lodato o ricompensato, mentre
trangugiava cupcake nel solarium insonorizzato. Ma le cose non sono andate come previsto, né per lui né
per gli altri. Ha teorizzato Benton poco prima che Granby gli mettesse un braccio sulle spalle e lo
invitasse paternalisticamente ad andare a casa e godersi gli anni della pensione.
L’assassino sta scompensando rapidamente. Potrebbe aver già raggiunto lo stadio della psicosi, ha
spiegato Benton mentre i cadaveri venivano chiusi nei sacchi e caricati come bozzoli neri sul mio
furgone. L’obiettivo designato era Lombardi, ma non era un omicidio premeditato. In quello della sua
assistente Caminska c’era qualcosa di personale, ma meno. E la terza vittima, che riteniamo sia Haley
Swanson, si è semplicemente trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Swanson ha preso il treno dei pendolari per Concord per incontrarsi con Lombardi perché era sorto
improvvisamente un problema di pubbliche relazioni che non era stato previsto. Benton ha fatto del suo
meglio per convincere i colleghi dell’FBI che Lombardi conosceva l’assassino, ma far uccidere Gail
Shipton non rientrava nei suoi piani né conveniva particolarmente alla Double S. Non era necessario e
rischiava di attirare attenzione e curiosità indesiderate, che è l’ultima cosa di cui le organizzazioni
criminali hanno bisogno. È possibile anzi che Lombardi sia andato su tutte le furie quando ha appreso la
notizia.
Quello di stamattina, secondo Benton, poteva essere un appuntamento per gestire la crisi: è probabile
che l’assassino sia stato criticato e rimproverato aspramente per l’iniziativa che si era preso e Benton
ritiene che se ne sia andato umiliato e offeso per poi ritornare a piedi e uccidere Lombardi e tutti quelli
che erano con lui alla Double S. Granby, però, non gli ha dato ascolto, e non perché la cosa non gli
interessi. Gli interessa eccome, perché non può risolvere il caso in modo onesto e trasparente.
Sa benissimo che il DNA è stato falsificato e i dati del CODIS sono stati manomessi. Crede che noi lo
ignoriamo, ma è tragicamente consapevole del fatto che il DNA raccolto qui nel Massachusetts o altrove
non corrisponderà a quello di Martin Lagos, il quale non può più lasciare tracce biologiche da nessuna
parte. È solo una sequenza di caratteri in un database, una macchia su un paio di mutandine di cotone
appartenute a Sally Carson, che peraltro non può aver lasciato lui.
«I campioni ematici conservati in Virginia andranno riesaminati, ma per il momento non dobbiamo
farne parola con nessuno. Bisognerà aspettare di poter sollevare la questione senza correre rischi» dico a
Benton mentre passo in rassegna il contenuto della mia valigetta per un rapido inventario dell’ultimo
momento.
Controllo le buste e i contenitori che ho etichettato e sigillato, con i reperti prelevati da tre persone
barbaramente uccise, tutt’e tre con la trachea troncata di netto, come il tubo rotto di un aspirapolvere.
«È così che smaschereremo le manomissioni e dimostreremo che il profilo DNA di Sally Carson è stato
sostituito con quello di Martin Lagos» spiego. «Possiamo chiarire l’inganno, ma dobbiamo farlo al
momento giusto e per ora non sappiamo di chi possiamo fidarci. Sicuramente non della direttrice dei
laboratori di Quantico. Temo che sia in combutta con Granby.»
«Qualcuno lo è di sicuro» concorda Benton.
«Forse è così che ha avuto quel posto: è un bel salto passare da dirigere i laboratori della Virginia a
quelli nazionali. È stata promossa l’anno scorso, più o meno nello stesso periodo in cui Granby è venuto
a dirigere la divisione di Boston. E, qualche mese e due omicidi dopo, nel CODIS è stato alterato un
profilo DNA. Da qualcuno che aveva accesso al database e che sapeva cosa bisognava fare.»
«L’FBI darà la colpa a una contaminazione dei campioni in laboratorio o a un errore di inserimento dei
dati nel sistema informatico.» Benton è vicino al portone e mi guarda. Siamo soli, nessuno sa che ci
troviamo nell’open space della Double S. «Ma l’opinione pubblica non verrà a sapere neppure questo.
Verrà messo a tacere tutto molto prima.»
«Questo è da vedere.» Continuo il mio inventario dei reperti raccolti per essere sicura di aver preso
tutto, prima che ci avviamo nella notte. «Ho il sospetto che nell’aprile scorso il tuo capo sapesse già chi
aveva ucciso Klara Hembree e sapesse anche che era in combutta con la Double S. Per questo si è
trasferito qui, per poter essere vicino a Lombardi.»
«Klara Hembree è fondamentale per capire chi è l’assassino. Forse nel suo caso un movente c’era»
dice Benton. «Ma ovviamente un passo grave come la manomissione del CODIS si è reso necessario
soltanto dopo che sono state ammazzate Sally Carson e Julianne Goulet.»
«Perché non era previsto che venissero ammazzate anche loro» replico con rabbia. «Perché
quest’uomo è peggio di una mina vagante, è un untore. Non capisco come non l’abbiano ancora tolto dalla
circolazione.»
«Può darsi che ormai sia troppo tardi. Ho il sospetto che abbiamo a che fare con qualcosa che ha
radici molto antiche.»
«Antiche e profonde» rincaro, indignata.
«Mettiti questo, che fa freddo.»
Benton mi porge il mio cappotto e mi rendo conto di quanto mi ama: glielo leggo negli occhi. Vedo
anche l’ombra del disgusto e dell’indignazione che lo fanno stare male. È come se Granby lo avesse
preso a calci. Il fatto che io abbia assistito alla scena lo infastidisce. Lo preoccupa, come se io potessi
perdere la stima per lui. Basta questo a farmi arrabbiare, a spingermi ad arrivare fino in fondo.
«Un po’ d’aria fresca mi farà bene.» Voglio respirare aria pulita, aria che abbia un buon odore e mi
rinvigorisca, e ho bisogno di riflettere. «Il freddo mi fa piacere, per adesso.» Non mi infilo il cappotto.
L’adrenalina ha spazzato via la stanchezza e mi ha fatto passare anche la fame. Mando un SMS a Bryce
per dirgli che il dottor Adams deve tornare immediatamente al CFC per confermare alcune identificazioni.
“Già avvertito. Sta per arrivare” risponde il mio assistente prima ancora che io abbia finito di
scrivergli che sarò irraggiungibile per un po’.
“Gavin avrà telefonato dieci milioni di volte” scrive lui. Gavin Connors è un suo caro amico,
giornalista del “Boston Globe”, che beneficia di un trattamento preferenziale per il quale mi sono stufata
di brontolare.
È un giornalista serio, che Bryce e Ethan frequentano: vanno a concerti e partite, preparano insieme da
mangiare. Quando occorre, Gavin si occupa della loro gatta, una Scottish Fold che si chiama Shaw. Avrei
uno scoop niente male per Gavin Connors, ma dovrà aspettare finché sarò sicura di che cosa si tratta
esattamente e avrò trovato il modo di fargli la soffiata in maniera che non si possa risalire a me,
dopodiché sicuramente Barbara Fairbanks strombazzerà la notizia ai quattro venti. Sarà uno scandalo tale
che il governo non riuscirà a insabbiarlo. Comunico a Bryce che ci occuperemo dei media al mio ritorno
e che dovrà raccontarmi com’è andato il colloquio con la potenziale sostituta di Marino.
“Rimandato. 6 sorpresa?”
“Ottima idea. Meglio non avere estranei al CFC in questo momento. Niente visite senza la mia
autorizzazione, nemmeno l’FBI.” Scrivo con i pollici, in piedi vicino alla cucina dove il sangue,
asciugando, da rosso vivace è diventato color rubino scuro, opaco, come la luce delle lampadine quando
si abbassano prima di bruciare.
Percepisco la tensione e la preoccupazione di Benton, che mentre mi aspetta consulta il telefono e
scambia messaggi con Lucy, la quale sta viaggiando nel ciberspazio e navigando nei database del server
della Double S.
Ha pochissimo tempo, ma sono sicura che fra qualche ora al massimo avrà il backup di tutti i dati, fino
all’ultimo byte. Quando l’FBI si presenterà al CFC per farselo consegnare, nel server della Double S non
ci sarà traccia di nulla, sarà come se non l’avessimo neppure acceso. Se necessario, dirò che i laboratori
sono oberati di lavoro e lascerò intendere che non abbiamo avuto il tempo di occuparcene. A questo ci
hanno ridotto Granby e quelli della sua risma: a remare contro l’FBI, a combattere contro quelli che
dovrebbero essere nostri alleati, perché ormai non sappiamo più chi è dalla nostra parte e chi no.
Arriva il messaggio successivo di Bryce, annunciato da una notifica sonora. Gli rispondo che tutte le
autopsie vanno fatte entro stasera.
“Vuoi che te ne teniamo 1?” risponde, come se si trattasse di un sandwich o di una fetta di torta.
“No. Ma assicurati che sia Luke a farla alla vittima con l’ID provvisorio di Haley Swanson.”
“Okay. A proposito, Ernie ha risultati. Finito x oggi, ma puoi chiamarlo a casa. Sempre alzato fino
tardi.” Come al solito, Bryce ha una gran voglia di chattare.
“Grazie.” Sento rumore di passi e mi volto.
Sta passando un agente dell’FBI con una polo e pantaloni militari color kaki, scarponi tattici ai piedi, una
Glock alla cintura e un fucile d’assalto M4 in mano, la canna corta puntata verso il basso e la tracolla di
nylon nero che pende sul fianco.
Si ferma a guardarci con un sorriso smagliante ma freddo, poi apre la porta di acciaio e torna nelle
stanze dove gli altri, da ore, stanno vagliando documenti.
«Sarà meglio andare.» Benton guarda verso gli uffici sul retro, ben sapendo che cosa sta succedendo
in sua assenza.
Mentre esaminavo il cadavere di Jadwiga Caminska, riverso sulla scrivania insanguinata, ho sentito
nominare la Squadra criminalità organizzata eurasiatica dell’FBI, che si occupa di malavitosi legati all’ex
Unione Sovietica e all’Europa Centrale. L’intero ranch si è trasformato in una scena del crimine sotto
giurisdizione dell’FBI.
All’inizio del viale di accesso sono state piazzate transenne e guardie armate, e presto non si potrà più
andare da nessuna parte senza imbattersi in agenti armati di fucili d’assalto e mitra. Qualcuno si
accorgerà di me e di Benton prima che abbiamo finito. Ma ho una ragione valida per rimanere, un’arma
del delitto inconsueta, che ho il diritto di cercare.
«Le chiavi?» domando.
Ho visto Marino consegnare il grosso mazzo di chiavi all’agente che è appena passato. Questo è
successo dopo che è tornato con Benton dal sopralluogo non autorizzato nella tenuta. L’agente ha preso le
chiavi con aria interrogativa, chiedendosi dove le avesse trovate Marino o da dove venissero, e a me è
tornato in mente che le avevo viste sulla scrivania di Lombardi, parzialmente nascoste dal corpo
decapitato. Dopo un po’, le chiavi non c’erano più. Benton non ha dato spiegazioni al giovane collega e
Marino è sparito nella notte con il cane, annunciando a gran voce che voleva insegnare a Quincy a fare
amicizia con i cavalli senza farsi prendere a calci né calpestare.
Ha sottolineato le parole “prendere a calci” e “calpestare” e a quel punto ho capito che sapeva che
cosa stava succedendo. In un batter d’occhio ha smesso di cercare di comandare Benton ed è diventato il
suo migliore alleato.
«Non abbiamo bisogno delle chiavi» mi dice Benton.
Non gli chiedo come pensa di fare a entrare di nuovo nella residenza privata di Lombardi, nelle sue
stanze segrete e nell’enorme garage, dopo averle esplorate con Marino. Vedrò con i miei occhi quel che
c’è da vedere nel breve tempo che Benton e io abbiamo a disposizione: un’ora o poco più. Non vogliamo
rischiare interferenze. In questo frangente non possiamo permettercelo.
«Andrà tutto bene.» Prendo dalla valigetta dei guanti e una piccola macchina fotografica e me li metto
in tasca. «Stiamo facendo tutti i passi che è possibile fare.»
Benton non risponde. Continua a guardare fisso nella direzione degli uffici dove l’FBI si è dato un gran
da fare, dopo aver ordinato agli agenti del NEMLEC di sgombrare il campo e a lui di tornare a casa e non
presentarsi a lavorare fino a nuovo ordine, e cioè forse mai. Con i federali è rimasto solo un investigatore
della polizia di Concord. Non riesco a immaginare che abbia voce in capitolo, visto che lo ignorano
come le statue di legno degli indiani che stanno sulla porta dei negozi di sigari. Lo hanno fatto rimanere
soltanto per salvare le apparenze, per fingere che si tratti di un’operazione congiunta. Ma che
collaborazione può esserci se al comando dell’operazione c’è un bastardo senza scrupoli come Ed
Granby?
«Ce la faremo. Siamo in vantaggio, Benton.»
Mi guarda impassibile e dice: «Non dovremmo ridurci a lavorare così».
«Non importa se dovremmo o no. Siamo in vantaggio su di loro e lo rimarremo.» Mi volto a guardare
per un attimo gli uffici dove Granby e la sua squadra indagano su “la madre di tutti i casi”, come ha detto
Marino dopo essere andato di edificio in edificio e di stanza in stanza con Benton. «Hanno talmente tanto
da fare con tutta la roba che c’è negli schedari e nei cassetti e in tutti gli scatoloni che ho visto nel retro
che non hanno ancora pensato al server» aggiungo.
«Secondo me non si sono accorti che non c’è più» dice Benton. «Sono ancora lì che si chiedono se
c’era un videoregistratore e dov’è finito.»
«Da noi non scopriranno niente. Non gli daremo il minimo aiuto.» Chiudo i grossi ganci di plastica
della valigetta rallegrandomi che Lucy se ne sia andata con il server prima dell’arrivo di Granby e dei
suoi agenti.
Non ho detto nulla dei reperti che sono già nei miei laboratori o che stanno per esservi recapitati, e
l’FBI non può semplicemente presentarsi e portare via tutto. Esiste una procedura di tracciabilità per la
custodia dei reperti che va seguita. Dovranno vedersela con la polizia di Concord e di Cambridge. E se
ci sono campioni di DNA, fibre o altri reperti già in mano mia, dovranno vedersela con me. Posso trovare
cavilli burocratici per rallentare la cosa in maniera mai vista prima. Non c’è nessun valido motivo per
cui il materiale raccolto in casi di mia competenza nel Massachusetts debba andare ai laboratori
nazionali di Quantico. L’unico motivo, tutt’altro che valido, è che Ed Granby vuole alterare, distruggere o
semplicemente nascondere qualcosa. Non gli darò niente, e verrà il giorno in cui non sarò più tenuta a
dargli niente.
Nel frattempo Lucy è davanti alle sue tastiere e ai suoi schermi piatti a cercare la verità fra i dati e ha
già causato a Ed Granby più problemi di quanti ne abbia mai avuti in vita sua. È quello che si merita.
Deve pagare e io farò di tutto perché succeda.
«Sono pronta» dico a Benton.
Porto fuori la valigetta e la poso sulla veranda. Sono contenta che Granby non mi prenda sul serio.
Non lo ha mai fatto, anche se talvolta ha dovuto fingere. Nonostante ci siamo incontrati molte volte, nel
suo ufficio e nel mio, oppure a cena, continua a non sapere niente di me, solo ciò che proietta della
propria immagine di sé e che filtra attraverso il proprio egocentrismo. E non conosce neppure Benton.
Non ho ancora capito fin dove si sia spinto, ma un agente federale che arriva a manomettere prove è
capace di tutto. Non riesco a smettere di pensare alla sua carriera. Ho letto il comunicato stampa quando
è stato nominato direttore della sede di Boston. L’ho sentito parlare fino alla nausea di tutte le cose
straordinarie che ha fatto.
Quando io dirigevo l’Istituto di medicina legale della Virginia, lui era vicedirettore della sede di
Washington, dove si occupava di corruzione e crimini violenti e aveva altri incarichi prestigiosi che
riguardavano anche la Casa Bianca. Poi, per un lungo periodo, ha avuto mansioni amministrative alla
sede centrale dell’FBI, nello Hoover Building, ed è stato incaricato di ispezioni nelle filiali del Bureau e
di indagini relative alla sicurezza nazionale. L’estate scorsa, infine, è venuto a Boston.
Ricordo che Benton mi ha detto che si trattava di un trasferimento senza aumento di stipendio, chiesto
dallo stesso Granby, originario di queste parti. Ma adesso penso che il vero motivo fosse un altro, molto
più losco. Granby è arrivato a Boston poco tempo dopo che Klara Hembree era andata via da Cambridge
nel mezzo di una causa di divorzio molto aspra. Aveva deciso di trasferirsi a Washington per essere più
vicina alla sua famiglia, perché qui non si sentiva sicura. Lucy ha scoperto che il suo ex marito collabora
con la Double S.
Ha trovato atti di compravendita relativi a immobili di notevole valore e prove di pagamenti e
passaggi di denaro a vario titolo fra banche e fondi di investimento diversi. Manda un SMS dietro l’altro a
Benton per informarlo di quello che sta scoprendo e io, senza volere, li sento arrivare e li vedo sul
display del suo telefono.
«Sono sicura. Andrà tutto bene» gli dico in un tono ottimista che maschera l’indignazione e la collera
che sento ribollire dentro di me.
38
Carichiamo i miei ferri del mestiere e il sacco rosso degli indumenti protettivi sporchi nel bagagliaio
della Porsche come se stessimo per andarcene.
Benton chiude il portellone con il telecomando. Usciamo dal parcheggio a piedi e, dopo aver superato
una barriera di pini con i rami molto bassi, ci allontaniamo dal viale di accesso e ci incamminiamo verso
un gruppo di alberi, un prato e un grande spiazzo, nella direzione stabilita da Benton in precedenza. Noto
che osserva i lampioni gialli, su cui sono montate videocamere che, come periscopi, permettono di
registrare qualsiasi movimento sull’asfalto. Noi però, nel buio e nella nebbia, le evitiamo prudentemente
nella nostra manovra di avvicinamento alla casa dove Lombardi viveva solo.
La disposizione degli edifici nel ranch è sicuramente voluta: gli uffici si trovano a meno di due
chilometri dall’ingresso lungo il viale tortuoso e sono collegati tramite una galleria trasparente a un
fabbricato più grande che Benton mi dice ospitare un centro benessere con palestra e piscina coperta.
Questo secondo edificio è collegato a sua volta, grazie a un altro passaggio coperto, a una generosa
dépendance per gli ospiti. Da lì una terza galleria porta alla villa, di legno verde scuro con le persiane
color marrone e un tetto di metallo anch’esso verde scuro, nascosta tra i pini e difficilmente visibile
dall’alto. Benton definisce la villa del miliardario deceduto “un covo architettonicamente mimetizzato”.
Le porte che danno accesso alle stanze private di Lombardi sono dotate di serrature di sicurezza
antitrapano, con chiave non duplicabile. Tutti i fabbricati della tenuta, fatta eccezione per scuderie,
casotti e solarium, sono collegati fra loro da queste gallerie che assomigliano ai ponti coperti del New
England. Mentre rasentiamo il perimetro camminando sull’erba bagnata, nel buio più fitto, Benton mi
spiega la disposizione degli spazi e le misure di sicurezza, e io non posso fare a meno di pensare a un
polpo che allunga i suoi tentacoli su tutta la tenuta e anche oltre, al di là dell’orizzonte nero come
l’inchiostro, fino a raggiungere altre città, altri stati, altre nazioni e altri continenti.
«Giudicherai tu stessa» mi dice. «Non penseresti mai che dalle nostre parti succedano cose simili. Ma
non è questa la priorità. Questo può aspettare, maledizione. Il problema vero è che quel pazzo ucciderà
ancora, e nessuno lo cerca.»
«Lo stiamo cercando noi. Ma non lo prenderemo mai se prima non prendiamo Granby. Secondo me,
Granby sa benissimo chi è.»
«Certo che lo sa. Perché lo proteggerebbe, altrimenti?» replica Benton. «Non si tratta solo di catturare
il Capital Killer, che nuoce alla politica e al turismo di Washington. Granby vuole far ricadere la colpa
su qualcun altro, forse perché lo voleva Lombardi. Se accusi di tre omicidi uno che è scomparso, che
probabilmente è morto, non danneggi nessuno. A meno che il serial killer non colpisca un’altra volta e tu
non sia in grado di manomettere di nuovo il DNA. Cosa che è puntualmente successa. Granby dev’essere
nel panico.»
Non lo dice come se questo gli desse soddisfazione. Non è uno che va giù pesante e non è vendicativo,
mentre io a volte lo sono. Mi guida nel buio, aiutandomi a evitare rami bassi che vedo a malapena. Sono
bagnati dalla pioggia e, quando li urto con una spalla, mi fanno la doccia. Mi infilo il cappotto e me lo
abbottono.
«Se passassimo sul viale, chi ci vedrebbe? Che cosa succederebbe?» Mi pettino i capelli umidi con le
dita.
«Le telecamere ci riprenderebbero, compariremmo sui monitor e ci verrebbero a prendere nel giro di
due secondi. Granby ci farebbe scortare immediatamente fuori dalla tenuta.»
«Lo pensi veramente?»
«Non sarebbe una bella cosa» replica.
«Potrebbero anche essere troppo indaffarati per accorgersi di noi.»
«Al momento probabilmente lo sono, ma appena arriveranno i rinforzi la fortuna non ci basterebbe e
non avremmo più il tempo di far niente. Mi stupisco che non siano già qui.»
«Che cosa succederà quando arriveremo alla casa?» domando.
«La porta accanto al garage ha l’allarme, ma l’impianto è spento. Lo ha disattivato il cuoco, prima, e
non l’ha più acceso. Quell’entrata è fuori del raggio di azione delle videocamere, probabilmente perché
Lombardi voleva poter andare e venire con amici, conoscenti, colleghi, mafiosi e donne, senza essere
visto né registrato.»
«“Colleghi” nel senso di amici altolocati» suggerisco.
«Penso che il quadro che si sta delineando sia questo.»
«E donne come Gail Shipton.»
