RASSEGNA STAMPA di venerdì 19 dicembre 2014 SOMMARIO Su Avvenire di oggi, prendendo spunto dalle parole di Benigni qualche sera fa, Ferdinando Camon confeziona un “piccolo elogio della nonnità”. Ecco la sua riflessione: “nonno e nonna sono figure onnipresenti nella vita dei bambini, e hanno un ruolo sempre più importante nel campo educativo e affettivo. 'Andare a trovare i nonni' è un momento di felicità intensa per i piccoli, e per i nonni riceverli in casa è gioia pura. Un grande studioso della Letteratura Italiana, forse il miglior critico del Novecento, che attraverso i libri e gli autori vedeva la vita, i sentimenti, i problemi personali e sociali, Geno Pampaloni, ha scritto in tarda età un libriccino di memorie, in cui ha messo una definizione di vecchiaia che (cito a memoria, e chiedo scusa se sbaglio qualcosa) suona così: «Si è vecchi quando per le scale i passi dei figli e dei loro figli che ci vengono a trovare salgono troppo tardi, e scendono troppo presto». È una frase densissima. Significa che i nonni si affacciano a tendere l’orecchio sulle scale prima che i figli arrivino, e godono e si avvertono reciprocamente appena sentono il primo scalpiccìo, e finita la radunata li accompagnano sulla porta e tendono l’orecchio per sentire i passi allontanarsi, e richiudono la porta quando non si sente più nulla: così la visita di figli e nipoti vien vissuta a partire da prima che cominci per continuare anche dopo che è finita. Questo nel caso delle abitazioni separate, che nell’epoca dei condomìni e degli appartamenti è il più frequente. Accade sempre più spesso che i nonni facciano da supporto affettivo-educativo ai nipoti, li aiutino a fare i compiti, li portino ai giardini, stiano con loro davanti alla tv, insomma spartiscano la vita. La nonnità è una seconda paternità. Ritorno spesso su questo concetto, mi pare un test del nostro tempo. Un test felice. La nonnità è la prima paternità che ritorna, riveduta e corretta. Quand’erano padri e madri, i nonni hanno fatto degli errori: tutti, nessuno escluso, tanto meno colui che scrive queste righe. Il ruolo di padre è di una difficoltà estrema. Non significa parlare bene ai figli, cioè insegnargli il bene, insegnargli un modello di vita con le parole. Ma insegnargli un modello di vita con la vita. Tutti sbagliamo, perché non sappiamo. I nonni sanno, e sbagliano meno. Dice Freud che l’amore paterno per i figli è inquinato da altri sentimenti, che non si possono portare facilmente alla luce neanche con l’analisi, perché la coscienza li condanna e perciò li nasconde. C’è anche gelosia, rivalità, bisogno d’imporre l’autorità, di ottenere l’obbedienza. Vorrebbero migliorare i figli, farne dei capolavori. Realizzare attraverso i figli le rivincite che la vita non gli ha dato. Per quanto sia difficile crederlo, i padri non sentono questa ambiguità nel loro amore per i figli, ma i figli sì. Nei nonni queste ambiguità svaniscono. Amano i nipotini per quel che sono e come sono. E i nipotini sentono in loro questo amore totale, e lo ricambiano. Nei giorni di Natale, nelle grandi rimpatriate dei clan, i gruppi più felici sono i figli e i nonni: i primi perché stanno con i secondi, e viceversa. È il caso di dire (di comandare) al nipote 'onora il nonno e la nonna'? Di fatto, lo fa già. Onorare vuol dire rispettare, obbedire, o almeno non disubbidire, e stimare. Aver fiducia. Parlarne bene. Protestare se senti che qualcuno ne parla male. Preoccuparti se senti che è malato. Piangere se senti che se n’è andato. 'Onora il padre e la madre' significa 'onora tuo padre e suo padre, tua madre e sua madre'. È già così, nelle famiglie. Specialmente in questi giorni. Sono i giorni più felici dell’anno”. Dei giovani che “fanno paura” parla, invece, sulla prima pagina del Corriere del Veneto il sociologo Vittorio Filippi: “E’ curioso il capovolgimento. Una volta, fino a qualche decennio fa, erano i ragazzi, i giovani ad avere paura degli adulti. Eravamo una società autoritaria, maschilista, gerarchica. Anche manesca. Il potere degli adulti – genitori ed insegnanti in primis – era ampio ed indiscusso. Poi il meccanismo si ruppe, ci fu il ’68 e gli anni settanta, gli adulti divennero i matusa e soprattutto si disse che non dovevano più essere autoritari, ma autorevoli. Oggi, come si diceva, il mondo appare rovesciato. I giovani non temono più gli adulti, non temono più i genitori, gli insegnanti, tutto ciò che definiamo l’autorità. Anzi, sono gli adulti che cominciano ad essere intimoriti, perché gli adolescenti appaiono sempre più ingovernabili ed imprevedibili. In taluni casi fanno perfino paura. Sono decisamente insofferenti alle regole, in famiglia come a scuola. In un crescendo inquietante, questi adolescenti adottano sempre più comportamenti che una volta si sarebbero definiti teppistici. Lo fanno soprattutto negli spazi pubblici tra l’ambito familiare e quello scolastico (o lavorativo). Mentre gli ultimi due sono – bene o male – abbastanza presidiati da regole e sanzioni, quelli pubblici si profilano come spazi sociali liquidi e senza regole. Sregolati appunto. I trasporti pubblici ne sono l’esempio perfetto. Posti tra casa e scuola e viceversa, vengono vissuti come quotidiane aree di libertà, di piccola trasgressione, anche di piccola violenza. Per di più sono pochissimo presidiati dagli adulti: un solo controllore, un solo autista, un solo capotreno. Se poi questo adulto «istituzionale» osa esercitare il suo ruolo richiamando il rispetto delle regole (pagare il biglietto o l’abbonamento, adottare un certo comportamento a bordo) allora può scattare una violenza tanto inaudita quanto imprevista. Come ci racconta oggi la cronaca infittita di episodi del tutto simili. Questi giovani sono stati definiti fragili e spavaldi al tempo stesso. Fragili fino a tentare il suicidio per un brutto voto o per una delusione d’amore. Ma anche spavaldi fino al rifiuto dell’autorità e del castigo. Gli adulti hanno oggi di fronte due strade. La prima è quella del controllo sempre più forte affidato alle telecamere o alle forze di polizia. La seconda è quella educativa. La prima è utile, ma fino ad un certo punto. La seconda serve se nel patto con i ragazzi ci stanno la fatica dell’ascolto, l’abitudine al rispetto delle regole, la voglia autentica di educare, cioè di «tirare fuori» ciò che di buono si nasconde dentro i nostri adolescenti. Anche di quelli che oggi mostrano il volto inaccettabile della violenza” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Responsabilità ecumenica Il Papa a una delegazione evangelica luterana tedesca: nel 2017 insieme per commemorare il quinto centenario della Riforma Pag 6 La storia siamo noi Messa del Pontefice a Santa Marta Pag 7 Con Gesù tutto è possibile Ai ragazzi di Azione cattolica per gli auguri natalizi LA REPUBBLICA Pag 27 Da casa del Papa a museo per tutti, Francesco trasforma Castel Gandolfo di Paolo Rodari IL GIORNALE Quell'«agenda parallela» di papa Francesco di Fabio Marchese Ragona Il lavoro sottotraccia del Pontefice che trova il tempo anche per telefonare a Benigni IL GAZZETTINO Pag 11 Debiti e operazioni finanziarie sospette. I francescani sull’orlo della bancarotta Lettera choc del ministro generale. Troppi debiti e ammanchi, la situazione denunciata alla magistratura WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT La grande truffa ai Francescani. La curia dei Frati di Assisi sull’orlo del crac di Giacomo Galeazzi Il ministro Perry: dubbie operazioni finanziarie, siamo pieni di debiti «Un lavoro di piccoli passi», la diplomazia di Francesco di Andrea Tornielli La «nobile» attività di chi crede nel dialogo e nel negoziato WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e rivoluzione di Sandro Magister Marxista, liberista, peronista. Gli hanno applicato le etichette più disparate. I contrastanti giudizi dell'Acton Institute e degli "Amici di papa Francesco" 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Piccolo elogio della nonnità di Ferdinando Camon “Onora il nonno e la nonna”: Benigni dice ciò che si vive Pag 13 Natale in tavola di Franco Cardini Il banchetto famigliare del 25 dicembre è tutt’altro che un esempio di consumismo: affonda anzi le sue radici nell’esigenza di “fare festa” staccandosi dall’ordinarietà quotidiana CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se i giovani fanno paura di Vittorio Filippi 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pagg 2 – 4 La mafia siciliana al Tronchetto di Alberto Zorzi, Alessio Antonini e Monica Zicchiero Dalle truffe all’impero dei granturismo: ascese e cadute del “cocco cinese”. Acchiappaturisti e bancarelle, gli affari nel regno dell’omertà. La commissione antimafia a Venezia: “Ci sono anche complicità politiche” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I Il fronte contro Venezia di Gianfranco Bettin Pag VII Ici, Comune contro Comunità Ebraica di Alberto Francesconi Contenzioso aperto dal 2011, la controparte eccepisce l’esenzione per gli edifici di culto. Zappalorto autorizza il ricorso per il mancato pagamento relativo a oltre 90 immobili 10 – GENTE VENETA Tutti gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 48 di Gente Veneta in uscita sabato 20 dicembre 2014: Pag 1 La logica di Dio passa attraverso ciò che è debole e piccolo di Francesco Moraglia Natale 2014: il messaggio del Patriarca Pag 5 Un’adozione che parla del Natale di Paolo Fusco «Il primo bambino adottato? E’ stato Gesù...». Così Davide e Luisa rileggono la loro scelta di far diventare loro figlio un bambino messicano Pagg 6 – 7 Un’adozione che parla del Natale di Giulia Busetto La prima volta della benedizione: un rito per le famiglie adottive. Domenica scorsa la toccante cerimonia al Centro “Urbani”. L’emozione: «Io, verso l’altare, con la mia famiglia che mi aspetta». Don Barlese: «L’adozione è grazia per tutta la comunità» Pagg 8 - 9 Il Patriarca ai carcerati: qui le basi del vostro futuro di Serena Spinazzi Lucchesi Martedì scorso mons. Moraglia ha celebrato la messa di Natale nel carcere di S. Maria Maggiore: un momento gradito e atteso da voi, ma anche da me. «In questo tempo presente, fatto di giorni faticosi, voi potete costruire il vostro domani. Potete prendere in mano la vostra vita, ma occorre guardarsi dentro». Stop al sovraffollamento in carcere. E celle aperte Pag 15 Cristiani perseguitati: «Aiutiamo quelli che vogliono rimanere in patria» di Alessandro Polet Il partecipato incontro di preghiera per i cristiani perseguitati, con rappresentanti di altre confessioni e altre religioni Pag 17 Salvatore: Natale, per me, è il coraggio di rinascere di Lorenzo Mayer Una malattia con cui è costretto a convivere da metà della sua vita, ma anche la capacità di reagire, nel volontariato e in parrocchia. E’ la testimonianza di Salvatore Coco: «Natale è la festa di un Dio che nasce debole per dare forza ai deboli» Pag 18 Il Vicario degli Scalzi: «Avere sempre in mente Gesù è come portare il gps: se cadi, lo Spirito ti soccorre» di Carlotta Venuda Parla padre Emilio Josè Martinez, a Venezia per il quinto centenario della nascita di santa Teresa d’Avila: «La mistica è un allenamento per il servizio» Pag 36 Natale: viva il rito di Giorgio Malavasi I riti, dice la psicologa Paola Scalari, sono un valore aggiunto: creano sicurezza e senso di appartenenza alla famiglia. Per gli adulti tristi un consiglio: «Non vergognatevi di chiedere aiuto. A Natale cercate un posto dove stare con gli altri» All’interno del giornale l’inserto speciale con i principali appuntamenti pastorali del periodo gennaio / marzo 2015 proposti dagli Uffici di Curia e da alcune realtà ecclesiali … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Esito modesto di un semestre di Danilo Taino Bilancio critico per l’Italia Pag 1 La partita del premier di Francesco Verderami Pag 13 “Fidel scomunicato? Soltanto una leggenda. La Chiesa non scappa” di Gian Guido Vecchi Il cardinal Capovilla sul ruolo di Francesco e del Vaticano Pag 29 Se l’analfabetismo ora sbarra anche le porte della rete di Luca Mastrantonio L’Italia e il Web: si accentua la spaccatura tra illetterati e chi legge e scrive (online) LA REPUBBLICA L’esorcismo del premier sul Quirinale di Stefano Folli LA STAMPA Russia, anche Putin ammette la crisi di Cesare Martinetti AVVENIRE Pag 1 Un “dono” al mercato di Assuntina Morresi La sentenza Ue e due domande Pag 3 Il non profit e gli scandali, una riforma anti-giungla di Adriano Propersi Bilanci chiari e vertici responsabili: i primi passi Pag 7 Il “nuovo secolo americano” apre alla leadership allargata di Vittorio E. Parsi IL GAZZETTINO Pag 1 Cuba, sul disgelo l’incognita del congresso Usa di Mario Del Pero Pag 27 I bambini di Peshawar e le vittime causate dall’Occidente “civile” di Massimo Fini LA NUOVA Pag 1 Paese ancora in mezzo al guado di Andrea Sarubbi Pag 1 Così usciamo dalla crisi senza merito di Ferdinando Camon Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Responsabilità ecumenica Il Papa a una delegazione evangelica luterana tedesca: nel 2017 insieme per commemorare il quinto centenario della Riforma «Possa la commemorazione comune luterana-cattolica della Riforma nel 2017 incoraggiarci a compiere ulteriori passi verso l’unità». È l’auspicio espresso da Papa Francesco durante l’udienza di giovedì mattina, 18 dicembre, a una delegazione della Chiesa evangelica luterana della Germania, accompagnata dalla commissione ecumenica della Conferenza episcopale tedesca e dai vertici del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Sorelle e fratelli, vi saluto cordialmente e ringrazio il Vescovo Ulrich per le sue parole, che testimoniano chiaramente il suo impegno ecumenico. Saluto anche gli altri rappresentanti della Chiesa evangelica-luterana della Germania e della Commissione ecumenica della Conferenza episcopale tedesca, in visita ecumenica a Roma. Il dialogo ufficiale tra luterani e cattolici può oggi guardare ai suoi quasi cinquant’anni di intenso lavoro. Il notevole progresso che, con l’aiuto di Dio, è stato realizzato costituisce un solido fondamento di sincera amicizia vissuta nella fede e nella spiritualità. Nonostante le differenze teologiche che permangono in varie questioni di fede, la collaborazione e la convivenza fraterna caratterizzano la vita delle nostre Chiese e Comunità ecclesiali, impegnate oggi in un comune cammino ecumenico. La responsabilità ecumenica della Chiesa cattolica, come ha sottolineato san Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint, è infatti un compito essenziale della Chiesa stessa, convocata e orientata dall’unità di Dio Uno e Trino. Testi congiunti, come la “Dichiarazione Comune sulla dottrina della giustificazione” - alla quale Lei ha fatto riferimento - tra la Federazione Luterana Mondiale e il Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani, firmata ufficialmente quindici anni fa ad Augsburg, sono importanti pietre miliari, che permettono di proseguire con fiducia sulla strada intrapresa. L’obiettivo comune dell’unità piena e visibile dei cristiani sembra a volte allontanarsi a causa di diverse interpretazioni, all’interno del dialogo, su ciò che è la Chiesa e la sua unità. Malgrado queste questioni ancora aperte, non dobbiamo rassegnarci ma piuttosto concentrarci sul prossimo passo possibile. Non dimentichiamo che stiamo facendo insieme un cammino di amicizia, di stima reciproca e di ricerca teologica, un cammino che ci fa guardare speranzosi al futuro. Ecco perché il 21 novembre scorso le campane di tutte le cattedrali in Germania sono state fatte suonare, per invitare in ogni luogo i fratelli cristiani ad un servizio liturgico comune per il cinquantesimo anniversario della promulgazione del Decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. Mi rallegro che la Commissione di dialogo bilaterale tra la Conferenza episcopale tedesca e la Chiesa evangelica-luterana della Germania sta per terminare il suo lavoro sul tema “Dio e la dignità dell’uomo”. Di grandissima attualità sono le questioni relative alla dignità della persona umana all’inizio e alla fine della sua vita, così come quelle attinenti alla famiglia, al matrimonio e alla sessualità, che non possono essere taciute o tralasciate solo perché non si vuole mettere a repentaglio il consenso ecumenico finora raggiunto. Sarebbe un peccato se, su tali importanti questioni legate all’esistenza umana, si verificassero nuove differenze confessionali. Il dialogo ecumenico oggi non può più essere separato dalla realtà e dalla vita delle nostre Chiese. Nel 2017 i cristiani luterani e cattolici commemoreranno congiuntamente il quinto centenario della Riforma. In questa occasione, luterani e cattolici avranno la possibilità per la prima volta di condividere una stessa commemorazione ecumenica in tutto il mondo, non nella forma di una celebrazione trionfalistica, ma come professione della nostra fede comune nel Dio Uno e Trino. Al centro di questo evento ci saranno dunque la preghiera comune e l’intima richiesta di perdono rivolte al Signore Gesù Cristo per le reciproche colpe, insieme alla gioia di percorrere un cammino ecumenico condiviso. A ciò fa riferimento in maniera significativa il documento prodotto dalla Commissione luterana-cattolica per l’unità, pubblicato l’anno scorso e intitolato “Dal conflitto alla comunione. La commemorazione comune luteranacattolica della Riforma nel 2017”. Possa questa commemorazione della Riforma incoraggiarci tutti a compiere, con l’aiuto di Dio e il sostegno del suo Spirito, ulteriori passi verso l’unità e a non limitarci semplicemente a ciò che abbiamo già raggiunto. Nella speranza che la vostra visita fraterna contribuisca a rafforzare la buona collaborazione che esiste tra luterani e cattolici in Germania e nel mondo, invoco di cuore la benedizione del Signore su di voi e sulle vostre comunità. Pag 6 La storia siamo noi Messa del Pontefice a Santa Marta Negli inevitabili «momenti brutti» della vita bisogna «prendere su di sé» i problemi con coraggio, mettendosi nelle mani di un Dio che fa la storia anche attraverso di noi e la corregge se non capiamo e sbagliamo. È questo il suggerimento offerto da Papa Francesco nella messa celebrata giovedì 18 dicembre nella cappella della Casa Santa Marta. «Ieri la liturgia - ha fatto subito notare il Pontefice - ci ha fatto riflettere sulla genealogia di Gesù». E con il passo odierno del Vangelo di Matteo (1, 18-24) si conclude, appunto, questa riflessione, «per dirci che la salvezza è sempre nella storia: non c’è una salvezza senza storia». Infatti «per arrivare al punto di oggi - ha spiegato c’è stata una lunga storia, una lunghissima storia che simbolicamente ieri la Chiesa ha voluto dirci nella lettura della genealogia di Gesù: Dio ha voluto salvarci nella storia». «La nostra salvezza, quella che Dio ha voluto per noi, non è una salvezza asettica, di laboratorio», ma «storica». E Dio, ha affermato Francesco, «ha fatto un cammino nella storia col suo popolo». Proprio la prima lettura - tratta dal profeta Geremia (23, 5-8) «dice una cosa bella sulle tappe di questa storia», ha fatto osservare il Papa rileggendo le parole della Scrittura: «Verranno giorni nei quali non si dirà più “per la vita del Signore che ha fatto uscire gli israeliti dalla terra di Egitto”; ma piuttosto “per la vita del Signore che ha fatto uscire e ha ricondotto