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Assisi, 9-11 aprile 2014
Relazione di Rossana Dettori
Segretaria Generale Fp Cgil
Care delegate, cari delegati,
voglio ringraziare innanzitutto tutte le compagne ed i compagni della Funzione Pubblica
nazionale e quelli della struttura umbra per lo splendido lavoro organizzativo che hanno saputo
mettere in campo: è principalmente grazie a loro che oggi possiamo dare avvio ai nostri lavori
congressuali.
E poi lasciatemi indirizzare un personale e sentito ringraziamento alle compagne e ai
compagni della segreteria nazionale.
Care e cari Cecilia, Concetta, Federico, Totò, Fabrizio, Alfredo e Adriano, ora possiamo
finalmente dircelo: la fase che chiudiamo con il Congresso di Assisi è stata davvero molto
complicata. E non mi riferisco al particolare momento di crisi che attraversano il Paese e il mondo
del lavoro pubblico (sul quale, ovviamente, mi soffermerò in seguito), ma anche e soprattutto a noi
stessi.
Perché a noi era affidato un compito che all’inizio di questa esperienza a molti appariva
improbo: quello di ricostruire quel tessuto di relazioni politiche e personali che le scelte assunte nel
IX congresso di Sorrento avevano messo seriamente in crisi.
E poi un grazie alle istituzioni cittadine, provinciali e regionali per l’accoglienza e
l’attenzione che avete voluto riservare a questo nostro appuntamento e a Giovanni Faverin,
Pierangelo Raineri e Giovanni Luciano, Giovanni Torluccio, Benedetto Attili e Brunetto Boco per
essere qui con noi e soprattutto per aver fatto in modo (ovviamente insieme a noi) che questa loro
presenza non fosse solo atto formale di cortesia, ma che avvenisse all’interno di un percorso per il
quale il valore dell’unità sindacale è tornato ad essere pratica, fatto concreto.
Ed infine un caloroso saluto a tutte le delegazioni dei sindacati stranieri: ai colleghi del
sindacato svedese, alle compagne e ai compagni di Comisiones Obreras.
Un particolare benvenuto lo voglio indirizzare al mio amico Julio Lacuerda, Segretario
Generale di UGT e ad Anna Marie Perret, Presidente Epsu che, fortuna per lei, è ormai prossima
alla meritata pensione. A lei anche un grazie anticipato per le emozioni che sono sicura riuscirà a
regalarci nel corso di questa giornata.
(Resto consapevolmente nel vago perché su questo mi hanno costretta al silenzio)
La vostra presenza qui ad Assisi, oltre che ad essere motivo di piacere, dimostra il livello di
investimento politico/organizzativo che abbiamo inteso mettere in campo da tempo sul tema del
sindacalismo transnazionale e del sistema di relazioni che lega le rappresentanze sociali di ogni
paese, a cominciare da quelli che si affacciano sul mediterraneo.
Un abbraccio ideale, invece, va, non solo da me, ma da tutta la sala, ai compagni del
sindacato greco che oggi non sono potuti essere fra noi: la loro lotta è la nostra lotta, il loro
sciopero generale di oggi è anche nostro.
E un saluto a parte, infine, voglio indirizzarlo alla compagna Rosa Pavanelli, che per la
prima volta partecipa da “esterna” al nostro congresso nazionale: l’elezione di Rosa alla carica di
Segretario Generale dell’ISP, l’Internazionale dei Sindacati Pubblici è stato uno dei fatti più rilevanti
di questi quattro anni di attività internazionale della Funzione Pubblica Cgil.
Abbiamo deciso di raccontare, anzi di rendicontare, il periodo che separa questo congresso
da quello di Sorrento, consapevoli che il tema della trasparenza e della condivisione sulle scelte
che assumiamo deve essere punto centrale ed ineludibile del nostro agire.
Siamo qui a dare avvio ai lavori del X Congresso nazionale della Fp Cgil dopo aver svolto
poco meno di seimila assemblee di posti di lavoro nelle quali hanno scelto di votare più di 180.00
lavoratrici e lavoratori, come il congresso precedente, e dopo aver svolto più di cento congressi
territoriali e 21 congressi regionali, a testimonianza di uno straordinario processo democratico che,
al di fuori delle rappresentanze sociali, nessun altro soggetto è in grado di mettere in campo.
Nella nostra Categoria, il documento “Il lavoro decide il futuro” ha registrato il 96,92% di
consensi, mentre quello “Il sindacato è un'altra cosa” il 3,08%. Questa assemblea congressuale,
frutto di quel percorso, è composta per il 47,19% da donne, migliorando sensibilmente la
situazione di Sorrento dove le donne delegate superavano di poco il 42%. Avanzare in un contesto
in cui gli indicatori che qualificano la parità di genere subiscono una variazione negativa è un
risultato che dobbiamo saper valorizzare, del quale essere orgogliose e orgogliosi.
Il contesto entro il quale si sono collocate le nostre assemblee congressuali era e resta uno
fra i più delicati per il Paese e per l’intero mondo del lavoro: ciò, l’ho detto allora e lo ripeto oggi,
avrebbe consigliato a tutti uno straordinario senso di responsabilità, chiarezza ed equilibrio.
Dovevamo saper resistere, e posso dire con orgoglio che nella nostra Categoria siamo
riusciti a farlo, proprio a quelle tentazioni popolari/populiste che abbiamo aspramente criticato nei
partiti e sulle quali la politica ha mostrato e continua a mostrare il suo volto peggiore.