«Per controllarla. Per dominarla. Per piegarla alla sua volontà.»
«Non solo per sesso.»
«Per potere» dice Benton. «Glielo ha imposto perché lei non voleva. Lo faceva per metterla al suo
posto. Carin Hegel all’inizio pensava di poter tenere testa a questa gente, ma non aveva idea di quel che
l’aspettava. Credeva che fosse una causa legale come le altre. Ma Lombardi stava per mettere al suo
posto pure lei.»
«Non pensa più che sia una causa legale come le altre, adesso che si nasconde a casa di Lucy. Mi
domando a quanti altri ex clienti Lombardi ha fatto lo stesso scherzo. Li ha derubati di tutto quel che
avevano senza che fosse possibile dimostrarlo, poi gli ha fatto avere un risarcimento dall’assicurazione
di cui ha sicuramente preso la fetta più grossa. Gli ha fatto fare quel che voleva perché sentivano di non
avere scelta, temevano che se non avessero acconsentito li avrebbe ammazzati.»
«Quella con Gail dev’essere stata una transazione modesta, per lui» dice Benton.
«Cento milioni ti sembrano una cifra modesta?»
«Qualunque fosse stata la cifra dell’indennizzo da parte dell’assicurazione, per lui sarebbero stati
spiccioli. Ma lo divertiva che un avvocato famoso come Carin Hegel avesse osato fargli causa. Gail era
debole e si è lasciata prendere dalla disperazione, e lui la teneva in pugno, lei e la tecnologia che era in
grado di fornirgli.» Ogni minuto o due Benton controlla il telefono e riceve informazioni da Lucy. «Se
non fosse morta, si sarebbe beccata una denuncia per truffa. L’avrebbero cacciata dall’ MIT e la sua vita
sarebbe stata rovinata per sempre.»
«Granby è al corrente di questo? Sa che Gail Shipton era in collusione con Lombardi?»
«Non so che cosa sappia di preciso, ma hai sentito anche tu che cosa gli ho detto.» Il tono di Benton è
durissimo. «Ho chiarito le cose importanti e non intendo dirgli altro. Sono in ferie per tutte le feste e fino
a nuovo ordine, no? E noi non siamo qui, a meno che non abbiano notato la mia macchina.»
«Sai che investigatori, se non l’hanno notata...»
«Non notano niente, a parte quello che è nei documenti in cui stanno frugando» replica Benton.
«Probabilmente a quest’ora saranno riusciti ad aprire la cassaforte. Chissà che cosa c’è dentro: milioni in
contanti, immagino, oro, valute straniere e numeri di conti offshore. E lui è costantemente al telefono con
la sede centrale, trama, organizza, risolve l’ennesimo grosso caso. È fin troppo prevedibile. Ha
pianificato tutto e l’uomo di cui dovremmo preoccuparci non è nel loro mirino. Nessuno lo cerca, e per
un motivo ben preciso: Granby li ha depistati.»
«Ha manomesso il DNA. Ha risolto un caso che è tutt’altro che risolto. E adesso che cosa farà?»
Procediamo in un prato che nella bella stagione sarebbe pieno di fiori. «Chiuderà il caso attribuendo gli
omicidi di Washington a Martin Lagos e farà passare quello che è successo qui per una vicenda a sé,
un’indagine relativa a criminalità organizzata e omicidi su commissione» ipotizzo.
«Il che va contro ogni logica. Ma prima o poi qualcuno se ne accorgerà. Non tutti sono incompetenti e
corrotti all’FBI» dice Benton. In realtà sta dicendo che non vuole credere che all’FBI ci siano persone
incompetenti e corrotte.
«Non possiamo permetterci il lusso di lasciar andare le cose in questo modo.»
«Un killer prezzolato usa la sua arma» dice Benton. «Non lascia indumenti sulla scena del crimine,
non si mette la felpa intrisa di sangue di una delle vittime e non torna alla sua macchina correndo come un
pazzo e terrorizzando una scolaresca. Non arraffa una busta piena di soldi per poi perderla in un parco
pubblico. Una busta macchiata di sangue e con l’indirizzo del mittente...»
Benton guarda dove mette i piedi, con le scarpe da ginnastica che gli ha prestato Bryce completamente
zuppe. Il vento è più freddo di quanto pensassi e le piante che sfioriamo passando sono fradicie di
pioggia.
«Stiamo parlando di un individuo che ha perso il controllo e non ha ucciso per soldi» continua Benton.
«Forse pensava di meritare un premio, voleva dei ringraziamenti per aver tolto di mezzo Gail Shipton. Il
movente è personale. Ce l’aveva con loro. Forse non con Swanson, che potrebbe essersi trovato
semplicemente in mezzo.»
«Lo conoscevano e lo hanno sottovalutato, se non ignorato.» Ho le gambe dei pantaloni zuppe e le
mani gelate. «Questa è gente che non apre la porta e non abbassa la guardia davanti a persone che non
conosce o di cui non si fida completamente.»
«Un raptus» dice Benton. «Lombardi lo ha toccato nel vivo, lo ha umiliato e offeso, e penso che non
fosse la prima volta. Scopriremo che ci sono dei precedenti. Lo conosceva e sono convinto che nessuno
della Double S gli abbia chiesto di uccidere Gail. Non l’avrebbero mai fatto, dal momento che era
coinvolta nella truffa. E comunque non è per questo che l’ha uccisa.»
«Forse crede di averla uccisa per questo. Sia lei sia gli altri.»
«Crede di avere motivazioni razionali, ma in realtà è spinto dalle sue pulsioni» dice Benton. «E forse
è impazzito perché aveva appena commesso un gesto pericolosamente stupido. Mi sorprende che un uomo
spietato come Lombardi non si sia accorto di niente finché non si è ritrovato con un coltello alla gola.»
«Arroganza. Un prepotente che si credeva al di sopra della legge, pensava di essere intoccabile.
Oppure il motivo per cui ha sottovalutato questa persona è un altro.»
«Granby cerca un mafioso russo da arrestare e sono sicuro che da qualche parte lo troverà» replica
Benton in tono cupo.
Immagino Ed Granby, tutto azzimato, con gli occhietti che luccicano e il naso lungo, appuntito come
una matita, i capelli pettinati all’indietro grigi solo sulle tempie. Ha una testa di capelli così perfetti che
devono per forza essere tinti. Sento montare l’indignazione e mi avvicino a Benton, gli cammino a fianco,
ne sento il contatto e mi calmo un po’. Si comincia a intravedere la casa, ma mancano ancora circa
quattrocento metri. C’è una luce accesa al pianoterra e tutto il resto è buio.
Controllo i messaggi. Il display del mio telefono si illumina nel buio e nella nebbia. I lampioni in
lontananza sono a malapena visibili: mi sembra di essere su una nave che si sta avvicinando alla costa
durante una perturbazione. C’è un SMS di Ernie Koppel che dice di essere a casa, se voglio parlargli.
Compongo il numero mentre camminiamo. «Sono fuori e c’è vento» mi scuso appena risponde.
«Sarai ancora a Concord, immagino. Stiamo cenando incollati alla TV: non si parla d’altro, su tutti i
canali.»
«Novità?»
«Ho un regalo di Natale anticipato per te.»
«Sono contenta.»
«I segni sul metallo corrispondono all’attrezzo, sì, ma questa non sarà una sorpresa perché lo
sospettavi già. E sul caso del Maryland hai ragione» mi dice. «La stessa impronta minerale di quello
dell’MIT, e anche dei residui che hai prelevato a Concord.»
«Gli stub che ti ha portato Lucy?»
«Sì. Stessa impronta minerale anche sul pile. Alite, che praticamente è salgemma. Al SEM è
chiarissimo che è stato ottenuto artificialmente facendo evaporare una soluzione satura di sale, il che mi
fa pensare che vengano da un prodotto commerciale, con uno scopo specifico.»
«Hai idea di cosa potrebbe essere?»
«Calcite e aragonite sono molto usate nell’edilizia, si trovano nel cemento e nella sabbia, per
esempio. E so che l’alite è usata nel vetro, nella ceramica e anche per sciogliere il ghiaccio sulle strade.
Ma questi tre minerali insieme, con la stessa impronta elementare in tutti i campioni che ho esaminato?
Non saprei. Potrebbe essere un materiale per arti decorative, ceramica o scultura, oppure un pigmento
minerale per colori a tempera o effetti speciali. Alla luce nera risulta di sicuro iridescente.»
«E delle fibre che cosa mi dici?»
«Quelle di Gail Shipton sono di Lycra, sia quelle azzurre che hai raccolto tu sia il telo in cui era
avvolta. Anche il telo è di Lycra. E corrispondono a quelle trovate nei casi di Washington; forse si tratta
dello stesso tessuto in tutti i casi, ma di pezze diverse. Una cosa che mi ha lasciato sorpreso è l’unguento.
Non sono riuscito a individuare la marca, ma il pattern di frammentazione dava un’identificazione
relativamente facile, ed è questo il mio regalo di Natale. A quanto pare non lo usavano solo per liberarsi
il naso: ho trovato tracce di MDPV.»
«Stai scherzando?»
«Assolutamente no. Il laboratorio genetico mi ha passato un campione nel tardo pomeriggio, gli ho
fatto fare un giro nell’interferometro FT-IR e questo è quel che ho ottenuto. Ma la tossicologia non è il mio
campo. Se sei d’accordo a usare un altro po’ del campione, farei anche una spettrometria di massa
abbinata alla cromatografia liquida per conferma. A proposito, il laboratorio tossicologico dice che è lo
stesso analogo del metcatinone del suicidio della settimana scorsa, quella donna che si è buttata dal tetto.
Una droga sintetica pericolosissima che circola da un anno a questa parte, temo.»
«Grazie, Ernie.»
«So che non dovrei immischiarmi, ma te lo dico lo stesso. Secondo me, abbiamo a che fare con un
serial killer. Uno che fa qualcosa di strano alle vittime, forse le avvolge in un tessuto elasticizzato e poi
usa qualche materiale artistico, non so, magari per fargli il ritratto da morte. Sii prudente, Kay.»
«Cavalli da corsa e sali da bagno» dico a Benton dopo aver finito di parlare con Ernie. «Se uno vuole
avere massima concentrazione, energia sovrumana ed euforia, e devastarsi i neurotrasmettitori, mescola
un po’ di polverina magica a una pomata al mentolo e se la infila su per il naso.»
«Be’, spiegherebbe quello che ha appena fatto. E molte altre cose. Il crescendo di paranoia,
agitazione, aggressività, violenza.»
«Dev’essere sovreccitato, accaldato. Suda, ha la pressione alle stelle...» Penso al ragazzo con la testa
scoperta e senza cappotto sotto la pioggia. «Forse è sull’orlo della psicosi.»
Lo immagino che mi spia al buio, dietro casa mia, e mi chiedo chi fossi e che cosa rappresentassi per
lui. E chi era Benton? Chi siamo tutti noi, e le sue vittime, per lui?
«La cosa più spaventosa di questa droga è che non ne esci più, e quando la compri non sai mai quanta
ce n’è veramente in una dose» spiego. «Quindi può avere effetti molto diversi, da una lieve euforia fino
alla follia e ai danni cerebrali. Prima o poi ci lascerà la pelle.»
«Sarà sempre troppo tardi» replica Benton.
Proseguiamo tra sempreverdi che profumano di legno di cedro e ci avviciniamo alle finestre illuminate
del pianoterra, facendo attenzione alle videocamere e controllando che non ci sia nessuno in giro. Io
continuo a guardarmi alle spalle come se stessi scappando.
Non vedo fari di auto né torce, solo il buio dell’umida notte nebbiosa e il nostro fiato che si condensa;
sento il rumore delle scarpe fradicie di Benton. Calcolo che dall’ingresso della tenuta, dove il viale
descrive una curva intorno ad annessi e dépendance, alla villa di Lombardi ci siano circa tre chilometri.
Attraversiamo un orto, abbandonato in questa stagione, e ci troviamo davanti un campo da tennis senza la
rete, un barbecue e una piscina rettangolare coperta per l’inverno.
C’è un altro spiazzo asfaltato, fatto di lastre che ho il sospetto siano riscaldate, e in fondo ci sono
quattro saracinesche di metallo rinforzato. Nel garage ci sono delle auto, dice Benton: Ferrari, Maserati,
Lamborghini, McLaren, una Bugatti, tutte targate Miami. Giocattoli per super-ricchi e superdisonesti che,
come gli yacht, i jet privati e gli attici, sono un modo per riciclare il denaro sporco. Probabilmente erano
destinate al porto di Boston, ipotizza Benton, dove sarebbero state imbarcate su navi in partenza per il
Sudest asiatico e il Medio Oriente.
Una porta di legno massiccio dà sul lungo passaggio trasparente. Ora che siamo vicini, vedo che
dentro c’è un carrello da golf carico di legna da ardere. Il passaggio porta dal centro benessere alla villa,
che è composta da cucina e zona soggiorno, camera da letto al piano di sopra e, sotto, il garage. Benton
apre un’altra porta che non ha chiuso a chiave durante il sopralluogo con Marino ed entriamo nella cucina
di Lombardi, che è a giorno, con un grande camino vicino al tavolo per la prima colazione, piani di
lavoro in zinco e ampie finestre con vista sul parco.
Una lastra di vetro incassata nel parquet rivela che sotto c’è la cantina. Nel passarci sopra ho per un
attimo un senso di vertigine, una paura di cadere che mi freme nello stomaco. Mi sposto di lato ed evito
di guardare le centinaia di bottiglie disposte su scaffali di legno circolari, le botti di legno a scopo
decorativo e il tavolo per le degustazioni.
Ci sono pentole di rame lucide come oro rosa appese a una rastrelliera di ferro battuto sopra il banco
da macellaio in legno di acero su cui sono posati sacchetti di plastica pieni di provviste. Deve averli
lasciati lì il cuoco nella fretta, quando è tornato dopo aver fatto la spesa. Latte, formaggi e tagli di carne
sono rimasti fuori del frigorifero, e in questo vedo la dimostrazione del panico che deve avergli causato
la vista delle auto della polizia nel viale di accesso.
Sarà passato anche accanto al furgone bianco con la scritta ISTITUTO DI MEDICINA LEGALE DEL
MASSACHUSETTS e il logo del CFC in blu sulle fiancate. So che ci sono pochi spettacoli meno graditi
dell’arrivo dei miei mezzi e dei miei collaboratori. È una vista che ti fa fermare il cuore, che provoca
immediatamente un terrore viscerale, ma io tendo a dimenticare l’effetto agghiacciante che faccio,
soprattutto quando mi presento inaspettata, e cioè la maggior parte delle volte. Resisto alla tentazione di
mettere in frigo le provviste deperibili. Che spreco! Mi limito a fotografarle.
Mi fermo davanti ai fornelli, di marca francese, per osservare i set di coltelli con il manico di faggio
verde. Coltelli per sbucciare, per disossare, per i pomodori e per il pane, e un assortimento di coltelli da
chef, con lame di diversa larghezza, alcuni lunghi trenta centimetri. Ci sono anche affilacoltelli in acciaio.
Il tutto ordinatamente riposto negli appositi fori di due ceppi. Scatto altre foto, documentando tutto quello
che vedo e che tocco, mentre Benton continua a leggere i messaggi che gli arrivano da Lucy in rapida
successione, preceduti dal segnale acustico che ha scelto per essere sicuro di non perderne nemmeno uno:
un fastidioso campanello di bicicletta.
39
«I telefoni sono su un software PBX.» Benton ora parla più liberamente e mi mostra il messaggio che gli
ha appena mandato Lucy. «Così Lombardi poteva controllare tutti» commenta, ma non con la
soddisfazione che provo io a mano a mano che emergono i fatti. «E pare che stamattina alle quattro e
cinquantasette abbia ricevuto una telefonata da un numero con ID anonimo. Nessuna delle sedici linee
della Double S, comprese quelle in casa sua, può ricevere chiamate da numeri con ID anonimi.»
Nei cassetti trovo coltelli da bistecche nella loro scatola di legno e un assortimento di utensili da
cucina, presine e strofinacci. Ci sono i menu di alcune pizzerie e ristoranti cinesi take-away della zona,
ma dubito che qualcuno abbia mai ordinato qualcosa.
«Quindi chi ha chiamato ha dovuto comporre asterisco-otto-due come tutti i comuni mortali, altrimenti
non sarebbe riuscito a parlargli» continua Benton. «Lucy chiede se è un numero che conosco e, sì, so di
chi è: è il cellulare di Granby. E non è l’unica volta che ha chiamato. Lucy dice che è un numero che
compare spesso. Si tratta di capire quando.»
Risponde al messaggio senza più stare attento a quello che mi dice ad alta voce. Abbiamo le prove del
coinvolgimento di Granby. Grazie al server della Double S, che si sta rivelando una fonte preziosissima
di informazioni, non si tratta più della nostra parola contro quella di chiunque altro. Non abbiamo più
semplici sospetti o prove indiziarie. Nessuno ci può accusare di travisare la terribile verità. I dati sono
inconfutabili e nel mio ufficio ne abbiamo un backup. Il capo di Benton non ha idea di quello che lo
aspetta.
«Marino è venuto a prendermi verso le cinque, stamattina» dico. «A quel punto la notizia del
ritrovamento di un cadavere all’MIT e della sua possibile identità era già su internet. Probabilmente la
telefonata di Granby a Lombardi riguardava questo.»
Altra irritante scampanellata. Benton legge il messaggio e mi dice: «Ci sono state molte telefonate tra i
due, in particolare a marzo e aprile, nel periodo in cui Granby si è trasferito qui. E poi decine il mese
scorso, alcune proprio nei giorni in cui sono state trovate morte Sally Carson e Julianne Goulet. Cristo».
Si appoggia a un bancone della cucina. «È spaventoso, cazzo.»
«Lo sapevamo.»
«Per quale motivo può aver chiamato stanotte, se non per Gail Shipton?»
«Sai benissimo qual è la risposta.»
«Semplicissimo.» Benton ha la conferma di ciò di cui era già convinto. «Gail Shipton non doveva
morire. Nessuno ha chiesto a quel pazzo di ammazzarla e Lombardi si è infuriato. Non era la prima volta,
ma questa era peggio perché c’era un legame diretto fra la ragazza e la Double S. È come affidare la
gestione di un bar a un etilista.»
«Nessuno affida la gestione di un bar a un etilista, a meno che non ignori che lo sia o abbia con lui un
legame particolare.» Tiro fuori un coltello con una lama d’acciaio al carbonio lunga ventidue centimetri,
curva, per disossare.
«Convochi il killer troppo intraprendente e l’addetta alle PR, gli offri dei cupcake e chiarisci la
faccenda» dice Benton.
«Un bel rischio, se il killer è sotto l’effetto di stimolanti e ha un gran bisogno di zuccheri, è squilibrato
e sta per scompensare.» Soppeso il coltello, valutandone l’equilibrio, e sento attraverso il guanto la
forma del manico liscio ed elegante.
Non è adatto per uccidere una persona. Quando lo ripongo nel ceppo, fa un leggero sibilo nello
scivolare dentro l’apposita fessura.
«Naturalmente bisogna che il cuoco verifichi se manca qualcosa.» Non occorre che esamini altri
coltelli nella cucina di Dominic Lombardi. «Uno qualsiasi di questi può provocare lesioni mortali.»
«Ma non è questa l’arma del delitto» dice Benton e anch’io scuoto la testa.
L’arma del delitto non ha nulla in comune con questi utensili da cucina. È un oggetto inconsueto, una
rarità, e mentre scatto altre foto spiego che la lama che stiamo cercando è corta e stretta, con un solo filo
tagliente, un angolo smusso e forse con la punta arrotondata e storta, piegata.
«Questo in base ai solchi poco profondi, con i margini abrasi e piccoli lembi di pelle sollevata che
corrono paralleli ai tagli principali» aggiungo. «E le tracce ematiche su uno strofinaccio che ha usato per
pulire il coltello fanno pensare a una lama ricurva che potrebbe avere delle sbavature, perché si notano
dei fili tirati nello strofinaccio. I coltelli di solito non hanno sbavature, a meno che non siano stati affilati
più volte.»
Un’altra scampanellata e un altro lungo messaggio di Lucy, che informa Benton che la seconda moglie
di Lombardi trascorre lunghi periodi alle Isole Vergini, dove hanno sede numerose società intestate al
marito. Lucy ha il sospetto che siano società fittizie. Nell’elenco figurano gallerie d’arte, centri termali di
lusso, negozi, hotel, imprese di costruzioni e di sviluppo immobiliare.
«Attività che si prestano al riciclaggio di denaro sporco e probabilmente al traffico di sostanze
stupefacenti» suggerisce Benton. «Forse anche laboratori dove vengono prodotte le droghe sintetiche, qui
o all’estero.»
Apre la porta di un bagno di servizio con lavabo e WC e, sul davanzale, una pila di riviste di cucina.
“Bon appétit”, “Gourmande!”, “Yam”. Letture dei momenti liberi dello chef francese, che
improvvisamente si ritrova disoccupato. E di cuochi come lui ce ne sono a bizzeffe, se tornasse a Parigi,
dove la moglie sta con un altro e i figli non sanno che farsene di lui. “Tout est perdu. Je suis foutu ” ha
detto a Benton mentre faceva il suo giro non autorizzato con Marino.
Saliamo alcuni gradini rivestiti di moquette – quattro, per la precisione – e arriviamo su un
pianerottolo con applique di cristallo alle pareti in stucco veneziano. Immagino Lombardi che salendo le
scale si ferma in questo punto a riposare o a riprendere fiato, tenendosi alla ringhiera con le mani tozze, il
diamante al mignolo destro e il cinturino d’oro massiccio dell’orologio che tintinna contro il metallo.
Girare per la proprietà e salire in camera da letto non doveva essere facile per lui, grasso e appesantito
com’era.
Benton apre un’altra porta, che non è chiusa a chiave perché così l’ha lasciata lui stesso poco fa, ed
entriamo in una stanza enorme, piena di mobili antichi italiani in legno pregiato, con elaborate
modanature e rilievi dorati alle pareti e sul soffitto. Un lampadario in vetro di Murano con due ordini di
frutti multicolori pende dal soffitto, dove è riprodotto l’affresco della Creazione di Adamo di
Michelangelo. Ai piedi di un letto degno di un re c’è un divano rotondo da conversazione rivestito di raso
dorato. La testiera del letto è alta più di un metro e mezzo, rosso vivace con foglie di acanto dorate.
