Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶22 dicembre 2014¶N. 52 8 Società e Territorio Rubriche Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’arte di provocare Umberto Eco lo diceva già negli anni Sessanta: «Se voglio diventare famoso vado in televisione e mi spoglio davanti alle telecamere: il giorno dopo sarò su tutti i giornali». Eco, con la sua solita arguzia, stigmatizzava la moda delle celebrità televisive costruite sul nulla – sulla parolaccia (che a quel tempo non era ancora, nei programmi televisivi, una consuetudine irrilevante com’è oggi, ma costituiva un fatto trasgressivo), sugli insulti, sulle battute strampalate o sull’abbigliamento strambo. A quanto pare, quell’arguzia è stata profetica: recentemente le cronache svizzere hanno riferito di due iniziative artistiche che convalidano l’intuizione di Umberto Eco. A Bienne, in maggio, si è svolta una manifestazione artistica che un quotidiano ticinese presentava così: «Nudi d’autore a Bienne in pieno centro»; ossia, una ventina di persone – maschi e femmine – ha eseguito una passeggiata esibendosi nuda per le vie della città. Perché, poi, fossero «nudi d’autore» non mi è affatto chiaro – a meno che per «autore» s’intendano gli uomini e le donne che li hanno generati; ma simili autori tutti li abbiamo avuti, e non per questo, di solito, ci riteniamo opere d’arte da esporre in pubblico. Un mese dopo, in giugno, s’inaugurava a Basilea la manifestazione Art Basel, ma l’artista e modella svizzera Milo Moiré ha distratto l’attenzione dei potenziali visitatori avviandosi nuda con qualche scritta sul corpo all’ingresso dell’esposizione. Anche la sua esibizione – una performance alla quale non è nuova – fa parte di quel movimento artistico che va sotto il nome di body art e che usa un corpo nudo, bello o brutto che sia, come strumento di espressione artistica. Quando temo di essere antiquato perché non riesco ad apprezzare una sfilata di nudisti come prodotto artistico, è tutt’altra cosa: è urtare la sensibilità comune, infrangere tabù, dissacrare, disgustare. È nota la «provocazione» di Piero Manzoni che nel 1960 mise in scatola i suoi escrementi: ne fece novanta scatole contenenti ciascuna 30 grammi del suo prodotto bio fatto in casa, ci appose l’etichetta «Merda d’Artista» e le mise in vendita per 30 grammi d’oro ciascuna. È sorprendente che nel 2007 uno di questi pezzi sia stato venduto a un’asta di Sotheby’s a Milano per 124 mila euro: forse, come la faceva lui, non ci riusciva nessun altro… La mia impressione è che la provocazione, oggi, sia una giustificazione arbitraria per chi non ha nulla da dire ma vuole dire comunque. Questo fa parte di un processo storico che ha consumato i linguaggi consueti, per cui in gran parte è vero che tout est dit: nel romanzo e nella poesia, nella musica e nell’arte figurativa. Quando tutto è detto, chi vuol ancora parlare, per essere originale, deve sconvolgere la prassi comunicativa. Già all’inizio dell’Ottocento John S. Mill temeva che un giorno si sarebbero esaurite tutte le possibili combinazioni musicali: e infatti, nel primo Novecento, si tentò un rinnovamento del linguaggio abbandonando la musica tonale per quella dodecafonica (che, benché così ne dicano i detrattori, non ha nulla a che vedere con i cafoni!). Quando «tutto è detto», si finisce nell’indicibile. È facile constatare che tanta arte d’oggi non parla immediatamente, o è molto difficile farla parlare: in questi casi, di solito, al posto dell’opera d’arte parla il critico d’arte. Quanto più ermetico è il messaggio, tanto più lungo è il discorso del critico che cerca di trarne un senso. Oppure, si passa semplicemente alla «provocazione». Come nelle dispute e nei bisticci: quando mancano gli argomenti, si passa agli insulti. l’ebanista bavarese e frate laico Gabriel Loser (1701-1785) che le realizza tra il 1764 e il 1766. Una galleria in noce e ciliegio con parapetto intagliato corre per tutta la sala ondeggiando in corrispondenza dei sei grandi blocchi di libri lì come pilastri del sapere: sotto ritmati da dodici lesene sostenute da altrettante colonne ornamentali corinzie in radica di tuia, al piano di sopra più spartani. Qui, dove solo trentamila libri dei centosessantamila in possesso sono esposti, c’è una tranquilla maestosità illuminata da ventiquattro finestre velate da tende color perla. Se le scostate, da una parte, distorto dal vetro fatto di esagoni, il cortile interno con porta da calcio. Dall’altra, Gallusplatz colma di abeti in vendita. Il soffitto a volte stuccate si apre in quattro squarci a forma di capesante. Gli stucchi eseguiti (1761-62) come flutti marini sono opera dei fratelli Johann Georg (1710-1765) e Matthias (1733-1796) Gigl di Wessobrunn, in Baviera. Affreschi color cielo minaccioso, raffiguranti i primi