Lo dico con chiarezza, il pluralismo, in una organizzazione come la nostra, deve continuare
ad essere considerato uno dei valori irrinunciabili, uno dei punti fondanti del nostro vivere la Cgil
Ma con altrettanta chiarezza dico anche un'altra cosa e nel dirla utilizzo le parole di
Giuseppe Di Vittorio. In uno dei suoi ultimi scritti, affermava che “la Cgil è il bersaglio preferito di
tutte le forze conservatrici e reazionarie, di tutti i ceti privilegiati, di tutti i miliardari dei monopoli,
perché essa è la forza dei vostri diritti e la guida delle vostre conquiste. Rafforzatela, difendetela
dovunque”. E poi ancora: “ma affinché la Confederazione Generale del Lavoro possa adempiere a
questo suo grande compito di carattere storico è necessario consolidare quel suo carattere unitario
che esclude ogni settarismo”
Nei prossimi mesi, avremo più di una occasione per trarre da quelle parole l’ennesimo
insegnamento e le ragioni di una azione che, spero di sbagliare, dovrà riproporsi ad argine e difesa
dei diritti di cittadinanza, dei principi di solidarietà e di giustizia sociale, contrapponendo ai tentativi
isolazionisti un ben radicato concetto di unità, della Cgil prima di tutto.
Un’unità, che deve ripartire da quell’idea di Confederazione Generale proprio per come la
intendeva Di Vittorio: unitaria e senza settarismi.
La rappresentazione, forzata ad arte, di una Cgil “impallata” in un dibattito cristallizzato
dalle contrapposizioni interne, da questa “gara” a chi è più democratico è proprio quello che lo
stesso Di Vittorio affermava essere il rischio malevolo di una grande organizzazione di
rappresentanza generale.
Il testo unico, parlando proprio di ciò che è stato usato per favorire questa rappresentazione
del nostro Congresso, realizza finalmente il principio costituzionale della rappresentanza. Da
centralità ai contratti di lavoro e affida alle lavoratrici e ai lavoratori il ruolo di “certificatori ultimi”
degli accordi .
Quante battaglie, compagne e compagni, quante lotte, quante chiamate in piazza per
affermare la giustezza di questa rivendicazione, per dire che questo era uno dei punti centrali della
crisi democratica del Paese!
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E allora, continuiamo a discutere su come proseguire, su quali eventuali miglioramenti
possiamo mettere in campo con la contrattazione collettiva, continuiamo a confrontarci con tutte le
lavoratrici e i lavoratori italiani, dei settori privati e di quelli pubblici. Avendo cura di non dimenticare
mai che stiamo parlando di uno dei diritti costituzionali fondamentali. Il voto di quei cittadini sulle
scelte che li riguardano, come lavoratori, non appartiene a noi, non appartiene a nessuno se non
alle lavoratrici e ai lavoratori stessi: è punto indisponibile a chiunque diverso da loro.
E a proposito di voto: tra 46 giorni si terranno le Elezioni Europe . Quell’appuntamento
elettorale è decisivo per le sorti della stessa Europa.
La nostra generazione, è cresciuta nell'ideale europeo: l'Europa sociale è stato l'orizzonte
del nostro agire. Per questo sappiamo quanto grande è il bisogno di un'altra Europa, alternativa a
quella costruita oggi sulle politiche di austerità, sui tagli ai servizi pubblici e alle conquiste sociali e
del lavoro guadagnate con la lotta nel secolo scorso.
L'Unione di oggi sembra una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue
profezie e ideologie e che non verifica mai la bontà delle scelte che assume. Mai un resoconto
veritiero sugli effetti delle misure messe in campo, su quelle misure che hanno reso ancora più
difficile la ripresa economica in Europa, affondando molti paesi in un pantano da cui è difficile
uscire.
La crisi è stata determinata dall'avidità ed ora è l'avidità la ricetta che si offre. Come se il
rimedio all'intossicazione fosse il veleno stesso che l'ha causata.
Dal 2008 è aumentata la povertà, sono aumentate le diseguaglianze, si sono ridotti i diritti.
Unione e Stati membri si ripartiscono, a mio giudizio, le responsabilità di questo disastro.
Perché se le Istituzioni europee hanno la responsabilità di non pensare alla crisi in maniera
solidale, agli Stati membri va la colpa di non aver agito il loro ruolo, la loro possibilità di veto ancora
preponderante, come ancora confermano i trattati.
Hanno voluto fare un esperimento con la Grecia. Hanno cercato di vedere se funzionava la
ricetta, facendola pagare ai greci. Hanno provato delle politiche ancora più dure, e hanno fatto
marcia indietro.
Hanno aspettato per dare soldi, li hanno ritirati per poi prometterli nuovamente.
Hanno giocato con la crisi, con i bisogni primari della gente.
Questo è il grande scandalo: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri, in
mezzo il nulla.
Nulla di meno solidale e federale.
La contrattazione collettiva nei settori pubblici europei è sotto attacco, oggi più che mai.
Diversi governi nazionali hanno stracciato i contratti collettivi o congelato la contrattazione e
la cosiddetta Troika è intervenuta nei processi nazionali di negoziazione collettiva.
In Grecia è stato chiesto ed ottenuto il licenziamento di decine di migliaia di dipendenti
pubblici, il taglio dei salari, la chiusura di ospedali, di uffici. Lo stesso è stato fatto in Portogallo, in
Spagna, a Cipro e, per certi versi anche in Italia.
Solo qualche settimana fa il Parlamento europeo, in un risveglio non solo tardivo, ma anche
odiosamente sospetto, ha approvato una risoluzione che "deplora la Troika di essersi occupata,
per Grecia, Portogallo, Grecia e Irlanda, di riforma dei sistemi sanitari e di tagli alla spesa;
dichiarando che le misure attuate hanno fatto aumentare nel breve periodo le disuguaglianze in
termine di distribuzione del reddito.