Vedo uno scrittoio in stile Rinascimento fiorentino, con una poltrona che sembra un trono dove
Lombardi sicuramente non si sedeva mai, data la sua considerevole mole; il comò veneziano con lo
specchio deve aver riflesso il suo malumore e la sua annoiata sazietà ogni volta che apriva un cassetto.
Le tende alle finestre a tutta altezza sono di velluto cremisi con intricati ricami d’oro e d’argento e,
spingendo da una parte un pannello, vedo che sono foderate di seta dorata, pesante e morbida al tatto.
Guardo il panorama di quel suo mondo esagerato, dove tutto aveva un prezzo e probabilmente nulla
aveva un significato, pagato con il sangue e le sofferenze di tutti coloro a cui Lombardi riusciva a
estorcere qualcosa, che si trattasse di sesso, omicidi o denaro in cambio di droghe sintetiche che portano
alla pazzia e alla morte.
Nella notte nebbiosa sono a malapena visibili le gallerie, non illuminate, che mettono in
comunicazione i vari edifici, e non ci sono luci nemmeno nel centro benessere. Noto per la prima volta
che, sul retro, la sede della Double S non ha finestre. I lampioni lungo il viale sono macchie giallastre
oltre le quali ci sono i vuoti del paddock e del laghetto e poi la scuderia con il tetto a mansarda, che si
staglia enorme contro l’orizzonte nero. Dalle fessure nella grande porta scorrevole e dalle finestre con le
persiane sbarrate filtra un po’ di luce, e mi chiedo chi ci sia, oltre ai cavalli. L’esodo dei dipendenti che
non hanno udito né visto nulla è già avvenuto e Marino ci avrebbe aspettato volentieri, ma dubito che ci
sia riuscito. Fa parte del NEMLEC, non conta nulla, e gli scagnozzi di Granby gli avranno detto che la sua
presenza era superflua e doveva andarsene. Continuo a guardare porte e finestre e mi aspetto di vedere
luci e sentire rumori, e intanto mi chiedo quando verremo invitati ad andarcene anche noi.
Vado verso il comodino, su cui sono posati una lampada di alabastro, una caraffa di cristallo molato e
un bicchiere da acqua, e apro il cassetto. Dentro c’è una pistola di nichel satinato, una Desert Eagle .50
con munizioni sufficienti a sterminare tutti gli abitanti della tenuta, delle fattorie vicine e non solo.
Lombardi non si è preso il disturbo di portarsi dietro un’arma per andare a prendere Haley Swanson alla
stazione e per sedersi a parlare con un suo conoscente o contatto tossicodipendente, in crisi ipoglicemica,
e forse illuso di essere un giustiziere o un eroe.
Chiudo il cassetto e passo a una libreria a destra del letto, sui cui scaffali a specchio sono esposte foto
in cornice di Lombardi in varie fasi della sua vita tragicamente conclusa. In una è ancora bambino, seduto
sui gradini davanti a una casetta a schiera in un quartiere degradato, probabilmente negli anni Cinquanta,
a giudicare dalle auto parcheggiate lungo la strada; era un bel ragazzino biondo, ma con un’espressione
già dura. In molte foto è in compagnia di donne, alcune famose, in locali notturni e bar; in una è seduto a
un tavolo di ferro battuto con una bella bruna che immagino sia la moglie, sul bordo di una magnifica
piscina di pietra in mezzo a un lussureggiante giardino tropicale.
Ce n’è anche un’altra di loro due davanti a una splendida villa antica che mi fa pensare alla Sicilia. E
ci sono foto della coppia con quelli che immagino siano i tre figli, un maschio e due femmine, dalla tarda
adolescenza ai venti o venticinque anni, a bordo di uno yacht bianco in navigazione in un mare
azzurrissimo lungo una costa montuosa, molto verde, con villaggi dai tetti rossi che potrebbero essere
nelle isole Ionie; Lombardi è invecchiato e fortemente sovrappeso. La faccia gonfia e gli occhi piccoli,
socchiusi, esprimono noia e scontentezza, in posa sul ponte di tek in un contesto di una bellezza e di un
lusso che dovevano sembrare sogni irrealizzabili al bambino seduto per terra in un quartiere povero,
ammesso che Lombardi si ricordasse ancora di lui. Ne dubito.
C’è poi una fotografia che si discosta da tutte le altre; la prendo in mano e la esamino con cura. Ritrae
un elefante grigio e un ragazzo, che in confronto sembra minuscolo, che lo sta lavando con una manichetta
e uno spazzolone. Porto la foto alla luce e scruto il ragazzo, piccolo ma muscoloso, in pantaloni corti e
larghi, mimetici, a torso nudo. È scuro di capelli e sorride all’obiettivo con occhi vuoti, di ghiaccio.
Mi viene la pelle d’oca quando noto che indossa scarpe-guanto nere. Le gambe possenti e abbronzate
sembrano terminare con due piedi di gomma nera. La fotografia è stata scattata in un prato con palme da
cocco e una recinzione di rete oltre la quale si vedono il mare aperto, un motoscafo e, in lontananza, navi
da crociera bianche ormeggiate in un porto che riconosco. È il porto di Miami.
«Chi è questo?» domando a Benton.
Si avvicina per vedere, poi fa un passo indietro per lasciarmi spazio e io continuo a guardare quel che
c’è da guardare con i miei occhi.
«Non lo so» dice. «Ma dovremmo cercare di scoprirlo.»
«Il Cirque d’Orleans fa base nel Sud della Florida.» Poso di nuovo la foto sul ripiano a specchio. «E
il 1° dicembre era da queste parti. Il treno è stato fermo sulla Grand Junction per parecchi giorni. Proprio
in mezzo all’MIT.»
«Immagino sia possibile che fra le tante aziende di Lombardi ci sia anche un circo. Sarebbe un ottimo
veicolo di spaccio e anche un buon modo per riciclare denaro sporco, dichiarando false vendite di
biglietti e chissà cos’altro. Forse commerciava pure animali esotici al mercato nero. Chi può saperlo?»
Scatto altre foto inclinando la macchina in modo da evitare il più possibile i riflessi degli specchi e
chiedo a Benton di parlarmi della famiglia di Dominic Lombardi.
«La seconda moglie è alle Isole Vergini, secondo Lucy. Potrebbe essere la donna che si vede in tante
di queste foto» dico. «Figli? Lucy ti ha detto qualcosa in proposito?»
«Glielo chiedo.» Benton scrive un messaggio.
Siccome Benton aspetta la risposta di Lucy davanti a uno specchio basculante con una cornice di legno
intagliato decorata con cherubini musicanti, lo vedo fronte e retro, davanti a me e riflesso nello specchio.
Guardo un dipinto di Luca Giordano raffigurante alcuni fabbri al lavoro e, accanto, una donna seduta
di André Derain con uno sfondo astratto di rossi e verdi. Ci sono un Pierre Bonnard, un Cézanne e un
Picasso appesi in modo molto poco originale alla stessa parete e mi viene subito da chiedere se siano
falsi di ottima qualità.
«Sono sicuro che è quello che raccontava a chi li vedeva» risponde Benton. «Tu cosa pensi?»
«Un po’ mi sembra di essere in un museo e un po’ nel regno della volgarità. Non saprei. Tutti e due,
credo. Non so se siano autentici, ma sono bellissimi e lui probabilmente non ci faceva neanche caso. Li
teneva solo per il loro valore.»
«Il Maurice de Vlaminck di fronte a te è stato rubato a Ginevra negli anni Sessanta. È valutato sui
venti milioni di dollari.» Benton mi segue con lo sguardo.
«E gli altri?»
«Il Picasso è sparito da una collezione privata qui a Boston negli anni Cinquanta. All’asta verrebbe
battuto per circa quindici milioni, tralasciando il piccolo problema che è difficile vendere le opere d’arte
rubate, a meno che l’acquirente non sia d’accordo, e molti lo sono. I capolavori come questi finiscono
tutti in case di lusso, a bordo di superyacht o aerei privati. Perduti finché non riemergono, come questi,
perché il proprietario muore o viene arrestato, o perché qualcuno si accorge che sono autentici. In questo
caso, per tutt’e tre le ragioni.»
«E tu li hai riconosciuti così, come se niente fosse.»
«Quando ero piccolo avevamo un Miró in salotto, che un giorno è stato sostituito da un Modigliani, e
poi da un Renoir. A un certo punto c’era un Pissarro, un paesaggio innevato con un uomo lungo una
strada.»
Benton si allontana dallo specchio per guardare meglio il De Vlaminck, un panorama della Senna dai
colori intensi, ipnotici.
«Il Pissarro è quello che ha resistito più a lungo e sono rimasto malissimo quando, tornando a casa dal
college, ho visto che non c’era più. Avevamo questo posto sulla parete sopra il caminetto dove venivano
appesi a rotazione i quadri più belli. Mio padre comprava e vendeva spesso, non si affezionava mai
veramente a un’opera. Per me invece ogni dipinto era come un gatto o un cane: potevo affezionarmi di più
o di meno, ma inevitabilmente se non c’era mi mancava, così come ti manca un amico, o anche il prof più
noioso di tutti e il bullo della scuola. Non so come spiegarlo.»
Sapevo che il padre di Benton era un intenditore e aveva fatto un sacco di soldi comprando e
vendendo opere d’arte, ma è la prima volta che sento nominare il posto sopra il caminetto e il Pissarro a
cui Benton era così affezionato.
«Mi ci sono voluti cinque minuti per identificare questi. Ho mandato le foto via e-mail al mio ufficio
prima che Granby mi dicesse di andarmene a casa.» Benton mi mostra il telefono, che è diventato il
nostro legame più fidato con la verità e la giustizia. «La statuetta di bronzo sul comodino è di Rodin. C’è
la firma alla base del piede sinistro. È stata rubata da una collezione privata a Parigi nel 1942 e da allora
non si era mai più vista.»
Sotto la statuetta ci sono foglietti di carta e scontrini. Lombardi la usava come fermacarte e provo un
astio che non dovrei provare, perché dovrei mantenere un atteggiamento obiettivo e distaccato. Invece la
mia disapprovazione aumenta ulteriormente quando guardo nella cabina armadio piena di completi di
sartoria, camice firmate, file e file di scarpe fatte a mano e a dir poco centinaia di cravatte di seta
italiana. Nel bagno ci sono un lavabo placcato oro incassato in un piano di quarzo occhio di tigre e un set
da barba di avorio fossile di mammut.
La parete dietro la doccia e la vasca è interamente occupata da un sontuoso trompe-l’œil che raffigura
Lombardi in giacca e cravatta in posa accanto a uno splendido cavallo arabo dentro una scuderia inglese.
Sullo sfondo, un arco di pietra si apre su un panorama che assomiglia più alla Toscana che alla campagna
di Concord. La mano grassoccia di Lombardi è posata con fare possessivo sul collo slanciato del cavallo
e un maniscalco con grembiule e chaps di cuoio, chino dietro l’animale, gli pareggia uno zoccolo
tenendogli la zampa tra le mani protette da guanti di pelle. Quando mi avvicino a guardare meglio, ho
l’impressione che Lombardi, con il viso pingue e gli occhi piccoli e inespressivi, mi fissi.
Sul banco da lavoro raffigurato nel murale ci sono una morsa e molti strumenti appuntiti, raspe, pinze,
lime per affilatura e una coramella, ma è l’oggetto che il maniscalco stringe saldamente nella destra a
catapultarmi in un luogo dove non avrei mai pensato di finire entrando nel bagno di Lombardi. Mi ritrovo
con il pensiero nella scuderia e davanti agli occhi ho una specie di scalpello con un lungo manico di
legno e la lama corta, leggermente ricurva, affilata da una parte e smussa dall’altra, con la punta uncinata:
un coltello da pareggio che serve per eliminare la parte morta e rinsecchita della suola degli zoccoli dei
cavalli.
«Quando sei stato nella scuderia con Marino, era così?» Gli indico il banco da lavoro in un ampio box
con paglia per terra e travi di legno a vista sul soffitto.
«Meno bella e meno ordinata, senza archi con vista sui vigneti» risponde Benton sarcastico. «Ci sono
un sacco di attrezzi. Il cavallo si chiama Magnum.»
40
«Un coltello da maniscalco.» Tocco quello dipinto sul muro. «La punta uncinata spiegherebbe il solco
abraso e superficiale, con riccioli di pelle sollevata, che corre parallelo al taglio più profondo prodotto
dalla parte dritta e affilata della lama» dico a Benton. «L’assassino potrebbe essere andato a prenderlo
nella scuderia perché sapeva che si trovava lì, a portata di mano, e poteva essere usato come arma. Non è
concepibile che fosse uno sconosciuto e che nessuno lo abbia notato.»
Passo il dito sul manico di legno scuro impugnato dal maniscalco e sulla lama corta ripiegata su se
stessa in punta. Percepisco al tatto lo spessore degli strati di vernice sulle piastrelle di marmo e
immagino Lombardi sotto la doccia o nella vasca che guarda l’attrezzo che un giorno lo ucciderà
decapitandolo quasi completamente.
«Non ti verrebbe mai in mente, se non lo sai.»
Immagino di procurarmi un coltello da maniscalco e di provarlo sulla gelatina balistica per vedere
come si comporta.
«A prima vista, uno potrebbe non rendersi conto di quanto è efficace: abbastanza tagliente da
pareggiare lo zoccolo, ma non tanto da affondare troppo nella suola. Non è affilato come un rasoio, che è
difficile da maneggiare se uno è in preda a un raptus o ha le mani sporche di sangue. L’affilatura dei
coltelli da zoccoli è un’arte. I maniscalchi sanno che non bisogna affilarli né troppo né troppo poco, per
non fare del male a se stessi o ai cavalli.»
«Una scelta inconsueta, apparentemente illogica.» Benton fa il giro della grande vasca di marmo per
esaminare il trompe-l’oeil. «Ma non ho visto coltelli normali nella scuderia. Forse è per questo che ha
scelto un attrezzo così. Potrebbe dipendere anche dalle sostanze di cui fa uso. Se ha assistito alla
ferratura dei cavalli, può essergli successo di vedere un maniscalco che si è tagliato, magari perché era
stanco, alle prese con un cavallo nervoso e recalcitrante che non stava fermo, come la tua vittima quando
cerchi di tagliarle la gola. Oppure può avergli visto affilare gli attrezzi.»
Nel murale c’è un altro coltello da pareggio, stretto nella morsa sul bancone. Benton lo guarda.
«E nel suo stato mentale sempre più alterato, la cosa ha assunto un significato particolare.» Benton sta
cercando di entrare nella mente dell’assassino, di ragionare come lui. «Si identifica con un cavallo, uno
dei tanti possedimenti di Lombardi, maltrattato e tenuto sotto controllo, chiuso in una stalla. Forse
stamattina è stato rimproverato, si è sentito frustato verbalmente. Potrebbe esserci un significato
simbolico come per il Vicks e gli attrezzi sotto i sassi. Un simbolo di potere: io vinco e tu perdi. Ma è
anche perché delira.»
«L’unica cosa che posso dire con una certa sicurezza» replico «è che non è entrato nella scuderia per
caso, ha visto un attrezzo insolito con un lungo manico di legno e una lama corta con la punta uncinata e
ha pensato che potesse servirgli per uccidere.»
«Conosce i cavalli, la scuderia e la tenuta» conclude Benton. «E le sue manie ormai hanno preso il
sopravvento e gli scombussolano la vita.»
«Perché i dipendenti di Lombardi non vogliono dire chi è? Per paura che, se non viene arrestato in
tempo, lui lo scopra e si vendichi?»
«Forse è il contrario. Potrebbero non avere paura di lui perché lui non ha paura di loro. Soprattutto se
frequenta la tenuta, si sono visti in altre occasioni e lui è stato cordiale.»
«In questo caso sarebbero rei di favoreggiamento in omicidio e dovrebbero rispondere di omessa
denuncia.»
«Sempre che si riesca a dimostrarlo.»
«Probabilmente non è una novità per loro» decido mentre fotografo Lombardi e il maniscalco con il
coltello in mano. Poi una scampanellata annuncia l’arrivo di un altro SMS di Lucy.
«Ha tre figli dalla seconda moglie» mi riferisce Benton. «Un maschio che fa il consulente finanziario a
Tel Aviv e due figlie, che studiano una a Parigi e una a Londra.»
«Bella famiglia» commento e intanto decido che la foto del ragazzo che lava l’elefante va mandata a
Lucy. Ho un brutto presentimento.
Poi Benton e io usciamo dalla casa nello stesso modo in cui siamo entrati. Fuori la notte sembra più
fredda e inclemente di prima. I grossi pini tra cui ci inoltriamo sono ancora più fradici di pioggia e i rami
scossi dal vento ci sferzano la faccia. Nel parcheggio ci sono altre auto e le finestre degli uffici sono tutte
illuminate, sia al pianoterra sia al primo piano. I morti non ci sono più: sono al sicuro nelle celle
frigorifere del CFC, dopo essere stati sottoposti all’autopsia.
Mi sembra più tardi di quanto non sia e il rombo del motore turbo della Porsche mi pare più forte del
solito quando imbocchiamo il viale, passiamo davanti alla grande scuderia rossa e ci fermiamo alle
transenne dove è parcheggiato un furgone nero dell’FBI con i finestrini fumé. È lì di guardia e immagino
non sia l’unico: i federali tengono sotto controllo Concord e le vie di accesso al centro, oltre agli incroci
di tutte le strade che il ricercato potrebbe prendere. Lo troverei rassicurante se stessero dando la caccia
al bersaglio giusto, ma purtroppo non è così.
Benton mette in folle e tira il freno a mano. Abbassa il finestrino e aspetta, perché sa esattamente come
ragiona l’FBI e quanto è importante non fare gesti bruschi o dare segni di nervosismo che possano essere
fraintesi. Forse gli agenti a bordo del furgone conoscono la sua Porsche e sanno che è stata ferma nel
parcheggio della Double S per un po’, ma evidentemente Benton non gli interessa, perché sono rimasti
dov’erano all’imbocco del viale, nascosti sul furgone con tutte le attrezzature di sorveglianza. Immagino
che controllino la targa di ogni auto, camion e moto che passa, tenendosi in contatto con altri agenti a
bordo di veicoli o a piedi, in attesa di entrare in azione e sbarrare ogni via di fuga a chiunque stiano
dando la caccia.
Benton preme un pulsante e il mio finestrino si abbassa con un ronzio discreto. Guardo fuori, nella
notte nebbiosa, e vedo materializzarsi un agente in tenuta tattica nera, con il dito indice pronto sul
grilletto della carabina che tiene appoggiata al petto. Se non sapeva di chi fosse la nostra macchina, nel
frattempo ha controllato la targa. Non sembra aggressivo, ma neppure rilassato.
Non sorride mentre mi guarda dal finestrino aperto: è giovane, capelli cortissimi, bello e in forma
come tutti gli agenti federali. Lucy direbbe che sembra uscito dalla “fabbrica degli sbirri”, che sforna
automi tutti programmati esattamente nello stesso modo e tutti con la stessa conformazione fisica. E se lo
dice lei che c’è stata... Agenti che danno lustro all’America con la loro bella presenza, il loro potere e la
loro fotogenicità, dice.
È fin troppo facile cedere alla tentazione di considerarli eroi e volerli emulare, e quando mia nipote,
ancora al college, è stata presa come stagista è rimasta completamente affascinata. Non c’è nulla di più
impressionante e più sexy dell’FBI, dice adesso, finché non ti scontri con la sua totale assenza di senso
pratico e di meccanismi di controllo interno, finché non ti trovi faccia a faccia con uno come Ed Granby,
che risponde direttamente a Washington, credo. Con la stessa scarsa cordialità con cui l’agente si è
presentato, declino le mie generalità e lo informo che ho concluso il sopralluogo e me ne sto andando.
Non gli mostro le credenziali con lo stemma del CFC. Aspetto che me le chieda lui, eventualmente.
L’agente sposta lo sguardo da me a Benton, che tace e lo ignora, ottenendo l’effetto desiderato. Sul viso
dell’agente passa un’ombra di incertezza quando si rende conto di essere davanti a una figura autorevole
e spazientita che non ha paura di lui. Poi però sorride. Intuisco la sua ostilità un attimo prima che tiri a
Benton una frecciata.
«Buonasera, dottor Wesley, come sta?» Appoggia il braccio sulla canna della carabina che ha a
tracolla e si china un po’ di più. «Nessuno mi ha detto che era ancora qui, ma io ho immaginato che non
volesse lasciare qui una macchina come questa e farsi dare un passaggio da qualcuno.»
«No» risponde Benton con totale indifferenza a ciò che l’agente sta insinuando.
La sua auto di lusso è stata notata e forse era evidente a tutti che io e lui eravamo ancora nella tenuta a
curiosare, ma la nostra presenza è stata ritenuta irrilevante. Non facciamo parte dell’ingranaggio, non
siamo importanti. Non costituiamo un pericolo e forse lo stesso Granby non ci considera tali. Poi, dal lato
del furgone che da dove sono io non si vede, arriva un secondo agente, una bella donna in uniforme da
fatica, i capelli raccolti in una coda di cavallo che spunta da sotto un berretto da baseball. Si avvicina al
collega e mi sorride. «Salve, come va?» esordisce, come se fosse una serata qualsiasi.
«L’arma che state cercando potrebbe venire dalla scuderia.» Mi volto in quella direzione, ma da dove
ci troviamo la scuderia è invisibile, nascosta dietro una curva. «Penso si tratti di un coltello che si usa
per gli zoccoli dei cavalli, con un lungo manico di legno e una lama molto affilata con la punta ricurva.»
«L’arma del delitto potrebbe essere nella scuderia?» Il primo agente non ci toglie gli occhi di dosso.
«Non penso che l’assassino sia corso a rimetterla a posto dopo aver ucciso tre persone» replico
pacatamente. «Immagino però che troverete altri coltelli da pareggio. È possibile che l’assassino fosse
già stato nella scuderia: questo è il dato significativo. Vi conviene riferirlo ai vostri tecnici.»
«Su cosa si basa questa sua affermazione?» domanda l’agente donna, più incuriosita che preoccupata.