la discendenza della casa di Israele dalla terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi”». «Un altro passo, un’altra tappa», ha spiegato Francesco. Così, «passo dopo passo, si fa la storia: Dio fa la storia, anche noi facciamo la storia». E «quando noi sbagliamo, Dio corregge la storia e ci porta avanti, avanti, sempre camminando con noi». Del resto, «se noi non abbiamo chiaro questo, non capiremo mai il Natale, non capiremo mai e il mistero dell’incarnazione del Verbo, mai». Perché «è tutta una storia che cammina» - ha rimarcato il Pontefice - e che certo non è finita col Natale, perché «adesso, ancora, il Signore ci salva nella storia e cammina col suo popolo». Ecco allora a cosa servono «i sacramenti, la preghiera, la predicazione, il primo annuncio: per andare avanti con questa storia». Servono a questo «anche i peccati, perché nella storia di Israele non sono mancati»: nella stessa genealogia di Gesù «c’erano tanti grossi peccatori». Eppure «Gesù va avanti. Dio va avanti, anche con i nostri peccati». Tuttavia in questa storia «ci sono alcuni momenti brutti», ha fatto presente Francesco: «momenti brutti, momenti bui, momenti scomodi, momenti che danno fastidio» proprio «per gli eletti, per quelle persone che Dio sceglie per condurre la storia, per aiutare il suo popolo ad andare avanti». Il Papa ha ricordato anzitutto «Abramo, novantenne, tranquillo, con sua moglie: non aveva un figlio, ma una bella famiglia». Però «un giorno il Signore lo disturba» e gli ordina di uscire dalla sua terra e di mettersi in cammino. Abramo «ha novant’anni» e per lui quello è certo «un momento di disturbo». Ma così è stato anche per Mosè «dopo che è fuggito dall’Egitto: si è sposato e suo suocero aveva quel gregge tanto grande e lui era pastore di quel gregge». Aveva ottant’anni e «pensava ai suoi figli, all’eredità che lasciava, a sua moglie». Ed ecco che il Signore gli comanda di tornare in Egitto per liberare il suo popolo. Però «in quel momento per lui era più comodo lì, nella terra di Madian. Ma il Signore scomoda» e a nulla vale la domanda di Mosè: «Ma chi sono io per fare questo?». Dunque, ha affermato Francesco, «il Signore ci scomoda per far la storia, ci fa andare tante volte su strade che noi non vogliamo». E ha quindi ricordato anche la vicenda del profeta Elia: «Il Signore lo spinge a uccidere tutti i falsi profeti di Balaam e poi, quando la regina lo minaccia, ha paura di una donna»; ma «quell’uomo che aveva ucciso quattrocento profeti ha paura di una donna e vorrebbe morire per la paura, non vuole più continuare ad andare». Per lui era davvero «un momento brutto». Nel passo evangelico di Matteo, ha proseguito il Pontefice, «oggi abbiamo letto un altro momento brutto nella storia di salvezza: ce ne sono tanti, ma veniamo a quello di oggi». Il personaggio centrale è «Giuseppe, fidanzato: voleva tanto la sua promessa sposa, e lei se n’era andata dalla cugina ad aiutarla, e quando torna si vedevano i primi segni della maternità». Giuseppe «soffre, vede le donne del villaggio che chiacchieravano nel mercato». E soffrendo dice a se stesso di Maria: «Questa donna è buona, io la conosco! È una donna di Dio. Ma cosa mi ha fatto? Non è possibile! Ma io devo accusarla e lei verrà lapidata. Ne diranno di tutti i colori di lei. Ma io non posso mettere questo peso su di lei, su qualcosa che non capisco, perché lei è incapace di infedeltà». Giuseppe decide allora di «prendere il problema sulle proprie spalle e andarsene». E «così le “chiacchierone” del mercato diranno: guarda, l’ha lasciata incinta e poi se ne è andato per non prendersi la responsabilità!». Invece Giuseppe «preferì apparire come peccatore, come un cattivo uomo, per non fare ombra alla sua fidanzata, alla quale voleva tanto bene», anche se «non capiva». Abramo, Mosè, Elia, Giuseppe: nei loro «momenti brutti - ha rimarcato Francesco - gli eletti, questi eletti di Dio, per fare la storia devono prendere il problema sulle spalle, senza capire». Ed è tornato sulla vicenda di Mosè, «quando, sulla spiaggia, ha visto venire l’esercito del faraone: di là l’esercito, di qua il mare». Si sarà detto: «Che cosa faccio? Tu mi hai ingannato, Signore!». Però poi prende il problema su di sé e dice: «O vado indietro e faccio il negoziato o lotto ma sarò sconfitto, o mi suicido o confido nel Signore». Davanti a queste alternative Mosè «sceglie l’ultima» e, attraverso di lui, «il Signore fa la storia». Questi «sono momenti proprio così, come il collo di un imbuto», ha sottolineato il Pontefice. Quindi il Papa ha riproposto la storia di un altro Giuseppe, «il figlio di Giacobbe: per gelosia i suoi fratelli volevano ucciderlo, poi lo hanno venduto, diventa schiavo». Ripercorrendo la sua storia, ha messo in risalto la sofferenza di Giuseppe, che ha anche «quel problema con la moglie dell’amministratore, ma non accusa la donna. È un uomo nobile: perché distruggerebbe il povero amministratore se sapesse che la donna non è fedele!». Allora «chiude la bocca, prende sulle spalle il problema e va in carcere». Ma «il Signore va a liberarlo». Tornando al Vangelo della liturgia, il Pontefice ha evidenziato nuovamente che «Giuseppe nel momento più brutto della sua vita, nel momento più oscuro, prende su di sé il problema». Fino ad accusare «se stesso agli occhi degli altri per coprire la sua sposa». E «forse - ha notato - qualche psicanalista dirà che» questo atteggiamento è «il condensato dell’angoscia», alla ricerca di «una uscita». Ma, ha aggiunto, «dicano quello che vogliono!». In realtà Giuseppe alla fine ha preso con sé la sua sposa dicendo: «Non capisco niente, ma il Signore mi ha detto questo e questo apparirà come mio figlio!». Perciò «per Dio fare storia con il suo popolo significa camminare e mettere alla prova i suoi eletti». Difatti «generalmente i suoi eletti hanno passato momenti bui, dolorosi, brutti, come questi che abbiamo visto»; ma «alla fine viene il Signore». Il Vangelo, ha ricordato il Papa, ci racconta che egli «invia l’angelo». E «questo è - non diciamo la fine, perché la storia continua - proprio il momento previo: prima della nascita di Gesù una storia; e poi viene l’altra storia». Proprio in considerazione di queste riflessioni, Francesco ha raccomandato: «Ricordiamo sempre di dire, con fiducia, anche nei momenti più brutti, anche nei momenti della malattia, quando noi ci accorgeremo che dobbiamo chiedere l’estrema unzione perché non c’è uscita: “Signore, la storia non è incominciata con me né finirà con me. Tu vai avanti, io sono disposto». E così ci si mette «nelle mani del Signore». È questo l’atteggiamento di Abramo, Mosè, Elia, Giuseppe e anche di tanti altri eletti del popolo di Dio: «Dio cammina con noi, Dio fa storia, Dio ci mette alla prova, Dio ci salva nei momenti più brutti, perché è nostro Padre». Anzi, «secondo Paolo è il nostro papà». Francesco ha concluso con la preghiera «che il Signore ci faccia capire questo mistero del suo camminare col suo popolo nella storia, del suo mettere alla prova i suoi eletti e la grandezza di cuore dei suoi eletti che prendono su di loro i dolori, i problemi, anche l’apparenza di peccatori - pensiamo a Gesù - per portare avanti la storia». Pag 7 Con Gesù tutto è possibile Ai ragazzi di Azione cattolica per gli auguri natalizi «Stando uniti a Gesù tutto è possibile»: lo ha detto Papa Francesco ai ragazzi dell’Azione cattolica ricevuti giovedì mattina, 18 dicembre, nella Sala del Concistoro in occasione del tradizionale incontro per gli auguri natalizi. Ecco il discorso del Pontefice. Cari ragazzi dell’A.C.R. (A-ci-erre), benvenuti! Sono contento di incontrarvi. È un appuntamento per lo scambio degli auguri di Natale. Vi ringrazio per gli auguri che mi avete rivolto a nome di tutta l’Azione Cattolica Italiana, qui rappresentata dai responsabili che vi hanno accompagnato. Ma sono rimasti zitti e hanno lasciato parlare voi. Questo è molto buono, complimenti! Li ricambio di cuore a tutti voi, ai vostri cari e all’intera Associazione. Ho sentito che quest’anno vi state impegnando su un tema che ha come slogan “Tutto da scoprire”. È un bel cammino, che richiede il coraggio e la fatica della ricerca, per poi gioire quando si è scoperto il progetto che Gesù ha su ciascuno di voi. Prendendo spunto da questo slogan, specialmente dalla parola “tutto”, vorrei darvi alcuni suggerimenti per camminare bene nell’Azione Cattolica, in famiglia e nella comunità. Primo. Non arrendersi mai, perché quello che Gesù ha pensato per il vostro cammino è tutto da costruire insieme: insieme ai vostri genitori, ai fratelli, agli amici, ai compagni di scuola, di catechismo, di oratorio, di A.C.R. Secondo. Interessarsi alle necessità dei più poveri, dei più sofferenti e dei più soli, perché chi ha scelto di voler bene a Gesù non può non amare il prossimo. E così il vostro cammino nell’A.C.R. diventerà tutto amore. Mi è piaciuto tanto quello della pompa dell’acqua. È bello, è un bel progetto. Terzo. Amare la Chiesa, volere bene ai sacerdoti, mettersi al servizio della comunità - perché la Chiesa non è soltanto i sacerdoti, i vescovi..., ma è tutta la comunità -, mettersi al servizio della comunità. Donare tempo, energie, qualità e capacità personali alle vostre parrocchie, e così testimoniare che la ricchezza di ognuno è un dono di Dio tutto da condividere. È importante! Quel “tutto”: tutto da scoprire, tutto da condividere, tutto da costruire insieme, tutto amore... Quarto. Essere apostoli di pace e di serenità, a partire dalle vostre famiglie; ricordare ai vostri genitori, ai fratelli, ai coetanei che è bello volersi bene, e che le incomprensioni si possono superare, perché stando uniti a Gesù tutto è possibile. Questo è importante: tutto è possibile. Ma questa parola non è un’invenzione nuova: questa parola l’ha detta Gesù, quando scendeva dal monte della Trasfigurazione. A quel papà che chiedeva di guarirgli il figlio, Gesù cosa ha detto? «Tutto è possibile a coloro che hanno fede». Con la fede in Gesù si può tutto, tutto è possibile. Quinto. Parlare con Gesù. La preghiera: parlare con Gesù, l’amico più grande che non abbandona mai, confidare a Lui le vostre gioie e i vostri dispiaceri. Correre da Lui ogni volta che sbagliate e fate qualcosa di male, nella certezza che Lui vi perdona. E parlare a tutti di Gesù, del suo amore, della sua misericordia, della sua tenerezza, perché l’amicizia con Gesù, che ha dato la vita per noi, è un evento tutto da raccontare. Tutti questi “tutto” sono importanti. Che ne dite? Ve la sentite di provare a mettere in pratica questa proposta con il “tutto”? Io penso che voi già vivete parecchie di queste cose. Adesso, con la grazia del suo Natale, Gesù vuole aiutarvi a fare un passo ancora più deciso, più convinto, e più gioioso per diventare suoi discepoli. Basta una piccola parola: “Eccomi”. Ce la insegna la nostra Madre, la Madonna, che ha risposto così alla chiamata del Signore: “Eccomi”. Possiamo chiederlo insieme con un’Ave Maria. E ricordate bene: tutto da scoprire, tutto da costruire insieme, tutto amore, tutto da condividere, tutto è possibile, e la fede è un evento tutto da raccontare. Grazie della vostra visita. Ricordatevi di pregare per me, per favore, ricordatevi di questo. Adesso di cuore vi benedico. Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. LA REPUBBLICA Pag 27 Da casa del Papa a museo per tutti, Francesco trasforma Castel Gandolfo di Paolo Rodari Città del Vaticano. Jorge Mario Bergoglio da arcivescovo di Buenos Aires non usava andare in villeggiatura. Eletto Papa, anche. Anzi, pochi mesi dopo l'elezione, ha fatto sapere in Vaticano che avrebbe gradito che le Ville Pontificie di Castel Gandolfo venissero adibite ad altri scopi. Quali? Anzitutto la condivisione. Rendere le Ville accessibili a tutti, fedeli e turisti insieme. E con le Ville, parte del Palazzo Apostolico, eccezion fatta naturalmente per l'appartamento pontificio nel quale, anche solo per brevi periodi, il Papa se vuole può sempre alloggiare. Nel Palazzo, l'idea che inizierà a prendere corpo già dalla settimana prossima (ma l' allestimento finirà in primavera) è quella di creare una sorta di museo, ovvero una Galleria dei Ritratti dei Pontefici, che si sono avvicendati al Soglio di Pietro dal 1500 ad oggi, con tanto di stemmi e didascalie a spiegarne l'araldica. «Poiché in tutto il percorso dei Musei Vaticani solo raramente i visitatori si imbattono nei ritratti dei Pontefici - spiega Sandro Barbagallo, curatore delle Collezioni Storiche dei Musei - e in tali occasioni non c'è nessuna opportunità né di poterne leggere il nome, né di conoscere quale ruolo più o meno importante abbiano avuto nella Storia del Papato, abbiamo pensato di aiutarli a conoscere la loro "vera" storia. L'apertura di questa Galleria sarà, infatti, un'occasione per far conoscere al grande pubblico la vita, le gesta e le virtù di Papi santi, magnanimi e benigni, generosi committenti e protettori di geni artistici, ma anche dalle rispettive insegne araldiche, spesso coincidenti al nobile casato di appartenenza». Condividere ciò che si ha, financo il proprio patrimonio - quello archeologico delle ville, palazzo a parte, parla di un'area di circa 55 ettari di cui 30 tenuti a giardino e i restanti 25 destinati all'attività agricola - è nel dna di Francesco. E, infatti, spiega il direttore delle ville Osvaldo Gianola, «qui si tratta di una svolta che chiamerei proprio della condivisione. Aprire anche i giardini e il palazzo che fino a ieri erano appartenuti alla sfera privata dei Papi, è un grande gesto di condivisione. E anche, se posso dirlo, di spending review. Nelle ville lavorano 55 persone con relative famiglie. Ci sono giardinieri, agronomi, operai, uscieri, esperti di arte topiaria, contadini, coltivatori. Far arrivare ogni giorno dei turisti significa valorizzare al massimo il loro lavoro e renderlo utile a tutti. E anche questa è stata una delle preoccupazioni che ha spinto Francesco ad aprire: far sì che il lavoro di questa gente acquisti un significato nuovo». Non solo, dunque, dal Palazzo Apostolico vaticano: seppure l'appartamento resterà sempre a sua disposizione, è in qualche modo pure dal palazzo di Castel Gandolfo che il Papa si tiene alla larga. Anche se, a onore del vero, Francesco non è un'eccezione. Come spiega Barbagallo, coautore con monsignor Paolo Nicolini del volume "Il Palazzo Apostolico e le Ville Pontificie di Castel Gandolfo", presto in uscita per le Edizioni Musei Vaticani, «molti Papi non hanno abitato "a Castello", ognuno per ragioni diverse, ma tutte condivisibili». Papa Braschi, ad esempio, «non amava la campagna». E così sui colli non mise mai piede. Altri Pontefici, alcuni eletti sul Colle Quirinale già anziani (l'ultimo conclave convocato sul Quirinale ebbe luogo nel 1846), furono impossibilitati a partire per la villeggiatura proprio a causa dell'età avanzata. I medici pontifici, in sostanza, non lo permisero loro: sarebbero potuti morire durante il viaggio. In qualche caso, invece, furono gli stessi medici a convincere i Pontefici della salubrità delle Ville Pontificie: «Il 23 novembre del 1700 - racconta ancora Barbagallo - venne eletto Clemente XI Albani, che nei primi nove anni di pontificato non riuscì mai a lasciare Roma, angustiato per la guerra che imperversava in Europa per la successione spagnola. Fu solo nel 1710 che il medico pontificio Giovanni Maria Lancisi riuscì a convincere il Papa a trasferirsi a Castel Gandolfo, dove fece poi ritorno con regolarità». Dopo Leone XII, Pio X e Benedetto XV furono costretti a restare in Vaticano a causa delle contese con il Regno d'Italia. Quindi venne Papa Luciani che sui colli non andò mai a motivo di un pontificato troppo breve. Non così altri Pontefici. Ratzinger ama le Ville. Qui ha trascorso lunghi periodi del suo pontificato, compreso il mese successivo alla rinuncia, dal 28 febbraio 2013. Amava il pomeriggio passeggiare col segretario Georg Gänswein fra lecci, cipressi e la piccola siepe di mortella - le tre specie che negli anni Trenta il direttore Emilio Bonomelli e l'architetto Giuseppe Momo impiantarono creando il curatissimo giardino all' italiana ancora oggi perfettamente conservato - fino al laghetto con i pesci rossi e le carpe nel «giardino della Madonnina» e qui dare un po' di pane ai pesci. Il pane, poi, non lo riportava a casa, ma lo nascondeva in una nicchia delle antiche mura della villa di Domiziano, in parte perfettamente intatte. Karol Wojtyla trascorreva anch'egli lunghi periodi a palazzo, facendo anche un po' di sport nei giardini e ricevendo, privatamente e non, capi di stato e amici. IL GIORNALE Quell'«agenda parallela» di papa Francesco di Fabio Marchese Ragona Il lavoro sottotraccia del Pontefice che trova il tempo anche per telefonare a Benigni «Todos somos Papa Francisco». Ci scherzano su alcuni giovani sacerdoti sudamericani che passeggiano vicino a Piazza San Pietro all'indomani dello storico discorso di Barack Obama sulla riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba. Quel «Todos somos americanos», pronunciato al termine del discorso dal presidente degli Stati Uniti, si è già trasformato in un inno a Papa Francesco, l'uomo che con lettere e telefonate ha reso possibile il disgelo tra i due Paesi. «Oggi siamo tutti contenti perché abbiamo visto come due popoli, che si erano allontanati da tanti anni, ieri hanno fatto un passo di avvicinamento» ha detto Papa Francesco parlando della vicenda cubana a un gruppo di tredici ambasciatori presso la Santa Sede ricevuti nel Palazzo Apostolico. «Nonostante i mille impegni in agenda, il Papa ci ha messo davvero il cuore», fanno sapere dalle sacre stanze: dopo gli incontri segretissimi in Vaticano, ad ottobre, con le delegazioni cubane e statunitensi e dopo le telefonate e le lettere a Raùl Castro e a Obama, Francesco è riuscito a chiudere il cerchio, trovando una soluzione condivisa dopo decenni di fine lavoro diplomatico e viaggi apostolici compiuto dai suoi predecessori (da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI). Tutto era cominciato sotto il pontificato di Papa Roncalli, pontefice santo che si era impegnato in prima persona appena esplosa la crisi cubana; 55 lunghi anni di silenzio per arrivare alla svolta, annunciata nel giorno del settantottesimo compleanno dell'uomo «venuto dalla fine del mondo» che ha fatto crollare quest'ennesimo muro. «Oggi Papa Giovanni sarebbe felice, ma siamo tutti molto felici», confida al Giornale il Card. Loris Capovilla, 99 anni, già segretario particolare di Giovanni XXIII. «Io mi rallegro per questo passo in avanti che porta all'unione dei cuori. È importante che ci sia sempre dialogo, sempre armonia tra i popoli per il bene dell'umanità intera». Il porporato ricorda ancora vividamente quei primissimi giorni della crisi tra Stati Uniti e Cuba e la conseguente interruzione dei rapporti diplomatici tra i due Paesi: «Non potrò mai dimenticare il dolore e il disappunto di Papa Giovanni per la fuga del clero locale dopo la salita al potere di Castro. Quella sera il Papa era furioso e continuava a ripetere: "I rapporti diplomatici non s'interrompono mai"». A distanza di mezzo secolo un altro Papa, questa volta latinoamericano, è riuscito a far riaprire la porta del dialogo tra i due Paesi, impegnandosi in prima persona tra un impegno pastorale e l'altro. È infatti