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Quel Parlamento, silente e accondiscendente prima, ha stigmatizzato adesso i tagli
apportati alle protezioni e ai servizi sociali, l'aumento della disoccupazione, nonché la riduzione
delle retribuzioni.
Tutto ciò, dice lo stesso Parlamento europeo, sta provocando un aumento della povertà,
compromettendo la possibilità di uno sviluppo economico soprattutto rispetto alla grave situazione
della disoccupazione giovanile di lunga durata.
Dichiarazioni fin troppo simili a quelle che la CGIL da tempo aveva esplicitato, non solo
inascoltata, ma addirittura tacciata di essere conservatrice, contro il progresso e la modernità.
Abbiamo bisogno di una governance economica europea, dunque, che deve tornare ad
essere democratica e che tenga conto delle questioni sociali e ambientali.
Questo il senso della grande manifestazione che abbiamo appena fatto insieme alla CES il
4 aprile a Bruxelles.
E questi sono i temi che affronteremo nel Congresso che l'EPSU terrà a Tolosa alla fine del
prossimo mese. Da quel Congresso deve uscire fuori con chiarezza la proposta di una piattaforma
che riunisca la Confederazione europea dei sindacati, il Consiglio regionale Pan Europeo (e le
altre federazioni sindacali europee per rafforzare la cooperazione e le campagne sulle questioni
degli stessi servizi pubblici.
Abbiamo un grande bisogno di un fronte comune per sconfiggere le strategie di
smantellamento del ruolo pubblico, e contrastare il perpetrarsi delle scelte fin qui assunte: un
grande blocco sociale che possa scongiurare il riaffacciarsi di una idea mondiale di liberalizzazione
dei servizi pubblici.
Un nuovo mostro si affaccia all’orizzonte: il ritorno della Bolkestein. Nel 2004 un grande
movimento europeo si oppose alla direttiva sulla liberalizzazione dei servizi pubblici. Dieci anni
dopo il nuovo Trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale tra Usa ed Unione Europea si
gioca ancora con le stesse carte.
Un negoziato segreto con l’obiettivo di liberalizzare i beni pubblici che produrrà
l'annullamento della democrazia intesa come possibilità di una comunità di decidere i propri valori,
le regole condivise, le politiche da realizzare. Che produrrà l'annullamento di quei diritti dei cittadini
e di quelle responsabilità collettive - come quella verso l'ambiente - che si frappongano alla
trasformazione in merce del mondo intero.
Con 5,6 milioni di disoccupati sotto i 25 anni nell'Unione Europea, lo stesso modello sociale
è in pericolo. C'è il rischio di una generazione perduta. Per fronteggiare ciò l'Unione ha proposto
un Sistema di Garanzia per i Giovani con un appostamento di 6 miliardi di euro.
E’ un passo importante nella giusta direzione, ma l'OIL ha già detto che, per intraprendere
azioni adeguate sul tema, bisognerebbe aggiungerne almeno altri 15 .
E’ il settore pubblico, allora, che deve saper svolgere un ruolo chiave nella battaglia contro
la disoccupazione giovanile e la precarietà. Investire in politiche attive del lavoro gestite dal
pubblico comporta, quindi, un investimento finanziario e di risorse umane. Per pensare a un piano
di assunzioni di giovani bisogna invertire le politiche di tagli e austerità in cui il settore pubblico è
sottoposto da troppo tempo.
I giovani sono anche il nostro futuro sindacale. In molti paesi, ad esempio in Germania, in
Svezia, in Irlanda, è oramai strutturato un rapporto con le università e con le scuole superiori, per
avvicinare i giovani ai temi della difesa dei diritti del lavoro e dei servizi pubblici. Sono esperienze
che possiamo non solo approfondire, ma fare nostre.
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Pochi giorni fa abbiamo sottoscritto una convenzione con la facoltà di Comunicazione e
Giornalismo dell’Università di Roma Tor Vergata, per tirocini guidati dentro la nostra struttura
nazionale. Allarghiamo queste possibilità ad altre forme di collaborazione e ad altre facoltà,
rendiamola pratica diffusa su tutto il territorio nazionale, apriamo le nostre strutture agli studenti.
E infine l’Europa, e le sue politiche di accoglienza.
Una politica migratoria dignitosa deve essere basata sulla redistribuzione globale della
ricchezza, su uno sviluppo democratico e che abbia alla base di tutto un lavoro ed un reddito
dignitoso, con il diritto a servizi pubblici di qualità. Non più solo su valutazioni di tipo economiche.
I migranti devono avere il diritto allo stesso trattamento sul lavoro, all'accesso ai servizi
sanitari, all'istruzione, all'alloggio, ai diritti civili, al soggiorno di lungo periodo e alla cittadinanza.
Innanzitutto per una questione di giustizia sociale, ma anche perché la stessa crisi sta
cambiando i flussi migratori: gli stanziali diventano emigranti ed in tantissime parti d’Europa, Italia
compresa, sono i nostri giovani ad andare per cielo e per mare alla ricerca di nuove possibilità.
Cos’altro ci ribadisce il referendum svizzero se non il fatto che tutti siamo migranti o
immigrati di qualcuno o di qualcos’altro e che la xenofobia è come un boomerang, torna sempre
nelle mani di chi la lancia?
Rimettiamo al centro la persona, non la sua etnia; il lavoro, non il suo costo; la dignità, non
la sua fame e la sua disperazione. Quella disperazione che abbiamo letto negli occhi di chi a
Lampedusa piangeva un figlio, un fratello, un amico e che abbiamo giurato a noi stessi di non voler
rivedere mai più.
Non basta cancellare il reato di clandestinità: la legge Bossi Fini va riscritta da capo.