«Le ferite sul collo delle vittime sono compatibili con un coltello da maniscalco come quello che vi
ho descritto e, a meno che l’assassino se lo fosse portato da casa, è probabile che lo abbia preso qui nel
ranch. Non saprei quale altra arma potrebbe provocare quel tipo di lesioni.»
«È proprio sicura che si tratti di quel genere di coltello?» chiede ancora l’agente. Si comporta come
se la cosa le interessasse, ma non è vero.
«Sì, sono sicura.»
«Quindi non vale la pena di cercare coltelli da cucina, per esempio.»
«Sarebbe uno spreco di tempo e un inutile aggravio di lavoro per i laboratori.»
«Provvederò a far controllare.» Il primo agente toglie la mano dalla portiera e si scosta dalla
macchina. «Passate un buon Natale.»
Spostano le transenne per lasciarci passare. Benton mette la prima, la seconda e dà un’accelerata
prima di mettere la terza: è il suo modo di mandarli ’affanculo, parola che non direbbe mai ad alta voce.
Ma può darsi che il primo vaffanculo sia stato di Granby, che forse continua a mandarci a quel paese
anche in questo preciso momento.
Quando Lucy risponde al telefono, sono già sulle spine al pensiero di quello che può aver architettato Ed
Granby. In preda alla paranoia, immagino le cose più spaventose.
È possibilissimo, se non addirittura certo, che Granby sappia che ci siamo trattenuti per un’ora senza
autorizzazione e che non abbia fatto niente perché è subdolo e calcolatore. È un politico abilissimo e
sicuramente non vuole fare la figura di quello che allontana la direttrice dell’Istituto di medicina legale
del Massachusetts dalla scena di un triplice omicidio che è all’attenzione dei media.
Darebbe l’impressione di essere scorretto, di avere qualcosa da nascondere. Apparirebbe per quello
che è veramente. Non avrebbe avuto remore ad allontanare Benton, ma non è stupido. Con me doveva
essere più accorto e più infido. Ha aspettato che Benton e io ce ne andassimo prima di far intervenire i
suoi tecnici. Improvvisamente le comunicazioni elettroniche non mi sembrano abbastanza protette. Tutto
mi pare rischioso.
«Stiamo venendo via e voglio essere sintetica.» È il mio modo per far capire a Lucy che intendo
prestare attenzione a quello che dico.
«Certo» risponde.
«Non so a che ora arriveremo a casa e sono preoccupata per Sock.» Lucy sa che sto cercando di dirle
qualcos’altro, perché Janet è passata a prendere il cane verso le cinque, quando la mia domestica Rosa se
n’è andata: è stata Lucy stessa a telefonarmi per dirmelo.
«Sock sta bene. A proposito, Rosa ha detto che se non fai l’albero tu, ci penserà lei. Sempre che Bryce
non la batta sul tempo.»
«Ci penserò io» rispondo.
«Ma stasera il tuo cane non può tornare a casa.»
Mi sta dicendo che non posso andare a casa io e che nemmeno Benton dovrebbe andarci. L’assassino
si è già introdotto nella nostra proprietà e sappiamo che è squilibrato, anche se non possiamo prevedere
quanto. Molto probabilmente a quest’ora Sock sta dormendo a casa di Lucy, che non è lontano da qui, e
mi dispiace non avere il tempo di fermarmi da lei. Vorrei avere una vita abbastanza tranquilla e sicura da
poter cenare con la mia famiglia e il mio cane.
«Chi c’è al CFC adesso?» chiedo.
«Bryce, gli addetti alla sicurezza e io. Marino è fuori con Machado. I medici hanno finito e se ne sono
andati.»
«Anne è tornata a casa?»
«È uscita a mangiare qualcosa con Luke e dopo non so dove andrà. Ma hanno detto tutti e due che, se
hai bisogno, tornano.»
Ho il sospetto che Anne stia con Luke Zenner, che oltre a essere bello è donnaiolo. Non mi importa,
ma non durerà. Va bene così, purché non importi neppure a lei.
«Non ce ne sarà bisogno» rispondo. «Raccomandagli di essere prudenti, però. C’è motivo di temere
che la persona ricercata dall’FBI sia molto instabile.»
«Lo credo: ha ammazzato quattro persone nell’arco di dodici ore, e chissà cos’altro ha in mente di
fare.»
«Stai bene?» In realtà le sto chiedendo notizie del lavoro che sta facendo, ovvero esaminare il server
della Double S. «Qualcuno ha chiesto notizie sull’ubicazione o lo stato?»
«Affermativo.»
L’FBI sa che il computer è nelle nostre mani e il CFC è stato contattato.
«La solita trafila burocratica, che richiederà un po’ di tempo» aggiunge Lucy.
Per il momento è riuscita a fermarli.
«Ma sto benissimo.» Mi risponde a tono, senza dire nulla di esplicito.
«Appena arrivo, vado subito nel PIT, se è pronto.»
«Prontissimo. Ho sostituito il proiettore guasto. Digli di salire subito da me.» Non nomina apertamente
Benton. «Ho un nuovo motore di ricerca molto cool da fargli vedere.»
Ha trovato altre informazioni compromettenti su Ed Granby. Per quanto calcolatore, Granby questo
non l’ha calcolato. Ma qualcosa sta tramando e dobbiamo essere prudenti.
Soprattutto, dobbiamo essere scaltri.
«Riferisco» rispondo.
Chiudo la chiamata, mi poso il telefono sulle ginocchia e guardo fuori: è buio e il Minute Man Park, a
quest’ora, è uno spazio vuoto e nebbioso in cui si intravedono sagome di statue e il ponte di legno che
l’assassino ha attraversato di corsa stamattina. Le luci della Double S occhieggiano in lontananza tra gli
alberi, mentre noi proseguiamo lungo la strada deserta.
«Dici che abbiamo i telefoni sotto controllo?» chiede Benton.
«Non mi sembra di aver detto niente.» Mi rendo tristemente conto che li difenderà, e ogni volta questa
tristezza, mista a una profonda irritazione, crea una distanza fra noi.
«Conosco il tuo modo di parlare, Kay.»
«Sai anche perché sono preoccupata, Benton.»
Non sono sicura che si renderà mai conto della gravità della situazione e provo quel che ho già
provato in passato, uno sconforto che mi rode l’anima. Benton idealizza il Bureau di quando era giovane
e ottimista e faceva la gavetta, ben prima di salire di grado fino a raggiungere l’apice della sua carriera
con la direzione di quella che all’epoca si chiamava Unità di scienze comportamentali a Quantico.
Capisco il suo dilemma. Lo capisce anche Lucy. Per lui accettare l’idea che l’ FBI e il dipartimento
della Giustizia da cui il Bureau dipende siano capaci di certe nefandezze è come per me pensare che
un’autopsia sia un’inutile crudeltà paragonabile alla dissezione di una rana a scuola.
«Faranno qualsiasi cosa, purché riescano a giustificarla. Spiare normali cittadini, giornalisti, un
medico legale... Non sarebbe la prima volta. È sempre peggio.» È una verità che da qualche tempo ripeto
fin troppo spesso. «Una volta aperta la strada, per uno come Granby uscire impunemente dal seminato è
molto più facile.»
«Non ci sono gli estremi per autorizzare le intercettazioni delle nostre telefonate. Non essere
paranoica.»
«Non cercare di essere corretto a tutti i costi, Benton, perché lui non lo è. Può violare tutto quello che
gli pare, tanto noi che cosa possiamo fare? Denunciare il governo?»
«Dobbiamo mantenere la calma.»
«Io sono calmissima. Più calma di così non potrei essere, e sono al corrente dei casi aperti come lo
sei tu, ma per ognuno di quelli di cui veniamo informati ce ne sono infiniti altri di cui siamo all’oscuro.
Lo sai meglio di me. Se il dipartimento della Giustizia e l’FBI decidono di intercettare telefonate senza
l’autorizzazione del tribunale, chi può impedirglielo?»
«Granby non è l’FBI che conosco io. Non è l’FBI che tu e io conosciamo.»
«Sicuramente non l’FBI che conoscevamo, su questo sono d’accordo.» Non lo dico sgarbatamente né
con la foga che vorrei, perché Benton si metterebbe ancora di più sulla difensiva.
Non uso l’espressione “Stato di polizia”, ma ce l’ho sulla punta della lingua. Non lo faccio perché
l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento, stanchi e stressati come siamo, è litigare.
Benton e io abbiamo litigato molte volte a proposito del dipartimento della Difesa e di quello della
Giustizia, schierandoci su fronti diversi, e nella normalità fra di noi vige una pacifica tregua.
Ma questa non è la normalità ed è inevitabile che Benton denunci il suo capo Ed Granby. Bisogna però
che sia lui a farlo, e lui lo sa, ed essendo un uomo di sani principi gli dispiace che si sia arrivati a tanto e
vorrà procedere in maniera discreta e dignitosa. Non sarà facile, considerato che abbiamo a che fare con
una serpe. Lucy e io dobbiamo trovare un modo per aiutare Benton a essere un po’ più furbo e un po’
meno rispettabile, e credo di averlo trovato.
«Il Bureau è lungi dall’essere perfetto, ma chi può dire di esserlo?» Benton guida e non mi guarda.
«Granby avrà quello che si merita.»
«Da parte mia, farò il possibile.»
«Non sei tu a dover combattere questa battaglia.»
Scala la marcia e rallenta a un incrocio circondato da alberi fitti: il rombo del motore si abbassa di
un’ottava.
«L’FBI vuole che gli consegniamo il server della Double S.» Riferisco quel che mi ha detto Lucy tra le
righe. «E io sono pronta a darglielo stasera, ma bisogna che Granby mi firmi una ricevuta. Altrimenti farò
in modo che la cosa vada per le lunghe, li costringerò ad aspettare per giorni. Dubito che faranno
un’irruzione nella sede del CFC.»
«Sì, anch’io.» Benton si volta a guardarmi un attimo e percepisco la sua determinazione, mista a una
profonda delusione. «Hai avuto una buona idea. È giusto che debba venire lui di persona.»
Il display del mio telefono si accende, quasi mi stesse invitando a fare quello che sto per fare. Ho
deciso. Mi servono dei testimoni. Testimoni che non facciano parte delle forze dell’ordine, ma che
abbiano contatti con personaggi di potere, avvocati che se ne fregano dell’FBI e, anzi, lo considerano
carne da macello. La compagna di Lucy, che in passato è stata nell’FBI, adesso fa l’avvocato ed è nota per
il suo impegno ambientalista; e poi c’è Carin Hegel, amica del governatore e del procuratore generale,
per citarne solo due.
Benton svolta a sinistra e imbocca Lowell Road, rallentando a un passaggio pedonale, poi la strada a
due corsie attraversa il nastro scuro del fiume, riportandoci verso il centro di Concord, dove
percorreremo Main Street per prendere la Concord Turnpike e tornare a Cambridge. Gli poso la mano sul
braccio e sento i muscoli che si contraggono quando sposta la leva del cambio in titanio rivestita in pelle.
Chiamo di nuovo Lucy.
«Dovresti gentilmente far sapere a chi ti ha contattato che saremo lieti di collaborare, purché sia
rispettata la procedura di tracciabilità dei reperti» le dico. «Nel senso che il capo divisione mi dovrà
firmare personalmente una ricevuta, altrimenti la pratica rischia di incepparsi e rallentare. Possono
venire a ritirare il reperto fino a mezzanotte. Sto rientrando in ufficio. Cambiando argomento, vorrei che
portassi subito in ufficio anche Sock.»
Mia nipote tace. Sta cercando di decifrare il messaggio.
«Nervoso com’è, con un assassino a piede libero... Penso che il CFC sia il posto più sicuro per tutti
noi, finché l’FBI non avrà arrestato il ricercato o ci avrà assicurato che non è più in zona» aggiungo a
beneficio di eventuali orecchi indiscreti che stiano ascoltando la telefonata.
Forse non ce ne sono, ma la prudenza non è mai troppa.
«Nessun problema» replica Lucy. «Riferirò i messaggi e faremo i passi necessari.»
«È esattamente quello che intendevo. Non credo ci siano alternative, date le circostanze.»
«Lascia fare a me. Ordino anche qualcosa da mangiare.» Chiamerà Janet e Carin Hegel e metterà bene
in chiaro che se l’FBI vuole il server, bisogna che Ed Granby venga a prenderselo al CFC e parli con me.
«Ho dello stracotto e un ottimo minestrone nel frigorifero. E anche delle lasagne al forno con il ragù
che mi sono venute molto bene.» Cerco di ricordare se serve altro. «E porta anche una scatoletta per
Sock, le sue medicine e una delle sue cucce.»
41
Sono sola nel PIT, sul quale è risaputo che faccio battute acide e sarcastiche, perché trovo che ricorrere a
forme così estreme di tecnologia equivalga ad ammettere il totale fallimento della tecnologia stessa.
È in momenti come questi che mi rendo conto che, se il mondo non fosse imperfetto e gli esseri umani
non fossero intrinsecamente limitati, non avrei bisogno di un sala come questa, dotata di tavoli interattivi,
interfacce tattili e sistemi di ortoproiezione di dati Lidar per immergersi in una realtà virtuale e scoprire
come si sono verificate, per incidente o per dolo, tragedie che la tecnologia ci consente di capire meglio,
ma per cui comunque non c’è rimedio.
Come diceva mio padre quando stava per morire e non aveva più la forza di alzarsi da letto o di
mangiare da solo: “Se i desideri si potessero realizzare, Kay, sarei seduto al sole in giardino a sbucciare
un’arancia”. Il defunto dottor Schoenberg desiderava impedire alla sua defunta paziente Sakura Yamagata
di spiccare il volo con ali che non aveva, e la defunta Gail Shipton di liberarsi di ciò che le limitava
l’esistenza. Potendo scegliere, avrebbero preferito non essere tossicodipendenti, disonesti, deboli,
depressi e soprattutto avrebbero preferito non morire.
Le persone sbagliano, ogni cosa si rivela inferiore alle aspettative. Quando nasciamo, crediamo in un
sogno che cerchiamo di realizzare, ma che piano piano dubitiamo di riuscire a concretizzare e che
finiamo per temere, e il sogno a poco a poco arrugginisce, marcisce, si scolora, si decompone,
avvizzisce, muore e torna polvere. La mia reazione è sempre la stessa: mettere ordine. È il mio mestiere
ed è quello che sto facendo anche adesso, in piedi davanti a un lungo tavolo interattivo sul quale
proiettori di dati mi permettono di visualizzare documenti elettronici e fotografie che sfioro con le dita
per entrare e uscire da cartelle virtuali, sfogliandole come se fossero di carta, aumentando e diminuendo
lo zoom: sto riesaminando i referti dell’autopsia, degli esami di laboratorio e della polizia riguardo a
Gabriela Lagos.
Sulla parete curva accanto a me vedo la sua immagine virtuale, enorme e grottesca, in 3D. È un po’
che vado avanti e indietro fra il tavolo interattivo e un tavolo più piccolo, dove si trovano una tastiera e
un mouse wireless. È come se fossi dentro la stanza da bagno, davanti alla vasca piena d’acqua torbida e
al cadavere tumefatto. Vedo arterie e vene di un nero verdastro sotto la pelle traslucida che si sta
staccando e, nella parte sommersa, è arrossata e coperta di vesciche da ustione. Muovo le immagini e ho
la sensazione di camminare nella stanza; sembra proprio che io sia lì, come se stessi effettuando il
sopralluogo al posto del mio ex vice, il dottor Geist, che ormai ha quasi ottant’anni e abita in un
residence di lusso per anziani nel Nord della Virginia.
Quando gli telefono, sulle prime è cordiale e piacevolmente sorpreso di sentirmi, dopo tanti anni. Mi
parla di quanto è contento di essere in pensione, mi dice che fa qualche consulenza occasionale, meno di
un tempo, ma quanto basta per non tagliarsi completamente fuori, perché è importante mantenere giovane
il cervello. A mano a mano che parliamo diventa più scostante e sgarbato e poi apertamente ostile quando
insisto sui particolari del caso di Gabriela Lagos, gli stessi sui quali litigammo nel 1996. Ma adesso so
quel che allora non sapevo.
Alle tredici e undici del 3 agosto, Geist si recò a casa di Gabriella Lagos e stabilì rapidamente che si
trattava di una morte accidentale, perché lo aveva già stabilito prima ancora di vederla. Sapeva già che
cosa avrebbe trovato e come lo avrebbe interpretato: è questo che ho capito soltanto stasera.
«Ricordo il cadavere nella vasca e che la vasca era piena d’acqua fino a metà circa» mi dice. Sono le
dieci e mezzo di sera e sento dalla voce che ha bevuto. «Un annegamento accidentale, senza nulla di
sospetto. Mi sembra di ricordare che tu non fossi dello stesso parere.»
«Con il senno di poi, sei sicuro che la scena non fosse stata alterata o manomessa?» Mi domando se
gli anni trascorsi abbiano sotterrato talmente in profondità le sue menzogne che adesso non si ricorda più
per quale motivo le ha dette, o se invece deciderà di cogliere questa occasione per concludere la sua
esistenza terrena da uomo onesto.
Non mi sorprende trovarlo uguale a come lo avevo lasciato. Dice che ricorda che nella casa faceva
caldissimo, non si respirava, e le finestre del bagno erano nere di mosche che ronzavano tra le tende
tirate e i vetri. Il fetore era talmente insopportabile che uno dei poliziotti vomitò e altri due dovettero
uscire di corsa in giardino in preda ai conati. Gabriela Lagos aveva bevuto della vodka, prima di fare un
bagno caldo, e questo l’aveva resa più vulnerabile all’aritmia che le aveva fatto perdere conoscenza. E
così era annegata, mi racconta.
Non c’era nulla di anomalo, ribadisce. La sua versione dei fatti non è cambiata perché non è successo
niente negli ultimi diciassette anni che lo abbia indotto a ripensarci, a trovare un’interpretazione diversa,
o semplicemente a pararsi il culo. Con ogni probabilità non ci aveva mai più pensato e, se non fosse stato
per la mia telefonata, mai più lo avrebbe fatto.
«E nessuno ha riordinato il bagno in tua presenza, o magari prima che tu arrivassi» suggerisco.
«Non credo proprio.»
«Ne sei completamente sicuro.»
«Cosa stai cercando di insinuare?»
«La porta esterna della cucina era socchiusa e avrai notato che il condizionatore era spento, Geist.
Impossibile che lo abbia spento lei prima di morire. Era la fine di luglio e la temperatura era sui trenta
gradi.»
Mentre parlo, guardo le foto sul tavolo interattivo. Il termostato con l’interruttore spento; la porta
socchiusa della cucina e, oltre il vetro, un grande giardino con molti alberi dal quale sarebbe stato facile
introdursi in casa con il favore del buio per manomettere la scena del crimine. Specie sapendo che cosa
avrebbero cercato gli investigatori, essendo bene informati e capaci di ordire complotti, dare false
impressioni e mentire spudoratamente. Senza essere così spudorato da commettere un reato, il dottor
Geist potrebbe aver trascurato certi particolari se un funzionario di un’agenzia governativa l’avesse
convinto che era necessario farlo nell’interesse generale.
«Il tasso alcolemico, zero virgola zero quattro per cento, molto probabilmente era dovuto all’avanzato
stato di decomposizione.» Sposto il referto delle analisi al centro del tavolo. «Dal tossicologico non
risulta che avesse assunto alcolici.»
«Mi sembra di ricordare che la polizia avesse trovato una bottiglia di vodka e una confezione di succo
d’arancia vuoti nella pattumiera della cucina.» Il tono indisponente e l’arroganza sono sempre gli stessi,
come una registrazione ascoltata infinite volte.
«Non sappiamo chi avesse bevuto la vodka. Potrebbe essere stato il figlio o qualcun altro...»
«All’epoca non sapevo nulla del figlio né delle accuse che gli sono state mosse. Prevalentemente per
causa tua, perché volevi a tutti costi farlo diventare un caso clamoroso e sollevare uno scandalo.» Mi
interrompe maleducatamente, e anche questa non è una novità. «Non spetta a un patologo forense trarre
questo genere di conclusioni e ho sempre sostenuto che avresti fatto meglio a non impicciarti tanto.
Credevo che avessi imparato la lezione, dopo le tue dimissioni, che sono state un brutto giorno per tutti
noi.»
«Sì, e sono sicura che la posizione che ho preso in quella circostanza abbia un legame diretto con le
mie dimissioni e le relative conseguenze, non ultimo il fatto che tu per anni sei andato avanti
tranquillamente, senza un direttore sopra la tua testa a mettere in dubbio il tuo operato e a sollevare
scandali. Dopodiché te ne sei andato in pensione e hai guadagnato quello che volevi facendo consulenze
su casi per lo più di competenza federale. Scusa se ti ho telefonato così tardi, ma non ti avrei disturbato
se non si fosse trattato di una cosa importante.»
«Ti ho sempre rispettato e ho sempre parlato bene di te, dicendo che eri una gran lavoratrice, molto
competente» ribatte, e posso solo immaginare i giudizi malevoli che avrà sputato sul mio conto a
chiunque poteva avere voce in capitolo nel respingere le mie dimissioni. «Ma hai sempre voluto strafare.
La nostra competenza si limita al cadavere, non tocca a noi stabilire chi è stato o non è stato, perché o
percome. Non dovrebbe interessarci minimamente, né questo né l’esito del processo.»
Mi fa la predica esattamente come un tempo e l’antipatia che provo per lui è viva come l’ultima volta
che l’ho incontrato a un congresso, con la sua andatura curva, dopo essermene andata definitivamente
dalla Virginia. Mi ha salutato con la sua faccia da avvoltoio e i denti gialli e mi ha stretto la mano
dicendo che aveva saputo, che gli dispiaceva tanto, ma che ero abbastanza giovane per ricominciare, o
magari dedicarmi all’insegnamento universitario.
«Ho una copia di tutto il dossier, tabulati delle telefonate compresi» gli dico. Ormai è apertamente
ostile. «E ho notato che l’FBI ti chiamò per qualcosa che doveva riguardare Gabriela Lagos, perché c’è
un’annotazione nel dossier che la riguarda e c’è anche il suo numero identificativo.»
«Era schedata perché aveva un nullaosta di sicurezza per lavorare alla Casa Bianca. Faceva qualcosa
che aveva a che fare con l’arte ed era stata sposata con un diplomatico o qualcosa del genere. Ora devo
andare.»