quattro concili ecumenici, sono di Joseph Wannenmacher (1722-1780). Disseminate, sette teche con i manoscritti della mostra su Giustizia e Diritto, una delle quali è assalita da un gruppo con la solita guida rovina-silenzio. Se la pantofola aggiunge giocosità interattiva e uno scivolare domestico, preservando il parquet in abete intarsiato con stelle e viticci, non elimina lo scricchiolìo. A caccia di titoli curiosi, tra i libri riposti nelle nicchie, chiusi a chiave e protetti da esili grate, ne spunta uno di Humboldt sulla lingua Kawi. Scovo un corvo impagliato accanto al ritratto dell’abate Cölestin, sopra la porta chiusa al pubblico per la scala a chiocciola che sale in galleria. «È il ricordo di un’installazione di Steiner & Lenzlinger nel 2005» mi dice la signora Egli che ora rimprovera un russo per delle foto furtive. Sparsi sopra le colonne, una ventina di putti. Ognuno con il suo mestiere, come i puffi: dal putto giardiniere al putto poeta. Sulla porta a nord c’è un quadro con la copia della scultura di Santa Cecilia giacente su un fianco (1599) fatta dal ticinese Stefano Maderno nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere. Lì vicino, in fondo alla sala, in una teca per manoscritti, la mummia. È Schepenese: donna egiziana vissuta seicento anni circa avanti Cristo e morta dopo i trent’anni. Approda nella biblioteca abbaziale nel 1836: venduta dal landamano Karl Müller-Friedberg che l’aveva ricevuta in regalo assieme ai suoi sarcofaghi da un amico di famiglia residente ad Alessandria d’Egitto. Sul sarcofago interno in sicomoro, a due pezzi, affiancato come una matrioska da quello esterno più grande, in tamarindo, ci sono dei pittogrammi: la scrittura geroglifica si ricollega alla calligrafia amanuense esercitata qui secoli dopo. A passo felpato, faccio ancora un giro, pensando al manoscritto B dei Nibelunghi conservato qui da qualche parte. di una realtà che sta assumendo non soltanto un peso, in termini numerici, ma sempre più uno spessore, in termini di contenuti: cioè sentimenti e opinioni spontanei di cui tener conto. Questo, infatti, è il nuovo aspetto dei social network che, da passatempo individuale, persino narcisistico, di utenti, che si mettono in mostra e raccontano faccende private, ha conquistato una dimensione veramente sociale. Si tratta, insomma, di una voce, che trasmette umori e malumori diffusi, indizi di tendenze che, nell’era dell’antipolitica, meritano l’ascolto degli addetti ai lavori della cosa pubblica. Se n’era accorto, la scorsa estate, Emanuele Bertoli, quando con il suo discorso del 1. agosto, aveva suscitato dissensi e perplessità affidati, innanzi tutto alla rete. Del resto, l’uso politico del mezzo ha ormai alle spalle una tradizione: l’aveva collaudato, con successo, Obama, durante la sua prima campagna elettorale. Con ciò, il salto di qualità non deve far pensare, automaticamente, a una riabilitazione culturale e morale della rete, sempre esposta ai tipici rischi del virtuale: creare dipendenza e facilitare cattivi incontri, situazioni frequenti fra i giovani, assidui frequentatori di questa piattaforma comunicativa. Ed è un pericolo, percepito nelle nostre scuole, dove si è corsi ai ripari organizzando corsi, affidati a Paolo Attivissimo, specialista informatico e divulgatore: l’obiettivo è preparare gli allievi all’uso appropriato dei social, superando infatuazioni e pregiudizi. Succede, infatti, a ogni svolta tecnologica, il nuovo strumento affascina e in pari tempo sconcerta. Soprattutto agli occhi degli anziani, sembrano tutte diavolerie. È una storia che si ripete. Agli inizi del 900, le prime auto spaventarono i contadini e le galline… che non avrebbero più fatto uova! Del resto, lo stesso Mark Zuckerberg, uno dei padri di Facebook, è consapevole dei pericoli innescati dalla sua invenzione, e dichiara: «Ho commesso errori, dai quali ho cercato d’imparare per liberarmi dalla dipendenza dal nuovo mezzo». Ma, tornando all’episodio luganese, al di là del potere della rete veicolo di comunicazione, emerge il significato di un messaggio chiaramente decifrabile. Le simpatie, dirette a Jörg, si contrapponevano alle antipatie, espresse o sottintese, destinate a un marchio, simbolo di lusso. Si apre, qui, un tema ad alto rischio moralistico e demagogico. Ci si muove su un terreno scivoloso, dove i sentimenti rimangono confusi e divisi. Da un lato, le boutiques blasonate sono ambite: anche Lugano le sfoggia, alla stregua di un elemento decorativo e di un incentivo turistico. Via Nassa, dunque, come via Montenapoleone, via Condotti, Madison Avenue, ecc. D’altro canto, però, questa presenza induce a una riflessione d’ordine razionale e morale. Certi cartellini di prezzo, che accompagnano abiti, borse, orologi, gioielli, mettono addosso un brivido