A iniziare dal diritto di voto e di cittadinanza, per terminare con una riorganizzazione del
sistema dei servizi pubblici anche attraverso la presenza capillare di mediatori culturali.
Occorre garantire ai migranti l’accesso ai concorsi pubblici.
E, per ultimo, le donne: le donne in Europa, le donne in Italia.
Sono, siamo indignate ed indignati per la scelta "agghiacciante" che il Governo
spagnolo intende imporre alle donne.
Oggi pomeriggio sentiremo le testimonianze dirette delle compagne di UGT e Comisiones
Obreras sulla proposta di legge del governo Rajoy sulla libertà di scelta della donna.
Io dico che quella proposta è un attacco frontale alla libertà, alla dignità e all’integrità delle
donne e degli uomini, non solo in Spagna, ma anche in Italia e in tutta Europa.
L'unica via è respingere questa proposta di legge, senza se e senza ma, difendendo il
diritto inalienabile delle donne a decidere liberamente della propria maternità e del proprio corpo.
L'idea di considerare l'aborto come un delitto, considerare le donne come incapaci a
decidere e per questo bisognose di un aiuto per poter decidere giustamente, è il ritorno ad un
passato che un po’ tutti pensavamo sconfitto.
Il principio etico del rispetto della autonomia e della capacità di giudizio delle donne, di
prendere la migliore decisione sulla maternità è un passo decisivo di un diritto che ha sconfitto la
pratica, omicida ed ipocrita, degli aborti clandestini ed ha difeso le persone più vulnerabili.
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Ora si vuole tornare a queste pratiche, ai tempi dei viaggi all'estero in cerca di legislazioni
più umane. Una mobilità dell'orrore che come cittadini europei non possiamo accettare.
La regressione è già nel pieno del suo sviluppo se persino la libertà di coscienza, che in
queste materie per i parlamentari è d'obbligo, è fatta oggetto in Spagna di pressioni e ricatti, politici
e religiosi.
Noi donne italiane sappiamo bene cosa significhi, ogni volta che c’è di mezzo il nostro
corpo, fare leva su parole come libertà o obiezione laddove associate alla parola coscienza.
L’ho detto e lo ripeto, quando c’è in gioco la libertà di scelta nell’autodeterminazione delle
donne, non ci può essere nessuna altra pseudo libertà o obiezione a limitarne la possibilità di agire.
Vale per il diritto alla maternità, libera e consapevole, per il diritto all’eguaglianza e alla
parità di opportunità, nella vita e nel lavoro, vale ancor di più per ciò che attiene alla violenza, al
femminicidio.
Occorre battere la cultura patriarcale che vuole le donne prive di libertà, corpi di cui
disporre.
La violenza sulle donne è frutto di tutto ciò. Cicatrici, ematomi, fratture sono effetti concreti,
misurabili scientificamente, refertabili; così come altrettanto concreto e “standard”, almeno nelle
caratteristiche, è il periodo che precede quelle fratture, quei segni: attenzioni sempre più moleste,
minacce verbali, le prime limitazioni della libertà fisica, i primi segni di violenza, il primo schiaffo,
possono differire da caso a caso per durata, accelerazione, intensità, non per evoluzione
Questo è il periodo nel quale, non una astratta donna, ma Federica, Anna o Maria hanno
bisogno di essere protette e sostenute .
E’ questo il momento nel quale o si interviene o le si condanna a morte (e non parlo di
morte sociale o culturale, parlo proprio della “cessazione delle funzioni biologiche”).
E allora è lecita una domanda: oggi in Italia qual è il luogo, la struttura e la responsabilità
istituzionale alla quale viene affidato il compito di intercettare quelle donne prima del loro
appuntamento con la morte?
Quello stesso Stato, che garantisce l’appendicectomia come un livello essenziale di
assistenza, non ha mai imposto a se stesso la protezione della vita di una donna colpita dalla
violenza come una funzione da garantire ed assicurare, ciò nonostante il fatto che l’Unione
Europea raccomandi da ormai 15 anni l’istituzione di Centri Antiviolenza in ogni città, definendo
addirittura il rapporto fra posti letto e abitanti (1 posto letto ogni 7.500 abitanti).
L’Italia dovrebbe avere, se rispettassimo quei parametri - come proviamo a rispettare quello
del deficit in rapporto al PIL - 5.700 posti letto nei centri antiviolenza: ad oggi ne abbiamo più o
meno 500.
Tutti lasciati nelle mani (straordinarie) di migliaia di volontarie e volontari e alle sensibilità,
sempre più costrette dalla crisi, quando non da interessi diversi, degli amministratori locali.
Non dobbiamo rassegnarci e vogliamo realizzare la previsione europea.
C’è bisogno che la protezione delle donne dalla violenza maschile diventi un Liveas da
assicurare, ci vogliono responsabilità istituzionali certe; e ci vuole infine un fondo “intangibile” per il
finanziamento dei centri, e la responsabilità (non dico la gestione, non ora almeno) che deve
essere pubblica.
Ci vuole una legge che sancisca tutto ciò e….appena qualche milione di euro.
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Molti, ma molti di meno di quelli spesi in…consulenze stravaganti, infinitamente meno di
quelli usati dal servizio sanitario nazionale per curare fisicamente le lesioni, le fratture e gli
ematomi delle donne “sopravvissute” alla violenza maschile.
BASTA MENATE, CENTRI ANTIVIOLENZA E SERVIZI IN OGNI CITTA’ è la campagna
che intendiamo lanciare in tutto il Paese a partire dai prossimi giorni, provando a costruire una
alleanza vasta e trasversale il cui nucleo centrale sia rappresentato dal sistema dei servizi, dalle
lavoratrici e dai lavoratori dei servizi pubblici, dalle donne e dagli uomini di buona e straordinaria
volontà che continuano a impegnare tutto ciò che possono per sconfiggere disperazione e violenza,
costrizioni ed abusi.