«Il vicedirettore della divisione di Washington, Ed Granby, ti chiamò alle dieci e zero tre del 2 agosto
1996, per la precisione.»
«Non capisco dove vuoi andare a parare e si sta facendo molto tardi.»
«Il cadavere di Gabriela fu trovato solo il giorno successivo, il 3 agosto.»
Prima che mi interrompa o che butti giù il telefono, gli ricordo anche che si pensava fosse morta nel
tardo pomeriggio del 31 luglio e che il 3 agosto un vicino di casa, avendo notato i giornali accumulati
davanti alla porta e i nugoli di mosche alle finestre, aveva chiamato la polizia.
«Quindi vorrei sapere perché Ed Granby ti avrebbe contattato a proposito del caso il giorno prima che
venisse ritrovato il cadavere.» Arrivo a un punto a cui non avrei mai immaginato di arrivare. «Come
faceva a essere al corrente di una cosa che non era ancora successa?»
«I ragazzi erano spariti e questo era fonte di grande preoccupazione, penso.»
«I ragazzi? Più di uno?»
«Non so, ricordo soltanto che erano tutti molto preoccupati.» Alza la voce come se fosse un’arma con
cui si accinge a colpirmi.
«Immagino che il motivo per cui Granby ti chiamò fosse assicurarsi che non si verificasse nulla di
preoccupante se e quando fosse stato scoperto qualcosa di tragico. Come stava per accadere» replico
senza peli sulla lingua. «Il giorno dopo, guarda caso.»
«Ti prego di non chiamarmi mai più per parlarmi di queste cose!»
«La prossima volta non sarò io a chiamarti, Geist.»
In tre dimensioni e ad alta risoluzione la malafede del mio collega non potrebbe essere più evidente. Ho
davanti agli occhi il bagno, arredato in modo tradizionale, classico. La porta è aperta e guardo dentro,
osservandolo come se fossi appena arrivata e fosse la prima volta che lo vedo. Poi entro.
Il coperchio nero del WC bianco è abbassato, come se ci si fosse seduto qualcuno, e nel folto tappetino
bianco sul pavimento di mattonelle bianche e nere ci sono le impronte di un paio di scarpe da ginnastica
numero quarantasei o quarantasette. Immagino un uomo, probabilmente giovane, seduto sul coperchio del
gabinetto con i piedi sul tappetino mentre Gabriela fa il suo bagno rituale. Quadra con il diario che
Benton ha letto sul dischetto di Martin Lagos quindicenne, di cui ho alcune pagine visualizzate sul tavolo
interattivo.
Si spalma quella merda bianca sulla faccia e mi chiama, mi chiama, mi chiama. «Martin! M ARTIN!» Finché non vado e la
trovo lì che mi guarda in quel modo spaventoso di quando è del suo umore del cazzo, non saprei come altro chiamarlo, e non
dovrei andarci e non so perché ci vado. Mi odio quando le do retta, ma se non vado lei si mette a gridare. E allora ci vado,
ma non lo sopporto, non lo sopporto!
ODIO!
Sono pieno di odio e non vorrei. Ma fa parte della natura umana, non puoi non essere pieno di odio se parti
abbastanza bene nella vita e poi ti fanno delle cose che ti rovinano. Lo so che me la vedrò davanti per tutta la vita, quella sua
faccia bianca come un clown, come un jolly, circondata di fiamme e vapore. Ha la stessa puzza di quella merda che mi
spalma addosso quando ho il raffreddore, ed è cominciato tutto da lì, me lo ricordo, quando avevo sei anni, ero malato e lei
veniva nel mio letto e io sarei voluto morire. Ci penso tutte le volte che entro e lei grida: «Martin! Vieni qui! Vieni a sederti
un po’ qui a chiacchierare con tua madre!».
Le fiamme erano quelle delle candele votive che dopo la morte di Gabriela sono state risistemate sul
bordo della vasca, e non può essere sfuggito al dottor Geist che due di esse erano rotte, crepate, che
c’erano gocce di cera sul pavimento e a galla sul pelo dell’acqua. Le vedo benissimo nelle immagini che
Lucy ha messo insieme e che adesso sono proiettate sulla parete curva del PIT: è chiaro che a un certo
punto le candele sono cadute per terra e dentro la vasca e la cera fusa si è rappresa. Poi qualcuno deve
averle raccolte e risistemate sul bordo della vasca rimettendole bene in ordine, come tutto il resto.
Osservo i grandi asciugamani bianchi ordinatamente piegati sugli scaffali, i quadretti in cornici
barocche sulla parete di marmo grigio, perfettamente diritti, e un accappatoio appeso vicino alla cabina
doccia. Su un piccolo asciugamano di spugna aperto sul piano accanto al lavabo c’è una maschera per il
viso al tè bianco e sul flacone c’è ancora l’etichetta con il prezzo del negozio dove è stata comprata, una
boutique di prodotti termali che si chiama Octopus. Accanto c’è una boccetta di olio per il corpo
all’eucalipto, il cui aroma forte e intenso poteva ricordare quello del Vicks. Questi oggetti sono stati
disposti ad arte in modo da raccontare la storia che il dottor Geist voleva venisse raccontata, ovvero che
Gabriela si era applicata la maschera sul viso e aveva versato olio profumato nella vasca prima di essere
sfortunatamente colpita da un malore che la fece svenire e annegare.
Il mio ex vice è stato abile e astuto, ma carente nell’esecuzione del piano. Grazie a Dio, molti
individui privi di principi morali lasciano a desiderare dal punto di vista pratico, soprattutto se mentono
su cose che non li riguardano personalmente. A Geist non importava niente della morte di Gabriela
Lagos. Non si sentiva direttamente coinvolto e, con il suo tono altezzoso e saccente, era in grado di
argomentare le sue conclusioni in vari modi, arrivando quasi a convincersi che fossero vere.
Badava solo ai propri interessi e probabilmente pensò che al vicedirettore dell’FBI Granby
interessasse evitare lo scandalo soltanto perché gente più potente di lui al dipartimento della Giustizia,
alla procura generale e chissà quanto ancora più in alto temeva le conseguenze politiche della morte di
Gabriela Lagos. Mancavano tre mesi alle elezioni presidenziali e non era il caso di gettare ombre
pericolose sulla Casa Bianca, per la quale era risaputo che Gabriela Lagos sceglieva e acquistava opere
d’arte. Al dottor Geist tutto questo non importava. Era pronto ad accontentare Granby se la cosa non
danneggiava nessuno e poteva avvantaggiare lui.
Quel che non avevo contemplato nelle foto su carta che esaminai all’epoca era la possibilità che al
momento della tragedia nel bagno con Gabriela ci fossero non una ma due persone. Per questo ho bisogno
del PIT. Seduto sul coperchio del gabinetto con i piedi sul tappetino, Martin si sarebbe trovato a guardare
la faccia spalmata di bianco della madre, mentre lei si guardava al grande specchio nella parete accanto a
lui. Martin lo accenna nel diario, che Benton ritiene essere un fedele resoconto di quanto accadde.
Lei guarda il mio riflesso accanto al suo nello specchio, e anche se non voglio finisco anch’io per guardarla nello specchio
e vorrei vederci morti tutti e due. Com’è che sono finito in questa situazione del cazzo? Sono così incasinato adesso (non che
sia mai stato tanto a posto)... ma finalmente sono riuscito a raccontarlo a Daniel, il migliore amico che abbia mai avuto in vita
mia.
Forse ho fatto male a dirglielo e adesso mi tormento, ma gli ho raccontato tutta questa storia del cazzo fin dall’inizio, tutto
quello che mi ricordavo. Eravamo a bere birra nella sua tavernetta e io ero sconvolto perché con i casini che ho in casa a
scuola vado malissimo e tutti mi odiano. Non so cosa cazzo mi è successo, andava tutto bene e di colpo ho preso una
facciata nel muro. Mi guardano tutti come se fossi un mostro e finalmente ho capito che la vita è una grandissima inculata e
che non ho un cazzo di futuro davanti.
Almeno lui non mi ha dato del fuori di testa. Secondo lui la colpa è di mia madre, ma dice che se continuo a lasciarla fare
non mi rivolge più la parola. Dice che devo registrare tutto. Vuole vedere le “prove”, altrimenti non ci crede. Così ora mi
toccherà piazzare una telecamerina nel bagno e quando avrà visto che è tutto vero dice che la sistema lui, la “stronza”.
Quando me l’ha detto, non mi ha fatto né caldo né freddo. La verità è che la ODIO, e se lui non mi parla più resto
completamente da solo, senza un cazzo di amico. Domani vado da Radio Shack a comprare una telecamerina, ma devo
prendere i soldi dalla cassaforte senza farmene accorgere...
42
Scorro le pagine del diario allontanando gli indici per ingrandirle e le sposto verso Benton. È appena
entrato, dopo essere stato per ore nel laboratorio di Lucy. Si siede su una sedia nera e io gli riferisco il
succo della telefonata con il dottor Geist. Poi ricapitolo.
«Non è stato Martin Lagos a lasciare quelle impronte lungo i binari. Non può essere stato lui a
uccidere la madre e probabilmente hai ragione tu ed è morto subito dopo essere scomparso buttandosi dal
ponte di Fourteenth Street.»
«Come da segnalazione anonima effettuata da un telefono pubblico» precisa Benton. «Non penso che
si sia buttato da solo.»
«Dal diario emergono intenzioni suicide e una grande vulnerabilità.»
«Sono convinto che sia stato ammazzato e che qualcuno lo sappia e ne abbia approfittato per rubargli
il DNA.» Benton esamina il diario di Martin Lagos sfogliando pigramente le pagine sul tavolo interattivo,
come si fa con un testo che si è letto molte volte.
«Non è la soluzione migliore?» domando. “Ed Granby merita la prigione” penso con rabbia, e forse
non c’è punizione sufficiente per lui. «Scompare uno, che è ricercato dalla polizia ma tu sai per certo
essere morto. E solo pochi lo sanno.»
«Granby era uno di questi, se ha preso l’iniziativa di manomettere il DNA. Doveva essere piuttosto
sicuro di sé per correre un rischio del genere.»
«C’è sicuramente lui dietro a tutto. È colpa sua se sono morte altre sette persone.» Cerco di
controllarmi, ma le mie emozioni si sono trasformate da semplice reazione viscerale a un furioso
desiderio di vendetta.
Chiedo a Benton se sa qualcosa dell’amico di Martin, Daniel, e se davvero Martin filmò di nascosto
la madre come si riprometteva di fare nel diario.
«Se anche lo fece, non abbiamo le riprese» mi risponde. «Che però lui nomina più volte fino a circa
una settimana prima della morte della madre. Ho il sospetto che abbia filmato le sue provocazioni
sessuali nella vasca da bagno e che queste abbiano stimolato le fantasie violente del futuro assassino.»
Voglio sapere se abbiamo una descrizione fisica di Daniel e se sappiamo dove si trova adesso.
«Occhi e capelli scuri, razza bianca. Non conosco il peso» dice Benton.
«Sarà magro se fa uso di MDPV.»
«Stando alle foto del liceo e dell’università, sul metro e settanta di statura.»
«Puoi mandare le foto a Lucy?»
«Già fatto.»
«Scuro di capelli e non molto alto, come il ragazzo che lava l’elefante.» Gli ricordo la foto che
abbiamo notato in camera di Lombardi.
«Vediamo cosa riesce a ricavarne Lucy. Perché dici che non è stato Martin a uccidere la madre? Non
che ne dubiti, ma ho bisogno di prove.»
Avvicino una fotografia di Martin che spegne quindici candeline su una torta al cioccolato il 27 luglio
1996, quattro giorni prima della sua scomparsa e della morte per annegamento della madre.
«Ecco perché» dico.
Un ragazzo cresciuto troppo in fretta, tutto gambe e braccia, ossuto e goffo, con mani e piedi grossi, in
canottiera e short larghi, orecchie a sventola, capelli rasati e un accenno di baffi. Con lo zoom
ingrandisco il braccio destro, immobilizzato da un gesso bianco, pulito, con una sola scritta in rosso:
“Ricordati di non fare quello che ti dico! Ah ah ah!”. È del suo amico Daniel e vicino alla firma
svolazzante è disegnata in blu una figura che sembra un omino stilizzato stile Gumby che fa la ruota.
«Non può essere stato Martin ad annegare sua madre.» Ne sono sicura. «Non può averla afferrata per
tutt’e due le caviglie con una mano sola.»
«Sembra abbastanza robusto. Con la spinta dell’adrenalina... Non pensi che potesse farcela anche con
un braccio solo?»
«No. Sono state usate due mani.» Glielo dimostro alzando le braccia come se stessi stringendo con
forza qualcosa. «Dalle lesioni sulle caviglie si vede benissimo. Non l’ha uccisa, ma questo non esclude
che non fosse d’accordo. Potrebbe aver assistito all’omicidio seduto in prima fila.»
Mentre osservo il sorriso forzato e gli occhi dall’espressione tormentata del ragazzo, mi chiedo chi gli
abbia scattato la foto il giorno del compleanno. A giudicare dal modo in cui guarda l’obiettivo – come se
glielo avessero ordinato – ho il sospetto che sia stata la madre.
«Sappiamo come ha fatto a rompersi il braccio?» chiedo.
«So che gli piaceva andare sullo skateboard. È l’unica cosa che posso dirti senza tirare in ballo sua
madre, cosa che preferirei non fare.»
«Forse se lo è rotto andando sullo skate con il suo amico Daniel. Il suo unico amico» ipotizzo.
«Daniel Mersa. Lo nomina spesso nel suo diario, e questo già mi lasciava un po’ perplesso, ma ha
cominciato a preoccuparmi veramente qualche settimana fa, quando ho saputo dei risultati dei test sul
DNA, della cui manomissione adesso siamo certi.»
«Lo avranno interrogato dopo la morte di Gabriela Lagos.»
«Lì per lì la polizia non lo trovava» dice Benton e io ripenso al dottor Geist che ha parlato dei
“ragazzi” scomparsi. «Quando riapparve, la madre dichiarò che era stato a trovare la zia a Baltimora, la
quale ovviamente confermò. Lo interrogarono, ma lui disse che non sapeva niente riguardo alla morte
della madre di Martin. Dichiarò che Martin andava male a scuola, non piaceva alle ragazze, era depresso
e beveva. L’interrogatorio, diciassette anni fa, si fermò qui.»
«Perché qualcuno non voleva che andasse oltre» commento.
«Granby» dice Benton.
«Ho il sospetto che una persona competente e sicura di sé sia stata sulla scena del crimine prima che il
cadavere venisse trovato e abbia spento il condizionatore, riempito la vasca di acqua bollente e
risistemato il bagno, togliendo la videocamera nascosta e probabilmente portando via il disco fisso del
computer di Martin, senza rendersi conto che nella camera del ragazzo c’era una copia di backup. Non fu
un lavoro perfetto, ma due ragazzi di quell’età non possono aver pensato a tutti questi particolari. Mi
sembra abbastanza ovvio.»
«Mi sembra abbastanza ovvio che sia stato Granby» dice Benton.
«Non so come potresti dimostrarlo, a questo punto.»
«Probabilmente non potrò dimostrare che è stato lui a manomettere la scena del crimine. Ma penso che
sia stato lui, soprattutto se lo ha fatto in maniera dilettantesca.»
«Almeno hai quel tabulato» gli ricordo. «Chiamò Geist per parlargli di Gabriela Lagos il giorno
prima che si sapesse che era morta.»
«Stampiamolo.»
Mando a Lucy un SMS con il numero del documento da stampare senza dirle di cosa si tratta o per
quale motivo ne ho bisogno e le chiedo di portarmelo giù. Mi risponde che abbiamo visite in arrivo e
credo di sapere perché Benton vuole una copia cartacea del tabulato. Penso di aver indovinato come
intende usarlo e so che, mentre certe persone lo farebbero con gioia, lui non è affatto contento.
«Dopo che Gabriela Lagos fu assassinata e prima che venisse rinvenuto il cadavere, qualcuno avvertì
Granby» dice. «Altrimenti non vedo come avrebbe potuto saperlo prima degli altri. C’era qualcuno che
sapeva cosa aveva fatto Daniel. Un personaggio potente, al quale a Granby conveniva dare una mano.»
«E con cui Daniel si era confidato.»
«Certo» dice Benton. «Un ragazzino che ha appena ammazzato la madre del suo migliore amico, una
donna molto conosciuta a Washington, consulente artistica della Casa Bianca.» Benton continua ad
analizzare le informazioni alla luce del suo database mentale, mentre io le analizzo alla luce del mio.
«Telefonò a qualcuno perché aveva bisogno di aiuto se non voleva venire arrestato.»
«Qualcuno che è al centro di tutto questo. Tutte le strade portano a lui.» Penso di nuovo a un polpo.
«Quanti anni aveva Daniel all’epoca?»
«Tredici.»
«Mi stupisco. Avrei detto che era il più grande dei due.»
«Era la personalità dominante» dice Benton. «Maniaco del controllo, organizzato, amante del rischio,
esibizionista, con un bisogno eccessivo di stimoli sensoriali e una soglia del dolore molto alta. Non sente
il dolore o la paura come li sentiamo noi.»
Forse costringeva Martin a fare acrobazie sullo skate ed è così che si è rotto un braccio e ha subito
danni e umiliazioni.
«Martin aveva due anni in più ed era due anni avanti a lui a scuola, ma aveva pochissima autostima,
era molto intelligente ma non particolarmente portato per lo sport» spiega Benton. «Era un tipo solitario.»
«Erano amici da molto tempo?»
«Pare che le madri fossero molto legate.»
«Comodo che la madre di Martin fosse un’esperta di arte che si occupava delle opere in mostra alla
Casa Bianca e degli acquisti fatti dalla famiglia presidenziale.» Penso ai quadri rubati in camera di
Lombardi.
«Anch’io stavo pensando alla stessa cosa.»
Gli domando chi è, che cosa fa adesso e dove si trova Daniel Mersa, e Benton risponde che ha
cominciato a raccogliere informazioni su di lui quando Granby ha detto all’Unità di analisi
comportamentale che il DNA del Capital Killer corrispondeva a quello di Martin Lagos. Ha parlato con la
madre, le ha detto che aveva assolutamente bisogno di sapere se qualcuno aveva notizie di Martin, che si
temeva fosse in pericolo o potesse essere pericoloso per gli altri.
La donna ha sostenuto di non saperlo, perché a sua volta non aveva più notizie del figlio Daniel da
quando questi aveva interrotto un corso estivo a Lacoste, in Francia, all’età di ventun anni. Ha ammesso
che il ragazzo aveva avuto parecchi problemi e cambiato molte scuole, prima che lei lo mandasse
all’estero, che non aveva terminato gli studi e aveva tagliato definitivamente i ponti con la famiglia.
«Pensi che ti abbia detto la verità?» chiedo.
«Su questo, sì.» Benton avvicina a sé l’immagine proiettata di una cartella. «Penso che adesso sia
sinceramente preoccupata.»
«Per gli omicidi del Capital Killer.»
«Io non glieli ho nominati.»
Tira fuori dalla cartella virtuale alcuni documenti e comincia a sfogliarli producendo un fruscio come
di carta.
«Però ho avuto la sensazione che sapesse di che cosa stavo parlando quando le ho detto che avevamo
bisogno di rintracciare Martin Lagos» riprende. «Qualcosa mi ha fatto pensare che sapesse benissimo che
era morto. Ma questo non significa che sappia che Daniel è un serial killer.»
Dispone in fila le pagine di un rapporto disciplinare su carta intestata del Savannah College of Art and
Design.
«Una delle molte scuole frequentate da Daniel, e questi documenti parlano da sé.» Benton batte
l’indice sul vetro e una delle pagine si rimpicciolisce. Torna a ingrandirla ed elenca: «Ha forzato
l’armadietto di un compagno, si è introdotto nel dormitorio femminile per rubare biancheria intima dalla
lavanderia, ha dato fuoco ai bidoni della spazzatura di uno dei tutor, ha annegato un cane e se n’è vantato
davanti a tutti, disturbava le lezioni, commetteva atti vandalici. L’elenco è lungo, anche negli anni del
liceo».
«La polizia non è mai intervenuta?»
«Non è mai stata chiamata. Tutti i problemi sono sempre stati affrontati privatamente. È tipico di certe
scuole, ma forse non è l’unico motivo.»
«Che cos’altro ti ha detto la madre?»
«Che aveva fatto tutto il possibile, che aveva speso un sacco di soldi in counseling e terapie varie. Da
piccolo, gli era stato diagnosticato un disturbo della regolazione della processazione sensoriale che si
manifestava non con un’iperreattività alle esperienze sensoriali, ma con una sorta di insaziabilità.
Inizialmente si era pensato a un disturbo da deficit di attenzione e iperattività, perché era sempre in cerca
di stimolazioni sensoriali, aveva difficoltà a rimanere seduto o fermo, toccava continuamente gli oggetti,
prediligeva attività e giochi pericolosi tipo camminare sui trampoli, arrampicarsi sui pali del telefono,
uscire dalla finestra e calarsi dalla grondaia, e sfidava i compagni a imitarlo, inducendoli a farsi del
male. La madre mi ha detto che non riusciva assolutamente a controllarlo.»
«Mi sembra quasi un modo per trovargli delle giustificazioni. Forse sospetta il peggio» commento.
«Ha tenuto a dirmi che è stata una buona madre, che le ha tentate tutte per curare il disturbo di
regolazione sensoriale a casa: altalene da giardino, corsa a ostacoli, castelli multiattività, trampolini
elastici, palloni da ginnastica, sacchi di Lycra, attività artistiche tattili tipo pitturare con le dita e
modellare la creta.»
«Creta» ripeto. «Quella che ha trovato Ernie.»
«Ci ho pensato.»
«Un’impronta minerale che potrebbe venire da un materiale per artisti, tipo pittura, o creta» dico,
riflettendo ad alta voce.
Fibre di Lycra... Sposto la foto di Martin per guardarla di nuovo più da vicino. Osservo il disegno
fatto da Daniel sul gesso, un omino che assomiglia a Gumby e che potrebbe rappresentare un ragazzo
chiuso dalla testa ai piedi in un sacco di Lycra, una specie di sacco a pelo di tessuto colorato, sottile ma
robusto, che si può tendere in vari modi facendogli assumere forme diverse davanti allo specchio o
proiettando ombre sui muri. Quelli terapeutici sono trasparenti, ma a prova di strappo, e se si blocca la
cerniera è impossibile uscirne. Sono di tessuto traspirante, ma ciò non significa che non si possa
soffocare una persona avvolgendogliene uno molto stretto sulla faccia.
