Un mondo in tutti i sensi Raffaele Mantegazza Il nostro corpo esperisce il mondo, e lo fa essendo immerso negli elementi che costituiscono il mondo stesso; piuttosto che circondarlo, gli elementi costituiscono il corpo, ne entrano a far parte, ne consentono l’esistenza. Forse, come suggeriscono recenti ricerche, i quattro elementi tradizionali sono stati “scoperti” dalle donne che erano deputate alla cura del cadavere; alla base della vita ci sarebbero allora gli stessi elementi che presiedono alla dissoluzione del corpo morto: l’acqua che trascina via il cadavere, l’aria che lo dissolve nella putrefazione, la terra nel quale esso viene inumato e il fuoco che lo consuma sulle pire1. I corpi degli uomini e delle donne si muovono a loro agio anzitutto sulla terra; elemento al quale associamo un’idea di stabilità ma anche di nutrimento. La terra è anzitutto madre perché ci nutre se noi la sappiamo trattare bene: richiede cura da parte nostra e non se ne deve abusare. Con i piedi piantati in terra il soggetto scopre la virtù dell’equilibrio; sulla terra impara a camminare conoscendone la solidità ma anche le insidie, le asperità e la durezza: si impara quanto è dura la terra quando la si calpesta a lungo in un pellegrinaggio o in una fuga (così frequente in questo secolo di genocidi), quando vi si cade o quando si cerca di renderla fertile. Metafora di una oggettualità che nasconde segreti (le radici degli alberi, l’acqua, alcune ricchezze, ma anche i vermi, i morti, i mostri e le potenze ctonie) la terra ci si presenta ricoperta da una scorza dura da raschiare ma al di sotto della quale scorre tutta una vita, anzi innumerevoli dimensioni nascoste della vita; il fascino di narrazioni quali Viaggio al centro della Terra di Jules Verne o La talpa di Frank Kafka è legato anche all’idea di viaggio e di percorso (cui la terra è da sempre associata); ma si tratta di un viaggio che si snoda nel buio e nel silenzio, un silenzio assoluto come è difficile ascoltarne in superficie (Verne) o in un silenzio abitato da rumori di cui non si sanno decifrare origine e natura (Kafka); anche il vissuto perturbante di chi affiora dalla metropolitana è debitore a questo fascino, come lo sono certe narrazioni dei minatori2. La terra nasconde dunque delle insidie e dei rischi, ma in realtà il vero rischio è quello causato dall’uomo e dalla sua incuria, come dimostrano i ricorrenti disastri idrogeologici nel nostro Paese; lo scatenamento dei demoni che esperiamo nei terremoti o nelle frane è spesso aggravato e reso ancora più disastroso da gravi errori umani. A contatto con la sensibilità umana e con il suo bisogno di progettazione, la terra diventa territorio: da pianificare per renderlo abitabile, da suddividere in lotti ciascuno dei quali con una specifica destinazione d’uso; e la terra può anche diventare terra patria, ed essere implicata in un gioco retorico di mobilitazione degli istinti aggressivi dell’uomo, come nell’ideologia nazista del Blut und Boden o in certi localismi desolidaristici attuali; la terra mescolata al sangue è sempre pericolosa, e sempre utilizzata in chiave retorica: il sangue che bagna la terra è sempre quello dei gloriosi martiri di qualche causa. La terra è infine l’elemento al quale torneremo (almeno nelle culture che praticano l’inumazione), e nel quale si ha il terrore di sprofondare troppo presto (come testimoniato nei racconti Berenice, Morella, Ligeia di Edgar Allan Poe, trilogia di narrazioni sulla morte apparente e l’inumazione prematura); e anche le città e gli imperi torneranno alla terra, torneranno a essere terra: i vinti sono sempre stati ridotti a terra, hanno sempre morso la terra, da Cartagine a Hiroshima, e ad Auschwitz si sente il “grido dalla terra” dei disperati e dei dimenticati. Nel ritorno alla terra scopriremo di essere noi stessi terra, insignificante polvere capace però di rientrare nel cerchio delle mille metamorfosi della vita; ma in un mondo ingiusto il ritorno alla terra non è uguale per tutti e la terra non è che la sede dell’ultima ingiustizia. Meno