Abbiamo bisogno di sconfiggere la crisi innanzitutto provando a rimettere in campo azioni
chiare e mirate, perché l’Italia è l’emblema di una situazione di incertezza, di ambiguità, di
assoluta assenza di un minimo senso di orientamento.
Lavoro, occupazione, giovani, donne, precarietà, ruolo del pubblico, riforma delle istituzioni,
contrattazione, equità: su nessuno di questi temi l’Italia si è distinta per soggettività, originalità,
prospettiva.
Men che meno su un tema che anche con il nuovo corso politico non sembra essere
tornato ad essere centrale: corruzione, ecomafie, caporalato e più in genere tutto ciò che rientra
nella parola legalità non è, o almeno non appare, essere in cima ai pensieri del Governo Renzi.
Mai come in questi tempi si è avvertita l’assenza di un progetto politico di lunga durata che
ponesse al centro obiettivi comuni e condivisi.
Sul lavoro, ad esempio, tema mai così abusato nei talk show e nelle conferenze stampa, la
nostra proposta – Il Piano del Lavoro - è, e resta almeno per il momento, l’unica in campo: l’unica
possibile risposta alla grave spirale recessiva cui rischia di essere condannato il Paese dopo i tagli
lineari e i provvedimenti tesi a sostenere la finanza piuttosto che il lavoro.
Il cuore della proposta attiene alla necessità di ribaltare il paradigma degli ultimi venti anni,
ovvero rimettere al centro il lavoro ed il suo valore nella ricostruzione di una ricchezza non virtuale
di un paese.
Quindi scelte a favore della produzione di beni materiali e immateriali: quei beni materiali e
immateriali che per noi vogliono dire la sicurezza dell’ambiente, la salute e l’assistenza nei
confronti delle persone che hanno bisogno, l’istruzione dei nostri figli, la tutela delle nostre
ricchezze artistiche e culturali, aumentando il prelievo fiscale sulle rendite.
Il cambio di paradigma deve produrre effetti immediati nelle condizioni salariali dei
lavoratori, con la possibilità di soddisfacimento dei bisogni primari che oggi vengono negati dalla
depressione salariale (i dati a questo proposito relativi alla tutela della salute sono a dir poco
allarmanti), ma soprattutto deve offrire certezza di lavoro ai tanti giovani esclusi dal mercato,
quando non schiavizzati dallo stesso.
Ciascuno di noi sa che la ricostruzione di un sistema generale di welfare, capace di
interpretare correttamente la nostra costituzione , richiede almeno due condizioni.
Da un lato la consapevolezza che le risorse destinate al welfare e più in generale al
rafforzamento delle politiche pubbliche dei servizi, generano sviluppo.
Come dice Papa Francesco è assai dimostrato che gli interessi dei fautori del mercato
crescono in modo infinito, senza regole, e dunque il bicchiere di questi interessi non sarà mai
colmo ma anzi tenderà a diventare sempre più grande
Solo una politica pubblica potrà assicurare a tutti il soddisfacimento di questi bisogni.
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Dall’altro un cambiamento radicale dal punto di vista culturale
Passare dall’individualismo alla collettività ridefinisce la necessità di indirizzare
consapevolmente verso la dimensione pubblica risorse certe, superando la stagione dei ticket con
contributi diretti.
E’ giunto il momento di ragionare di un servizio civile obbligatorio per i giovani dai 18 ai 29
anni, in maniera tale da assicurare ai quattro settori che abbiamo individuato il contributo umano
per il rafforzamento della rete di welfare e la sua contemporanea sostenibilità economica.
Si potrebbe offrire ai giovani attualmente disoccupati 600 euro al mese per un anno.
Questo periodo potrebbe essere considerato come curriculare e potrebbe essere registrato
nel libretto formativo dando luogo anche a crediti formativi validi sia nel percorso universitario che
nell’accesso ai pubblici concorsi.
A me pare questo il modo migliore per affermare al tempo stesso il diritto alla cittadinanza e
il contributo alla idea di comunità. Con la possibile istituzione di una scuola nazionale del
volontariato sociale, si determinerebbe un contenitore di competenze da indirizzare in questa
direzione.
Allo scopo sarebbero necessari circa 7 miliardi, meno, molto meno di un indistinto e
generico reddito di cittadinanza che qualcuno vuole svincolato totalmente dal lavoro, dalla
formazione professionale, dalla stessa dignità che solo un lavoro ci permette di conquistare.
Queste risorse potrebbero essere reperite dal contenimento delle spese militari e dalla
stessa spending review.
Confermiamo la scelta fatta, insieme a Cisl e Uil (e in verità insieme anche ad un ex
Ministro di questa Repubblica), che il lavoro a tempo indeterminato deve essere la tipologia di
rapporto di lavoro preminente.
Il lavoro deve essere certo, così come altrettanto certo e delimitato il ricorso alle forme
flessibili.
Riteniamo inaccettabile che si ritorni alla casella di partenza: il decreto legge Poletti va
modificato e per questo ci batteremo sostenendo le ragioni, innanzitutto dei 130.000 precarie e
precari e vincitori di concorso, che chiedono semplicemente un lavoro stabile e duraturo, e quelle
dei tanti giovani e disoccupati ai quali anche il Governo Renzi, quello della modernità e del
decisionismo, intende offrire la stessa medicina che li ha fatti ammalare: precarietà, incertezza,
ulteriore disperazione.