fittissima l'agenda di Francesco, una tabella di marcia molto rigida che incrocia gli impegni da capo di Stato con quelli da parroco della porta accanto e da padre spirituale. È l'agenda «trasversale» di papa Francesco, il Pontefice che ogni giorno trova il tempo per lasciare messaggi in segreteria telefonica, regalare i sacchi a pelo ai senzatetto, che incontra gli ammalati, che riceve ospiti di tutti i tipi alla Domus Santa Marta (dai vecchi amici ai capi di Stato), che telefona a sorpresa, ad esempio, alla nonnina centenaria perché gli ha regalato una sciarpa o che chiama persino Roberto Benigni dopo il suo show televisivo dedicato ai Dieci Comandamenti. Una telefonata personale di un'ora e un quarto quella del Pontefice all'attore toscano, fanno sapere fonti vaticane. Una lunga chiamata (fatta martedì mattina) durante la quale Papa Bergoglio avrebbe confidato a Benigni di aver seguito una volta dal vivo un suo spettacolo a Buenos Aires: l'allora arcivescovo aveva comprato un biglietto per lo show ed era rimasto colpito dalla sua bravura. IL GAZZETTINO Pag 11 Debiti e operazioni finanziarie sospette. I francescani sull’orlo della bancarotta Lettera choc del ministro generale. Troppi debiti e ammanchi, la situazione denunciata alla magistratura Città del Vaticano - «La Curia generale si trova in una situazione di grave, sottolineo "grave", difficoltà finanziaria, con un cospicuo ammontare di debiti». È quanto scrive in una lettera choc pubblicata sul sito ufficiale dei Frati minori, il loro ministro generale, padre Micheal Perry portando alla luce quanto emerso da un'indagine interna avviata a settembre, sulle attività finanziarie operate dall'ufficio dell'economato degli stessi francescani. Dall'indagine, spiega Perry, è emerso anche che «i sistemi di vigilanza e di controllo finanziario della gestione del patrimonio dell'Ordine erano o troppo deboli oppure compromessi, con l'inevitabile conseguenza della loro mancanza di efficacia rispetto alla salvaguardia di una gestione responsabile e trasparente». Inoltre, «sembrano esserci state un certo numero di dubbie operazioni finanziarie, condotte da frati cui era stata affidata la cura del patrimonio dell'Ordine, senza la piena conoscenza e il consenso né del precedente né dell'attuale Definitorio generale». Secondo il superiore generale dei francescani «la portata e la rilevanza di queste operazioni hanno messo in grave pericolo la stabilità finanziaria della Curia generale». «Queste dubbie operazioni spiega ancora frate Perry - vedono coinvolte persone che non sono francescane, ma che sembra abbiano avuto un ruolo centrale nella vicenda». «Per questi motivi - annuncia - il Definitorio generale all'unanimità ha deciso di chiedere l'intervento delle autorità civili, affinché esse possano far luce in questa faccenda». È stato chiesto a «tutti i Ministri provinciali e Custodi la loro comprensione e un contributo finanziario per aiutarci a far fronte all'attuale situazione, che implica anche il pagamento di cospicue somme di interessi passivi». L'ordine si è affidato a un team di avvocati per «riprendere il controllo sulle attività economico-finanziarie della Curia generale». L’Economo generale si è dimesso. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT La grande truffa ai Francescani. La curia dei Frati di Assisi sull’orlo del crac di Giacomo Galeazzi Il ministro Perry: dubbie operazioni finanziarie, siamo pieni di debiti Francescani sull'orlo della bancarotta. Tre mesi di indagine e ora l'allarme per un «buco» di svariati milioni di euro. Lo scandalo, secondo Panorama, è scoppiato nel mese di ottobre e anche il Papa lo è venuto a sapere: la procura svizzera avrebbe sequestrato alcuni depositi della Congregazione dei Frati minori francescani, per decine di milioni di euro, perché investiti in società finite sotto inchiesta per traffici illeciti. Gli investimenti risalgono al periodo in cui era superiore dei frati minori José Rodriguez Carballo, oggi segretario della Congregazione per i religiosi. Adesso, dunque, l'ordine fondato dal «Poverello» di Assisi si ritrova sommerso dai debiti. Ad alimentare il passivo sarebbe stato anche l'hotel Il Cantico, ristrutturato recentemente a via Gregorio VII a Roma e utilizzato anche dalla Cei per la tradizionale cena con i giornalisti durante l'assemblea generale. La gestione del Cantico è affidata proprio all’ex-economo generale, padre Giancarlo Lati, sostituito da padre Silvio De La Fuente, ufficialmente per motivi di salute. È una «grave situazione di difficoltà finanziaria» quella che, in una lettera a tutti i frati, documenta il ministro generale, padre Michael Perry. Nel mirino le operazioni «dubbie» condotte proprio dall'economato. Sotto accusa «il ruolo significativo che alcune persone esterne, che non sono membri dell'Ordine, hanno avuto nella faccenda». Imminente il ricorso alla magistratura, nel sospetto di una maxi-truffa. È emerso che «i sistemi di vigilanza e di controllo finanziario della gestione del patrimonio dell'ordine erano o troppo deboli oppure compromessi, con l'inevitabile conseguenza della loro mancanza di efficacia rispetto alla salvaguardia di una gestione responsabile e trasparente». Inoltre «sembrano esserci state un certo numero di dubbie operazioni finanziarie, condotte da frati cui era stata affidata la cura del patrimonio». Quindi «la portata e la rilevanza di queste operazioni hanno messo in grave pericolo la stabilità finanziaria della Curia generale». Perciò a essere coinvolte sono «persone che non sono francescane ma che sembra abbiano avuto un ruolo centrale nella vicenda». È stato chiesto l'intervento delle autorità civili, affinché «possano far luce». E le «autorità ecclesiastiche competenti» sono state informate. A tutti i ministri provinciali e ai custodi è stato chiesto «un contributo finanziario per aiutarci a far fronte all'attuale situazione, che implica anche il pagamento di cospicue somme di interessi passivi». L'Ordine si è affidato a un «team di avvocati altamente qualificati» e ha avviato una serie di iniziative per riprendere il controllo sella situazione. Dopo la sostituzione dell'economo, è stato chiamato da Salerno per affrontare l'emergenza padre Pasquale Del Pezzo, esperto in questioni economiche e amministrative. È lui il delegato speciale per gli affari economici della Curia generale. Perry dichiara di comprendere la «delusione» di molti tra i confratelli e segnala come incoraggiamento l'esempio offerto da «papa Francesco nel suo appello alla verità e alla trasparenza nelle attività finanziarie sia nella Chiesa che nelle società umane». Negli istituti dell'Ordine si mostra sorpresa. «Devo approfondire le questioni contenute nelle lettera», commenta padre Rosario Gugliotta, custode della Porziuncola e della basilica di Santa Maria degli Angeli in Assisi. Il predecessore di Perry alla guida dei Frati minori, José Rodriguez Carballo, ora in Vaticano come segretario della Dicastero dei religiosi, è il firmatario con il cardinale Joao Braz de Aviz, delle nuove «Linee orientative» per l'amministrazione dei beni degli ordini religiosi, contro le «finanze allegre». «Un lavoro di piccoli passi», la diplomazia di Francesco di Andrea Tornielli La «nobile» attività di chi crede nel dialogo e nel negoziato In un'epoca in cui per molti, a vari livelli, le parole «dialogo» e «diplomazia» sono l'equivalente di buonismo e inconcludente arrendevolezza, quando non sono considerate alla stregua di parolacce, il messaggio che giunge dalle Americhe con il disgelo tra gli Usa e Cuba è significativo. Ricevendo le credenziali da tredici nuovi ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, Papa Francesco ha parlato della diplomazia come di un «un lavoro di piccoli passi» che avvicina i popoli e semina fratellanza e pace. E parlando a braccio ha detto: «Vi auguro un lavoro fruttuoso, un lavoro fecondo. Il lavoro dell’ambasciatore è un lavoro di piccoli passi, di piccole cose, ma che finiscono sempre per fare la pace, avvicinare i cuori dei popoli, seminare fratellanza fra i popoli. E questo è il vostro lavoro, ma con piccole cose, piccoline. E oggi tutti siamo contenti, perché abbiamo visto come due popoli, che si erano allontanati da tanti anni, ieri hanno fatto un passo di avvicinamento. Ecco, questo è stato portato avanti da ambasciatori, dalla diplomazia. È un lavoro nobile il vostro, tanto nobile». Il pubblico riconoscimento tributato al Papa sia da Barack Obama come da Raúl Castro mentre annunciavano il disgelo, ha provocato commenti molto diversi tra loro. C'è chi ha notevolmente enfatizzato il ruolo di Francesco e chi si è invece spinto a scrivere che Bergoglio ha avuto un ruolo minimo, perché quanto avvenuto mercoledì non altro non sarebbe che il risultato di un percorso in atto da molto tempo. Senza cadere nel rischio di enfatizzare troppo, o di troppo minimizzare, e cercando di seguire la filosofia dei «piccoli passi» a cui ha accennato lo stesso Francesco e le parole misurate usate dal suo Segretario di Stato Pietro Parolin ai microfoni di Radio Vaticana, si possono fare alcune osservazioni. La prima riguarda l'innegabile ritorno al centro della scena internazionale della diplomazia vaticana. Non un ritorno di protagonismo mediatico o effimero: se infatti è vero che ieri la Segreteria di Stato ha confermato pubblicamente il ruolo giocato dalla Santa Sede, è altrettanto vero che le trattative sono avvenute nel più stretto riserbo, senza che filtrassero indiscrezioni. Si tratta piuttosto una ripresa di iniziativa. «Il tempo è superiore allo spazio» recita una delle massime care a Papa Francesco, che sulla scia dei predecessori rimane ancorato alla cultura del dialogo e dell'incontro. Una seconda osservazione: è innegabile che a questa ripresa di iniziativa abbia contribuito l'approccio del Papa venuto «dalla fine del mondo». Sia gli amici, sia i capi di Stato tradizionalmente più «vicini» alla Santa Sede, sia quelli meno vicini o più lontani, riconoscono la credibilità e la personale testimonianza del vescovo di Roma. Una terza osservazione riguarda il ruolo discreto ma importante del Segretario di Stato Parolin, che da nunzio apostolico in Venezuela ha conosciuto da vicino i problemi dell'area, nelle cui mani si trovano in questo momento anche altri dossier delicati, come quello riguardante la Cina. E quelli, tragicamente attuali, che riguardano il Medio Oriente. Per una singolare circostanza, oggi ai vertici della Segreteria di Stato ci sono diplomatici che hanno avuto a che fare con Cuba. Il Sostituto Angelo Becciu è stato nunzio nell'isola caraibica, mentre l'ex «ministro degli Esteri» Dominique Mamberti, appena nominato Prefetto della Segnatura apostolica, aveva comunque visitato Cuba durante il suo incarico. Il processo è stato certamente favorito dai viaggi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ed è stato accompagnato dall'episcopato cubano, in primis dal cardinale Ortega y Alamino, come pure dall'episcopato statunitense. Il segnale di speranza arrivato con l'annuncio di Obama e Castro - e ai due leader va ovviamente riconosciuto il merito principale di quanto avvenuto - appare dunque anche il frutto di un percorso che ha visto impegnata la Chiesa cattolica nel favorire il dialogo tra le parti, il dialogo nelle comunità, la fine di un embargo il cui peso grava sulle spalle della popolazione. Certo, nel mondo teatro della «terza guerra mondiale a pezzi», per citare ancora una volta Francesco, nel mondo dei conflitti ammantati di religione e di fondamentalismo, sono ben altre le situazioni che spaventano, per la loro portata tragica di orrori, e per l'impotenza a cui sembra confinato ogni tentativo di soluzione negoziata. Il Papa e più in generale la Santa Sede finiscono nel mirino dei fondamentalisti d'Oriente e d'Occidente, di chi crede fermamente nelle guerre di religione, di chi auspica l'armagheddon tra gli occidentali «crociati» e l'islam. La tessitura paziente, il «lavoro dei piccoli passi», il cercare di trovare vie praticabili per rendere più stabile o meno instabile la situazione, appaiono come utopie. La Santa Sede rimane talvolta isolata nel suo tenace riferimento multilaterale, nel suo chiedere soluzioni condivise dalle Nazioni Unite, anche quando è necessario «fermare l'ingiusto aggressore». «Serve più dialogo, non meno dialogo», ripetono Francesco e i suoi collaboratori. Con la coscienza di essere una voce spesso flebile e certamente inerme di fronte alle potenze e ai potenti. Una voce interessata soltanto a salvare vite umane, promuovere la pace, alleviare le sofferenze dei civili. Una voce che non ha avuto né ha da rivendicare meriti, né è preoccupata di piantare bandiere. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e rivoluzione di Sandro Magister Marxista, liberista, peronista. Gli hanno applicato le etichette più disparate. I contrastanti giudizi dell'Acton Institute e degli "Amici di papa Francesco" Un altro dei misteri di papa Francesco riguarda la sua visione dell'economia mondiale. C'è chi l'ha collocato tra i marxisti impenitenti, dopo aver letto il documento programmatico del suo pontificato, l'esortazione apostolica "Evangelii gaudium". E c'è chi dallo stesso documento ha tratto la conclusione opposta, dipingendo un Jorge Mario Bergoglio grande amico del libero mercato. Dalla prima delle due definizioni, quella di comunista, il papa ha preso ripetutamente le distanze, fino a scherzarci sopra. Dalla seconda, quella di filocapitalista, no. Ma non è per niente sicuro che essa corrisponda al suo pensiero. A individuare in Francesco un paladino della libera economia non è stato qualche isolato spirito bizzarro, ma l'Acton Institute, uno dei più autorevoli "think tank" degli Stati Uniti, la cui idea maestra è che il capitalismo tanto più fiorisce quanto più la società in cui opera è libera e religiosamente ispirata. Lo scorso 4 dicembre l'Acton Institute ha assegnato il suo più alto riconoscimento annuale, il Novak Award 2014, a un giovane e brillante economista finlandese, Oskari Juurikkala, il quale ha tenuto la sua lezione di investitura proprio sul tema: "Un apprezzamento pro mercato di papa Francesco". Il premio è stato assegnato a Roma, nella Pontificia Università della Santa Croce, l'ateneo dell'Opus Dei, a pochi passi dal Vaticano. La tesi di Juurikkala è che il messaggio di Bergoglio, con la sua enfasi sui poveri, non solo non è in contraddizione con il libero mercato, ma porta ad esso dei benefici, perché aiuta a "purificarlo e arricchirlo". Alla lezione di Juurikkala ha fatto da contrappeso, nello stesso evento, Carlo Lottieri, filosofo del diritto e membro dell'Istituto Bruno Leoni, un "think tank" anch'esso marcatamente liberista, presieduto fino al 2011 da Sergio Ricossa. Lottieri, che insegna all'università di Siena e in Svizzera alla facoltà teologica di Lugano, continua a vedere in Francesco non un amico ma un avversario delle libertà economiche, non da ultimo per l'esperienza "peronista" da lui assimilata in Argentina, "mai veramente conclusa e complessivamente disastrosa". Ma c'è dell'altro. Da un paio di mesi si è costituito a Roma un "Cenacolo degli amici di papa Francesco" che vanta tra i suoi soci più assidui i cardinali Walter Kasper e Francesco Coccopalmerio, il direttore de "La Civiltà Cattolica" Antonio Spadaro e il segretario del pontificio consiglio della giustizia e della pace Mario Toso. L'ultimo loro incontro, lo scorso 10 dicembre, l'hanno dedicato a quello che ritengono il vero manifesto rivelatore della visione economica e politica del papa: non la "Evangelii gaudium" ma il discorso da lui tenuto il 28 ottobre in Vaticano ai "movimenti popolari", discorso da essi definito "storico" e "rivoluzionario". Ad ascoltare ed applaudire papa Francesco, quel giorno, c'era un campionario dell'ultrasinistra mondiale, dagli zapatisti del Chiapas al centro sociale Leoncavallo di Milano. Particolarmente numerosi i sudamericani, tra i quali il presidente boliviano Evo Morales in qualità di leader “cocalero”. E che cosa ha detto il papa? Che il rinnovamento del mondo appartiene a loro, alle "periferie" che "odorano di popolo e di lotta", alla moltitudine degli esclusi e dei ribelli, grazie a un processo di loro ascesa al potere che “trascende i procedimenti logici della democrazia formale”. È stupefacente la similitudine tra questo discorso di papa Francesco e le teorie sostenute dal filosofo della politica Toni Negri e dal suo discepolo Michael Hardt in un libro del 2001 che ha fatto epoca ed è stato tradotto in più lingue: “Impero”. Sia Francesco che Toni Negri individuano la sovranità mondiale vera in un dominio transnazionale del denaro, che alimenta le guerre per ingrossare i propri profitti, contro il quale solo la moltitudine dei "movimenti popolari" può portare a una "riappropriazione della democrazia" non formale ma sostanziale. Anche a Strasburgo, nel discorso che ha rivolto il 25 novembre al parlamento europeo, papa Francesco non ha mancato di ergersi contro "i sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti". Poi però, pochi giorni dopo, ha ricevuto in Vaticano con tutti gli onori Christine Lagarde, la numero uno di quel Fondo Monetario Internazionale che è proprio l'emblema del deprecato impero. Il mistero è lontano dall'essere sciolto. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Piccolo elogio della nonnità di Ferdinando Camon “Onora il nonno e la nonna”: Benigni dice ciò che si vive Sostituire 'Onora il padre e la madre' con 'Onora il nonno e la nonna'? Roberto Benigni l’ha fatto pensare a più d’uno con ciò che ha saputo dire nella presentazione televisiva dei Comandamenti. Sostituire no, ha riflettuto lui stesso, perché padre e madre sono insostituibili, ma integrare sì. Perché nonno e nonna sono figure onnipresenti nella vita dei bambini, e hanno un ruolo sempre più importante nel campo educativo e affettivo. 