Potrebbe essere un buon modo per immobilizzare qualcuno senza lasciare segni, perché il tessuto è
morbido e liscio. Immagino Gail Shipton paralizzata da uno storditore elettrico e chiusa in un tubo di
Lycra. Si spiegherebbe la presenza delle fibre di Lycra azzurra sul corpo, sotto le unghie e sui denti. La
immagino che si dibatte, imprigionata dentro quel tubo, a bordo della macchina dell’assassino, che cerca
di strapparne la stoffa con le unghie e con i denti, in preda al panico, il cuore malato che batte a ritmo
parossistico.
Spero che sia morta in fretta, prima che lui potesse torturarla ulteriormente, e temo di sapere in che
cosa consistessero le ulteriori torture. È come se vedessi con i miei occhi quello che le ha fatto quel
bastardo: dopo aver aperto sul sedile dell’auto il tubo di Lycra, ce l’ha chiusa dentro promettendole che
non le avrebbe fatto niente, purché facesse la brava. Non voleva un’altra scossa elettrica, vero?
Lo immagino che porta via la sua vittima in macchina, nel buio, e forse le parla. Lei non oppone
resistenza. Arrivati a destinazione, le stringe il tubo sulla faccia e la soffoca. Per ucciderla ci sarà voluto
più o meno lo stesso tempo che ci vuole per annegare una persona, a meno che lui non sia stato così
crudele da farla morire lentamente, aumentando la stretta per poi allentarla, lasciando che riprendesse
fiato per poi ripetere l’operazione, finché ne ha avuto voglia, o finché lei ha resistito, prima che il cuore
cedesse.
Poi mette in posa la vittima e soddisfa le proprie fantasie perverse chiudendole la testa in un sacchetto
di plastica legato intorno al collo con nastro adesivo simil-pizzo che lascia un lieve segno post mortem,
aggiunge un fiocco dello stesso nastro sotto il mento e le mette le mutandine di un’altra vittima. È tutto
simbolico, frutto della sua mente malata, della sua fantasia malvagia, della sua macabra arte, forse
ispirata dalla visione degli osceni filmini di Gabriela Lagos che seduce il figlio nella vasca da bagno.
Immagino Daniel Mersa che trascina la sua vittima su una slitta o una barella e la lascia bene in vista
sulle sponde di un lago vicino a un campo da golf. Con un braccio teso e il polso piegato, nella stessa
posizione in cui era il braccio sinistro di Gabriela, con il palmo rivolto all’ingiù, e l’altro braccio
davanti alla vita.
Un’immagine che dev’essere rimasta impressa in maniera indelebile nella mente di Daniel quando,
dopo averla annegata, ha visto il corpo restare completamente immobile, inerte, e affondare leggermente
nella vasca, mentre le braccia venivano a galla nell’acqua fumante e profumata, circondata da candele e
grandi teli da bagno bianchi e morbidi. Forse ha filmato l’omicidio e l’ha visto e rivisto, alimentando la
propria fantasia malata.
«Non sempre il disturbo di regolazione sensoriale passa crescendo» mi spiega Benton e io lo guardo
cercando di scacciare quelle immagini. «La cosa peggiore che possa fare una persona che ne soffre è
prendere droghe di sintesi, stimolanti come l’MDPV.»
«E niente di quello che mi stai dicendo su Daniel Mersa è stato presa sul serio dall’Unità di analisi
comportamentale.» Sono stanchissima e infreddolita. Mi sforzo di snebbiarmi la mente.
«Nessuno mi ha dato ascolto perché credono solo al DNA. Il profilo di cui è stata trovata una
corrispondenza nel CODIS non è di Daniel Mersa. Daniel Mersa non è mai stato inserito nei database né
arrestato. E c’è un motivo.»
Non riesco a togliermi dalla testa quelle donne terrorizzate e sofferenti mentre vengono soffocate. “Ah
ah ah!” ha scritto con uno svolazzo Daniel Mersa sul gesso di Martin.
«Tanti crescono in ambienti disturbati senza per questo diventare serial killer» dice Benton. «E
Granby mi ha screditato agli occhi dell’FBI.» Mi ripete la storia deprimente che già conosco. «Non so
esattamente come o quando sia cominciato, ma non ci vuole molto, in un ambiente competitivo e in un
periodo in cui la gente ha paura di perdere il posto.»
«Il padre di Daniel Mersa. Non viene mai nominato.» Intuisco la direzione che le varie strade stanno
per prendere, tutte dirette verso la stessa fonte al centro di tanta crudeltà.
«Banca dello sperma» dice Benton. «Veronica Mersa ha sempre sostenuto di non sapere chi fosse il
padre, ma non si può fare a meno di chiedersi come si sia potuta permettere di mandare il figlio in
terapia, al college, a studiare all’estero. È una ex reginetta di bellezza, mai stata sposata, e faceva la
segretaria di un rappresentante del New Hampshire al Congresso che si è ritirato recentemente dalla vita
politica. Prendeva uno stipendio modesto e non ha altre fonti di reddito. Eppure sembra che i soldi non le
siano mai mancati.»
«Non metterò nulla nel CODIS o in nessun altro database finché non sarò certa di potermi fidare.» Su
questo sarò irremovibile. «Faremo tutti i confronti nei miei laboratori e richiederò una ricerca famigliare
per individuare i parenti di primo grado, eventuali fratelli o sorelle e la paternità. Se Daniel è
imparentato con qualcuno di cui abbiamo il DNA nei database, lo scopriremo.»
«Spiegherebbe molte cose» dice Benton. «E forse Granby l’avrebbe scampata se tu avessi lasciato che
Geist dichiarasse accidentale la morte di Gabriela Lagos.»
«Non è stata una morte accidentale. Non ci sono dubbi né dovrebbero essercene mai stati.»
«Spiegami come fai a sapere che l’assassino ha usato tutt’e due le mani. Voglio capire. Voglio poterlo
affermare in maniera inequivocabile.»
Tocco il tavolo di vetro dove sono visualizzati il referto e le foto dell’autopsia.
43
“Anamnesi: negativa.” Leggo quel che il dottor Geist ha scritto su Gabriella Lagos nel protocollo
autoptico. Ha incluso alcuni fatti e ne ha omessi altri.
«Non aveva mai avuto convulsioni, svenimenti, problemi cardiaci, niente di niente. Poi un giorno fa il
bagno e muore. A trentasette anni. Esami tossicologici negativi per tutte le sostanze che sono state
cercate. L’alcol che aveva nel sangue era dovuto alla decomposizione.» Mostro a Benton le quattro
pagine del documento visualizzate sul tavolo interattivo. «Presenza di schiuma bianca in naso, bocca e
trachea perché non era possibile nascondere il fatto che era annegata.»
Benton si alza ed entra nel PIT vero e proprio, dove si ritrova circondato dal bagno di Gabriela e dal
suo corpo in avanzato stato di decomposizione; le luci e le ombre delle immagini proiettate sulle pareti
gli si riflettono sul viso mentre si siede al tavolino che Lucy chiama “la cabina di pilotaggio”. La tastiera
e il mouse wireless gli permettono di modificare l’orientamento delle immagini, e la prospettiva cambia
come se fosse lui a muoversi al suo interno. Sposta la vasca con il cadavere, ruotando a destra e
zumando, all’inizio un po’ a scatti, poi sempre più sicuro, una volta che ci ha preso la mano.
Vedo i lunghi capelli castani di Gabriela sparsi sulla superficie dell’acqua torbida, stagnante; poco
lontano galleggia l’elastico nero con un fiocco nero e lucido, con il quale li aveva raccolti prima di
annegare. L’epidermide ha cominciato a staccarsi dal viso, ancora macchiata dalla maschera di bellezza,
e il collo è rossissimo, perché l’acqua bollente le è arrivata fino al mento. È un altro dei fatti importanti
omessi dal dottor Geist. Non ha preso nota delle zone più chiare in corrispondenza delle parti del corpo
rimaste fuori dall’acqua – il viso e la parte superiore dei polsi – mentre tutto il resto è arrossato, scottato.
«Se fosse annegata nell’acqua bollente, avrebbe ustioni anche su tutta la parte alta del corpo e alla
testa» spiego a Benton. «È un dettaglio cruciale, perché significa che la temperatura dell’acqua è
aumentata quando era già morta. Mi basta questo per dire che si è trattato di un omicidio.»
«Non ho mai capito la schiuma.» Benton clicca sull’immagine e il viso di Gabriela, gonfio per i gas
della decomposizione, con gli occhi sporgenti che sembrano esprimere un orrore indicibile, si
ingrandisce ancora di più. «Anche quando il cadavere è completamente sott’acqua, la schiuma resta.
Perché non si scioglie?» Porta il cursore sulla schiuma bianca fra le labbra socchiuse di Gabriela.
«Resta perché non è solo tra le labbra» rispondo. «Nei casi di annegamento, quando manca l’aria, nei
polmoni e nella trachea si forma una schiuma densa. La maggior parte rimane dentro, ma quella che esce
dalla bocca si vede e non se ne va completamente perché è tanta. Geist sapeva di non potere scrivere sul
referto che non era annegata: il cadavere non gli permetteva di mentire. Al massimo poteva dichiarare
che era stato un annegamento accidentale.»
Raggiungo Benton e, mentre guardo Gabriela Lagos, mi torna in mente il motivo per cui all’epoca mi
insospettii e decisi di andare a vedere la salma, esposta in una camera ardente nel Nord della Virginia.
Anche se non sono facilmente visibili, le contusioni ci sono. Sono di colore rosso scuro, alcune
leggermente abrase, sulla guancia e sulla mascella destra, sull’anca destra, sulle mani e sui gomiti. Le
caviglie e i polpacci presentano piccoli lividi lasciati dai polpastrelli e ci sono ecchimosi più grandi,
meno delineate, dietro le ginocchia.
«Ci volevano due mani per lasciarle quei lividi sulle caviglie, e due mani sono state usate. E non
grandi come quelle di Martin. Altro elemento importante» dico a Benton. «Vedi questi segni tondi, dovuti
alla pressione delle dita sulle gambe e sulle caviglie?» Sollevo le mani. «Sono grandi più o meno come
le mie. Qualcuno l’ha afferrata saldamente per le caviglie e le ha sollevato le gambe, agganciandogliele
con l’incavo delle braccia: è così che le ha lasciato i lividi dietro le ginocchia.» Gli mostro il gesto. «A
questo punto si avvicina i polpacci al petto facendola scivolare con il busto e con la testa sott’acqua. Le
contusioni all’anca, alle mani e ai gomiti sono dovute al fatto che si è dibattuta urtando contro la vasca.
Dev’essere stata una lotta, acqua che spruzzava da tutte le parti, candele cadute per terra e nella vasca.
Questione di pochi minuti, poi è finito tutto.»
«Ora capisco perché non può essere stato Martin, se aveva un braccio ingessato» dice Benton.
«Non può averla uccisa lui. Ma penso che sia stato a guardare, seduto sul coperchio del WC con i piedi
sul tappetino bianco. Nello stesso posto dove chissà quante volte aveva subito la tortura di dover
assistere al bagno e ai tentativi di seduzione della madre» spiego. «È comprensibile che la volesse morta,
che si volesse liberare di lei. Ma credo che non avesse previsto l’effetto che gli avrebbe fatto vederla
morire in quel modo.»
Lo immagino con gli occhi sbarrati, scioccato, paralizzato, mentre vede morire sua madre in maniera
atroce e crudele senza poter fare più niente per fermare la cosa. Forse avrebbe voluto, ma non lo ha fatto.
«Dev’essere stata una morte spaventosa» dico a Benton. «Ti assicuro che il figlio non poteva aver
immaginato quanto sarebbe stato orribile.»
«Sarà rimasto scioccato» dice Benton. «Non era né sociopatico né sadico. E non aveva bisogno di
costanti stimoli sensoriali, di emozioni forti, di uccidere o veder uccidere.»
«Vorrei sapere che numero di scarpe porta Daniel Mersa.» E penso al ragazzo con l’elefante nella
foto.
Percepisco uno spostamento d’aria: la porta alle nostre spalle si apre ed entra luce dal corridoio. È
Lucy, con un foglio in mano, e ha l’aria contenta, soddisfatta, come quando sta per incastrare qualcuno o
per vendicarsi di qualcosa in modo definitivo.
«Sono arrivati Granby e le sue truppe» annuncia. «Sono alla reception. Gli ho detto di aspettare, che
arrivi subito. Il computer è impacchettato, pronto per la consegna. È da Ron e io ho già firmato tutte le
scartoffie: manca solo la tua firma. C’è ancora molta roba da esaminare, ma abbiamo il backup di tutto e
loro non lo sanno. Carin e Janet sono di sopra.»
«Bene.»
Lucy abbassa lo sguardo sul telefono e quando mi guarda di nuovo sorride, poi porge il foglio a
Benton. «Allora?» gli chiede.
«Stavo per dirglielo» risponde lui.
«Ha una brutta notizia che è una bella notizia» mi dice allegramente Lucy.
Vedo Bryce nel corridoio: viene verso di noi. A quest’ora tarda è un po’ scarmigliato, meno azzimato
del solito, ma ha quell’espressione nervosa e attenta che abbiamo tutti quando il dramma è in pieno
svolgimento.
«C’è il “Globe”...» annuncia entrando. «Oddio, che schifo!» esclama poi. «È inguardabile! Non potete
togliere quella foto?» Si volta per non vedere le immagini proiettate nel PIT. «L’ho già detto e lo ripeto.
Se muoio, per piacere non lasciate che mi riduca così. Trovatemi subito, oppure mai più. Sock è su nel
tuo ufficio. Gli ho sistemato la cuccia e gli ho dato un biscotto. Vi ho anche lasciato qualcosa da
mangiare. Gavin è nel parcheggio con i fari spenti, ha appena visto arrivare l’FBI e tra un momento lo
faccio entrare come se fosse uno che lavora qui. Sarà uno scoop incredibile. Voglio che senta tutto con le
sue orecchie quando chiederanno che gli consegniamo il computer e tutto il resto.»
«Bryce, parli troppo» lo avverto.
«Versamenti da diecimila dollari al mese, ufficialmente per l’affitto dell’ufficio di Washington.» Lucy
comincia a raccontarmi quel che Benton non mi ha ancora detto. «Bonifici a una banca di New York, che
vengono suddivisi e trasferiti ad altre banche, dove vengono ulteriormente suddivisi e bonificati, e avanti
così. Un ingranaggio puntuale come un orologio che va avanti da diciassette anni, per l’esattezza
dall’agosto 1996, e non può essere una coincidenza. Forse nessuno si sarebbe mai accorto che il
destinatario dei fondi, chiaramente denaro sporco, era Granby, se non avesse fatto un errore veramente
stupido. Un’e-mail.» Lucy ha di nuovo la faccia felice. «Circa sei mesi fa è andato a pranzo con un
investitore che ne ha parlato in un’e-mail a Lombardi.»
Me la fa leggere sul suo cellulare:
Da: JP
A: DLombardi
Oggetto: “Gran Gusto”
Grz del contatto, ottimo pranzo con il sig. FBI, davvero grande (a cominciare dall’ego). Non mi ero reso conto del
gioco di parole quando ho scelto il mio ristorante italiano preferito! Consiglio di trasferire il suo conto a Boston,
visto che ora lavora lì. Pochi contanti e il resto in azioni, obbligazioni ecc. Conosce qualcuno che può dare una
mano per il mio problemino di revisione contabile, maledetto fisco. Ciao.
Mi incammino di buon passo nel corridoio curvo che porta alla reception, con il camice sopra i vestiti
che non ricordo neppure più di avere indosso: ho raggiunto un livello di stanchezza che rasenta
l’esperienza extracorporea, sono sveglissima e nello stesso tempo vado al rallentatore.
«Immagino che tu e Marino non possiate arrestarlo qui su due piedi» dico a Benton.
«Negherà tutto.»
«Naturale.»
«Invocherà subito il quinto emendamento e chiederà un avvocato.»
«Non importa. È rovinato, Benton.» Ho fatto in modo che la disfatta di Granby sia pubblica.
Benton mi guarda, risoluto a fare quello che va fatto. Dovrebbe essere contento, invece no.
«Nessun avvocato lo potrà salvare e i suoi amici di Washington si terranno alla larga come se fosse un
appestato» aggiungo. Poi taccio, perché siamo quasi arrivati alla reception.
Ron è nella guardiola con il vetro aperto e per un attimo la vista di Granby e del suo codazzo di agenti
mi spiazza. Sembra esausto, ma è gentile, come se apprezzasse che io lo abbia ricevuto nel mio territorio,
con i tre agenti in giubbotto e pantaloni militari fermi qualche passo più indietro di lui. Mi rendo conto
che ha paura. Non me lo aspettavo.
Mi chiedo se sospetta che Lucy sia entrata nel server della Double S, poi decido che ha capito cosa
sta per succedere. Non è un ingenuo, sa chi è mia nipote e di che cosa è capace. Che sia o no al corrente
di informazioni compromettenti che Lucy potrebbe scoprire, non può che aspettarsi il peggio. È sempre
così quando si ha la coscienza sporca a quei livelli: per ogni peccato che viene scoperto, si è
consapevoli di averne commessi almeno altri cento.
«Mi scusi per il disturbo» mi dice, senza guardare Benton e senza neppure immaginare chi sono Bryce
e l’uomo che gli sta accanto, giovane, con la barba, camicia a quadretti, gilet di maglia, jeans e scarpe da
ginnastica.
Lucy ci supera, diretta all’ascensore. Sento le porte che si aprono.
«Ovviamente, trattandosi di un’indagine su reati finanziari gravi, la ringrazio per aver ottemperato...
ehm... per essere venuta incontro alla nostra esigenza di portare il server della Double S nei nostri
laboratori» mi dice Granby. «Apprezzo infinitamente la collaborazione» aggiunge balbettando nervoso,
troppo formale e troppo sorridente.
«Figuriamoci» replico senza sorridere, senza la minima cordialità. «È pronto, a vostra disposizione.»
Incrocio lo sguardo di Ron, che mi fa un cenno di assenso dalla guardiola.
«Sì, signora direttrice.» Forse è la mancanza di sonno, ma mi sembra di cogliere un sorriso nelle sue
parole. «È qui, con tutti i moduli pronti.»
«E poi ci sono gli omicidi.» Guardo Granby negli occhi mentre, con tutt’e due le mani, si liscia i
capelli perfetti sulle tempie brizzolate. «Ci lavoreremo ancora e forniremo all’FBI tutte le informazioni
necessarie.»
«Grazie anche di questo, come sempre.» Continua a lisciarsi i capelli e a guardare Ron, che apre la
porta della guardiola spingendo un carrello su cui si trova il server fasciato nella plastica. Lucy, a scanso
di equivoci, lo ha chiuso con parecchi giri di nastro rosso su cui è scritto in nero: “MATERIALE
PROBATORIO – Non manomettere i sigilli”.
Prendo dalla tasca del camice un pennarello, tiro fuori dalla busta trasparente appiccicata al pacco il
modulo di trasmissione delle prove e vi appongo la mia sigla e la data davanti a tutti. Poi lo porgo a
Granby, come vuole la procedura, trasferendo ufficialmente il computer all’ FBI perché vi effettui analisi
di cui sicuramente non abbiamo bisogno. Mi chiedo quand’è stata l’ultima volta che un capo divisione si
è scomodato per farsi consegnare materiale probatorio o per recarsi da un medico legale. Scommetto che
Granby non ha mai assistito a un’autopsia.
«Non mi aspettavo di trovarti qui» dice a Benton. «Che cosa sei venuto a fare?» chiede poi toccandosi
di nuovo i capelli.
«Mi godo questo periodo di riposo. Probabilmente più di quanto te lo godrai tu.»
Granby socchiude gli occhi, apertamente aggressivo, ma sorride lo stesso. «Non ho tempo per
riposarmi. Ho troppo da fare.»
«Secondo me, presto avrai un sacco di tempo libero, Ed.»
Sento dei passi decisi provenire dall’ascensore e vedo arrivare Lucy, Janet e Carin Hegel. Si fermano
accanto a Bryce e a Gavin Connors, testimoni convocati come da programma.
«Cosa volete?» Granby punta su Carin Hegel tutta la sua attenzione, come se fosse la scarica di uno
storditore elettrico, come se volesse trapassarle la pelle con lo sguardo.
Sa sicuramente chi è, per mille ragioni. Carin Hegel compare spesso in televisione, quando si parla di
processi importanti, ed è famosa come un campione sportivo. Ma, soprattutto, era l’avvocato di Gail
Shipton in una causa contro un’azienda che pagava Granby da anni. Gli versava parecchi soldi tutti i mesi
e chissà quali altri favori gli faceva. Granby doveva essere convinto di non avere nulla di cui
preoccuparsi, salvo rimanere intrappolato nei suoi stessi raggiri. Ed è quello che è successo. La bella
vita che ha fatto finora sta per finire.
«Se sai chi c’è veramente dietro tutto questo, Ed, è il momento giusto per dirlo.» Benton non gli ha
staccato gli occhi di dosso neppure per un attimo. «Non è Martin Lagos che stiamo cercando. So cos’hai
fatto. Lo sappiamo tutti.»
«Non so a cosa ti riferisci, ma le tue insinuazioni mi offendono.»
«Stai cercando di incolpare degli omicidi del Capital Killer un ragazzo scomparso diciassette anni fa
sulla base di un profilo genetico sbagliato, se così vogliamo dire. Un errore di laboratorio, scommetto
che dirai.»
«Non è il momento né il luogo adatto!» ribatte Granby. «Ne parleremo in privato.»
«No» interviene Carin Hegel. Solo adesso noto che ha avuto l’accortezza di scegliere una mise molto
professionale per l’occasione, nonostante l’ora.
Piccola e focosa, con capelli castani corti e un bel viso che non intimidisce affatto finché non apre
bocca, si è messa una giacca scura di cachemire con un collo importante e grossi bottoni d’argento,
pantaloni neri e stivali.
«Qualunque cosa ci sia da dire verrà detta qui, davanti a tutti.» Il tono è più da giudice che da
avvocato.