Perché questo è un Paese ben strano: non si fa mai un resoconto onesto di ciò che è stato:
vale per la precarietà, per le scelte di austerità nelle politiche economiche, vale per il ruolo del
lavoro pubblico e per la riforma delle Pubbliche Amministrazioni.
In molti, ad esempio, e nel partito che oggi esprime il Presidente del Consiglio erano
davvero tanti, convennero sul fatto che uno dei limiti della controriforma Brunetta fosse stato quello
di essere stata imposta dall’alto, senza coinvolgimento alcuno da parte delle lavoratrici e dei
lavoratori pubblici.
Di essere stata pensata non per, ma contro.
In molti, insieme a noi, criticarono la negazione del sistema di rappresentanza collettiva,
insita in quella riforma.
Bene, si ricomincia a parlare di riforma delle PP.AA. e nel farlo si ripercorre la stessa strada,
almeno nella metodologia: un confronto con il sindacato vissuto come impaccio, il ruolo del lavoro
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quale subordinata di un processo che guarda all’efficientismo in maniera astratta, un idea di servizi
pubblici che, continua a tarare le proprie scelte in stretta connessione alla spesa immediata,
rinunciando a qualunque interpretazione sociale, democratica e di volano di sviluppo del nostro
sistema di welfare.
Tre cose su tutte, intendo evidenziare su questo tema.
Vogliamo una riforma della Pubblica amministrazione che rimetta al centro il cittadino, il suo
bisogno di protezione, i suoi diritti non la risultante della spending review.
Rivendichiamo un confronto preventivo anche sul significato che ognuno annette alle parole
“perimetro pubblico”: per noi il perimetro pubblico è quello spazio entro il quale lo Stato, in tutte le
sue articolazioni, resta il garante di prestazioni che possono, così come già è adesso, essere
assicurate dal privato a patto di rideterminare il rapporto di fiducia fra erogatore di finanziamenti
pubblici e erogatore privato di servizi pubblici.
Noi, a differenza di altri lavoriamo affinché dai processi di spending e riforme esca una
amministrazione più forte, più agile e capace di dare risposte, più inclusiva ed accogliente. Ci
siamo spinti in una elaborazione di progetti di spending e di riforme istituzionali che provano a
ridisegnare alla radice gli architravi del nostro sistema pubblico.
E lo abbiamo fatto consapevoli che riformare non può significare ridurre, che riorganizzare
non può voler dire restringere l’alveo delle prestazioni e che la razionalizzazione non può essere
interpretata come ulteriore impoverimento del lavoro e dei lavoratori o l’indebolimento di funzioni
fondamentali come la sanità, l’assistenza, la formazione scolastica.
Per questo siamo stati tacciati di essere conservatori. Bene, lo dico chiaramente, se
essere conservatori oggi significa preservare lo stato sociale, l’idea di collettività e i principi di
solidarietà ed uguaglianza, sono, siamo in cima alla lista dei conservatori.
La seconda è il lavoro: le singolari battaglie dialettiche su prepensionamenti e turn over e
quelle sui possibili nuovi esuberi delle pubbliche amministrazioni, danno la cifra esatta di un
approccio ai temi che riguardano il lavoro pubblico che continua ad essere in linea con le
precedenti fallimentari esperienze di governo. TUTT’ALTRO di UNA ITALIA CHE CAMBIA VERSO!
Sempre alla ricerca di un colpo di teatro, di una proposta che sia di per sé risolutiva
Penso che la ragionevolezza, le esperienze passate e un po’ più di lucidità dovrebbero
consigliare a tutti un ragionamento preventivo, certo più complicato e faticoso dei 140 caratteri di
Twitter, ma ineludibile: cosa si intende fare del lavoro pubblico e, soprattutto dei servizi che quel
lavoro assicura.
La questione dell’età media dei dipendenti pubblici, nonché la questione dei paventati
85.000 esuberi, che comunque continua a marciare in direzione ostinata e contraria alla necessità
di rimettere al centro il lavoro che serve, si affronterebbe in maniera diversa: c’è necessità di
ricalibrare le dotazioni organiche?
Bene, si accompagni questa proposta con un tavolo di confronto che palesi chiaramente
l’obiettivo di procedere da un lato alla stabilizzazione dei precari e dall’altro alla immissione di forze
giovani e qualificate, pronte al lavoro nel pubblico.
Per fornire al sistema una capacità di adattamento e la flessibilità necessaria occorre
allestire concorsi periodici, per qualifica, sui territori regionali, validi per tutte le amministrazioni e
dalle cui graduatorie sia possibile attingere ogni qual volta sia necessario.
E se questi sono i giusti presupposti all’interno dei quali può e deve essere aperta una
discussione su eventuali prepensionamenti ed uscite, il tema della modifica della riforma Fornero
non può essere eluso.
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C’è bisogno di risolvere definitivamente il problema degli esodati, di tornare ad un sistema
di uscite flessibili e senza penalizzazioni, di rimettere in discussione i meccanismi di rivalutazione
individuando le giuste soluzioni a garanzia di giovani, donne e precari.
Ed infine la contrattazione ed il contratto nazionale di lavoro.
Proverò ad usare poche parole, ma chiare.
Il sistema dei servizi ai cittadini ha bisogno di maggiore contrattazione, non di una sua
diminuzione.
Cara Ministra Madia, caro Presidente Renzi, l’idea che, nel tentativo di ricostruzione del
Paese, si può fare a meno della rappresentanza sociale è già stata sperimentata con risultati
fallimentari.
E, guardate, non è che sia fallita solo per le reazioni che il sindacato ha messo in campo: è
fallita semplicemente perché non regge l’idea che tra il mandato a governare e le cose da fare non
ci debba essere nulla, nessuna verifica, nessuna relazione, nessun contrappeso.