'Andare a trovare i nonni' è un momento di felicità intensa per i piccoli, e per i nonni riceverli in casa è gioia pura. Un grande studioso della Letteratura Italiana, forse il miglior critico del Novecento, che attraverso i libri e gli autori vedeva la vita, i sentimenti, i problemi personali e sociali, Geno Pampaloni, ha scritto in tarda età un libriccino di memorie, in cui ha messo una definizione di vecchiaia che (cito a memoria, e chiedo scusa se sbaglio qualcosa) suona così: «Si è vecchi quando per le scale i passi dei figli e dei loro figli che ci vengono a trovare salgono troppo tardi, e scendono troppo presto». È una frase densissima. Significa che i nonni si affacciano a tendere l’orecchio sulle scale prima che i figli arrivino, e godono e si avvertono reciprocamente appena sentono il primo scalpiccìo, e finita la radunata li accompagnano sulla porta e tendono l’orecchio per sentire i passi allontanarsi, e richiudono la porta quando non si sente più nulla: così la visita di figli e nipoti vien vissuta a partire da prima che cominci per continuare anche dopo che è finita. Questo nel caso delle abitazioni separate, che nell’epoca dei condomìni e degli appartamenti è il più frequente. Accade sempre più spesso che i nonni facciano da supporto affettivo-educativo ai nipoti, li aiutino a fare i compiti, li portino ai giardini, stiano con loro davanti alla tv, insomma spartiscano la vita. La nonnità è una seconda paternità. Ritorno spesso su questo concetto, mi pare un test del nostro tempo. Un test felice. La nonnità è la prima paternità che ritorna, riveduta e corretta. Quand’erano padri e madri, i nonni hanno fatto degli errori: tutti, nessuno escluso, tanto meno colui che scrive queste righe. Il ruolo di padre è di una difficoltà estrema. Non significa parlare bene ai figli, cioè insegnargli il bene, insegnargli un modello di vita con le parole. Ma insegnargli un modello di vita con la vita. Tutti sbagliamo, perché non sappiamo. I nonni sanno, e sbagliano meno. Dice Freud che l’amore paterno per i figli è inquinato da altri sentimenti, che non si possono portare facilmente alla luce neanche con l’analisi, perché la coscienza li condanna e perciò li nasconde. C’è anche gelosia, rivalità, bisogno d’imporre l’autorità, di ottenere l’obbedienza. Vorrebbero migliorare i figli, farne dei capolavori. Realizzare attraverso i figli le rivincite che la vita non gli ha dato. Per quanto sia difficile crederlo, i padri non sentono questa ambiguità nel loro amore per i figli, ma i figli sì. Nei nonni queste ambiguità svaniscono. Amano i nipotini per quel che sono e come sono. E i nipotini sentono in loro questo amore totale, e lo ricambiano. Nei giorni di Natale, nelle grandi rimpatriate dei clan, i gruppi più felici sono i figli e i nonni: i primi perché stanno con i secondi, e viceversa. È il caso di dire (di comandare) al nipote 'onora il nonno e la nonna'? Di fatto, lo fa già. Onorare vuol dire rispettare, obbedire, o almeno non disubbidire, e stimare. Aver fiducia. Parlarne bene. Protestare se senti che qualcuno ne parla male. Preoccuparti se senti che è malato. Piangere se senti che se n’è andato. 'Onora il padre e la madre' significa 'onora tuo padre e suo padre, tua madre e sua madre'. È già così, nelle famiglie. Specialmente in questi giorni. Sono i giorni più felici dell’anno. Pag 13 Natale in tavola di Franco Cardini Il banchetto famigliare del 25 dicembre è tutt’altro che un esempio di consumismo: affonda anzi le sue radici nell’esigenza di “fare festa” staccandosi dall’ordinarietà quotidiana «Nun vedo l’ora che vène Natale / pe’ famme ’na magnata de torone; / pe’ famme na’ magnata de torone / pe’ famme ’na bevuta dar boccale ». È uno stornello dei bulli di Trastevere del tempo della miseria, quello di Belli ma ancora di quello di Trilussa. Il Natale come occasione di mangiare finalmente a sazietà qualcosa di buono, per una bella bevuta in libertà. Alla quartina romanesca rispondeva, anni più tardi, una canzone di Renato Carosone e Gegè di Giacomo dedicata, in pieni anni Cinquanta, a un’altra miseria: quella della Napoli di un dopoguerra non ancor del tutto trascorso, la Napoli ch’era ancora per tanti versi quella della Pelle di Malaparte: «Mo’ vène Natale / nun tengo dinare: / me leggo o’ giornale / e me vad’a’ccuccà». Alla tristezza un po’ spaccona del trasteverino costretto ad aspettar Natale per mangiare e per bere un po’ meglio del solito rispondeva la disperazione allegra del miserabile napoletano che, senza un soldo, nel giorno di festa poteva solo ingannare la fame andandosene a letto. In entrambe le situazioni, la povertà e magari la fame si misurano con la coscienza del tempo festivo. Questi due esempi potrebbero sembrare privi di qualunque aggancio con il carattere spirituale della grande festa, ma non è così. Presupposto di entrambi è che per Natale bisogna far festa, e che se ciò non è possibile tanto vale non vivere nemmeno un giorno come quello, andarsene a dormire. In due occasioni, san Francesco d’Assisi associa a sua volta il Natale alla necessità di far festa, e festa espressa anzitutto attraverso il cibo: quando dice che, se gli capiterà d’incontrare l’imperatore, gli chiederà un editto che ordini a tutti di spargere per Natale granaglie per strada in modo che gli uccelli dell’aria possano aver di che mangiare quel giorno in abbondanza; e quando dichiara che sia intenzione sarebbe, per Natale, di strofinare pezzi di carne sui muri affinché perfino pietre e mattoni potessero godere di quell’abbondanza. Che la festa si celebri e si onori anzitutto per mezzo di banchetti, conviti e simposi è una realtà comune si può dire a qualunque civiltà tra le molte che il genere umano è stato capace nei millenni di concepire; non meno comune è, d’altra parte, il rapporto tra penitenza, dolore, e astensione dal cibo. La festa si onora con quella che gli antropologi definiscono l’“orgia”: che non ha nulla del significato che volgarmente in italiano le si attribuisce, ma che significa semplicemente occasione durante la quale il cibo e le bevande, di qualità e in abbondanza, vengono consumati oltre il bisogno, talvolta fino alla totale distruzione delle scorte. Il valore di ciò è essenzialmente rituale: si consuma oltre il bisogno in certe occasioni con lo stesso atteggiamento devozionale con il quale ci si astiene da certi cibi o da certe bevande oppure si digiuna totalmente in altre. Alla base di tale comportamento, nelle società tradizionali, c’è la coscienza di una profonda differenza tra giorni “festivi” e giorni “feriali”: la Modernità occidentale ha sistematicamente reagito ad essa sostituendole la distinzione tra giorni “di riposo” e giorni “di lavoro”, quindi azzerando il concetto sacrale e comunitario di festa per imporre al suo posto un diverso modello antropologico fondato sulla primarietà dell’uomo come produttore di ricchezza. Da un malinteso apprezzamento di tale realtà dipende la reazione di chi vorrebbe eliminare quel che resta, magari al livello inconscio, di “senso della festa” nel Natale, appiattendo tutto il desiderio e il bisogno di mangiare, bere e vivere convivialmente meglio sulla misura del consumismo. Una sia pure graduale riconquista del senso del Sacro dovrebbe, al contrario, proprio partire da un’accentuazione conferita di nuovo alla festa, da un rinnovato e più profondo senso della sacralità che ai giorni festivi è propria e quindi da una distinzione profonda, anche esistenziale, rispetto alle consuetudine dei giorni feriali. Non è di domenica, o a Natale, che si dovrebbe mangiare “come tutti i giorni” per reagire al consumismo; è, al contrario, giorno per giorno che sarebbe opportuno limitare qualitativamente e quantitativamente i consumi per sottolineare quel che il cristianesimo, religione del pane e del vino, fondamentalmente ripete, cioè che anche il cibo e il vino sono di per sé suscettibili di essere investiti di sacralità. Da qui gli usi natalizi incentrati non solo sul consumo, ma anche sulla preparazione comunitaria della tavola e del cibo della festa. L’Avvento serve anche a questo: nella società tradizionale europea era il tempo nel quale si uccideva il porco e se ne destinava gran parte al consumo differito per mezzo di vari sistemi di conservazione; immediatamente prima, nelle ultime settimane del tempo liturgico ordinario (“per san Martino”), si procedeva alla svinatura; quindi ci si dava alle preparazioni che richiedevano un certo tempo, come la preparazione di conserve, marmellate e confetture. Alla festa, non si arrivava senza la Vigilia: almeno ventiquattr’ore di digiuno e/o d’astinenza. Sulla tavola della Vigilia, necessariamente – e ritualmente: l’economia non c’entra – povera e spoglia, comparivano cibi frugali e non carnei: minestre o zuppe a base di cereali, di verdura (le cime di rapa stufate con i panzerotti della cucina pugliese) o di frutti poveri (la minestra di castagne secche bollite diffusa in tutto l’arco alpino e appenninico con molte variabili: talora in semplice acqua priva di sale cui si aggiungeva devozionalmente un cucchiaino di cenere); o naturalmente il pesce, guardato peraltro con qualche sospetto in quanto si trattava di un cibo spesso ricercato e costoso. Il principe della tavola natalizia della Vigilia, che in qualche regione specie del Sud arriva fino al pranzo stesso di Natale, è il capitone: la grossa anguilla, consumata in ricordo della lotta e della vittoria contro «l’Antico Serpente», e quindi immolata nella notte nella quale Gesù, nascendo, ha ucciso il Male; ma anche ricordo forse di un’antica tradizione cristiana orientale, quella della celebrazione del Natale coincidente con l’Epifania, il 6 gennaio, antica festività di Iside signora delle acque cui i pesci erano graditi. Se la Vigilia è giorno di magro, nel Natale invece il grasso trionfa: ed è sovente – non necessariamente – grasso della carne di porco o di grossi bipedi da cortile, come il cappone (meno comune l’oca, che arrostita e ripiena di carne di maiale e di frutta trionfa oltralpe), ma comunque associato di solito, tra noi, alla cottura nell’acqua, la bollitura. Il Natale è la festa del bollito come la Pasqua è quella dell’arrosto: i due tipi di cottura rinviano a due tipi diversi di socialità, quella contadina del focolare su cui si dispongono i recipienti per la cottura indiretta e quella pastorale del forno o dello spiedo o della griglia “sacrificatori”, per la cottura diretta. Per devozione al Bambino, che come tutti i bambini del mondo ha bisogno di cibi teneri e più facili da digerirsi, il Natale è la festa della pasta ripiena servita in minestra (i vari tortellini, ravioli, cappelletti in brodo). I dolci sono un altro elemento tipico della mensa natalizia: e debbono richiamare il pane quotidiano arricchito di zucchero, canditi, frutta secca. È un pane speciale, la buccella dei romani (a Lucca si fa ancora il buccellato: ciambella di pane soffice e dolce condito con uvetta e semi di anice). I vari christstollen tedeschi, il panettone milanese, il pandolce genovese, i “pani dei pescatori” veneziani sono pani di farina di grano variamente arricchiti; e al pane si richiamano anche i dolci nei quali si fa ampio uso anche di conserva di frutta secca o, adesso di cioccolato, come il panforte senese e volterrano e il panpepato ferrarese (originariamente, entrambi dovrebbero contenere anche semi di pepe nel loro impasto). Talora ai pani si sostituiscono biscotti o ciambelle (come le cartellate pugliesi, frittelle al mosto cotto o al miele). Il torrone cremonese è a sua volta un pane speciale, nel quale alla farina si sostituisce integralmente lo zucchero condito miele, albume d’uovo, frutta secca. Ma il Natale, che nella tradizione latina si è andato costruendo per acculturazione attorno alla festa pagane del solstizio d’inverno (divenuta festa della regalità sacra dell’imperatore) e alle libertates decembris, è in realtà una “festa lunga”. La tradizione cristiana delle “Tredici Notti” (quella rammentata da Shakespeare in La notte dell’Epifania) attribuisce un significato speciale a ciascuno dei dodici giorni tra Natale ed Epifania. Il cenone di Capodanno è una specie di secondo cenone di Natale in cui però trionfa il maiale bollito (zamponi, cotechini, ecc.) accompagnato da legumi o seguito da frutta che debbono ricordare in qualche modo la forma del denaro (quello metallico, naturalmente), come auspicio di prosperità per l’anno nuovo: quindi lenticchie o chicchi d’uva. Una volta, per ricordarsi che anche il cibo è preghiera, i Pater, le Ave e le poste del rosario servivano ottimamente come timer: mia nonna non usava mai l’orologio per cuocere i tortellini natalizi nel brodo, ma sapeva perfettamente quante Ave Maria erano necessarie per cuocere a puntino i vari tipi di pasta. Di recente, nell’Atlante marocchino, ho visto fare lo stesso: recitare alcune sure del Corano (che sono 114, di differente lunghezza) a seconda del punto di cottura della semola del cuscus che si voleva ottenere. «Tu usi le preghiere come scusa per far bollire le pentole», rimproveravo mia nonna. «Nemmeno per idea – mi rispondeva lei –: faccio bollire le pentole come scusa per pregare». Perché – commenterebbe un musulmano – se Dio non volesse, nemmeno le pentole bollirebbero. Il che è una bella variabile del nostro panem nostrum cotisdianum da nobis hodie. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se i giovani fanno paura di Vittorio Filippi E’ curioso il capovolgimento. Una volta, fino a qualche decennio fa, erano i ragazzi, i giovani ad avere paura degli adulti. Eravamo una società autoritaria, maschilista, gerarchica. Anche manesca. Il potere degli adulti – genitori ed insegnanti in primis – era ampio ed indiscusso. Poi il meccanismo si ruppe, ci fu il ’68 e gli anni settanta, gli adulti divennero i matusa e soprattutto si disse che non dovevano più essere autoritari, ma autorevoli. Oggi, come si diceva, il mondo appare rovesciato. I giovani non temono più gli adulti, non temono più i genitori, gli insegnanti, tutto ciò che definiamo l’autorità. Anzi, sono gli adulti che cominciano ad essere intimoriti, perché gli adolescenti appaiono sempre più ingovernabili ed imprevedibili. In taluni casi fanno perfino paura. Sono decisamente insofferenti alle regole, in famiglia come a scuola. In un crescendo inquietante, questi adolescenti adottano sempre più comportamenti che una volta si sarebbero definiti teppistici. Lo fanno soprattutto negli spazi pubblici tra l’ambito familiare e quello scolastico (o lavorativo). Mentre gli ultimi due sono – bene o male – abbastanza presidiati da regole e sanzioni, quelli pubblici si profilano come spazi sociali liquidi e senza regole. Sregolati appunto. I trasporti pubblici ne sono l’esempio perfetto. Posti tra casa e scuola e viceversa, vengono vissuti come quotidiane aree di libertà, di piccola trasgressione, anche di piccola violenza. Per di più sono pochissimo presidiati dagli adulti: un solo controllore, un solo autista, un solo capotreno. Se poi questo adulto «istituzionale» osa esercitare il suo ruolo richiamando il rispetto delle regole (pagare il biglietto o l’abbonamento, adottare un certo comportamento a bordo) allora può scattare una violenza tanto inaudita quanto imprevista. Come ci racconta oggi la cronaca infittita di episodi del tutto simili. Questi giovani sono stati definiti fragili e spavaldi al tempo stesso. Fragili fino a tentare il suicidio per un brutto voto o per una delusione d’amore. Ma anche spavaldi fino al rifiuto dell’autorità e del castigo. Gli adulti hanno oggi di fronte due strade. La prima è quella del controllo sempre più forte affidato alle telecamere o alle forze di polizia. La seconda è quella educativa. La prima è utile, ma fino ad un certo punto. La seconda serve se nel patto con i ragazzi ci stanno la fatica dell’ascolto, l’abitudine al rispetto delle regole, la voglia autentica di educare, cioè di «tirare fuori» ciò che di buono si nasconde dentro i nostri adolescenti. Anche di quelli che oggi mostrano il volto inaccettabile della violenza. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pagg 2 – 4 La mafia siciliana al Tronchetto di Alberto Zorzi, Alessio Antonini e Monica Zicchiero Dalle truffe all’impero dei granturismo: ascese e cadute del “cocco cinese”. Acchiappaturisti e bancarelle, gli affari nel regno dell’omertà. La commissione antimafia a Venezia: “Ci sono anche complicità politiche” Venezia. La prima volta l’avevano arrestato il 17 aprile del 2013, con l’accusa di essere il socio occulto della società Euro Coibenti, subappaltatrice di Fincantieri, in cui sarebbero stati ripuliti i soldi sporchi delle cosche. Le manette erano poi scattate nuovamente il 23 giugno scorso, quando le fiamme gialle gli avevano notificato nella sua casa di via San Pio X a Mestre un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa, estorsione e riciclaggio, ancora una volta sulla base delle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, con la quale proprio nelle scorse settimane ha iniziato una collaborazione da «pentito». Ora però nei guai sono finiti coloro che di Vito Galatolo, 41 anni, ritenuto il capo del mandamento dell’Acquasanta e figlio di uno degli storici boss di Cosa Nostra (quel Vincenzo condannato all’ergastolo come esecutore materiale dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), sarebbero stati i «collaboratori» nella sua permanenza veneziana. Ieri mattina all’alba i carabinieri del Ros di Padova hanno infatti notificato 8 avvisi di garanzia ad altrettante persone indagate per concorso esterno in associazione mafiosa ed eseguito una dozzina di perquisizioni. Nel mirino c’è di nuovo il Tronchetto. L’isola nuova, costruita negli anni Sessanta come porta d’accesso per Venezia, è diventata nei decenni una terra di nessuno, dove i taxi regolari non attraccano mai, dove l’Actv fatica tuttora a imporsi contro le barche dei motoscafisti abusivi, anche se le indagini di questi anni dei Ros hanno migliorato la situazione. Proprio qui Galatolo aveva trovato lavoro poco dopo essere arrivato a Mestre, uscito nel 2012 da un decennio passato dietro le sbarre. Prima il lavoro con la società Canal Grande nel 2012, poi il contratto con la Travel Venice, firmato il 2 aprile 2013, pochi giorni prima dell’arresto nella vicenda Euro Coibenti. Società che fanno riferimento a una vecchia conoscenza dei Ros, quell’Otello Novello detto il «cocco cinese», che con i suoi granturismo spadroneggia da 30 anni al Tronchetto. Novello è il primo della lista degli indagati, insieme ad altri sette dipendenti (o ex) delle società, quelli con cui Galatolo aveva legami più stretti. Come Maurizio Greggio, genero di Novello, nella cui abitazione i carabinieri hanno pure trovato oltre 37 mila euro in contanti, o come Donato Flauto, comandante di uno dei 16 lancioni delle società, che aveva preso l’abitudine di passare a prendere a casa Galatolo per portarlo al lavoro. L’amicizia tra le due famiglie era divenuta stretta, tanto che è stata perquisita anche la figlia di Flauto. Ci sono poi due siciliani di Palermo, amici stretti del boss, ovvero Salvatore Caponnetto (il cui zio, Maurizio, aveva rapporti stretti e ora è in carcere per rapina: entrambi sono difesi dall’avvocato Mauro Serpico, ex legale di Galatolo prima della collaborazione) e Pasquale Fantaci, e infine Fabiano Bullo, Stefano Franzanchini e un’altra persona. Il capo d’imputazione per ora è quello del 416 bis, nella forma del «concorso esterno in associazione mafiosa facente capo a Vito Galatolo, già attivo in Palermo e recentemente operante a Venezia-Mestre». La data indicata nel decreto di perquisizione va dal 2012 al 23 giugno 2014, cioè appunto al giorno dell’arresto. I Ros, guidati dal colonnello Paolo Storoni, e il pm titolare dell’inchiesta, Giovanni Zorzi della Dda veneziana, sono partiti proprio dall’arresto di Galatolo a giugno e da due domande molto semplici: perché il boss era arrivato a Venezia? E perché Novello l’ha assunto? Per ora il «cocco cinese», attraverso il suo avvocato Massimiliano Cristofoli Prat, nega tutto: «Gli fu chiesto da un conoscente comune di dare un lavoro a Galatolo e gli fece un piacere - dice il legale - lui non sapeva nulla del suo passato e quando l’ha saputo ha ritenuto di non lasciarlo per strada». Versione che però ha un punto debole ovvero che, quando Vito venne arrestato, Novello ne assunse subito il figlio Vincenzo, 19enne. «E comunque - continua l’avvocato Cristofoli Prat - Galatolo veniva regolarmente al lavoro la mattina presto, faceva la manutenzione delle barche, controllava l’olio e le puliva. Poi accompagnava i turisti a bordo». Sullo sfondo c’è anche un’altra ipotesi, per ora senza riscontri rilevanti, ovvero che come avvenuto per i subappalti