dimestichezza abbiamo invece con l’acqua, elemento dal quale proveniamo e del quale siamo costituiti; siamo infatti nati in acqua, nel duplice senso dell’origine della specie e della nostra storia individuale. I nostri inizi sono inizi acquatici, e per questo l’acqua è metafora dell’inizio, ad esempio nel battesimo cristiano e in tutti i riti di purificzzione L’acqua rimanda allora al liquido amniotico e allo shock del momento in cui la nostra vita acquatica prenatale è definitivamente finita; forse la paura dell’acqua in molti soggetti è in certa misura da associare a tale shock, e comunque la 1 L’ipotesi è dell’antropologa statunitense Barbara Walker ed è citata in Georg Feuerstein, Il linguaggio spirituale dei numeri, Milano, Armenia, 1995, pag. 81 2 Cfr. Luigi Pirandello, Ciaulà scopre la luna pratica sempre più diffusa del parto in acqua testimonia a favore della possibilità di una nascita dolce e meno violenta possibile. Uscire dall’acqua però non è sempre choccante, può essere un dolce alla terra che ci ospita: forse con questa dolcezza uscirono dal mare i primi anfibi; e d’altro canto è possibile entrare in acqua dolcemente, scoprendosene abbracciati, anche nel momento della morte: quando Anna Karenina si getta sotto il treno la assale “una sensazione simile a quella che provava quando, facendo il bagno, si accingeva a entrare nell’acqua”3. Così come può lenire l’esperienza traumatica del venire al mondo, l’acqua può allora, in alcuni casi, rendere meno traumatica l’uscita dal ciclo della vita; ma gli annegati e le annegate sanno che l’acqua è invece graffiante e terribile, strappando la vita brano a brano con la sua artigliata violenta, “acqua assetata/che ti cerca la bocca, che tutto sta per riempire/che tutta si fa ingoiare e tutto ingoia”4. Morire per acqua5 è terribile soprattutto perché ci si sente invasi, scavati e frugati da qualcosa che non è noi, o forse che è fin troppo noi, fin troppo in noi. Del resto noi siamo letteralmente un corpo fatto di acqua, l’acqua scorre dentro di noi e fa parte di noi; la nostra essenza è forse più liquida che solida, ed è forse per questo che la terra ci si presenta sempre come una conquista. L’acqua ci viene incontro dal cielo sotto forma di pioggia e forse non c’è maggior spettacolo visivo e uditivo dell’acqua che cade: goccia a goccia o in un tornado, ma anche da una cascata o da una fontanella; il mormorio o lo scroscio violento dell’acqua costituiscono la più poetica e più stupefacente colonna sonora della natura C’è tutta una fenomenologia dell’acqua legata alle dimensioni che le sue masse assumono nella nostra esperienza: se una goccia d’acqua ci lascia stupiti e attoniti per la vita brulicante che contiene, le pozzanghere costituiscono un luogo privilegiato per i giochi dei bambini (e quella delle pozzanghere è acqua sporca, contaminata, più adatta al gioco rispetto alla troppo trasparente acqua pura); nei laghi e negli stagni l’acqua appare immobile ma tutti i nuotatori sanno che queste distese d’acqua sono traditrici; più movimento scorgiamo invece nei fiumi, che sono delle vere e proprie biografie viventi dell’acqua, raccontano la lenta conquista di un suo spazio tra le montagne e le pianure fino alla sua morte lenta e dolce nelle foci o negli estuari; nei mari l’acqua è salata e bruciante e sui mari sono nate le civiltà umane, più anfibie che terricole; infine gli oceani, che secondo gli antichi cartografi circondavano come in un abbraccio amniotico l’intero pianeta, esibiscono la loro immensità lasciandoci ancora una volta stupiti e attoniti. Lo stesso stupore e la stessa paralisi cognitiva e affettiva ci colgono nell’acqua (come spesso accade) davanti all’infinitamente piccolo della goccia e all’infinitamente grande dell’oceano. L’acqua è da sempre associata a una idea di purificazione, in particolare nei riti di passaggio e di rinascita6; un corso d’acqua separa spesso, nelle culture tradizionali, la città dei vivi dalla necropoli7; e le città sorgono accanto all’acqua, fino a giungere, come nell’Alhambra di Granada, ad essere