Non regge l’idea che il processo che qualifica una democrazia si possa consumare nel
percorso che divide le primarie dall’incarico alla guida del Governo.
Non regge l’idea per la quale il decisionismo diventa un valore a sé stante, a prescindere
da ciò che si decide.
La democrazia è qualcosa di più complicato e faticoso, la democrazia è confronto e dialogo.
Se lo capite non solo siamo disponibili, ma ci troverete al vostro fianco anche nelle
operazioni più complicate e difficili.
Se non lo capite, e qui sono netta, ci incaricheremo di farvelo capire, così come abbiamo
fatto con chi vi ha preceduto.
La contrattazione, quindi, quale strumento di avanzamento e di riorganizzazione.
La contrattazione delle condizioni di lavoro e dei servizi quale punto fondamentale dei
processi di riforma.
La contrattazione sociale, infine, quale luogo entro il quale rimettere in connessione servizi
e cittadini, bisogni e riposte.
Per quanto riguarda il contratto collettivo nazionale di lavoro. anche qui sono chiara: se
qualcuno pensa che possa essere percorribile lo scambio accennato fra gli effetti della riduzione
del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti (gli ottanta euro tutti ancora da intascare) e i 250/300
euro al mese di mancati adeguamenti contrattuali che ogni dipendente, pubblico o privato che sia,
paga ogni mese, quel qualcuno sta sbagliando di grosso.
Noi non lasceremo morire la rivendicazione per l’apertura immediata di un confronto
negoziale teso a definire tempi e modalità di un rinnovo contrattuale che manca ormai da troppo
tempo, sia nei settori pubblici che in quelli privati che garantiscono prestazioni pubbliche
Noi non rinunceremo al diritto ad avere un contratto di lavoro.
Penso che ci troviamo non solo di fronte all’ennesimo tentativo di far scomparire il tema del
contratto dall’agenda dei lavori del Governo e del Parlamento ma anche ad una recrudescenza di
un fenomeno mediatico che, nell’ultima parte dello scorso anno, avevamo avvertito scemare
lentamente: quello del costo insopportabile del lavoro pubblico anche in termini di salari da
garantire.
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Finora il Governo ha pensato di stupirci più con effetti di annuncio speciali che con fatti
concreti, ma da qualche settimana siamo oltre: il Disegno di Legge sul lavoro, quello di riforma
costituzionale del Senato e del Titolo V, ci consentono, comunque, un giudizio più fondato sui fatti
e anche una base più solida per rimarcare la nostra diversità:
siamo alla ripetizione aggiornata di scelte che fanno del lavoro l'unico soggetto cui si impone di
pagare in dignità attraverso la riduzione dei diritti (l’eliminazione della causale dal contratto a
termine, la cancellazione della formazione dall'apprendistato) con la "carota" delle €80 al mese.
Mentre sul Def non siamo ancora in grado di esprimere un giudizio, considerato che, come
è d’abitudine, sono le conferenze stampa ad aprire le discussioni, non i testi o i documenti. Un
paio di cose però vorrei dirle comunque.
La prima è che siamo d’accordo, lo avevamo chiesto noi nelle nostre piattaforme, a ridurre
quella forbice insopportabile fra le retribuzioni delle persone normali e quelle, alcune stratosferiche,
dei dirigenti pubblici.
La seconda è che diciamo NO a qualsiasi opzione che riduca ulteriormente gli stanziamenti
per la salute dei cittadini: non un euro deve uscire dal fondo sanitario nazionale.
La terza è che aspettiamo il Governo Renzi alla sfida delle riorganizzazioni e delle
razionalizzazioni delle pubbliche amministrazioni: il nostro progetto di spending review è avanzato,
coraggioso e, diciamo noi, fa anche risparmiare. Si convochi allora al più presto il Sindacato e si
cominci insieme a riorganizzare le pubbliche amministrazioni.
Io credo, infatti, che la Cgil possa dire con crescente nettezza che le proprie opzioni sono
diverse ed alternative a quelle del Governo, che noi abbiamo sullo stato sociale, sugli
ammortizzatori sociali, sul lavoro proposte alternative e che su queste sfidiamo il Governo.
Dobbiamo togliere l'alibi sapientemente costruito secondo cui chi protesta vuole conservare
lo status quo: non cadremo in questa trappola, dobbiamo rilanciare anche con la mobilitazione le
nostre proposte alternative.
Ecco, io penso che dovremmo attrezzarci adeguatamente per affrontare
determinazione e forza i prossimi mesi almeno su due possibili livelli di intervento.
con
Credo sia necessario mettere in campo unitariamente una campagna comunicativa, una
grande operazione di verità sulle condizioni salariali e di lavoro dei dipendenti pubblici e sullo stato
di salute dei servizi pubblici.
Così come credo sia arrivato il momento di una mobilitazione straordinaria delle lavoratrici
e dei lavoratori pubblici, a difesa del loro salario, del loro lavoro, del loro contratto, partendo dalle
piattaforme unitarie.
Questa è la proposta precisa che avanzo agli amici e colleghi di Cisl e Uil, perché, al di là
del valore che ognuno di noi annette all’unità sindacale, ci troviamo di fronte ad uno scenario per
certi versi inedito.
L’esperienza del Governo Renzi, qualunque sarà il suo esito (ed ovviamente noi
lavoreremo affinché quell’esito si realizzi nell’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori che
rappresentiamo), ha già di fatto prodotto un cambiamento radicale nel sistema delle relazioni
democratiche.
Qui non è in gioco il rapporto di forza fra le singole confederazioni ed il Governo: non
stiamo più in quelle situazioni per le quali il problema dei Governi era quello di spaccare il fronte
unitario per scegliersi l’interlocutore sindacale più vicino e compatibile con i programmi.