di Fincantieri, queste società potessero essere una valvola di sfogo per gli incassi illeciti della cosca Galatolo. Nei prossimi giorni gli inquirenti capiranno se dai materiali sequestrati possa emergere qualche altro elemento interessante: oltre ai 37 mila euro di Greggio, sono stati sequestrati anche pc, documenti vari, gioielli di cui gli indagati dovranno rendere conto. Ma a molti è stato chiesto anche se detenessero armi ed esplosivi, e potrebbe non essere un caso visto che Galatolo nelle sue dichiarazioni da pentito ha parlato anche dell’ordigno per l’attentato al pm di Palermo Antonino Di Matteo. In realtà gli inquirenti smentiscono di aver ricevuto alcun verbale dai colleghi palermitani, ma l’impressione è che siano andati a colpo sicuro con le perquisizioni. Nella sede delle società si è presentato anche l’ispettorato del lavoro, che però ha fatto solo delle contestazioni minori sulle norme di sicurezza. Venezia. Una ricettazione quando aveva appena 18 anni, un’inchiesta per truffa con il gioco d’azzardo risalente ormai a 30 anni fa. Poi Otello Novello, per tutti il «cocco cinese» per quegli occhi un po’ allungati, si è buttato sul business dei granturismo e in queste tre decadi ha messo in piedi un impero. Oggi nelle due società, la Canal Grande e la Travel Venice, lavorano circa un’ottantina di persone, su un totale di 16 lancioni. Tra di loro, appunto, anche Vito Galatolo e poi, una volta che il boss del mandamento dell’Acquasanta venne arrestato lo scorso 23 giugno, pure il figlio Vincenzo. Ma non è di oggi il collegamento del nome di Novello con la malavita organizzata. Per anni si disse che era uno dei terminale della banda dei «mestrini» della mala del Brenta, tanto che lui ha incaricato il suo avvocato di fare anche qualche querela. Poi però nel 2001 arrivò la mazzata e anche allora furono i carabinieri del Ros a fare le indagini per conto del pm Paola Tonini. Novello venne infatti arrestato con accuse pesanti: l’uso dei metodi mafiosi per sgominare il campo da possibili rivali e anche una rapina. Si fece un anno e mezzo di carcere prima del processo, al termine del quale fu condannato a un anno e 8 mesi con però solo il riconoscimento della concorrenza illecita con violenza e minaccia. Anche allora lo difendeva l’avvocato Massimiliano Cristofoli Prat. «In quell’occasione dissi anche che forse qualche decennio prima il mio cliente aveva usato metodi un po’ forti, ma che ora era un imprenditore a tutti gli effetti e oggi lo ribadisco». «Mafia? Ma quale mafia, noi siamo imprenditori, lavoriamo nel turismo», diceva il «cocco cinese» in un’intervista dell’epoca, quando era tornato in pista dopo la sentenza. «Noi le tasse le paghiamo continuava, ricordando che per ogni attracco venivano pagati 5 euro a Ca’ Farsetti tutto è registrato. Se fossimo abusivi perché lo Stato e il Comune accettano i nostri soldi?». Dall’operazione «Tallero», quella del 2007 sui motoscafi abusivi, si era salvato, perché all’epoca i Ros avevano messo nel mirino le barche più piccole. Ma questo non significa che in questi anni i militari non l’avessero mai tenuto sotto controllo, per vedere se rigava dritto. Ora questa storia di Galatolo pare riaprire la partita. «Qui nell’isola problemi non ce ne sono - diceva ancora nell’intervista di 11 anni fa - Altrimenti ci avrebbero mandato la polizia, non vi pare?». Venezia. Gli ombrelli con il cielo azzurro e il profilo di piazza San Marco costano otto euro, le felpe con la scritta Venezia (in bianco rosso e verde che fa molto bandiera italiana e che piace ai turisti dell’Est Europa con i pantaloni della tuta in triacetato) appena cinque euro e i cavatappi e i portachiavi con la gondola di plastica non più di due euro. Prezzi bassi quelli delle bancarelle del Tronchetto, prezzi alla portata del turismo di quantità. Quello di cui a Venezia nessuno vuole sentire parlare ma che fa girare pacchi e pacchi di soldi. Perché i cinesi che salgono e scendono dai lancioni marchiati Travel Venice e dai barconi registrati dalla Canal Grande, i polacchi che sbarcano dai pullman targati Napoli, Roma o Viterbo e gli indiani che affollano le banchine per un tour della serie tutta Italia tutto compreso spendono poco. Ma sono tanti. E alle bancarelle che affollano il Tronchetto si fermano, guardano e comprano. Poco importa che gli ombrellini siano visibilmente made in China e che alla bancarella ci siano dei bengalesi. Il Tronchetto è Venezia. E a Venezia si compra. E le perquisizioni? «Go tacà a un boto, non so». Figurarsi. Al Tronchetto ci deve essere un turno unico che inizia alle 13 perché nessuno di quelli che ci lavorano dalle 14 in poi sa niente di niente. Nemmeno delle guide che portano a spasso i polacchi, i cinesi, gli indiani e che danno l’impressione perché, sia chiaro, solo di impressione si tratta - che qui le cose non siano tanto regolari. D’altra parte non è la prima volta che qualcuno avanza l’ipotesi che l’abusivismo convenga a tanti. Dai tempi della Mala del Brenta il Tronchetto è sempre stato il posto giusto per inventarsi i lavori. E le regole e le tasse sono sempre state le prime a saltare. «Credo che non si sia mai voluto estirpare il fenomeno - scriveva un investigatore dei Ros dieci anni fa - in fondo motoscafisti, intromettitori e tutti gli altri offrono un servizio che altri non danno, insomma occupano spazi liberi. Fanno comodo alle agenzie di viaggio che fanno prezzi stracciati, agli autisti dei bus e anche ai turisti». In fondo al Tronchetto prima o poi ci passano tutti. Perfino l’orda degli unni padani che portavano in laguna l’acqua del sacro fiume Po saliva ordinata e compatta sui lancioni della flotta di Otello Novello, quel Cocco Cinese indagato, arrestato, rilasciato e poi di nuovo tornato di fronte ai giudici per i suoi presunti legami con la famiglia Galatolo. Sulla lunga banchina in cui oggi, dopo un giro in laguna, scendono i cinesi armati di Iphone 6 e macchine fotografiche sono saliti e scesi per anni i tifosi del Venezia calcio, le squadre in trasferta e tutti quelli che a Venezia ci vivono e lavorano. Non è un caso se poco distante ci sono due ragazzi che scaricano da una monovolume un paio di elettrodomestici destinati a una nuova cucina. «Il centro commerciale ci ha chiesto ottanta euro per il trasporto, facciamo da noi», dicono trascinando un piccolo frigorifero dal molo a una patanea . A loro modo, ma probabilmente non sanno di esserlo, sono abusivi anche loro. Non quanto quelli che chiedono una mancia per portare i cinesi o gli indiani in quella o quell’altra vetreria di Murano, in quello o quell’altro bed and breakfast, in quello o in quell’altro ristorante. E nemmeno quanto quelli che vestiti di blu con tanto di berretto (che sembra quello in dotazione ai vigili italiani) dirottano i turisti dall’imbarcadero dell’Actv ai taxi senza nome. Che però non esistono. Perché qui al Tronchetto nessuno li ha visti e nessuno sa nulla. Nemmeno i due operai stranieri che stanno scaricando un camion pieno di terra e arbusti poco lontano dalle bancarelle dei bengalesi verso il molo dei ferry che portano al lido le auto (e i tanko in piazza San Marco). Perfino i controllori delle Ztl che sostano perennemente nelle Panda bianche del Comune non hanno visto mai nulla. «No italiano», scuote la testa il bengalese che beve una Fanta accanto alla bancarella. English? Français? Nemmeno quello. Il portachiavi a forma di gondola? «Due euro». Ma se si vuole spendere meno c’è il gatto cinese che fa oscillare il braccio di plastica. «Con un euro lo porti a casa». E l’italiano è perfetto. Venezia. Ancora lui, ancora il Tronchetto. Non è passato nemmeno un mese dalla sentenza-choc che ha praticamente «raso al suolo» l’indagine «Tallero», che ecco l’Isola Nuova tornare nel mirino di un’inchiesta. Lo scorso 24 novembre la Corte d’appello di Venezia aveva dichiarato non solo la prescrizione, ma anche assolto nel merito su alcune imputazioni i motoscafisti abusivi accusati di aver spadroneggiato per anni sia al Tronchetto che in piazzale Roma, con metodi mafiosi: minacce agli operatori, cartelli Actv imbrattati per sviare i turisti, pontili altrui usati come propri. Tanto che il giorno dopo, su questo giornale, Loris Trabujo, che secondo l’accusa era il «boss» di piazzale Roma e che secondo la Corte non si è invece macchiato di alcun reato, aveva detto di voler chiedere 5 milioni di euro di danni. «Eravamo dei semplici operatori che lavoravano tranquillamente, spesso con tanto di licenze», aveva detto Trabujo, che poi aveva preso le distanze dal Tronchetto: «Non avevamo nulla da spartire, molti nemmeno li conoscevo». Parole che avevano fatto arrabbiare non poco gli inquirenti, pronti a ricordare come agli atti del processo ci fossero ampie testimonianze dei rapporti tra Trabujo e la banda dei mestrini, fatti da un lato di partecipazioni di massa al suo matrimonio, dall’altro di rapporti di aiuto reciproco: come quando, subito dopo l’incendio di una delle sue barche, Trabujo chiama immediatamente Roberto Paggiarin, detto «Paja», storico leader del gruppo malavitoso legato alla banda di Felice Maniero. Ora però la faccenda si fa anche più seria, perché Galatolo è un mafioso a cinque stelle. Dieci anni di carcere, l’uscita nel 2012, poi un nuovo arresto nel 2013 e quello definitivo lo scorso 23 giugno. Da allora, dopo una lunga meditazione che l’ha portato a lasciare gli avvocati Rosanna Vella e Mauro Serpico (come sempre fa chi si «pente») è iniziata una collaborazione con la procura di Palermo, che nelle ultime settimane ha portato a eclatante operazioni di polizia giudiziaria. Come quella di tre giorni fa, quando 120 finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria e del comando provinciale di Palermo hanno perquisito il bunker dei Galatolo all’Acquasanta, una delle circoscrizioni del capoluogo siciliano. Cercavano il tritolo, perché pare che Vito Galatolo ne abbia parlato agli inquirenti. Lui che secondo i magistrati faceva girare soldi e pizzini sulla tratta Mestre-Palermo, perché era proprio dal luogo in cui viveva come «sorvegliato speciale» che continuava a gestire il clan di famiglia. Ma ora, con il suo pentimento e le sue rivelazioni scottanti, tutto torna in discussione. Venezia. «Bisogna capire di quali complicità si nutre questo sistema, a cominciare da quelle politiche». Quando l’indagine sul Tronchetto una ventina di giorni fa è finita con una raffica di assoluzioni di fronte alla Corte d’appello (che aveva seguito l’indicazione della Cassazione di considerare gli episodi di minacce e intimidazioni come isolati e non come un piano unico), Gianfranco Bettin ha protestato. E si è preso la consueta dose di minacce di morte. Ma il suo avvertimento non è caduto nel vuoto: a gennaio la commissione parlamentare Antimafia e Claudio Fava arriveranno a Venezia per un approfondimento sul Tronchetto. «Un segnale importante, la presenza della commissione antimafia. Importante come la tenacia dei carabinieri del Ros e della Procura, che non se la son messi via», sorride Bettin dopo gli avvisi di garanzia e le perquisizioni di ieri . Da tempo denuncia che il Tronchetto è «terra di nessuno», luogo dove accadono cose inimmaginabili di là dallo spin off in fondo a destra del ponte lagunare. «Questa indagine importantissima non nasce oggi e andrà certamente oltre, con sviluppi importanti. Si prefigura un salto di qualità: l’investimento di Cosa Nostra nel business del turismo che è l’industria veneziana di ieri , di oggi e di domani». Se l’ipotesi investigativa è che dalle intimidazioni e le minacce di casa nostra si è passati ai capitali e alle liason di Cosa Nostra, sul Tronchetto ci sono complicità e silenzi da esplorare, dice Bettin. Politici? «Anche. Tre settori chiave dell’economia cittadina si sono rivelati in mano a forme affaristico criminali: la partita enorme della salvaguardia e quella altrettanto ingente delle bonifiche a Porto Marghera, entrambe parte del sistema del Consorzio Venezia Nuova - riepiloga -. Un sistema criminale di colletti bianchi. Poi c’è il turismo». Ma mentre salvaguardia e Marghera sono sempre stati al centro del dibattuto pubblico, il Tronchetto è sempre rimasto ai margini. «Qualcuno può aver avuto paura di parlare: il settore ha una certa capacità di intimidazione e rappresaglia - spiega -. Un’altra parte può essere coinvolta nel business e quindi ci guadagnava». Consulenze, studi: il cosiddetto indotto. «Vito Galatolo lavorava al Tronchetto, forse si nascondeva a Mestre per progettare l’attentato a Di Matteo, forse cercava sbocchi commerciali sul turismo. Non è un segreto che una a parte della criminalità nostrana, che a suo tempo fu condannata come mafia del Nord, unico caso in Italia, abbia reinvestito sul turismo conclude l’ex assessore all’Ambiente di Venezia -. Si tratta di capire se ci sia stato un salto di qualità con Cosa Nostra. Esattamente come è avvenuto con la camorra, che si occupa del business del turismo e dell’edilizia sul litorale del Veneto Orientale». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I Il fronte contro Venezia di Gianfranco Bettin Il drammatico momento di Venezia, ben descritto sul Gazzettino di ieri da Tiziano Graziottin, ha soprattutto due ragioni. La prima è la difficoltà, a volte l’incapacità, dell’intera classe dirigente della città. La seconda è la difficoltà di rappresentarla e di farla valere, perfino di descriverla, non solo qui ma anche laddove si prendono decisioni chiave per il suo destino, ad esempio a Roma, in parlamento e al governo. Si veda la vicenda, di stringente urgenza, del Patto di stabilità che il Comune rischia di violare. Messi a posto i conti ordinari, con una dura spending review e malgrado i tagli dei trasferimenti statali (meno 66% in quattro anni, contro una media nazionale di poco oltre il 40!), oggi la principale minaccia viene da tale meccanismo complicato da spiegare. Basti dire che si chiede al Comune di realizzare oggi obiettivi definiti sulla base delle risorse che aveva 7 o 8 anni fa. Come se a una famiglia o a un’impresa si chiedesse di rispettare con il reddito di oggi obiettivi definiti in base a quello, ben maggiore, che aveva all’epoca. Se non ce la fai, non potendo né tagliare servizi (ma dopo quattro anni di tagli, cosa ancora si può tagliare senza devastare welfare e lavoro?) né vendere beni (il mercato lo sa, che hai l’acqua alla gola, e aspetta che ribassi sempre più…), le sanzioni ti precipitano in una spirale dalla quale rischi di non uscire più. Tutti i Comuni subiscono il Patto, ma solo Venezia se lo vede caricato di entrate aggiuntive che nascono dalla sua “specialità” (Legge speciale e Casinò, a suo tempo pensati proprio per fronteggiare i grandi costi necessari a sostenere Venezia, che però restituisce allo stato, in termini di Pil, una ricchezza ben maggiore di quella che riceve). Beffardamente, queste entrate di un tempo, oggi minimizzate, fanno lievitare gli obiettivi del Patto e rendono impossibile rispettarlo. Ci sono anche altri problemi - la rigenerazione socioeconomica e ambientale, la ripresa demografica, l’innovazione delle reti tecnologiche, l’apertura di spazi e opportunità per le nuove generazioni, la sicurezza ma senza valicare l’ostacolo del Patto la città verrà ulteriormente impoverita, anche nelle prospettive. Contro Venezia, peraltro, stanno lavorando in tanti, e proprio nel momento in cui, come scrive il Gazzettino, al pari di altre istituzioni e enti del territorio, è “senza testa”, politicamente parlando (istituzionalmente ce l’ha, ma il Commissario Zappalorto, che pure sembra aver capito e preso a cuore la questione, ha limiti ovvii di movimento). Si straparla di privilegi che la città avrebbe, di costi standard che non rispetterebbe, ma non si tiene conto della sua complessità e unicità. Si carica la classe dirigente locale non solo dei suoi limiti o errori, ma anche di cose che dipendono da altri livelli. Era inevitabile sciogliere il Comune, a giugno. Ma non era inevitabile votare, infine, a maggio 2015, si poteva votare lo scorso novembre. Non è inevitabile lasciare com’è il Patto di stabilità. Lo schieramento che ieri ha risposto all’appello della Fondazione Pellicani, in modo trasversale, può cambiare il quadro: ad esempio, anche con uno sciopero generale cittadino o comunque con una corale e grande mobilitazione, come accadde in altri anni, per una memorabile “vertenza Venezia” che fece della città una priorità nazionale. Può costringere o convincere la politica, a ogni livello, a tornare a capire Venezia, a uscire da speculazioni e opportunismi e a riprendersi democraticamente la città, restituendola a un futuro degno della sua storia e delle attese della parte più consapevole dei suoi abitanti e della sua stessa classe dirigente. Pag VII Ici, Comune contro Comunità Ebraica di Alberto Francesconi Contenzioso aperto dal 2011, la controparte eccepisce l’esenzione per gli edifici di culto. Zappalorto autorizza il ricorso per il mancato pagamento relativo a oltre 90 immobili Il Comune passa alle vie legali nei confronti della Comunità Ebraica veneziana. Di mezzo non ci sono dispute religiose ma più prosaiche questioni tributarie, un po’ come avveniva nel passato, quando gli ebrei veneziani erano tenuti a pagare un sostanzioso affitto annuale, periodicamente aggiornato, per poter esercitare le loro attività nel Ghetto. E di Ghetto di parla anche nella questione relativa a oltre 90 immobili che, per il Comune, avrebbero dovuto pagare l’Ici, ma che per la Comunità veneziana, ne sarebbero esenti. La vicenda risale al 2006 ed è stata contestata dal Comune cinque anni dopo, con l’irrogazione di sanzioni per oltre 32mila euro per il mancato pagamento dell’Imposta comunale sugli immobili, poi soppiantata dall’Imu. Nel frattempo la Comunità ebraica aveva presentato ricorso contro le multe eccependo una serie di motivazioni, fra le quali il fatto che alcuni fabbricati risultano destinati al culto e alle attività ad esso collegate. Una materia analoga a quella che da tempo divide lo Stato al Vaticano per le proprietà ecclesiastiche che non pagavano l’Ici in quanto luoghi di culto. Sta di fatto che, nel maggio scorso, la Commissione tributaria provinciale ha parzialmente accolto il ricorso relativamente a una serie di immobili destinati al culto. Una motivazione che al Comune non è andata giù, tanto che il commissario straordinario Vittorio Zappalorto, in sede di Giunta comunale, ha autorizzato il ricorso in Appello alla Commissione tributaria regionale per il recupero delle sanzioni a suo tempo irrogate. A detta del Comune la Comunità non ha «dimostrato in modo puntuale e circoscritto l’effettivo utilizzo di ogni singolo fabbricato per attività meritevoli all’esenzione». Onere che, scrive Zappalorto, spettava alla stessa Comunità. Per questo il commissario ha dato mandato alla Direzione finanza e tributi del Comune di procedere con il ricorso. Oltre alle sanzioni del 2006, peraltro, risulterebbero pendenti anche gli accertamenti relativi al 2007 e al 2008 per gli stessi motivi. Dalla Comunità Ebraica per ora nessun commento ufficiale. Un esponente del Consiglio, il commercialista Giuseppe Salvadori, si limita a osservare che «si tratta di questioni poi risolte con il passaggio all’Imu», per le quali in ogni caso è stato dato mandato a uno studio legale di seguire la