veri e propri inni all’acqua. Anche le fontane costituiscono un tributo a questo elemento e alla sua purezza: alla fontana è associata l’idea di giovinezza, di purificazione, e spesso nei paesi è attorno alla fontana che le donne intrecciano loro discorsi, alternativi rispetto all’ordine maschile e patriarcale. Le fontane richiamano i fiumi che scendono dal paradiso, l’acqua sacra del battesimo e quella del Lete e degli altri corsi d’acqua dell’Aldilà8. Immergersi in acqua richiama allora ancestrali paure e fascinazioni; si entra in acqua per lo più nudi e dunque inermi, esposti allo sguardo dell’altro e alla sua possibile aggressione. Venere e tutte le ninfe sono indifese quando tolgono l’ultimo velo per il loro bagno negli stagni resi magici dalle loro membra, come “colei che solo a me par donna”. In acqua occorre imparare di nuovo a muoversi; chi impara a nuotare da adulto scopre la difficoltà e il fascino del dover dimenticare le abitudini motorie cristallizzate da anni di permanenza sulla terra; in acqua si sperimenta la modificazione del proprio peso e la nuova conoscenza del proprio corpo che è necessaria per nuotare. Si può andare sotto la superficie dell’acqua, a scoprire quello che è letteralmente un nuovo mondo; ma si sente sempre la paura di annegare, di concludere la propria vita con una morte atroce e 3 Lev Tolstoj, Anna Karenina, Garzanti, Milano, 1981, vol. II, pag. 771 Hans Magnus Enzensberger, La fine del Titanic, Torino, Einaudi, 1990, pag. 79 5 Cfr. Raffaello Brignetti, Morte per acqua, Sansoni, 1966 6 cfr. Arnold van Gennep, I riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1988 7 cfr. Louis Vincent Thomas, op. cit.; Michel Vovelle, La Morte e l’Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1986 8 Cfr. Carola Lipp, La fontana, in Heinz-Gerhard Haupt (a cura di), Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, BariRoma, Laterza, 1993, pagg. 223/240 4 soprattutto in un elemento che non è più il proprio9; in attesa del momento utopico in cui “il mare ricordò improvvisamente il nome di tutti gli annegati”10, siamo condannati ad associare alla scomparsa in acqua l’idea di una irreparabile perdita del corpo del disperso: è questa l’angoscia supplementare legata a tragedie come le inondazioni o i maremoti. L’acqua è associata a un’idea di trasparenza e di verità; per il cristiano l’acqua è vita, è il segno del suo ingresso nella comunità dei fedeli; ma l’acqua è anche lo strumento privilegiato dell’inganno: il remo immerso nell’acqua appare spezzato, e le acque possono diventare torbide confondendo le immagini e le identità; del resto ciò che l’acqua ci restituisce è solo un riflesso, un inganno, un’illusione, e Narciso sa bene quanto paghi colui che scambia tale duplicazione per la realtà. Lo specchio che le acque ci offrono per rimirare la nostra immagine è spesso segno di inganno; e le nostre stesse lacrime non sono che acqua, che ricordano nella loro salinità quel “grande oceano” cui apparteniamo e al quale forse torneremo. Ma forse l’immagine più forte di una antropologia dell’acqua, fondamento di una pedagogia acquatica che forse per ora possiamo solo limitarci a gorgogliare, è l’idea di un galleggiamento inerte dei nostri corpi sulle acque chete di uno stagno. Galleggiare sull’acqua, come certe creature vegetali, restare a galla senza sforzo e senza fatica, come nuotando nel Mar Morto, non è forse l’idea più affascinante di libertà e riposo che ci possa venire in mente? Galleggiare significa rimettere in vita una esperienza primigenia che ci pareva del tutto perduta: l’eliminazione dello sforzo e dell’attività, restituzione al soggetto di un paradigma passivo, l’esperienza dell’“essere abbracciati”, del potersi permettere di essere e null’altro, del ritornare al completo e immediato appagamento dei desideri che costituisce forse la linea di demarcazione fantastica e al contempo l’anello di congiunzione tra vita, morte e rinascita; forse torneremo al mondo come girini, forse, meglio, come gocce d’acqua nell’acqua, esseri “il cui nome fu scritto