«State scherzando?» Ma non è per nulla divertito e il suo nervosismo si trasforma palesemente in
paura.
Lo vedo sempre più teso, come una molla pronta a scattare, e mi viene in mente che potrebbe darsi
alla fuga.
«Ho pensato che ti potesse far piacere dare un’occhiata a questo.» Benton gli porge il tabulato
telefonico. «So che è passato molto tempo, ma forse ricordi di aver telefonato al dottor Geist. Era il
medico legale che si occupò dell’annegamento di Gabriela Lagos, un omicidio che tu volevi far passare
per una morte accidentale.»
Granby fissa il foglio che ha in mano come se fosse analfabeta.
«Abbiamo le prove del fatto che la scena del crimine fu manomessa» dice Benton e spiega che cosa
intende, citando il condizionatore spento, l’acqua bollente nella vasca, la cera, le candele, il fatto che il
bagno è stato riordinato.
«E suo figlio Martin aveva un braccio rotto, quindi non fu lui ad afferrarla per le caviglie in modo da
annegarla» aggiunge. «Posso mostrarti le contusioni alle gambe, i lividi sulle caviglie lasciati dai
polpastrelli, se vuoi.»
Granby è talmente sbalordito che non fa caso al ragazzo barbuto, con la camicia a quadri e il gilet, che
prende freneticamente appunti, né alla bionda accanto a Lucy che ha in mano un registratore digitale e si
premura di dire che è in funzione. Janet lo ha precisato più volte, annunciando che sta registrando la
nostra conversazione e se qualcuno dei presenti ha qualcosa in contrario lo dica subito, altrimenti vale il
principio del silenzio assenso. Ed Granby tace, ma io prendo la parola e gli spiego chi sono Janet e
Carin, gli dico che entrambe sono avvocati e metto bene in chiaro il motivo per cui sono qui in questo
momento.
«Esistono elementi probatori che mettono in relazione gli omicidi di Gail Shipton, Haley Swanson,
Dominic Lombardi e Jadwiga Caminska con quelli di Washington, malgrado lei sostenga il contrario»
dichiaro, lasciandolo visibilmente scioccato. «Fibre, un’impronta minerale, e non solo. È certo inoltre
che è stato deliberatamente alterato un profilo genetico nel CODIS. Il campione da cui ha ricavato il DNA
che ha sostituito a quello di Martin Lagos consiste in un misto di liquidi organici fra cui anche sangue
mestruale: è di una donna.»
«La cosa verrà chiarita secondo le procedure regolamentari, legali. Non mi fido delle sue procedure.
Non mi fido di lei, punto.» Carin Hegel guarda Granby e gli agenti in piedi dietro di lui. «Ho già lasciato
un messaggio al procuratore generale» riprende, ed è a questo punto che Granby decide di tentare la fuga.
Il foglio che aveva in mano cade a terra svolazzando quando si precipita verso la porta che dà sul
garage, spingendola con tanta forza da mandarla a sbattere contro il muro, e corre fino al parcheggio.
Marino sta scendendo dal SUV e, quando ci vede uscire tutti insieme di corsa, reagisce come avrebbe
reagito ai tempi di Richmond. «Uau! Dove andate così di fretta?» esclama.
Granby corre verso la sua macchina.
Marino lo intercetta con pochi passi, lo afferra da dietro per la cintura e lo solleva da terra. Granby,
con la punta dei piedi che sfiora appena l’asfalto, si dibatte invano, mentre Marino con la mano libera lo
perquisisce e gli trova una pistola sotto la giacca, in una fondina da spalla. La porge a Benton. «Ti metto
giù appena fai il bravo» dice amabilmente a Granby.
«Toglimi di dosso quelle cazzo di mani!» grida Granby. I suoi agenti si guardano bene
dall’intervenire.
Restano dove sono e assistono impassibili all’umiliazione del loro capo, abbastanza furbi da capire
da che parte gli conviene stare.
«Dicci chi è e dove si trova, Ed.» Benton gli si avvicina, nel parcheggio bene illuminato del CFC pieno
di furgoni bianchi. «Non è Martin Lagos, altrimenti non staresti cercando di farlo incriminare. A parte il
fatto che penso non sia più fra noi da tempo. Hai contribuito a toglierlo dalla circolazione tu, o è stato il
suo amico Daniel Mersa?»
Granby lo fissa, in silenzio, dalla sua posizione precaria. Poi smette di dibattersi, come svuotato, e
Marino lo depone a terra, trattenendolo per la cintola.
«Dov’è?» chiede Benton. «Vuoi che uccida qualcun altro?»
Granby continua a fissarlo con lo sguardo vacuo.
«Non te ne frega un cazzo, eh?» dice Benton, e di nuovo sento tutta la sua delusione.
«Andate al diavolo» ribatte Granby a voce bassa, spenta.
«Hai una possibilità di rimediare.» Benton dice una cosa che lascerà completamente indifferente Ed
Granby, lo so già.
So che cos’è la disperazione che indurisce le persone, le svuota, le rende gelide come lo spazio
interstellare. So dove porta e so dove va a finire.
44
Cinque giorni dopo
Miami, Florida
Un treno emette un fischio malinconico, dissonanza in chiave minore, a ovest di dove mi trovo.
È un treno diverso, su una linea ferroviaria lontana, non quello del circo, rosso con le scritte dorate,
che è fermo a cuocere sotto il sole invernale della Florida sui binari di uno scambio vicino a parcheggi
fino a ieri sera affollati di persone attirate dalla prospettiva del brivido e del divertimento offerto da
trapezisti, acrobati, clown, domatori, e naturalmente dai leoni, dalle tigri, dai cammelli e soprattutto dagli
elefanti, più piccoli di quelli africani ma pur sempre enormi, grigi e tristi.
Un senzatetto di nome Jake, che si piazza quasi tutti i giorni dietro l’arena del circo, spiega a Lucy e
me che il motivo per cui gli elefanti dondolano da una parte all’altra è che cercano di toccarsi perché si
sentono soli e che quando hanno la possibilità di stare all’aperto urlano, ringhiano, brontolano,
barriscono e giocano a urtarsi e spintonarsi come bambini. Sono affezionati alle madri, si prendono cura
l’uno dell’altro e possono comunicare da molto lontano con i membri del branco emettendo vibrazioni e
odori che gli essere umani non sono in grado di percepire. Sono animali molto intelligenti e sensibili e lui
li ha visti piangere.
Se permettessimo loro di vivere liberi, liberi come vive lui, ci spiega il nostro nuovo amico Jake,
potremmo usarli per trovare l’acqua nel deserto e per segnalarci foibe, terremoti, tsunami e pericoli di
ogni genere, malfattori compresi. Seguendo l’esempio degli elefanti riusciremmo a rapportarci meglio
con la morte. Ho commentato che sarebbe un’ottima cosa se gli esseri umani avessero più rispetto e meno
paura della morte, ma non gli ho detto che mestiere faccio né che parlo con cognizione di causa.
Non gli ho detto neanche che mia nipote e io girovaghiamo dietro l’arena vicino al treno del circo
perché stiamo aspettando che un nostro amico investigatore e mio marito, che fa il profiler all’FBI,
finiscano un sopralluogo nel covo raccapricciante di un assassino che, come gli elefanti, viveva in un
vagone ferroviario, con l’unica differenza che gli elefanti non fanno del male a nessuno. Jake non sa che
le sue due nuove conoscenze venute dal Nord non sono a Miami per svernare o per trascorrere le feste
con la famiglia, ma sono coinvolte nelle indagini che riguardano proprio il circo che lui ha sotto gli occhi
da quando è nato, se quel che racconta è vero. Non gliel’ho detto né ho intenzione di dirglielo.
Preferisco continuare a chiacchierare di elefanti, di cui Jake si considera il custode. Sostiene di averli
osservati, ogni volta che il circo è in città, sin dal 1985, l’anno dell’incidente che lo ha reso disabile,
quando la sua barca è stata investita da una petroliera nel cuore della notte e lui ha riportato molte
fratture che hanno reso necessari innumerevoli interventi chirurgici. L’arena nel 1985 non c’era ancora,
quindi non so se questa storia e tutte le altre che racconta siano vere. Ma credo a quello che dice sugli
elefanti e sul giovane spietato che fino a ieri si esibiva in acrobazie sulla loro schiena e che poi è stato
portato via dal treno rosso in manette, scortato da un drappello di uomini in abiti civili che comprendeva
anche Benton e Marino, le cui foto stamattina erano sul “Boston Globe” e su tutti i canali TV.
Non molto alto, di spalle Daniel Mersa sembra quasi un bambino, ma appena si volta gli vedi il viso
lungo e stretto, duro, e gli occhi grigi e crudeli: così Jake ha descritto lo psicopatico assassino di cui non
conosceva il nome finché Lucy non gli ha mostrato l’articolo del “Globe” visualizzato sul suo
smartphone. Gavin Connors è stato di parola e prima di pubblicare il suo scoop ha aspettato che Mersa
venisse arrestato. È un articolo di grande effetto, devo dire, e “ha già fatto il giro del mondo”, per usare
le parole di Bryce, che ha deciso che il suo amico giornalista “vincerà il Pulitzer”, che Babbo Natale
porterà a Ed Granby “una tuta da carcerato” e Daniel Mersa “verrà estradato in Virginia dove c’è la pena
di morte, che è quello che si merita”.
«Non mi è mai piaciuto» continua a borbottare Jake scuotendo la testa da quando abbiamo cominciato
a parlare. «Allora si chiama così, Mersa. Come hanno fatto a beccarlo?»
«Grazie all’informatica» risponde Lucy come se lei non c’entrasse niente, mentre distribuisce café con
leche con caffè doppio. «Esistono dei programmi che riescono a riconoscere le facce delle persone. Per
esempio, riconoscono che un ragazzo in una foto scolastica e un artista del circo di cui esistono immagini
recenti in rete sono la stessa persona. Poi, naturalmente, si conferma l’identificazione con il DNA o con
altre prove.»
«Io non uso il computer. Non l’ho mai avuto.»
«Non mi sembra che ne abbia bisogno.»
«Vi dico che mi è stato antipatico fin dalla prima volta che l’ho visto, quel bastardo.» Jake, seduto sul
muretto frangiflutti, vicino alla sua bicicletta, ripete quel che ha già detto almeno cinque o sei volte. «Lo
vedevo che li colpiva con il pungolo per elefanti nelle zampe di dietro, cercando di prendere il tendine
per fargli più male. Senza nessun motivo. Li picchiava così.» Fa il gesto con la mano abbronzata. «Gli
schizzava sul muso un getto d’acqua fortissimo e rideva.» Mima anche questo, spruzzando con una
manichetta immaginaria.
«Vorrei averlo visto di persona» dice Lucy.
«Mi veniva voglia di scavalcare la recinzione.» Jake indica la zona recintata vicino al mare. «Di
corrergli dietro con il pungolo e vedere se gli piaceva sentirselo conficcare nelle gambe.»
«Le avrei dato volentieri una mano, ma avrei usato qualcosa di più di un pungolo» dice Lucy, e Jake
approva soddisfatto. Se è possibile tenersi in contatto con un senzatetto che possiede solo una bicicletta e
quel poco che riesce a trasportarvi sopra, penso che Lucy lo farà.
Mia nipote e io siamo qui per svariate ragioni e mentre aspetto Benton guardo il treno di vagoni rossi
e lucidi che si snoda per più di un chilometro tra i parcheggi e il marciapiede bianco dove Northeast 6th
Street curva verso il ponte che porta a Watson Island e a Miami Beach. Lo stesso treno rosso che ho visto
tante volte a quasi duemilacinquecento chilometri da qui, a Cambridge, in questo momento è fermo e
silenzioso, con robuste rampe di metallo che sporgono dalle porte aperte e operai che finiscono di
caricare sui vagoni l’intero Cirque d’Orleans.
Il personale e gli animali esotici del circo stanno per partire da Miami. Faranno tappa a Orlando e poi
ad Atlanta e torneranno piano piano al Nord come se niente fosse successo, come se fosse normale che un
profiler dell’FBI e un investigatore di Cambridge entrino nell’ottavo vagone dal fondo per raccogliere
prove con la polizia locale e perquisiscano il grosso SUV nero che viaggia su un carro senza sponde,
perché è così che molti artisti e lavoratori del circo trasportano le loro macchine da una città all’altra,
vivendo sul treno.
L’arresto di Daniel Mersa è stato ben poco spettacolare, e mi è sembrato il giusto contrappasso per un
serial killer che per dare spettacolo ha sgozzato tre persone nel Massachusetts, una delle quali era suo
padre, Dominic Lombardi. Non c’era bisogno degli agenti FBI della sede di Miami né degli uomini della
polizia di Dade County in tenuta tattica che hanno circondato il vagone di Daniel Mersa. Benton e Marino
se la sarebbero cavata benissimo anche da soli.
Io non ho assistito. Ho saputo i particolari a cose fatte, quando Benton mi ha telefonato dal centro di
detenzione federale all’angolo di Northeast 4th Street e North Miami Avenue, poco lontano da qui. Ha
detto che Mersa era confuso e disorientato, che straparlava e diceva che non voleva essere rapito dagli
alieni prima dell’Apocalisse. Che lo lasciassero in pace: doveva fare un pellegrinaggio a Bugarach, un
paesino dei Pirenei francesi famoso per la sua montagna “a testa in giù” e noto per la lavorazione del
legno e la cappelleria. Suo padre era morto improvvisamente pochi giorni prima della fine del mondo,
dissanguato da quegli stessi alieni che per sopravvivere sulla terra devono succhiare il sangue agli
umani, e lui aveva un sacco di soldi per portare a Bugarach chiunque ci volesse andare prima che fosse
troppo tardi.
E Marino, mescolando la fine del mondo prevista dai Maya con l’assunzione in cielo degli eletti
cristiani, gli ha detto: “La vuoi sapere una cosa, stronzo? Il 21 dicembre è passato da tre giorni e tu sei
ancora qui”. Lo ha anche minacciato di consegnarlo agli alieni, che lo stavano aspettando in volo, sospesi
sopra Miami, pronti a succhiargli il sangue e non solo.
Benton ha sconsigliato a Marino di parlare così a un soggetto delirante, o per lo meno questo mi ha
raccontato al telefono mentre Lucy e io eravamo alle prese con mia madre e mia sorella Dorothy a Coral
Gables, dove abbiamo passato la notte. Benton e io ci siamo sentiti più volte al telefono mentre io facevo
quello che faccio sempre nella città in cui sono nata e cresciuta. Ho cucinato, pulito la casa, decorato
l’albero di Natale e mi sono preoccupata che tutti stessero bene. Ho dormito sola nella stanza degli
ospiti, mentre Lucy ha dormito sul divano. Rivedrò Benton molto presto. Ci ritroveremo tutti insieme e
supereremo anche questa vicenda drammatica, che è cominciata nel Connecticut per finire qui, sempre
che si possa parlare di fine.
Lucy e io aspettiamo vicino al muretto frangiflutti dietro l’arena, che si chiama American Airlines Arena
da che io ricordi. Quando ero piccola, non esisteva ancora e il Cirque d’Orleans montava un tendone in
questo stesso posto, vicino allo scambio ferroviario dove si fermava il lungo treno rosso.
Alle nostre spalle c’è il Bongos Cuban Café, sormontato da una cupola a forma di ananas. Sono quasi
le tre del pomeriggio e abbiamo appena finito di mangiare banane verdi ripiene, arrosto di maiale e riso
con le verdure, mentre Jake ha preferito un panino farcito con pesce alla griglia. Alla nostra sinistra
l’acqua screziata della baia di Biscayne circonda il porto di Miami, dove le navi da crociera sono
ormeggiate una di fianco all’altra, come tante piccole città galleggianti. Davanti a noi, oltre la recinzione,
c’è l’accampamento del circo.
Sono circa quattro ettari di prato e palme da cocco, calcolo, che quando c’è il circo sono occupati da
camion e rimorchi bianchi e dopo qualche giorno si svuotano. C’è un recinto dove gli elefanti vengono
“lasciati liberi”, ci ha spiegato Jake, ma adesso non ci sono. Mi ritrovo a guardare, pur sapendo che non
li vedrò più.
Quando siamo arrivati, stamattina, abbiamo visto la polizia che chiudeva al traffico il tratto di
Biscayne Boulevard tra Northeast 6th e Northeast 8th Street, affinché gli elefanti potessero trasferirsi con
la loro andatura metodica, tenendosi ognuno con la proboscide alla coda di quello davanti, dal recinto a
un parcheggio vuoto e da lì a Northeast 6th Street, dove sono stati guidati verso i binari e, uno per uno,
sulle rampe dei vagoni in attesa.
Lucy e io siamo rimaste affascinate dalla vista dei pachidermi lungo una passeggiata pubblica che li
lasciava indifferenti, o che forse invece non gradivano. Nessuno lo saprà mai perché, se si sono
scambiati dei segnali acustici o olfattivi, noi non eravamo in grado di percepirli. Siamo rimaste a
guardarli in rispettoso silenzio, un po’ discoste dalla piccola folla che applaudiva, e non so perché la
vista di quegli animali enormi mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Me li sono asciugati con
discrezione, dando la colpa al riflesso del sole subtropicale ancora basso sulla baia.
Mi sono ritrovata a sbattere spesso le palpebre e a dover prendere respiri profondi, mentre li
guardavo passare lentamente. Quando sono spariti, sono tornata qui, vicino al frangiflutti, dove sono
seduta adesso con Lucy e Jake. Trovo la presenza del senzatetto piacevolmente consolante, mentre
chiacchieriamo nella brezza che soffia dal mare, il sole caldo sui capelli e sulla camicia a maniche
lunghe e i pantaloni leggeri che mi sono messa. Abbiamo rievocato allegramente un passato che entrambi
ricordiamo bene perché siamo più o meno coetanei. E anche se io non ho trascorso la maggior parte della
mia vita adulta in mezzo a una strada, abbiamo molto in comune: siamo cresciuti tutti e due a Miami e ci
sentiamo un po’ come elefanti in un mondo sovraffollato che non ci capisce.
Quando ero piccola e il circo arrivava in città, la parata degli elefanti era più lunga e la folla che la
guardava molto più numerosa. Il mondo si fermava, o almeno così sembrava a me. L’ho raccontato a Lucy
perché voglio che conosca meglio il passato da cui discende, pur non avendolo vissuto. Prima di
ammalarsi, mio padre mi portava a vedere gli elefanti, le ho detto, e mi sembra di vedere ancora adesso
l’andatura misurata, il lento avanzare di quelle colossali creature grigie con pochi peli scuri e piccoli
occhi tondi fra la pelle rugosa, le orecchie cadenti, le zampe grosse come colonne, ciascuno con la
proboscide agganciata alla coda di quello davanti, come se si tenessero per mano per attraversare la
strada.
Oggi c’erano gruppi sparuti di spettatori lungo il breve tratto di strada chiuso al traffico, qualche auto
della polizia e qualche vigile urbano, e dubito che qualcuno avesse idea del motivo per cui una giovane
donna dall’aria sportiva e una meno giovane e meno sportiva stessero a guardare in silenzio, sole,
meravigliate e commosse. Poi, senza dire una parola, ci siamo ritirate verso il frangiflutti dove un
senzatetto che ancora non conoscevamo stava tagliando a striscioline sottili rami di palma che poi ha
intrecciato creando una lucertola, un pesce, una cavalletta e un uccellino. Gli ho dato venti dollari per la
cavalletta ed è così che ho scoperto che si chiama Jake... non la cavalletta, ma l’uomo che l’ha fatta.
Tutti i suoi averi sono contenuti in pochi sacchi della spazzatura, che trasporta dentro i cestini della
sua vecchia bici azzurra, appoggiata alla ringhiera del frangiflutti. In questo momento ci sta mostrando un
delfino che insegue un pesce: è una striscia grigio argento che increspa la superficie e poi salta fuori
dell’acqua, sembra che rida dalla gioia di aver preso il piccolo pesce che ha in bocca e alza la testa,
quasi volesse lanciarlo per aria come una palla. Sorrido alla vista di un mammifero così felice.
Jake osserva i delfini e gli elefanti da tanti anni, tanti quanti ne ha vissuti all’addiaccio sotto il sole
della Florida che gli ha bruciato la pelle, ormai simile a cuoio invecchiato; ha i capelli biondi brizzolati
raccolti in una coda di cavallo, cicatrici e tatuaggi sulle braccia muscolose. Gli occhi sono quasi dello
stesso azzurro dell’acqua poco profonda della baia, un verdazzurro che diventa quasi turchese quando si
mette a filosofeggiare, a scavare nei ricordi del passato e a esternare opinioni.
«Che cosa fa per Natale?» gli chiedo guardando le ultime foto che mi ha mandato Benton, quelle del
vagone in cui Daniel Mersa ha vissuto da otto anni a questa parte viaggiando con il circo.
«Niente di speciale.» Jake prende un ciuffo di striscioline di foglie di palma dal cestino della bici.
«Tutti i giorni sono uguali. Dipende dal tempo che fa.»
«Perché non viene a mangiare da noi?»
«Potrei fare un angelo, perché voi siete due angeli» dice Jake. «Ma gli angeli sono noiosi.»
«Io non sono un angelo» dichiara Lucy, e mai sono state dette parole più vere.
«Un fiore di ibisco, allora?»
«Mia zia cucina abbastanza bene» dice Lucy.
«Abbastanza bene?» Non alzo gli occhi dal telefono, riparandolo dal sole con la mano per riuscire a
vedere le foto.
45
La carrozza ferroviaria sembra un camper monocamera: le foto che Benton mi manda mostrano un letto
singolo, un divano, un tavolino basso, alcune lampade, un televisore e un angolo cottura, molto ordinato e
pulito. E molto anonimo, eccezion fatta per le maschere.
«Dovrebbe venire a mangiare con noi» dice Lucy a Jake, che continua a intrecciare foglie di palma. Le
sottili strisce verdi con la parte lucida in alto brillano al sole.
Le maschere di ceramica sono appoggiate a supporti verticali fissati a una mensola a parete, in alto,
sette facce che luccicano iridescenti alla larghezza di banda spettrale della luce nera, invisibile
all’occhio umano, che cade su di esse dall’alto. Rosso sangue, verde smeraldo, blu violaceo. Sette facce
di sette donne, e Benton mi scrive che lui ne riconosce solo quattro: le tre vittime di Washington e Gail
Shipton.