questione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Esito modesto di un semestre di Danilo Taino Bilancio critico per l’Italia L’ultimo vertice europeo tenuto sotto la presidenza di turno italiana della Ue, ieri, non è stato un trionfo. Come non sono stati, per il governo Renzi, una marcia trionfale i sei mesi precedenti, soprattutto se misurati sulla retorica che li ha preceduti e sulle aspettative sollevate. Segno che la «strategia dell’impazienza» a Bruxelles funziona meno che a Roma. E soprattutto constatazione che i 28 partner sono oggi più divisi su questioni fondamentali di quanto lo fossero a inizio anno. Ieri lo si è visto prima e durante il Consiglio europeo. L’agenda non era folta ma rilevante: gli investimenti in Europa sulla base del Piano da 21 miliardi (che diventano più di 300) presentato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e i rapporti con la Russia. Sul primo punto, il Consiglio ha accettato le linee di Juncker, ha chiarito che gli investimenti dei governi all’interno del Piano non saranno conteggiati ai fini del patto di Stabilità europeo e ha rinviato la formalizzazione di queste decisioni a gennaio. Dubbi e poca convinzione sull’utilità di questa strategia sono però venuti da più di un membro. Sulla non contabilizzazione a deficit degli investimenti nazionali (la cosiddetta Golden Rule) tutto è invece rinviato all’anno prossimo, ma qui il no di Angela Merkel è netto. Difficile definire questo risultato una svolta in direzione di investimenti e crescita, obiettivo dichiarato di Renzi. Le divisioni sono state ancora più nette sulla posizione da tenere nei confronti di Mosca. Barack Obama e il Congresso di Washington sono intenzionati a intensificare le sanzioni (ieri ne sono scattate di nuove sulla Crimea). Su questo i 28 hanno posizioni diversissime e l’hanno fatto sapere addirittura prima di iniziare la discussione sul tema, durante la cena. Il presidente francese François Hollande ha detto che se Putin facesse «gesti» positivi non solo non si dovrebbero varare altre sanzioni, ma al contrario allentare quelle esistenti. Alcuni Paesi dell’Est vorrebbero invece seguire le orme dell’America. La Germania fa capire di non pensare a una de-escalation delle misure contro il Cremlino. Renzi si è collocato vicino a Hollande: «assolutamente no» a ulteriori sanzioni; e ha aggiunto che sulla Russia occorre fare una riflessione «diversa da quella fatta finora». Posizione controversa nella Ue, che continua a fare apparire l’Italia come uno dei Paesi più disponibili a considerare le argomentazioni di Putin. Un semestre dopo, «svolte» vere e concrete nessuna. E 28 partner più divisi di prima. Esito modesto, si poteva e si doveva fare meglio. Pag 1 La partita del premier di Francesco Verderami Era evidente che la corsa per il Colle non sarebbe potuta rimanere una variabile indipendente della politica, e infatti - per quanto il capo dello Stato abbia tentato di tenere le sue dimissioni slegate dalle questioni di governo e dalle dinamiche parlamentari - da oltre un mese ogni mossa è influenzata e dettata da quell’evento. Tutto insomma ruota attorno alla data d’addio di Napolitano. E nel «triangolo della politica» - che include Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama - ci si stava preparando all’evento per il 14 gennaio: ce n’è traccia nelle conversazioni riservate delle massime cariche e nell’organizzazione del cerimoniale per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che si stava già predisponendo. C’è un motivo quindi se ieri in Parlamento la frase con la quale Napolitano ha annunciato la sua «imminente» decisione, è stata legata al compromesso sulla legge elettorale, la clausola di salvaguardia che sposta al settembre del 2016 l’entrata in vigore dell’Italicum. Si tratta di un elemento con cui Renzi stabilizza il quadro politico, rasserena deputati e senatori sulla durata della legislatura e facilita il percorso delle riforme. Ma il rischio è che i due disegni di legge si fermino in Parlamento a un passo dall’approvazione per dover lasciare strada alle votazioni sul Quirinale. Per favorire il varo dei provvedimenti, e quindi Renzi, Napolitano potrebbe posticipare di qualche giorno le dimissioni, così da lasciare dopo aver raggiunto l’obiettivo: quello cioè di aver consegnato un Paese che si avvia ad ammodernare le istituzioni e dotato di un nuovo sistema elettorale. È da vedere se le previsioni sulla «data» - che accomunano autorevoli esponenti di maggioranza e opposizione - si realizzeranno. Ma già il solo esercizio interpretativo sulle volontà del capo dello Stato testimonia come proprio «la data» sia determinante nelle manovre per il Quirinale. Manovre che sono in corso e si alimentano ogni giorno con le solite voci e i soliti nomi: l’ultimo ritorno di fiamma è Mattarella, ex giudice della Consulta, ministro ai tempi della Dc e anche dell’Ulivo, attorno a cui viene ritagliato l’identikit di Palazzo Chigi. È una personalità che - secondo gli uomini di Renzi - Berlusconi farebbe difficoltà a non accettare, visto che il suo nome richiama all’estremo sacrificio nella lotta alla mafia. Non è dato sapere se si tratti di una mossa diversiva o se l’indicazione sia stata formalizzata al Cavaliere, che di Mattarella rammenta le dimissioni dall’ultimo governo Andreotti - insieme ad altri quattro ministri della sinistra dc - in polemica per il decreto con cui vennero riaccese le tv del Biscione. Una cosa è certa: la corsa per il Colle è troppo lunga per essere già terminata. Anzi, nemmeno è iniziata che si intravvedono i bagliori dello scontro. È bastato che ieri il ministro Boschi prospettasse un metodo, in base al quale il Pd proporrebbe «un nome» agli altri partiti, per far saltare i nervi anche all’Ncd. Parafrasando un famoso slogan della campagna elettorale del ‘48, Cicchitto ha avvisato l’alleato: «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Renzi no»... Altro che Grillo e Salvini: il premier non può perder tempo, e prima di trovare l’intesa con il Cavaliere deve compattare la maggioranza e il suo partito. D’altronde la clausola di salvaguardia sulla legge elettorale non è stato solo un segno distensivo verso Forza Italia, ma anche - anzi soprattutto - verso la minoranza interna. Eppure, proprio nel Pd temono che l’emendamento «salva legislatura» possa essere un cavallo di Troia, perché basterebbe un decreto del governo per cambiare data all’introduzione dell’Italicum. A quel punto, come si comporterebbe il nuovo capo dello Stato? Perciò l’opposizione dem chiede per il Colle «una figura di garanzia». E si torna alla sfida sul Quirinale, sfida che non può iniziare senza l’ufficializzazione dell’addio da parte di Napolitano. Nel frattempo, però, all’ombra della partita decisiva, il premier ne sta giocando altre, e non di secondo piano. L’attesa per il varo dei decreti attuativi al Jobs act ha allertato quanti - da Sacconi a Ichino - temono cedimenti verso il fronte filo-Cgil. Ma Renzi potrebbe smentire se stesso e la campagna che ha fatto in Europa? È Natale, e in Parlamento c’è l’ingorgo. In verità anche a palazzo Chigi, dato che il premier sta pensando di convocare due distinti Consigli dei ministri: l’ultimo nel giorno di vigilia, per mettere sotto l’albero il decreto sull’Ilva. Pag 13 “Fidel scomunicato? Soltanto una leggenda. La Chiesa non scappa” di Gian Guido Vecchi Il cardinal Capovilla sul ruolo di Francesco e del Vaticano Città del Vaticano. «Guardi, prima ancora che di sapienza diplomatica, io vorrei parlare di una grande azione umanitaria e cristiana del Santo Padre e dei suoi collaboratori. Questo è davvero uno dei grandi momenti della storia dell’umanità...». Il cardinale Loris Capovilla, due mesi fa, ha compiuto serenamente novantanove anni e parla con la vivacità e la gioia di un ragazzo. Stava nel Palazzo Apostolico, come segretario di Giovanni XXIII, quando al Papa appena eletto arrivò da Cuba la notizia della rivoluzione di Fidel Castro, all’inizio del 1959. Missionari e suore in fuga dall’isola, l’irritazione di Roncalli e del cardinale Domenico Tardini, suo Segretario di Stato, «perché non si scappa, non si scappa mai: bisogna restare là». Eminenza, sono passati quasi 56 anni e non è un caso della storia che proprio la Santa Sede abbia avuto un ruolo decisivo: tutto nasce in fondo da quella reazione di Papa Giovanni, no? «Da lui e dai suoi successori, fino a Francesco. Il Santo Padre ha fatto sorgere il sole di una bella giornata promettente per tutta la famiglia umana. Ciò che è accaduto lo dobbiamo ai nostri pontefici e a tutti gli uomini di buona volontà che hanno saputo interpretare il pensiero dominante della Chiesa, la pace tra le nazioni». La Chiesa non ha mai abbandonato la via del dialogo. «È evidente. Un religioso non abbandona il campo dove il Signore Iddio lo ha mandato, non è compito nostro scappare. Se ci mandano via allora purtroppo ci tocca andare, se ci arrestano ci tocca purtroppo andare in prigione. Ma un religioso non può dire: adesso con te non gioco più! Io non ti abbandono, anche se mi hai fatto un torto. Con attenzione e rispetto, resto al tuo servizio e a servizio di tutta l’umanità». Non che la via diplomatica fosse accettata da tutti, a un certo punto nacque pure nella Chiesa la voce che Fidel Castro fosse stato scomunicato da Giovanni XXIII... «Macché, non ho mai capito come sia nata questa storia, la parola scomunica non esisteva nel vocabolario giovanneo. Né Roncalli né i successori hanno scomunicato Fidel Castro. Del resto non si tratta solo di diplomazia. Ricordo quando Giovanni Paolo II arrivò a Cuba, già ammalato, e Castro lo accolse con grande rispetto. Lo stesso accadde con Benedetto XVI. Incontrarsi, darsi la mano, guardarsi negli occhi: anche quelli sono passi avanti che il mondo ha accolto con sollievo». Tutto si compie con un Papa latinoamericano: un caso? «Io credo si debba rendere merito alla sua persona. Però non penso che fosse più sensibile alla questione in quanto latinoamericano: non è questione di provenienza geografica, tutta l’umanità ha sofferto di questa ferita». C’è qualcosa che teme, ora? «Noi uomini dobbiamo guardarci sempre dal nostro orgoglio, dagli interessi della nostra congrega. Gli unici interessi buoni sono quelli di tutta l’umanità. Dopo la visita di Francesco in Corea sappiamo che si è aperta una strada nel grande continente asiatico, verso la Cina. Sappiamo che ci sono stati dei contatti...». Il Papa ha detto ieri: «Dio fa la storia e la corregge quando sbagliamo». «È proprio così. Abbiamo vissuto davvero un giorno molto bello che onora tutta l’umanità. Ne verranno degli altri, perché il Signore ci accompagna e gli uomini di buona volontà non mancano. Non bisogna avere paura di andare avanti ma confidare ancora e sempre nel dialogo, con umiltà e preghiera». Pag 29 Se l’analfabetismo ora sbarra anche le porte della rete di Luca Mastrantonio L’Italia e il Web: si accentua la spaccatura tra illetterati e chi legge e scrive (online) Ludwig Wittgenstein, nelle sue riflessioni filosofiche, sosteneva che i limiti del linguaggio di una persona sono i limiti del suo mondo, cioè di tutto ciò che può capire, pensare, esprimere. Per almeno un italiano su tre, Internet è fuori dal mondo, qualcosa che non capisce, cui non vuole accedere. I dati Istat parlano di circa 22 milioni di italiani dai sei anni in su (il 38,3% della popolazione) che nel 2014 non hanno effettuato un accesso a Internet. Un dato che cronicizza vecchi divari e rafforza nuovi conflitti: quello infrastrutturale tra Nord e Sud, quello sociale tra lavoratori attivi e pensionati, e quello anagrafico e linguistico tra vecchi e giovani. L’autoritratto di un Paese diviso: tra chi si fa i selfie e chi dice «autoscatto». Da una parte, a grandi linee, ci sono i «nativi digitali». Giovani nati dal 1985 in poi, cresciuti in un mondo iperconnesso, dove motori di ricerca come Google sono la babysitter tuttologa e social network come Twitter sono la terminazione naturale e spesso immediata del proprio corpo e della propria mente (a volte con effetti nocivi, vedi Mario Balotelli): è connesso l’84% degli italiani tra i 14 e i 24 anni. Dall’altro lato, ci sono le fasce di età più avanzata e in uscita dal mondo del lavoro che non usano Internet. Tra i 65 e i 74 anni, la percentuale di chi non si connette è del 74%, e arriva al 93,4 per gli over 75. Continuano a vivere secondo i propri costumi, antecedenti al web, in un mondo dove il web è in crescita: l’Istat, infatti, segnala l’aumento delle famiglie che hanno un accesso Internet da casa (dal 60,7% del 2013 al 64) e di una connessione a banda larga (dal 59,7% al 62,7%). Restando alla metafora antropologica, si possono chiamare «aborigeni digitali». I blocchi, ovviamente, non sono granitici, né omogenei: molti italiani sono cresciuti in un mondo offline e si sono poi adattati a quello online, sono i «migranti digitali». E il caso di Gianni Morandi, il ragazzo nato nel 1944 che amava i Beatles e i Rolling Stones e oggi, praticamente, vive su Facebook. E ancora, è il caso dei tanti spettatori dello show televisivo di Roberto Benigni, I Dieci Comandamenti : l’età media dei circa dieci milioni che hanno visto ognuna delle puntate su Rai1 era di 57 anni, ma l’evento televisivo - si tratta di «convergenza mediatica» - ha scatenato commenti e condivisioni sui social network, entrando nei trending topic, cioè gli hashtag di successo su Twitter, come #Benigni o #iDieciComandamenti. Ma la vera eccezione, in negativo, riguarda i giovanissimi nati in epoca digitale ma, di fatto, non connessi: non usa Internet, infatti, il 50 per cento dei bambini tra i 6 e i 10 anni (sono un milione e mezzo). Le motivazioni? Il contesto, che è determinante. Lo rivela il caso dei nati nei primi Anni Zero: nei nuclei in cui entrambi i genitori usano la Rete, il tasso di disconnessione scende al 6,7%, mentre in case dove mamma e papà sono offline sale al 40,1%. Si tratta di ragazzi nati nell’era digitale ma tagliati fuori dalle infrastrutture online , che rischiano di essere analogici fuori tempo massimo, «alieni» rispetto ai coetanei digitali. Spesso, ovviamente, si tratta di una scelta, discutibile o meno, di pedagogia o sicurezza: tra i minorenni, il 58% dei non utenti tra i 6 e i 10 anni e il 42,2% della fascia tra gli 11 e i 14 anni non accede al web per scelta dei genitori. Non si tratta, comunque, di un problema solo di infrastrutture o di contesto sociale, ma di forma mentis, e dunque un problema culturale. Lo dimostra il fatto che chi resta offline magari ha uno smartphone , presente nel 93,6 per cento delle famiglie. E ancora, le motivazioni del non accesso a Internet spesso sono personali, psicologiche, cognitive. Gli italiani che non si connettono a Internet lo trovano non interessante (28,7%), non ne sano nulla (27,9%) o ammettono di non saperlo usare (27,3%); c’è chi lo trova inutile (23,5%) e chi dice di non avere gli strumenti tecnici (14,3%); i restanti, pochi, lamentano i costi troppo alti o la paura per la privacy. Quindi? Questo analfabetismo digitale sembra richiamare l’analfabetismo di ritorno, sul quale recentemente è stato lanciato un chiaro allarme da parte di linguisti, storici, professori e docenti: cresce la fetta di popolazione che non pratica, nella forma base, operazioni di calcolo, elaborati di lettura. Matematica e lingua italiana. Elementi basici dell’alfabeto digitale, grammatica linguistica più codice informatico. Come se in Italia, all’unificazione della lingua parlata, che ha vinto sul dialetto grazie alla televisione, stia seguendo una disunità: non semplicemente tra analogici e digitali, ma tra analfabeti (o illetterati), sia analogici sia digitali, e coloro i quali invece leggono e scrivono online. Molti italiani non connessi percepiscono Internet come un linguaggio ignoto, che mostra le spalle; rischia, così, di assomigliare al latino. Lingua universale, nell’età moderna, per la Chiesa e i dotti di tutta Europa; ma incomprensibile e impraticabile per i popoli. Come quello italiano, che nel Dopoguerra assisteva ancora alla messa in latino, senza capirne il senso. LA REPUBBLICA L’esorcismo del premier sul Quirinale di Stefano Folli Renzi ostenta tranquillità ma è un modo per mascherare la paura di un lungo stallo in Parlamento. Non è esatto, come sostiene polemico Renato Brunetta, che il capo dello Stato abbia steso una coltre di nebbia sulla data delle sue dimissioni. Al contrario, il quadro è piuttosto chiaro e non da oggi. Il termine ufficiale del semestre di presidenza europea è il 13 gennaio. Quella è anche la scadenza sempre individuata da Napolitano come fine anticipata del secondo mandato. Ed è, appunto, una scadenza «imminente», giorno più giorno meno. Insistere su di una confusione istituzionale che non c'è, ha poco senso. Tuttavia è vero che in queste settimane di attesa e di transizione c'è chi ha interesse a pescare nel torbido. Ieri Beppe Grillo ha attaccato il presidente con toni di rara violenza (chissà cosa pensa Francesco Storace, che per meno è stato condannato in base al reato di vilipendio). Non c'è da stupirsi: nel vuoto altri attacchi seguiranno prima che le Camere comincino a votare per eleggere il successore di Napolitano (si prevede intorno alla fine di gennaio). Grillo ha trovato questa scorciatoia per tornare a esistere sui giornali e magari per tamponare la piccola diaspora dei parlamentari Cinque Stelle. O almeno provarci. Anche da tali episodi si capisce che le prossime settimane saranno ricche di insidie. Nonostante le apparenze, il punto non è tanto l'incertezza sulla data esatta delle dimissioni di Napolitano, quanto l' incertezza su quello che accadrà subito dopo in Parlamento. Infatti il quadro resta opaco, nonostante l'ottimismo del presidente del Consiglio. Renzi garantisce che «andrà tutto bene» e che deputati e senatori «hanno imparato la lezione del 2013». È un riferimento trasparente al caos di un anno e mezzo fa che portò alla rielezione di Giorgio Napolitano. Ma è anche il segno di una paura che il premier si sforza di esorcizzare fin d'ora. Con quali strumenti? Che il Parlamento abbia imparato la lezione non è facile da credere. Al contrario, la verità è che le forze politiche hanno continuato a sfilacciarsi. Il «renzismo» come filosofia e pratica del potere si è imposto lasciando nel Pd una scia di risentimenti che lo stesso presidente della Repubblica, in modo abbastanza inusuale, ha cercato di arginare criticando con asprezza la minoranza interna. Quanto al centrodestra, nel 2013 la crisi attuale quasi non esisteva. Il panorama parlamentare è quindi frastagliato come forse mai in passato. E la lezione è stata appresa così poco che ci sono voluti mesi per eleggere un giudice della Corte Costituzionale, mentre per un altro non c'è stato niente da fare. Renzi ovviamente vede il pericolo di un lungo stallo. L'elezione del presidente della Repubblica è di solito il paradiso dei franchi tiratori e i 101 voti segreti contro Prodi sono lì a ricordarlo. Oggi occorre davvero molto ottimismo per credere che la storia sarà diversa in assenza di accordi vincolanti. Che per ora non ci sono, sebbene Renzi stia seguendo l'unica strada possibile: rinforzare i paletti della maggioranza, e in primo luogo del Pd, e poi rivolgersi a Berlusconi. Al quale verrà proposta una candidatura espressione