nell’acqua” L’elemento che ci appare forse più proibitivo e più lontano è l’aria; per la nostra specie è il luogo al quale l’accesso è proibito, il luogo dell’interdetto e l’elemento da conquistare; l’atleta che salta un’asticella posta a due metri e il pilota di jet al decollo vivono forse la stessa esperienza di ingresso in un altro elemento, di distacco dalle sicurezze della terra verso il rischio e l’alterità totale dell’aria11. L’aria è il luogo del sogno e dell’Utopia, dell’inaccessibilità e della libertà, sede delle stelle e dei Paradisi 12, dei voli degli uccelli rapaci e delle speranze. In aria si può volare e volteggiare ma la nostra condanna alla gravità ci riporta sempre sulla terra: è un elemento al quale ci avviciniamo, lo sfioriamo, lo abitiamo per un istante e poi lo dobbiamo abbandonare; l’aria è come l’orizzonte, che ci sfugge, che è sempre oltre, sempre più in là. E anche i cosmonauti che sono riusciti a sfuggire dal cerchio magico dell’atmosfera terrestre, non hanno fatto altro forse che trovare in cielo un’altra aria, un’altra utopia. Ma l’aria è anche dentro di noi, e il fatto della respirazione ci rende ricettacoli di un’aria che all’esterno è vento che trascolora le montagne; e non per nulla in certe giornate limpide d’autunno sembra di respirare meglio: si realizza la mimesi tra la purezza dell’aria all’esterno e la purificazione interna del respiro. L’aria può essere inquinata dall’uomo e dalla donna e dalle loro fabbriche ma richiama comunque a un’idea di purezza e di liberazione; l’aria viziata non è più aria, è qualcosa d’altro, qualcosa di meno nobile. Il terrore di morire soffocati è forse legato a questa idea di libertà; di qualcuno che ci opprime diciamo che ci soffoca, ci toglie l’aria per respirare: e nel lungo bacio d’amore i due amanti si scambiano l’aria, mettono in comunicazione le dimensioni ventose dei loro interni turbati e commossi. Dall’aria vengono le meteore e gli Ufo; dall’aria proviene il Piccolo Principe e nell’aria volteggia Peter Pan; i bambini aspettano Babbo Natale con il naso all’aria e starsene sdraiati pancia all’aria è segno utopico di un ozio senza fine. Ma nell’aria tutto se ne va, nulla torna più: l’aria disperde le ceneri dei morti di Auschwitz e di Hiroshima; l’aria porta in giro le epidemie e i batteri; “tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento”13, e l’aria è al contempo responsabile di catastrofi (tromba d’aria, tornado) e del loro oblio. 9 I marinai morti in mare erano in passato “restituiti” alle acque; cfr. il bel romanzo di Raffaello Brignetti La riva di Charleston, Torino, Einaudi, 1977 o anche, dello stesso autore, il racconto Meta casuale in Il gabbiano azzurro, idem, 1974; d’altro canto anche nel finale del film Lezioni di piano la protagonista sceglie l’alterità dell’elemento acquatico per il suo tentato (e riuscito?) suicidio. 10 Federico Garcia Lorca, Favola e girotondo dei tre amici 11 Cfr. Ivano Fossati, Lindbergh: “E’ che so staccarmi da terra e alzarmi in volo/come voi altri stare su un piede solo” 12 Cfr. Pierre-Antoine Bernheim e Guy Stavrides, Paradiso Paradisi, Torino, Einaudi, 1994 e Colleen McDannell e Bernhard Lang, Storia del Paradiso, Milano, Garzanti, 1991 13 Antico detto sioux Fuori, all’aria c’è la vita; nelle istituzioni umane l’aria sembra mancare; ma solo dall’interno delle istituzioni umane possiamo forse godere lo spettacolo del vento senza esserne feriti. Infine, ricettacolo e immagine di tante paure, il fuoco, cui ci si accosta sempre con timore e con fascino; il piromane ha forse in realtà paura del fuoco come il vigile del fuoco in realtà lo ama e lo desidera; quel che è certo è che anche a questo elemento è associata l’idea di purificazione: lo troviamo in molti riti iniziatici14 come negli scherzi crudeli che ci si fa spesso da ragazzini; è un raffinatissimo strumento di tortura ma serve anche a evocare o a scacciare i demoni; serve per sfregiare il volto dei nemici ma è anche pretesto per sfide al limite del possibile. Muzio Scevola che sacrifica il suo braccio sulla pira