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E non stiamo più nemmeno parlando di una contrapposizione fra un “nuovismo” spesso di
facciata ed un “conservatorismo” agito in via evidentemente strumentale.
Siamo già oltre la fase del cambiamento materiale della costituzione di questo Paese.
perché non è più in discussione il classico “dove finisce la mia responsabilità di governo del Paese
e dove inizia quella della rappresentanza del lavoro”: abbiamo oltrepassato quella linea.
In questa ossessione per il plebiscito, per l’investitura popolare (tentazioni alle quali
dirigenti importanti di questa organizzazione hanno già abbondantemente ceduto), per il “mandato
diretto a fare cose, non politica”, l’idea di un totalitarismo decisionista si scontra terribilmente con
un sistema di rappresentanza sociale e sindacale, articolato, complesso nella sua elaborazione,
faticoso nelle sue prassi democratiche.
Siamo già oltre l’accettazione supina che questo sia l’unico modo possibile di rappresentare
la politica: siamo al tentativo di piegare, adeguare, plasmare a questa nuova interpretazione il
complesso sistema di architravi della rappresentanza collettiva.
Quindi, oggi, il punto non è più l’intensità di un rapporto dialettico fra chi rappresenta
interessi parziali (seppur complessivi) e chi si fa carico di interessi generali (pur sempre parziali in
una repubblica parlamentare), né si tratta di ricalibrare il peso delle reciproche contaminazioni,
Il fatto nuovo sul quale ci dobbiamo tutti interrogare è quale tipo di “Repubblica” rischia di
essere sostanziata se il pensiero prevalente è quello del decisionismo da “detentore unico della
Costituzione”, per il quale il giudizio di inadeguatezza dei sistemi di rappresentanza a questo
moderno “stil novo” è già di per sé condizione di esclusione dai processi democratici.
Un capo carismatico che coglie le esigenze del popolo, le interpreta senza aver bisogno di
misurarsi con nessuno, salvo quanti lui ritiene meritino la sua interlocuzione.
Non si può non capire che questo è il rischio.
E se si strizza l’occhiolino, se ci si fa trascinare dentro quest’ordine di ragionamento per il
quale torna ad essere usata, anche dentro settori importanti della nostra organizzazione, la parola
“gente” nella sua accezione più vuota (me lo chiede la gente, la gente mi dice, la gente lo vuole), si
sta commettendo un errore storico che rischia di minare non un gruppo dirigente, non questo o
quel leader, ma le fondamenta di una organizzazione che ha fatto la storia di questo Paese perché
confederale nella sua pratica oltreché per il nome che porta.
“I lavoratori”, affermava Di Vittorio, “hanno interessi economici e sociali da difendere di
fronte al padronato e verso lo Stato, ma hanno ideologie diverse. Perciò i lavoratori debbono
essere uniti sul terreno sindacale (più sono uniti meglio fanno valere i loro diritti), pur potendo
essere divisi e diversi sul terreno politico e ideologico”.
Ecco, io penso, che è proprio dall’unità dei lavoratori che dobbiamo ripartire per affrontare
la fase complicatissima che abbiamo di fronte, facendo tanta, tantissima attenzione a non fare di
ciò solo esercizio dialettico, ma pratica quotidiana. Quella pratica che spesse volte ti costringe a
fare a meno di un qualche io a favore di tanti noi.
Io penso, a proposito, che le lavoratrici e i lavoratori, i nostri delegati di posto di lavoro, i
nostri eletti nelle RSU, quelle donne e quegli uomini, sanno, sicuramente meglio di alcuni di noi,
quanto faticosa è quella pratica quotidiana che deve essere messa in campo per tenere uniti i
lavoratori; sanno qual è il reale valore della partecipazione e sanno che la democrazia della quale
hanno bisogno non è l’esercizio di un potere di veto, una contrapposizione a prescindere, ma il
faticoso frutto dell’ascolto, della mediazione, della sintesi: a loro dobbiamo dire un grande grazie
per come ci costringono alla concretezza quando cediamo alla tentazione dell’inconcludenza.
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Per questo il processo di autoriforma della CGIL deve indirizzare le risorse verso i luoghi di
lavoro. Snellire le strutture sindacali anche attraverso sperimentazioni di integrazione funzionale e
territoriale.
Le Segreterie sempre più devono svolgere funzioni di direzione politica, portando così la
Categoria verso la Funzione Pubblica del futuro. La rappresentanza di tutti i servizi pubblici e
non la somma dei tradizionali Comparti.
La Cgil è un grande patrimonio del Paese, nella Cgil hanno consumato le loro esperienze
uomini e donne di levatura straordinaria, donne e uomini che contribuendo a scrivere la nostra
storia mai hanno ceduto ad una tentazione di contrapporre la personalizzazione del loro ruolo ad
una idea generale di rappresentanza il cui collante è stato sempre il Noi, appunto, non l’Io.
A questa Cgil dobbiamo innanzitutto imparare a dire grazie, come cittadini, come lavoratori
e come sindacalisti.
Per questa Cgil dobbiamo continuare ad impegnare la nostra anima, le nostre passioni, il
nostro futuro.
Care compagne e cari compagni, dobbiamo avere cura della Cgil e di quel Noi che ogni
giorno ci permette di declinare collettivamente ciò che ognuno di noi pensa, dobbiamo difenderla
da chi vuole indebolirla: dobbiamo al contrario rafforzarla con il lavoro, per il lavoro, nel lavoro.
Evviva La Cgil, evviva la Funzione Pubblica, evviva le lavoratrici e i lavoratori italiani.
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