dei democratici, ma «non ostile» a lui. In altri termini, il premier rimane fedele alla linea iniziale. Nessuna candidatura condivisa con il fronte berlusconiano, al di là della retorica sul patto del Nazareno, ma un messaggio tra le righe: per Forza Italia il candidato renziano, scelto con accortezza, è sempre meglio di un salto nel buio. Per ora Berlusconi si lascia portare dalla corrente e accetta quasi tutto. Ma nessuno può indovinare cosa accadrà se le votazioni a vuoto cominceranno ad accavallarsi e Salvini, oltre a Grillo, suonerà le sue trombe. Ecco perché Renzi vorrebbe chiudere al più presto. Ma il metodo Cossiga e anche il metodo Ciampi, uno nel 1985 e l' altro nel '99, erano il frutto di un sistema politico che non c'è più. In un Parlamento frammentato il «metodo» non sarà un'architettura decisa a tavolino. Stavolta si dovrà individuare un nome e poi costruirgli intorno una maggioranza credibile. LA STAMPA Russia, anche Putin ammette la crisi di Cesare Martinetti Con quella faccia un po’ così, rossa e accaldata, con quel tono di voce ora pedagogico ora sarcastico, un po’ da ultimo zar, un po’ da segretario generale del Pcus, Vladimir Putin ha riconosciuto ieri che il rublo e la patria sono in crisi. Ed è una novità. Ma come un «piccolo padre» premuroso per il suo popolo ha promesso che tutto si aggiusterà, la colpa è dell’Occidente che «vuol tagliare le unghie dell’orso russo». Unico errore aver vissuto troppo di rendita su gas e petrolio. Ma intanto la crisi c’è, durerà un paio di anni. Eppure già più niente assomiglia a prima e il Moskovsky Komsomoletz, quello che una volta era il quotidiano della gioventù comunista ed è poi diventato un fervente sostenitore del Cremlino, riconosce che la magia si è rotta, e il «mago» non sembra più in grado di controllare tutto. Negli anni di Gorbaciov si faceva la coda per il pane, in quelli di Putin per l’iPhone 6, mobili ed elettrodomestici. Ieri Ikea ha chiuso perché i magazzini sono stati svuotati in due giorni. È teso Putin, tossicchia persino all’inizio della conferenza stampa di fine anno quando non può sfuggire alle domande sulla crisi economica. Poi riprende a poco a poco sicurezza: «In Ucraina abbiamo ragione». E non si risparmia le battute, non teme nemmeno di apparire intollerante quando si irrita perché è stata data la parola ad una giornalista tv che gli chiede dei diritti umani in Cecenia, uno dei temi notoriamente tabù. Ma la giornalista non è una qualunque, bensì Ksenija Sobchak, già protagonista di serie pop in tv che le valsero il soprannome di «Paris Hilton russa» ora diventata fervente oppositrice politica. Ma anche figlia di tanto padre, quell’Anatoly Sobchak (ora scomparso) che fu dissidente (perseguitato) nell’Urss, poi sindaco democratico di San Pietroburgo. La città di Putin, che dopo aver fatto la faccia feroce, indossa subito dopo quella paternalista con la petulante giornalista chiamandola «Ksiuscha», come si usava in famiglia. Lo scambio con Kesnja dà il tono della comparsata di Putin che ha davvero indossato tutte le maschere appese nel guardaroba della storia al Cremlino, compresa quella molto sovietica di quando ha detto di non temere colpi di palazzo perché «abbiamo il sostegno dell’anima e del cuore dei cittadini russi». Confidando però, poi, da vero «liberale», nel fatto che l’economia mondiale si aggiusterà e la Russia tornerà forte. Cosa c’è da aspettarsi ora? Al di là della propaganda si sa che la diplomazia è in movimento, gli europei sono sempre più insofferenti per gli effetti delle sanzioni. E in Russia sarebbe il momento ideale per far emergere un competitor in grado di lanciare la sfida nel 2018. Ma il regime post democratico di Vladimir Vladimirovic, per ora, non lascia spazi. L’ex petroliere Khodorkovksij, dopo dieci anni di Siberia, ha perso smalto. Il blogger moscovita Navalny è agli arresti domiciliari. E la bella Ksenja? Ancora troppo «Ksiuscha». AVVENIRE Pag 1 Un “dono” al mercato di Assuntina Morresi La sentenza Ue e due domande Un embrione umano non può mai essere utilizzato a fini industriali o commerciali. Questo è stato ribadito ieri dalla Corte di giustizia europea, che ha chiarito il criterio in base al quale stabilire quando un organismo si può definire 'embrione umano': deve avere «capacità intrinseca di svilupparsi in un essere umano». In sé la questione è chiara: in base alle normative Ue, non è possibile brevettare l’uso di embrioni a fini commerciali o industriali. La sentenza Brüstle del 2011, emessa sempre dalla Corte di giustizia Ue, includeva nella definizione di embrione anche ovociti sviluppati per partenogenesi, cioè non fecondati ma capaci di svilupparsi a seguito di manipolazioni chimiche ed elettriche. Appellandosi a questa sentenza, l’ufficio brevetti inglese aveva respinto due richieste dell’azienda americana International Stem Cell Corporation (Isco), che riguardavano metodi di produzione di materiale biologico da ovociti sviluppatisi per partenogenesi (i cosiddetti 'partenòti'): poiché gli ovociti così trattati erano esplicitamente considerati embrioni umani dalla sentenza Brüstle, non si poteva brevettare una procedura che ne prevedesse l’uso. La Isco ha avviato un contenzioso sostenendo che, alla luce delle più recenti conoscenze scientifiche, questi ovociti non potrebbero mai diventare un essere umano, perché contengono solamente il Dna materno, e mancano totalmente di quello paterno. La stessa Isco ha anche modificato la sua domanda di brevetto, per escludere qualsiasi manipolazione aggiuntiva di tipo genetico che potesse anche solo in linea di principio portare allo sviluppo di un essere umano. La Corte Ue non risolve contenziosi nazionali, ma con la sentenza ha chiarito l’interpretazione della norma per tutti gli Stati membri, esplicitando la definizione di 'embrione umano'. E con una nota a margine ha precisato la conseguenza dell’applicazione di quel criterio: «Pertanto – si legge – le utilizzazioni di un organismo del genere a fini industriali o commerciali possono essere, in linea di principio, oggetto di brevetto ». Cioè, se si esclude che un ovocita attivato per partenogenesi sia un embrione – e questo lo stabilirà il giudice inglese –, allora la Isco potrà fare domanda di brevetto. Ma qui la storia non finisce: piuttosto, comincia. Innanzitutto la normativa distingue fra 'scoperta', che non può essere brevettata, e 'invenzione', che invece può esserlo, perché implica l’intervento dell’ingegno umano. Quindi, per esempio, organi, cellule e parti del corpo così come si presentano naturalmente non possono essere brevettati – e quindi un ovocita umano in quanto tale non può essere brevettato. Ma possono esserlo le procedure di isolamento, manipolazione o ricostruzione, e quindi, per esempio, potrebbero esserlo i trattamenti degli ovociti che la Isco vuole registrare, e i prodotti che ne seguono. Ed ecco le domande. La prima: fino a che punto è lecita la manipolazione di parti del corpo umano, specie – ma non solo – se a fini commerciali? La seconda: in che modo procurarsi le parti del corpo umano da trattare? Alla prima risponde la normativa quando vieta la brevettabilità nei casi contrari all’ordine pubblico o al buon costume: si riconosce cioè il fatto che trarre profitto da un’attività non è sempre lecito, e si dà spazio a valutazioni di tipo etico, che però non sempre hanno risposte chiare, specie quando sono coinvolte cellule particolari, quali i gameti. Come valutare, ad esempio, una procedura per sintetizzare gameti artificiali, cioè per generare in laboratorio spermatozoi e ovociti a partire da altre cellule? E un futuro 'utero artificiale' potrà essere brevettato come un modello particolare di incubatrice? La seconda domanda si pone da decenni, in particolare per gli ovociti, ma può essere estesa ad altro: è lecito commerciare parti del corpo umano, anche se è il proprio? L’esperienza – ma innanzitutto il buon senso – ci dice che le donne non si sottopongono gratis a trattamenti ormonali e a interventi chirurgici per produrre tanti ovociti da regalare alla ricerca. Lo fanno solo se ben pagate. Ma brevettare una tecnica come quella della Isco significa proporre un’attività commerciale basata sulla produzione e la cessione di ovociti da parte delle donne. Si vorrà mascherare ipocritamente tutto questo con la parola 'donazione'? E poi, di che parleremo: della 'donazione' del corpo umano al mercato? Pag 3 Il non profit e gli scandali, una riforma anti-giungla di Adriano Propersi Bilanci chiari e vertici responsabili: i primi passi Le recenti indagini su Mafia Capitale ripropongono una tematica già vista. Gli scandali toccano soggetti non profit (cooperative sociali, fondazioni e associazioni) che abusano della veste giuridica, che fa presumere finalità non lucrative, per compiere atti ed operazioni illecite portando vantaggi diretti agli amministratori e ai soci occulti. Se guardiamo nell’'archivio reati' del Paese possiamo ricordare centinaia di scaldali fiscali, di abuso nella raccolta fondi (ricordiamo la missione Arcobaleno, o gli interventi umanitari per vari eventi sismici, ad esempio) e di distrazioni di risorse. A questo punto c’è da chiedersi se tutto ciò rientra nella statistica che riguarda una minoranza di soggetti delinquenti, come avviene anche nel settore delle imprese e della Pubblica Amministrazione, o se invece il fenomeno è indotto anche da una carenza di attenzione da parte del legislatore e dei regolatori all’attività del mondo cooperativo e del Terzo Settore. CONTROLLI MENO EFFICACI. Non possiamo non partire dalla considerazione che gli enti non profit sono aziende, cioè organizzazioni di beni e persone che svolgono un’attività istituzionale con contenuti anche economici, svolta senza finalità lucrative. Come le altre aziende (imprese ed enti pubblici) per garantire il perseguimento delle proprie finalità devono gestire le risorse, sempre scarse, in modo efficace ed efficiente e dotarsi di adeguati sistemi di governance che garantiscano il perseguimento e il rispetto del fine dell’ente. A differenza delle imprese – dove prevalgono gli interessi 'proprietari' che si fanno carico della gestione e ne indirizzano gli atti e le finalità – negli enti non profit manca questa figura definita di 'titolarità della gestione': la gestione è demandata a una governance affidata agli amministratori che non hanno il controllo diretto dei portatori del capitale di rischio, come invece avviene nelle imprese. Negli enti non profit si ha quindi per natura un sistema di controllo meno efficace rispetto alle imprese. Ciò avviene anche rispetto alla Pubblica Amministrazione, ove non esistono interessi proprietari ma c’è comunque una normativa di settore molto pregnante e definita che garantisce il perseguimento del fine dell’ente, senza dimenticare la presenza di controlli da parte della Corte dei Conti che ha poteri di intervento con sanzioni sia civili che penali. Questa situazione di fatto e di diritto consente più facilmente a soggetti spregiudicati di 'impossessarsi' della gestione dell’ente anche a vantaggio di interessi propri o di terzi e comunque non leciti. IL RISCHIO DI UNA «GIUNGLA». La natura peculiare del soggetto non profit evidenzia una debolezza strutturale che non è stata nel tempo colmata con adeguate misure normative, volte a garantire la correttezza dei comportamenti degli enti pur in presenza di una crescita continua e tumultuosa delle dimensioni del Terzo Settore. Ci si è limitati cioè a ritenere che la natura ideale, umanitaria, sociale del settore inducesse di per sé comportamenti etici, senza necessità di introdurre misure cautelari specifiche. Al riguardo basti pensare che le norme civilistiche fondamentali fissate dal libro primo del codice civile agli art.14/47 sono estremamente scarse e ad esempio non prevedono nemmeno l’obbligo della redazione del bilancio né l’adeguatezza minima di patrimonio degli enti; anche le regole di governance sono estremamente limitate e non è previsto l’obbligo di controlli esterni sulla gestione. Lo sviluppo del settore a dire il vero è stato accompagnato anche da normative speciali che hanno supplito alla carenza civilistica introducendo norme settoriali per le organizzazioni di volontariato, le cooperative sociali, le Ong, le onlus, le imprese sociali ecc. che hanno via via introdotto anche norme attinenti il controllo e la rendicontazione degli enti. La norma fiscale poi, in ragione dell’abuso che nel tempo si è fatto dello strumento giuridico non profit, ha anch’essa supplito stabilendo regole di governance e di rendicontazione a garanzia dell’effettiva attività non lucrativa svolta dagli enti. Ad oggi possiamo però comunque affermare che il settore è una 'giungla' o una 'galassia' che dir si voglia di norme non coordinate e organiche che lasciano spazio comunque a comportamenti anche non corretti senza specifiche previsioni di cautele regolamentari. I «TASSELLI» NECESSARI PER UNA RIFORMA. Da anni si parla della necessità di trasparenza degli enti e si richiede la redazione di bilanci e relazioni degli amministratori chiari e leggibili, ma è ancora radicata nel settore la tendenza alla riservatezza, spesso giustificata da esigenze di tutelare il perseguimento delle finalità dell’ente, ma che anche lascia spazio ad abusi non controllabili. Non esistono poi registri ufficiali, come per le imprese con il Registro delle Imprese tenuto dalle Camere di Commercio, ove attingere informazioni essenziali sull’ente, sugli organi sociali e sui rendiconti; coesistono invece vari registri regionali, provinciali e nazionali scoordinati e con informazioni parziali. È ormai una 'litania' recitata da tempo e da tutti quella di richiedere la revisione del libro primo del codice civile e di uniformare e semplificare le norme fiscali del Terzo Settore. Ora la riforma del Terzo Settore proposta da Renzi sembra aprire la strada ad una riforma organica, che si augura possa arrivare in porto entro il 2016. Gli obiettivi che si propone il disegno di legge delega sono validi e coerenti con le esigenze del Terzo Settore e dovranno tenere conto della natura peculiare degli enti sopra brevemente indicata e quindi sopperire ai limiti genetici dei soggetti del Terzo Settore. C’è da augurarsi che sia portata avanti una riforma a tutto campo e che includa tutti i soggetti non profit, partiti politici e sindacati inclusi. Facendo riferimento alla vicenda romana cerchiamo di evidenziare alcuni 'tasselli' che dovrebbero essere ordinati per rendere incisiva la normativa per il Terzo Settore. BILANCI CHIARI, TRASPARENTI E PUBBLICI. L’obbligo della rendicontazione economica finanziaria e patrimoniale andrebbe esteso a tutti i soggetti non profit. Le regole essenziali di rendicontazione sono già state emanate dall’Agenzia per il Terzo Settore e si possono trovare sul sito della stessa agenzia presso il ministero del Welfare. Si tratta non di una norma obbligatoria, bensì di un atto di indirizzo che sta gradualmente avendo applicazione nella maggior parte degli enti. Occorrerà renderlo obbligatorio e richiederne la pubblicazione su un unico registro nazionale come avviene per le imprese. L’informativa di bilancio è differenziata in relazione alla dimensione degli enti anche per non gravare di costi gli enti minori. Nella redazione dei bilanci gli enti non profit non possono fare riferimento, come taluni fanno, alle norme delle imprese (art.2423 e seguenti cod. civ.), in quanto nelle imprese il perseguimento della finalità di reddito orienta tutta la struttura del bilancio; la finalità non lucrativa dell’ente richiede invece l’adozione di schemi appositamente costruiti, che diano anche informazioni sulla missione svolta e sui risultati sociali che non possono essere espressi solo dai numeri di bilancio. Gli enti dovranno, ciascuno in relazione alla propria attività, dare informative di missione specifiche con adeguati indicatori di risultato che diano conto dell’attività sociale effettivamente svolta. Dovrà anche essere prevista una norma a tutela e garanzia del patrimonio dell’ente che stabilisca l’entità minima del patrimonio aziendale nei vari casi operativi e siano previste norme di intervento degli amministratori e dei revisori in caso che venga meno l’entità minima del patrimonio aziendale cosi come avviene per le imprese allorquando conseguano perdite che intacchino il patrimonio netto (art.2446 e seguenti cod.civ.). Tale norma eviterebbe situazioni di dissesto aziendale consentendo interventi tempestivi in caso di crisi. L’INFORMATIVA SULLA GOVERNANCE. La presenza di interessi proprietari portatori di capitale di rischio è fondamentale per chi entra in rapporto con le imprese ai fini della valutazione del rischio di intrattenere relazioni con tali soggetti imprenditoriali. Non è così negli enti non profit caratterizzati, come si è detto sopra, da varie tipologie poco regolamentate che hanno come riferimento normativo principalmente le norme statutarie interne e generalmente poco note ai terzi. Da qui la necessità che in modo sintetico possa apparire in un registro nazionale accessibile a tutti una breve descrizione della governance e dei soggetti responsabili della gestione; sarà così possibile risalire alle persone rappresentative dell’ente, rendendo possibile la valutazione del loro profilo e della loro affidabilità. Pag 7 Il “nuovo secolo americano” apre alla leadership allargata di Vittorio E. Parsi Sarà ben diverso il nuovo secolo americano da quello immaginato dai neocon, ai tempi dell’amministrazione di George W. Bush. Allora, i filosofi, i politologi e i semplici propagandisti che si riconoscevano nella dottrina neoconservatrice diedero persino vita a una fondazione dal nome “The New American Century”, che preconizzava, auspicava e lavorava per diffondere l’idea che il XXI secolo sarebbe stato un «secolo americano» tanto quanto lo era stato il XIX. Meno di dieci anni dopo, l’egemonia degli Stati Uniti appare appannata, anche ma non solo per la guida ondivaga dell’attuale presidente, Barack Obama, che tante speranze aveva suscitato alla sua elezione, in gran parte onestamente andate deluse. Sulla speranza e sulla fiducia gli venne persino assegnato il premio Nobel per la pace, caso unico nella sua centenaria storia, e caso a maggior ragione destinato a non ripetersi vista la pochezza dei risultati. Eppure, nella giornata di mercoledì, il ricordo di quel premio è sembrato meno imbarazzante. Non certo perché dal Medio Oriente arrivassero notizie tali da renderlo meno immeritato, ma perché forse l’altro ieri ha iniziato a essere scritta la parola fine alla guerra fredda caraibica, quella che per oltre mezzo secolo ha contrapposto gli Stati Uniti a Cuba e che è complessivamente durata più a lungo della vera Guerra Fredda, tra Stai Uniti e Unione Sovietica, sopravvivendole di quasi cinque lustri. La fine delle ostilità tra Cuba e gli Stati Uniti, a cui si è giunti anche grazie ai buoni uffici del Papa argentino, ci ha simbolicamente reso l’immagine di un altro e diverso “secolo americano” che si va ad aprire, un secolo non più segnato dall’egemonia statunitense sull’intero emisfero occidentale, ma semmai da un nuovo protagonismo e da una nuova vitalità dell’America tutta: dai ghiacci artici alle gelide acque dello Stretto di Magellano. Obama, Raúl Castro e Bergoglio: la più