“Aveva già ucciso” recita l’SMS di Benton.
«A Coral Gables» dice Lucy a Jake.
«Da piccolo andavo alla Venetian Pool» le risponde lui, mentre il fiore di ibisco prende forma tra le
sue dita velocissime. «Ormai è diventato un quartiere di ricchi: nessuno si può più permettere di abitare a
Coral Gables.»
«Sa dove abitava prima mia nonna?» dice Lucy. «Vicino a Seventy-ninth Street.»
«La peggior strada di Miami. Non ci metto piede.»
«Un tempo non era così. Abbiamo dovuto farla trasferire.»
«A Coral Gables» dice Jake, pensoso. «Non vado mai neanche lì. Troppi soldi. Siete state carine,
però, a farle cambiar casa. Tutte le nonne andrebbero protette dai delinquenti.»
«Nel caso di mia nonna è il contrario» scherza Lucy, e Jake ride sguaiatamente.
“Lucy potrebbe provare la ricognizione facciale sulle tre maschere che non riconosci” scrivo a
Benton. “Ci sono donne scomparse e presunti omicidi nelle città in cui si è fermato il circo? Se sì,
potremmo confrontare le maschere con loro.”
“Oppure donne di cui DL voleva sbarazzarsi, magari molti anni fa” risponde Benton.
DL sta per Dominic Lombardi. È possibile che abbia chiesto al figlio naturale, un ragazzo difficile e
sociopatico, di eliminare chi gli metteva i bastoni fra le ruote, come Klara Hembree. Ma non intendeva
lasciare che uccidesse per il gusto di farlo. Nessuno è in grado di controllare l’incontrollabile, però. Lo
dico sempre. Benton ritiene che Daniel Mersa spacciasse le droghe che sono state la sua rovina.
Metilendiossipirovalerone. MDPV. “Sali da bagno” che quei criminali della Double S si facevano
arrivare da laboratori in Cina e distribuivano in tutti gli Stati Uniti, Cambridge compresa.
“Di recente aveva portato l’auto al Nord.” Benton continua a informarmi di quello che succede. “Il
circo è stato a Boston all’inizio di dicembre, poi è andato a Brooklyn e quindi è tornato al Sud. Il SUV
viaggia a bordo del treno e DM lo può usare ovunque il treno si fermi.”
Il Suburban di Daniel Mersa ha nove posti, ma lui ha tolto tutti i sedili tranne i due davanti. Ho visto le
foto ieri: fra la parte anteriore e il retro c’è un divisorio rivestito di moquette nera. Nella parte posteriore
aveva allestito il suo atelier, uno spazio vuoto di compensato dipinto di nero e insonorizzato, dove
soffocava le sue vittime, ricavava dai loro volti maschere di un materiale simile alla creta e quindi
posizionava i loro corpi, un braccio teso di lato, con il polso piegato, com’era il braccio destro di
Gabriela Lagos dopo che lui la annegò nella vasca. E il telo bianco in cui avvolgeva le sue vittime era
simile a un grande asciugamano bianco.
La creta si solidificava mentre il cadavere si irrigidiva. Intanto Daniel Mersa infilava alla nuova
vittima le mutandine sottratte alla precedente. E, quando arrivava nel luogo in cui aveva deciso di
lasciarla, la trasportava su una barella di bambù che teneva a bordo del suo mezzo, che Marino ha già
soprannominato “killermobile”. Lui e Benton vi hanno trovato sacchi di Lycra, buste di plastica del
centro termale Octopus, rotoli di nastro adesivo simile a pizzo, alcuni Taser con dozzine di cartucce e un
certo numero di tessuti aerei bianchi, anch’essi in Lycra. Gli acrobati come Daniel Mersa li usano per
appendervisi e dondolarsi nel vuoto in pose plastiche molto apprezzate dal pubblico.
Tra gli averi di Daniel Mersa ci sono anche centinaia di video di pornografia violenta, alcuni dei
quali mostrano i giochetti porno che Gabriela Lagos faceva nella vasca da bagno davanti al figlio Martin,
seduto con il braccio ingessato sul coperchio del water, e il suo annegamento a opera di Daniel Mersa,
che dura parecchi minuti. Dopo qualche anno, Daniel deve aver riversato i filmati su DVD e ultimamente
li ha caricati sul suo iPad, dove aveva una ricca collezione di racconti e registrazioni su diversi
famigerati assassini, alcuni dei quali sono stati anche oggetto di studio di Benton.
Non c’è dubbio che sia lui il Capital Killer, ma continua a lasciarmi perplessa che i suoi colleghi del
circo non si siano mai accorti delle modifiche che aveva fatto al SUV e non si siano mai chiesti come mai
tenesse nella sua carrozza quelle strane maschere di ceramica luccicanti, dai colori brillanti.
È anche vero che quello del circo è un ambiente fuori del comune, dove è normale indossare costumi
stravaganti e truccarsi il viso prima di entrare in pista saltando sul dorso di cavalli in corsa, fare salti
mortali all’indietro partendo dalla groppa di un elefante ed esibirsi in volteggi acrobatici appesi a tessuti
aerei, funi e cerchi, oppure rotolare dentro grandi sfere di metallo.
«La posso venire a prendere, se mi dice dove.» Lucy sta ancora cercando di convincere Jake ad
accettare il nostro invito. «Mia nonna non è molto gentile e mia madre è ancora peggio.»
«Se gli dici così, viene di sicuro» le faccio notare sarcastica, mentre guardo il treno rosso in cui
Benton e Marino sono ancora al lavoro.
«Va bene» dice Jake e porge a Lucy il suo fiore di foglie di palma intrecciate, che assomiglia solo
vagamente a un ibisco. «Mi può venire a prendere qui all’ora che vuole. Basta che ci sia posto anche per
la mia bici.»
«Sul mio mezzo ci sta. Diamoci un appuntamento, però.»
«Io capisco che ora è guardando il sole.»
«A che ora ceniamo, zia Kay?»
«Dipende da mia madre.»
«Dipende sempre dalla nonna.» Lucy alza gli occhi al cielo.
«Io in genere sto qui, quindi per me fa poca differenza.» Jake ha qualcosa in mente, ma non ce lo vuole
dire. «Domani è Natale, quindi? Non mi era manco venuto in mente. Io mi regolo sul tempo che fa. Dove
posso ripararmi quando piove. E se ci sono i fulmini non mi piace.»
«Arrivano.» Mi alzo.
«Le Giubbe rosse?» scherza Jake, ma è come se davanti al sole fosse passata una nuvola. La sua
faccia si è rabbuiata per qualcosa che lo intristisce e che io non so indovinare.
«Marino vuole le costine.» Leggo ad alta voce il messaggio che mi ha appena mandato. «Vuole sapere
dove andare a comprarle. Gli consiglio Shorty’s in South Dixie Highway.» Mentre lo dico, scrivo.
«Può andarle a prendere Janet» suggerisce Lucy.
«No, ci vorrà andare lui. Insegne al neon, ruote di carro, crani di mucche, selle ovunque: gli piacerà
tantissimo. Magari si ferma lì e non torna più.»
«Io so dove comprare il pesce più fresco che abbiate mai assaggiato» dice Jake, e io capisco cosa gli
è preso.
«Ho voglia di strombo, ma appena pescato e tolto dal guscio in acqua salata.» Vedo Benton e Marino
che si allontanano dal lungo treno rosso e vengono verso di noi. «E di ricciola alla griglia con una
semplice marinata alla giapponese, leggera perché se il pesce è fresco ha bisogno di poco o niente» dico
a Jake, come se gli stessi dando un’ordinazione.
«Segua Sixth Street fino al fiume Miami. Da qui sono meno di dieci minuti.»
«Mi fa vedere?» gli chiedo, benché conosca la strada.
«Certo» risponde.
Mia madre abita a venti minuti di macchina dal centro quando il traffico è ragionevole, come adesso.
Benton e Marino ci raggiungeranno dopo aver preso le costine di maiale, l’insalata di cavolo, le
pannocchie e cos’altro Marino deciderà di comprare da Shorty’s, un ristorante dove fanno roba alla
griglia in stile texano su un enorme barbecue, forse l’unica cosa che non è stata rasa al suolo
dall’incendio che lo ha distrutto nei primi anni Settanta. Io lo ricordo, ci andai un paio di volte per il mio
compleanno, quando mio padre stava ancora bene e gestiva il negozio di alimentari della nostra famiglia.
Seguo Granada Boulevard addentrandomi nel quartiere di Coral Gables, pieno di verde, con l’edera
che scende da muri color corallo che risalgono agli anni Venti e alte siepi di palme e prugne del Natal
dai piccoli fiori bianchi e profumati e dai rami spinosi.
I nomi delle vie, che sono strette e silenziose, sono dipinti in nero su lastre di pietra bianche e
l’asfalto chiaro è ombreggiato da grandi querce dalle fronde fittissime e ficus dalle radici grosse e
nodose che provocano crepe nelle strade, nei marciapiedi, nelle piscine e persino nei tubi della rete
fognaria.
In questa zona, una città nella città abitata da circa cinquantamila persone molto benestanti, le case
vanno da villette che sembrano gioiellini a sontuose dimore dagli ampi colonnati, e ricordo che da
bambina, quando mio padre era ancora abbastanza in salute da portarci in giro in macchina, in questo
periodo dell’anno venivamo proprio qui a guardare le decorazioni natalizie più ricche ed esagerate che
io abbia mai visto in vita mia. Ricordo presepi giganteschi, pupazzi di neve, Babbi Natale a grandezza
naturale con slitte e renne sul tetto e luminarie così potenti che si vedevano a distanza di chilometri.
Avevamo una Chevrolet del 1950 bianca, con i paraurti ad alettone e i parafanghi a scocca, e ricordo
l’odore dei rivestimenti in stoffa che si scaldavano al sole mentre viaggiavamo con i finestrini
completamente abbassati.
Le decorazioni natalizie in casa di mia madre – candele elettriche alle finestre e il piccolo cipresso
che ho trovato in un supermercato Whole Foods – non meritano certo una visita.
Lasciata a se stessa, mia madre non muove un dito e non si sognerebbe mai di cucinare né di fare
l’albero, e mia sorella di solito compra cibo già pronto e paga qualcuno per le decorazioni, a seconda
delle finanze del suo hombre del día, come Lucy e io chiamiamo la sua ultima conquista. Se non altro mia
madre non batterà ciglio quando ci presenteremo in compagnia di un senzatetto che abbiamo invitato a
mangiare, oggi e forse anche nei prossimi giorni. Non ha dimenticato che cosa vuol dire essere poveri,
mentre Dorothy non se lo ricorda più e si comporta come se fosse nata ricca, come chiunque ha la
sfortuna di conoscerla ben sa.
Svolto a sinistra in Milan Avenue e all’angolo c’è la casa di mia madre, intonaco bianco e tetto di
coppi rossi, con un piccolo garage dove è chiusa la Honda berlina che vorrei tanto non guidasse più.
Vedo muoversi le stecche di legno della veneziana a una delle finestre, segno che mia madre controlla chi
sta arrivando, nonostante le abbia detto e ripetuto che, se fai capire a chi ha suonato alla porta che sei in
casa, non andare ad aprire diventa un po’ difficile. Naturalmente Lucy e io abbiamo fatto installare uno
spioncino e un impianto di allarme con videocamera sulla porta principale e su quella di servizio, ma lei
non li usa. Preferisce guardare tra le stecche della veneziana, come ha sempre fatto.
Entro nel vialetto, lungo quanto basta per una sola macchina, e Lucy, Jake e io scendiamo.
«Chi avete portato?» La voce precede l’arrivo di mia madre, che socchiude appena la porta, altra sua
vecchia abitudine. «Non sarà quel mostro a cui tutti stanno dando la caccia?»
«No, mamma» rispondo. «È stato arrestato. È in prigione.»
Spalanco la porta e mia madre ha la stessa vestaglietta da casa che aveva ieri, bianca a grossi fiori
colorati. I fiori la fanno sembrare più grassa e più bassa e il bianco fa sembrare meno bianchi i capelli e
più spento il colorito. Ma è inutile darle consigli e io non le dico mai niente, a meno che non si tratti di un
problema di igiene. Ma è raro: al massimo una macchia di cibo che non ha visto o un leggero odore che il
suo olfatto non percepisce più.
«Perché Lucy è conciata così?» Guarda Lucy dalla testa ai piedi, mentre entriamo con una borsa frigo
piena di pesce.
«Sono vestita esattamente come stamattina, nonna. Bermuda militari e felpa.»
«Non so cosa te ne fai di tutte quelle tasche.»
«Mi servono per rubare nei negozi come mi hai insegnato tu. Dove sono Janet e i cani?»
«Li ha portati fuori, in giardino, e speriamo che raccolga la cacca. Tre cani? Questa casa è troppo
piccola per tre cani. E Quincy mi rosicchia tutto quanto. Perché poi lo ha chiamato come quello stupido
telefilm?»
«Dov’è la mamma?»
«Dalla manicure. O forse dal parrucchiere. Non si riesce a tenerle dietro.»
«Più che altro dubito che riesca a tenerle dietro il suo nuovo lui» dice Lucy. «È vecchissimo e
continua a mangiare come se fosse grasso. Non sarà un bello spettacolo quando gli scoppierà l’elastico
che si è fatto mettere al gargarozzo. Ma è ricco, immagino. Non l’avrà invitato, spero.»
«Questo è Jake.» Lo faccio entrare nel salotto e lo libero dalla borsa frigo.
«Piacere, signora.» Porge a mia madre un fiore fatto di foglie di palma.
«Oh, che bello! Cos’è?»
«Un ibisco, come quelli che ha davanti a casa.»
«Ma quelli non sono verdi. Devo metterlo nell’acqua?»
Porto la borsa frigo in cucina, che è piccola, con il pavimento di graniglia e un quadro di Gesù
nell’Orto degli olivi appeso vicino al frigorifero. Nella mezz’ora successiva risciacquo filetti di tonno e
preparo una marinata a base di salsa di soia, zenzero fresco tagliato finissimo, vino dolce giapponese,
sakè e olio di canola. Poi metto il pesce nel frigorifero e tiro fuori una bottiglia di un ottimo sancerre. Lo
stappo e sento profumo di pompelmo e di fiori. Me ne verso un bicchiere e comincio a preparare le
frittelle.
«Posso darti una mano?» Janet si affaccia sulla porta, biondissima, occhi vivaci e una leggera
abbronzatura, seguita da Sock e Jet Ranger. Poco dopo arriva anche Quincy, che entra di corsa
scodinzolando.
«C’è posto solo per me, qui dentro.» Le sorrido. «Vuoi un bicchiere di vino?»
«Non ancora, grazie.»
«E portati via i tuoi amici, per cortesia.»
«Vieni qui, Quincy. Andiamo, ragazzi.» Fa un fischio, batte le mani e se ne vanno tutti.
Trito lo strombo insieme con peperoni verdi, sedano e aglio, mentre di là sento chiacchierare Lucy,
Janet, mia madre e il nostro ospite come se fossero amici di vecchia data. Mia madre sta diventando
sorda e parla a voce sempre più alta. L’apparecchio acustico che le ho comprato di solito sta nel bagno
vicino ai vari prodotti e spazzolini per la pulizia della dentiera. E quando è sola, cioè la maggior parte
del tempo, si mette sempre la stessa vestaglietta, se ne frega se sente o non sente e se ha i denti o no.
Spremo limoni Meyer e sto tirando fuori la friggitrice quando sento la porta di ingresso che si apre
nuovamente e subito dopo il profumo delle costine che Marino sta portando in casa dentro grandi
sacchetti bianchi con la scritta SHORTY’S BAR-B-Q in rosso e il logo del ristorante, un cowboy stilizzato che
ha in testa un cappello enorme con un grosso foro di proiettile.
«Fuori, fuori, fuori.» Prendo i sacchetti e scaccio Marino dalla cucina, dove non c’è assolutamente
posto anche per lui. «Sei sicuro di averne preso abbastanza?»
«Ho bisogno di una birra» dice, ed è in quel momento che mi accorgo dell’espressione che ha. Poi
vedo la faccia di Benton.
«Quando puoi interromperti un attimo...» mi dice Benton. Capisco che è successo qualcosa.
Mi asciugo le mani in uno strofinaccio e li guardo, entrambi in jeans, camicia e giacca a vento
anonima che nasconde sicuramente una pistola. Marino ha la barba lunga di qualche giorno e il viso
arrossato dal sole e Benton ha la faccia di quando c’è qualcosa che non va.
«Cosa c’è?»
«Mi stupisco che non ti abbiano telefonato dal CFC» dice Benton.
Controllo il telefono e c’è un’e-mail di Luke Zenner che non ho visto mentre compravo il pesce, ero in
macchina ed ero distratta da mia madre. Luke mi scrive che è tutto sotto controllo e di non preoccuparmi,
che non comincerà l’autopsia prima di stasera, quando arriverà il generale Briggs, il direttore
dell’Istituto di medicina legale delle Forze armate. È partito dalla base dell’Aeronautica militare di
Dover per assistere e fungere da testimone, e che brutto che sia successa una cosa così proprio la vigilia
di Natale. Ci penseranno loro e si spera che domani nessuno debba venire a lavorare. Mi augura buon
Natale.
«È meglio che tu sia fuori città» mi dice Benton, per poi raccontarmi il poco che sa, e davvero non c’è
molto da sapere. Come spesso succede quando una persona prende la semplice decisione di porre fine
alla propria vita, e di farlo bene.
Ed Granby ha aspettato che la moglie andasse a spinning e, verso le quattro del pomeriggio, ha
bloccato tutte le porte della sua casa di Brookline chiudendole dall’interno in modo che lei non potesse
entrare e vederlo per prima. Poi ha scritto un’e-mail al suo vice, che è un suo buon amico, chiedendogli
di prendere la macchina, venire a Brookline e introdursi in casa rompendo il vetro di una finestra della
cucina.
L’e-mail di Granby è stata inoltrata a Benton, che me la mostra in cucina mentre l’olio nella friggitrice
si scalda.
“Grazie, amico” ha scritto Granby. “Io ho finito.”
È sceso in cantina, ha passato una corda sulla barra per le trazioni di una macchina per fare i pesi, si è
avvolto un asciugamano intorno al collo, si è seduto per terra e si è impiccato.
«Vieni con me.» Spengo la friggitrice, prendo il sancerre e due bicchieri ed esco dalla cucina con
Benton. Passiamo davanti a tutti in salotto, dove sotto l’alberello sono ammucchiate pile di regali, frutto
del mio shopping compulsivo.
Mia sorella Dorothy è appena arrivata. Ha un paio di pantaloni firmati aderentissimi, di finta
lucertola, un body molto scollato e un trucco pesante che la fanno sembrare esattamente come non
vorrebbe essere, più vecchia e più flaccida, con le tette rifatte, tonde e rigide come due palloni di gomma.
«Volentieri, grazie» dice adocchiando la bottiglia. Io scuoto la testa. Non ora. «Be’, scusatemi. Vorrà
dire che andrò a prendermelo da sola.»
«Siamo qui per servirti» dice Lucy.
«Com’è giusto che sia. Sono tua madre.»
Lucy non le dà addosso, come farebbe di solito, e segue con gli occhi Benton e me. Apro la porta sul
retro e sento il tepore del tardo pomeriggio, vedo le ombre lunghe nel giardinetto di mia madre, che non è
quello della mia infanzia, e devo fare uno sforzo per ricordarmelo ogni volta che vengo qui e non
riconosco nulla, né le piante né la casa né il mobilio, perché è tutto nuovo, o rifatto, ed è senz’anima.
L’erba fitta è elastica sotto i miei passi e soffia una leggera brezza tra i vecchi aranci e pompelmi
ancora carichi di frutti. Ci sediamo sulle sedie pieghevoli accanto al giardino roccioso, con le sue palme
e le sue statuette – un angelo, la Beata Vergine, un agnello – in mezzo a girasoli e ciuffi di russelia.
«Che cosa terribile ha fatto alla sua famiglia, la vigilia di Natale.» Verso il vino e ne porgo un
bicchiere a Benton. «Non mi dispiace per lui. Mi dispiace per loro.»
Mi appoggio all’indietro e chiudo gli occhi, e per un attimo vedo l’albero di limetta che mia madre
aveva in giardino quando ero piccola. Il cancro batterico degli agrumi lo fece seccare, ma adesso siamo
in un altro quartiere della città e in un altro giardino. Benton mi prende la mano e intreccia le dita con le
mie. Il sole è color rosso fuoco sopra il tetto basso e piatto della casa del vicino. Non parliamo. Non c’è
niente da dire e niente di quello che è accaduto è una sorpresa, così rimaniamo in silenzio e beviamo,
tenendoci per mano.
Quando la bottiglia è quasi finita e il giardino è completamente in ombra, il sole così basso che non si
vede più e resta solo una sfumatura color mandarino a ponente nel cielo sempre più scuro, Benton mi dice
che lo sapeva. Sapeva che Granby si sarebbe suicidato.
«L’avevo pensato anch’io» replico.
«L’ho capito quando Marino lo ha sollevato di peso prendendolo per la cintura» dice. «Gli ho letto
negli occhi che gli era venuto a mancare qualcosa di fondamentale, dentro, e che non lo avrebbe mai più
ritrovato.»
«Gli è sempre mancato qualcosa di fondamentale.»
«Me ne sono accorto, ma non ho fatto niente.»
«Che cos’avresti dovuto fare?» Lo guardo di profilo nella luce del crepuscolo.
«Niente» mi risponde.
Ci alziamo per tornare in casa perché comincia a far freddo e, se bevo ancora un po’, rischio di
bruciarmi con la friggitrice o con la griglia.
Benton mi mette un braccio intorno alle spalle e io gli cingo la vita con il mio, e l’erba fitta
scricchiola sotto i nostri passi.
I pompelmi quest’anno sono enormi, chiari, e le arance grosse e bitorzolute. Il vento fa dondolare gli
alberi mentre camminiamo in un giardino di cui pago la manutenzione ma in cui raramente mi siedo.
«Lasciamo che Dorothy parli di sé, così non dovremo parlare di niente» suggerisco mentre saliamo i
tre gradini davanti alla porta.
«Sarà la cosa più facile della nostra vita» replica Benton.
Indice
Il libro
L’autore
Polvere
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Copyright