d’incredulità e raggelano la passeggiata sotto quei portici. Ci si sente spaesati, in un’isola assurda. Invece, appartiene, e come, a un mondo reale, che procura lavoro, stimola talenti, riempie le casse. Come, si usa dire, fa girare la ruota dell’economia. Con l’ottimismo, che è d’obbligo a Natale, speriamo che sia così. mi consolo pensando a quanto diceva il grande storico dell’arte Bernard Berenson: «Il nudo non è lo spogliato». Quando si ammira la Venere del Botticelli, o quelle di Tiziano o di Giorgione, si coglie ben altro al di là dell’appetibile bellezza delle forme femminili: l’incanto delle luci e delle ombre, l’armonia della composizione, tutto ciò, insomma, che non può essere detto ed eccede di gran lunga il soggetto raffigurato e induce a sognare, al di là dell’immagine, una bellezza più alta, quasi un rinvío all’Idea platonica. Nulla di tutto questo ispira il crudo esibizionismo della body art: la sua giustificazione non sta, infatti, nelle forme esibite – magari anche brutte e deformi – ma in una sola parola: provocazione. Beninteso, anche gli artisti del passato che in qualche modo rompevano con una tradizione di maniera risultavano provocatori. Ma la provocazione chiamata a giustificare certa arte d’oggi Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La biblioteca abbaziale di San Gallo In fondo al corridoio, una distesa di pantofoloni in feltro. Ogni visitatore deve infilarci dentro le scarpe prima di entrare. «Farmacia dell’anima» c’è scritto in greco maiuscolo, nel cartoccio dorato fiancheggiato da due putti, sopra la porta d’ingresso in noce con i due battenti spalancati. Attrazione turistica maggiore di San Gallo e location del best-seller Signorina Stark (2001) di Thomas Hürlimann collocata al secondo e terzo piano nell’ala sud dell’ex abbazia benedettina fondata nel luogo scelto verso il 612, per la sua cella d’eremita, dal monaco colombaniano Gallo. Eponimo di questa città nota – oltre che come scriptorium rinomato sin dal medioevo e per l’attuale collezione importante di manoscritti e incunaboli – anche per i pizzi, i bovindi decorati, i bratwurst. Sulla soglia, come un buon odore di whisky, provocato credo dal mix delle antiche rilegature in cuoio e boiserie varie; corrente d’aria fredda mentre intravedo i dorsi dei libri in curva. Pregusto con l’attesa della visita imminente, la vista della famosa sala tardobarocca di una delle biblioteche annoverate tra le più belle al mondo, i cui lavori voluti dall’abate Cölestin Gugger von Staudach (1701-1767) e affidati al capomastro austriaco Peter Thumb (1681-1766), iniziano nel 1758. E così un pomeriggio sotto Natale slitto dentro la biblioteca abbaziale di San Gallo (675 m). Nonostante le foto mozzafiato viste in internet, rimango di stucco. Il rococò non è il mio genere ma qui c’è qualcosa che travalica i gusti e t’investe di grazia. L’orchestrazione di tutti gli elementi nello spazio è da capogiro. Un’armonia vertiginosa tra contrasti e allitterazioni. Stucchi increspati sul soffitto a volte, onde delle librerie in legno intermittenti, vani delle finestre dove un tempo i monaci erano ai loro scrittoi. Libri a parte, mi sa che sono le parti in legno, il cardine del rapimento ottico. L’autore è Mode e modi di Luciana Caglio Quando la rete fa opinione E merita anche l’ascolto di un sindaco. Com’è successo, giorni fa, a Lugano, dove Marco Borradori, con la sua diplomazia del sorriso, è riuscito a risolvere un diverbio, piccolo ma increscioso proprio per il luogo e il momento in cui era, inopportunamente, scoppiato: via Nassa sotto le feste. Protagonista, o piuttosto vittima, dell’episodio, il suonatore d’organetto, in tuba e frack, Jörg Wolters, figura ormai familiare, bene accolta nelle strade e piazze ticinesi. Con un’eccezione che, appunto, ha fatto notizia: lo slargo, agli inizi di via Nassa, diventata per lui zona off limits. Qui, infatti, due addetti alla sicurezza della boutique Hermès gli avevano bruscamente ingiunto di sloggiare, dato che quel suono infastidiva la gerente del negozio. Ora, quest’intervento abusivo e arrogante non poteva passare inosservato. Ma ad allargarne l’eco, con l’impareggiabile immediatezza dei mezzi elettronici, è stata la rete, dove un testimone dell’incidente ha «postato» il suo disappunto. Scatenando così una valanga di reazioni. In breve tempo, sulle pagine di Facebook si sono accumulati oltre 8000 «mi piace»: tante le espressioni di simpatia e solidarietà rivolte a quell’ambulante che faceva, correttamente, il suo mestiere di tranquillo intrattenitore. Evidentemente, è stata l’entità stessa di questa partecipazione, tramite la rete, a mobilitare il sindaco, consapevole Jörg Wolters e Marco Borradori davanti alle vetrine di Hermès. (CdT - Gonnella)
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