improbabile triade americana che si potesse immaginare solo dieci anni fa, ci hanno consegnato l’icona di un altro possibile ordine, continentale e mondiale. Un ordine fondato dalla ricerca ostinata dell’intesa, del dialogo e delle ragioni della pace, che non rifiuta le dure necessità poste dalle sfide della politica internazionale, ma che nemmeno si arrende impotente alla loro logica talvolta feroce. «Somos todos americanos» ha detto il presidente Obama, nel momento in cui lo storico riavvicinamento veniva annunciato al mondo, e in quella frase è nascosto un riconoscimento implicito di un nuovo multilateralismo capace di liberare le straordinarie energie di quel grande continente. Il nostro secolo potrebbe dunque non vedere la feroce lotta tra un egemone declinante e chi aspira a sostituirlo, ma piuttosto indicare la via della ricerca di un allargamento e di un rinnovamento di quella leadership di cui comunque, ora più che mai, il sistema internazionale necessita. Del resto, dal vecchio continente, laddove un tempo si concentravano la potenza, la ricchezza e tutti gli attributi della sovranità statale, giungono notizie che quasi sembrano fare da pendant a quelle caraibiche. La Russia, che si illudeva e illudeva molti osservatori sulle sue possibilità di rientrare nel novero delle grandi potenze di domani, di poter restaurare l’antica “grandezza” del passato, è oggi travolta da una crisi finanziaria ed economica che è in gran parte frutto della sua incapacità di rinnovarsi, della sua ostinazione a cercare di intraprendere sempre le stesse strade tante volte percorse in passato. E quella crisi potrebbe portare più rapidamente di quanto non tanti non vogliano credere al declino di Putin e del suo regime. La nostra Europa sembra invece decisamente incagliata, alle prese con l’urgenza di un processo di trasformazione che non riesce a compiersi, con il rischio che i sempre più forti marosi della crisi interna finiscano col danneggiare in maniera irreparabile la navicella dell’Unione. L’Occidente così forse non tramonterà, ma piuttosto si rinnoverà, ritrovando energie, ancora una volta, oltreoceano, nelle Americhe piuttosto che nell’America. Ma questo nuovo pluralismo potrebbe portare con sé una capacità inedita di ritrovarsi nelle proprie radici senza che questo necessariamente implichi il consolidarsi di una contrapposizione sterile e pericolosa con ciò che Occidente non è. Il nuovo secolo (pan)-americano potrebbe essere in grado di dare vita a nuove inedite forme di relazione con l’Asia e con quella Cina che è anch’essa alla ricerca di una sua inedita via, capace di coniugare lo sviluppo interno con una maggiore equità e la propria ascesa con la stabilità continentale. IL GAZZETTINO Pag 1 Cuba, sul disgelo l’incognita del congresso Usa di Mario Del Pero Accuratamente preparato e discusso, l’annuncio di Barack Obama e Raul Castro ha nondimeno sorpreso. Pochi si aspettavano un’azione così incisiva e coraggiosa, da ambo le parti, e l’avvio di un percorso che, per quanto destinato a incontrare numerosi ostacoli, appare oggi ineluttabile. Ma perché Obama ha deciso proprio ora di riaprire le relazioni diplomatiche con Cuba e di allentare, laddove possibile, l’embargo economico nei confronti dell’isola? Quali sono le condizioni che hanno permesso questa decisione e quali le possibili conseguenze? Gli obiettivi, innanzitutto. Con questa iniziativa Obama facilita l’uscita dall’isolamento non solo di Cuba ma degli stessi Usa. Sempre più soli nel mantenere una politica di rigidità ed ostracismo verso Cuba e sempre più criticati dal resto della comunità internazionale. L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato più di venti risoluzioni nelle quali si chiede la fine dell’embargo statunitense contro L’Avana. L’ultima di queste risoluzioni risale a poche settimane fa ed è stata votata da 188 dei 193 membri dell’Assemblea. A questo isolamento politico è corrisposto, nell’ultimo ventennio, un crescente isolamento economico: laddove Cuba si apriva agli investimenti stranieri, essa continuava a rimanere in larga misura off-limits per quelli statunitensi. Ciò avveniva in un contesto regionale nel quale l’influenza e il peso degli Stati Uniti diminuivano rapidamente. E anche il desiderio di riacquisire una centralità nelle Americhe almeno in parte perduta spiega l’iniziativa di Obama su una questione, Cuba, che ha spesso alimentato frizioni e scontri tra gli Usa e i loro partner latino-americani. Infine incide il valore simbolico della decisione, che di certo non sfugge ad altri interlocutori di Washington, a partire da quello iraniano, verso i quali il messaggio intende essere inequivoco: liberata da vincoli elettorali e desiderosa di lasciare un marchio significativo in quest’ultimo biennio di governo, l’amministrazione statunitense si muoverà con quel coraggio e quella incisività che le sono spesso mancati nei precedenti sei anni. Lo farà, però, soprattutto se le condizioni lo permetteranno. L’assenza di relazioni diplomatiche e il persistere di uno stato di guerra fredda tra i due paesi rappresentavano davvero degli anacronistici cimeli di una storia ormai terminata. Passati sono i tempi in cui Chuck Norris sgominava i tentativi cubani d’invasione degli Stati Uniti; passato è il timore che un fuoco rivoluzionario sempre più flebile e bolso si estenda da Cuba al resto del Continente; passato è quel convincimento molto trionfalistico del post-guerra fredda secondo il quale l’irrigidimento dell’embargo e l’intensificazione delle pressioni avrebbero fatto crollare il regime; passato è infine anche il peso politico di una comunità cubano-statunitense che, per la centralità della Florida nelle elezioni presidenziali, ha spesso tenuto in ostaggio la politica statunitense verso Cuba. La comunità cubana negli Usa è oggi divisa secondo linee di frattura generazionali assai marcate. I figli degli esuli anti-castristi e gl’immigrati più recenti hanno una posizione meno dogmatica e legata al passato. Sono favorevoli alla fine dell’embargo e alla normalizzazione delle relazioni. Sognano un futuro d’interdipendenza e di abbattimento delle barriere e non la prosecuzione di una contrapposizione ormai priva di significato. Ecco perché il processo apertosi appare ineluttabile. Ineluttabile ma non semplice. Il fronte repubblicano ha infatti a sua disposizione molteplici strumenti per ostacolarlo e rallentarlo. Obama ha già iniziato a usare i suoi poteri presidenziali per attenuare un embargo la cui rimozione completa necessita però del voto congressuale. Un congresso che potrebbe far mancare i fondi per la riapertura dell’ambasciata statunitense a Cuba o bloccare la nomina del nuovo ambasciatore. Probabile che ciò avvenga. Anche se, per una volta, l’iniziativa politica sembra essere in mano al Presidente e ai democratici, nella consapevolezza che l’incapacità di molti repubblicani a uscire dalla guerra fredda potrebbe avere anche dei costi elettorali già a partire dal 2016. Pag 27 I bambini di Peshawar e le vittime causate dall’Occidente “civile” di Massimo Fini Quando si parla di Talebani si fa una certa e voluta confusione fra talebani afgani e quelli pakistani. Sono due movimenti diversi, che operano in realtà radicalmente diverse, che hanno mentalità diverse. I talebani afgani, guidati dal Mullah Omar, dopo l'invasione americana-Nato del 2001, si battono contro l'occupazione dello straniero in una guerra che dura da 13 anni. In Pakistan non c'è un'occupazione straniera, ma una guerra civile fra gruppi integralisti e il governo di Nawaz Sharif. Diversa è anche la mentalità. Gli afgani, talebani o no, non sono mai stati terroristi. Sono stati costretti a diventarlo, e solo all'interno del proprio Paese, dopo l'occupazione americana. Nel 2006 i comandanti militari talebani chiesero un incontro al Mullah Omar e gli dissero: «Noi non possiamo continuare a combattere con le abituali tecniche di guerriglia, perché di fronte abbiamo un nemico invisibile e irraggiungibile: gli americani usano solo l'aviazione e i droni». Chiesero quindi l'autorizzazione a utilizzare anche metodi terroristi. Omar, in linea di principio, era contrario. Perché l'attentato terrorista, per quanto mirato, provoca inevitabilmente vittime fra i civili e di tutto hanno bisogno i talebani afgani tranne che di alienarsi le simpatie della popolazione sul cui sostegno si basa la loro lotta di resistenza all'occupante straniero. Comunque alla fine, di fronte all'evidenza, dovette cedere alle richieste dei suoi comandanti e autorizzò il terrorismo ma solo contro obbiettivi militari e politici. E così è stato, in Afghanistan. Attacchi come quello perpetrato tre giorni fa dai talebani pakistani di Tehrik-i-Taliban Pakistan che ha ucciso ragazzini e bambini, sia pur di una scuola militare e figli di militari, non si sono mai visti in Afghanistan. Il portavoce del Mullah Omar, Zabihullah Mujahid, ha condannato senza mezzi termini questo eccidio: «L'Emirato islamico d'Afghanistan è scioccato da quanto è avvenuto e condivide il dolore delle famiglie dei bambini uccisi nell'attacco». Dichiarazione opportunamente occultata, che io sappia, da tutta la stampa dell'Occidente (con l'eccezione virtuosa di RaiTre) che ha interesse a fare di tutta l'erba un fascio per nascondere la guerra infame che sta conducendo in Afghanistan. Tuttavia un legame fra quanto accade oggi in Pakistan e il movimento di liberazione talebano in Afghanistan c'è. Il 5 maggio del 2009 gli americani, convinti che i leader talebani si nascondessero nelle zone montuose a cavallo fra Afghanistan e Pakistan convinsero, o piuttosto costrinsero, il corrottissimo presidente del Pakistan Asif Ali Zardari, a lanciare un'offensiva devastante contro la valle di Swat, pakistana. I profughi furono due milioni. I morti non calcolati e incalcolabili (i giornali occidentali titolarono «Due milioni in fuga dai Talebani» mentre invece fuggivano dalla violenza dell'esercito pakistano). Di recente lo stesso copione si è ripetuto, anche se i profughi questa volta sono stati 'solo' un milione. Posto che è assolutamente turpe colpire dei bambini, si può capire, anche se in alcun modo giustificare, quanto ha detto il portavoce di Tehrik-i-Taliban Pakistan, Omar Khorasan: «È la nostra risposta alle vostre aggressioni che ammazzano i nostri figli, le nostre donne, distruggono le nostre case. Adesso anche voi proverete un poco del nostro dolore». Oggi tutte le 'anime belle occidentali' si sdegnano per i bambini assassinati a Peshawar. Avrebbero un minimo di credibilità se si fossero sdegnati almeno una volta, una sola, per le migliaia di bambini assassinati, per mano nostra, in Afghanistan o per quelli uccisi, su nostro ordine, dall'esercito pakistano in Waziristan. E a questo proposito voglio ricordare che durante la seconda guerra mondiale gli americani buttarono su Berlino, Dresda, Lipsia delle 'bombe giocattolo', in realtà delle mine su cui i bambini tedeschi, curiosi, si avvicinavano saltando per aria. La cultura superiore. LA NUOVA Pag 1 Paese ancora in mezzo al guado di Andrea Sarubbi «Dopo tutti i saluti che ho fatto, sarà ancora più bello farmi eleggere per la terza volta»: su Twitter si scherza, e l’account satirico Moniti di Re Giorgio è una fonte inesauribile di battute, ma al Quirinale si comincia a fare sul serio. Non sono una novità le dimissioni: anche due anni fa, al momento della rielezione, si sapeva che il bis era in realtà una proroga, per consentire all’Italia di uscire dal fosso. Che il Paese ce l’abbia fatta, però, è ancora da dimostrare. L’allora presidente uscente - forse non occorre nemmeno ricordarlo - accettò la rielezione perché il Parlamento si era incartato. Marini e Prodi, candidati ufficiali, erano stati impallinati dai franchi tiratori; Amato e D’Alema, nomi pronti a venir fuori, non avevano i numeri, così come, per motivi opposti, Rodotà. Era l’epoca in cui i Cinquestelle erano compatti, e il patto del Nazareno ancora non era stato firmato: il Pd, da solo o con un pezzo di Sel, non poteva farcela. Ecco allora la soluzione d’emergenza: un altro po’ di tempo a Giorgio Napolitano, per riprendere fiato e riprovarci in un momento migliore. Se fosse tutto qui, davvero, non ci sarebbe niente da aggiungere. Perché in effetti, rispetto ai tempi più difficili trascorsi da Enrico Letta a Palazzo Chigi, oggi la maggioranza parlamentare di Renzi ha una base di partenza più larga (i fuoriusciti di Sel e alcuni transfughi di Grillo, tanto per cominciare) e un’accresciuta forza contrattuale nei confronti di Forza Italia, che a sua volta è mangiata dalla Lega e che - se vorrà ancora dire la sua sulle riforme costituzionali - deve necessariamente piegarsi a una linea più morbida. Se, insomma, la proroga del presidente uscente doveva servire soltanto a far passare la nottata, la missione è più o meno compiuta. In realtà, però, il discorso di re-insediamento di Giorgio Napolitano diceva ben altro, mettendo dei paletti ben precisi: il varo delle riforme costituzionali - e in primo luogo quella elettorale, che avrebbe dovuto correggere il Porcellum sul premio di maggioranza e sulle liste bloccate - e di quelle economiche, che avrebbero dovuto dare una risposta alla crisi sul fronte strutturale. «Se mi troverò dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato - chiosò il capo dello Stato nell’Aula di Montecitorio, puntando il dito contro quello stesso Parlamento che lo applaudiva - non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». Ovvero, tradotto in linguaggio corrente, «mi dimetterò e lascerò al mio successore, ammesso che riusciate a trovarne uno, il compito di decidere sulle sorti della legislatura». Per se stesso, insomma, Napolitano aveva previsto un ruolo di traghettatore e di pontiere, senza prevedere quello che sarebbe successo nei mesi successivi: non immaginava probabilmente che il Pd avrebbe sostituito il presidente del Consiglio, né vedeva all’epoca alternative a un accordo con Berlusconi. Ma chiedeva riforme in cambio della propria permanenza, e ora - alla vigilia delle dimissioni - parla come se tutto fosse davvero compiuto: sia negli auguri di martedì alle alte cariche istituzionali, sia in quelli di ieri al corpo diplomatico, ha dato ad alcuni (anche a parlamentari di maggioranza, per la verità) l’impressione di voler trarre conclusioni un po’ affrettate, mentre invece è ancora tutto in mare aperto e le previsioni del tempo non escludono tempeste. Si può parlare di riforme economiche strutturali, che abbiano risolto i problemi cronici dell’Italia anche rispetto ai parametri europei? No, se guardiamo le reazioni di Bruxelles rispetto ai provvedimenti di questi mesi: la crisi non è alle spalle, la spending review di Cottarelli è stata utilizzata anche per scopi congiunturali, se non arriva la ripresa economica sono guai. E sul fronte istituzionale? L’Italicum (solo per la Camera, tra l’altro) è ancora nel guado, a metà tra le modifiche al Senato e la tentazione del voto col vecchio Mattarellum; la riforma del bicameralismo non ha ancora finito la prima navetta, e ogni volta salta fuori qualche modifica. Tutte buone intenzioni, che evidentemente lasciano Napolitano tranquillo. Ma l’Italia, a differenza del suo stanco presidente, non può permettersi di riposare. Pag 1 Così usciamo dalla crisi senza merito di Ferdinando Camon Ieri i giornali riportavano la previsione che col nuovo anno ci sarà anche per noi italiani l’uscita dalla crisi: non nel senso che la nostra economia correrà come nei tempi anteriori alla crisi, ma nel senso che la produzione smetterà di calare e segnerà una piccola crescita. E non alla fine del 2015, ma fin dal primo trimestre. Sono previsioni rischiose, perché riguardano eventi che non dipendono solo da noi, ma anche dagli altri, in Europa e nel mondo. Tuttavia se a formularle sono più fonti, appaiono meno insicure. La crisi dura ormai da troppo tempo. Siamo fra gli ultimi a uscirne. E l’uscita, se sarà questa, si avvicina d’improvviso, senza preannunci. Perché non l’abbiamo preparata con qualche grande rivoluzione interna. Non abbiamo fatto grandi riforme, non abbiamo inventato un grande prodotto, non abbiamo varato una grande legge che metta fine alla corruzione, una che faccia funzionare in maniera rapida il Parlamento, che sblocchi la giustizia, che ci faccia votare in maniera più democratica, che stabilisca un buon rapporto dare-avere tra cittadini e Stato, e tra regioni e Stato, una riforma scolastica che faccia uscire dalle nostre scuole superiori e dalle università dei giovani diplomati e laureati in grado di reggere e possibilmente vincere il confronto con i coetanei europei… Finché non faremo queste rivoluzioni, non meriteremo di uscire dalla crisi. Sulla corruzione Renzi ha sbandierato nuove norme, con le quali allunga la prescrizione e aumenta le pene. Ma in Parlamento qualcuno gli aveva proposto una leggina brevissima e chiarissima: «Per i reati di corruzione commessi dalla o con la amministrazione pubblica, le sanzioni penali e civili, e i tempi della prescrizione, sono raddoppiati». Questo per indicare che la corruzione commessa da chi ha, o con chi ha, un ruolo pubblico, va punita più severamente degli altri reati. Chi ruba all’amministrazione pubblica ruba al popolo, e in questo momento rubare al popolo vuol dire rubare a chi non ha il necessario. Tre giorni fa siamo finiti sulla prima pagina del New York Times per la facilità e la frequenza dei reati di corruzione, e per l’incapacità di punirli. Ci voleva quella leggina. Il mondo l’avrebbe apprezzata. Siamo una repubblica da settant’anni, e non sappiamo ancora con quale sistema votare. E questo perché, al momento di scegliere il sistema, i partiti cercano il sistema più utile a loro, non al paese. I partiti rappresentano interessi separati, e spesso contrari, a quelli dello Stato. Le nostre regioni sono divise da sistemi fiscali contrastanti fra loro, e questo dovrebb’essere un problema per l’Europa: non dovrebbe l’Europa dire qualcosa a uno Stato che differenzia il trattamento fiscale dei suoi cittadini? Abbiamo segretari di partito condannati per corruzione che continuano a presenziare al Parlamento, riscuotendo lo stipendio. Abbiamo consiglieri regionali condannati, ma che conservano il vitalizio. Non sappiamo punire la corruzione, perché si ammanta di un’aura di merito: chi ruba molto è molto bravo, e i grandi colpevoli suscitano il timore popolare. Anche in prigione: quando un capo-clan, che ha fatto grandi rapine, va in carcere, riceve un trattamento di riguardo dagli altri detenuti e dalle guardie. Perfino i gerarchi nazisti (spero che non ce ne siano più) entravano in carcere per le stragi che avevan comandato, e venivan salutati col grado: «Signor capitano, signor maggiore…». Su pensioni d’oro e stipendi d’oro Renzi aveva grandi progetti, ma son rimasti sulla carta, tutti li volevamo ma urtavano gl’interessi di pochi potenti, e i pochi potenti possono più del popolo. La crisi era/è il momento giusto per rivedere questi squilibri. La crisi permette o impone riforme audaci. Ma non le abbiamo fatte. Se davvero (come i giornali dicono, come tutti speriamo) stiamo per uscire dalla crisi, ne usciamo con lo stesso Stato che ha meritato di entrarci. Non è un buon segno. Torna al sommario
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