è fratello segreto dell’adolescente che salta venti bidoni infuocati con la sua moto. Ma il fuoco è anche rassicurante: i fuochi nella notte segnalano al viandante presenze umane e “fuochi” saranno denominati dagli antropologi gli insediamenti umani in un dato territorio. Il fuoco è anche il focolare cui la donna è legata e spesso relegata, ma l’altra schiavitù della donna si compie attorno ai fuochi di copertoni ai bordi delle strade; il fuoco che brucia nel camino ci rimanda all’idea un po’ convenzionale, pubblicitaria e scontata di una convivenza serena. Il sole è una palla di fuoco, e ne conosciamo bene i benefici e i rischi: d’altro canto proprio il sole ci permette di vivere fornendoci luce e calore; e sono questi due elementi che ci appaiono inscindibili nel fuoco, tanto da associare strettamente le tenebre al freddo. Il fuoco è lo strumento di cicatrizzazione delle ferite e di disinfestazione nelle epidemie; è anche uno dei possibili strumenti di eliminazione del cadavere; ma l’idea del fuoco è strettamente legata a una idea di punizione: gli inferni prevedono il fuoco come loro componente essenziale e la morte più terribile in assoluto sarà quella causata da un incendio; il fascino e il successo di film quali L’inferno di cristallo sono da ricercare in questa dimensione sadomasochistica del fuoco come punizione, Ma esiste anche un fuoco che distrugge la memoria oltre ad annientare l’individuo: è il fuoco dei roghi voluti dalle varie Inquisizioni; da quello di Giordano Bruno e delle streghe ai roghi dei libri15 e infine ai forni crematori, roghi tecnologici e ultramoderni, che volevano che degli uomini e delle donne non restasse più traccia. Ma contro l’anonimo fuoco che distrugge c’è un fuoco che aiuta a ricordare: e non è tanto quello delle retoriche fiaccole eterne quanto il piccolo fuoco delle tre candeline accese nel monumento ai bambini e alle bambine della Shoà a Yad Vas’hem, Gerusalemme; un fuoco che l’illusione di un gioco di specchi ripete per un milione di volte, un milione di volte nominando le piccole vittime del purificatore fuoco nazista. Così come gli elementi hanno una loro storicità e ne sono profondamente segnati (il fuoco non è più stato lo stesso dopo i roghi delle streghe; il fango della diga del Vajont o delle catastrofi di Sarno non può far dimenticare agli abitanti di quelle zone l’associazione dell’acqua con la morte), non è possibile dimenticare la storicità degli organi di senso che determina e condiziona la percezione dell’oggetto; la triplice storicità che è in gioco in ogni percezione (dell’oggetto percepito; dell’organo si senso; del medium entro il quale avviene la percezione) fa sì che un oggetto percepito in un determinato momento costituisca davvero un unicum irripetibile e che non sia a rigore possibile, nemmeno per lo stesso soggetto con lo stesso oggetto, ripetere due volte la stessa percezione, “bagnarsi due volte nello stesso fiume”. E la storicità degli organi di senso si può intendere, sia in senso ontogenetico che filogenetico, come una sorta di progressiva affermazione dei sensi distali (che si distanziano dall’oggetto per poterlo percepire: vista e udito) a scapito dei sensi prossimali (che necessitano di una maggiore o minore vicinanza all’oggetto o a una parte di esso: tatto, olfatto e gusto); l’acquisizione della posizione eretta, sia nella storia dello sviluppo della specie che nella storia dell’infanzia di ciascuno/a, ha portato all’allontanamento dal suolo e dagli oggetti che vi sono posati, e dunque al privilegiamento degli organi di senso distali. E’ stata proprio la posizione eretta, tra l’altro, con la liberazione della mano, a far sì che per l’uomo e la donna l’oggetto potesse divenire strumento 16; è nell’articolazione e nel coordinamento tra occhio e mano che è possibile cogliere la specificità del rapporto dell’uomo e della donna con gli oggetti ormai diventati strumenti (e spesso ridotti a meri strumenti, così come si giungerà nella schiavitù a ridurre anche gli altri uomini e le altre donne a strumenti, che non si potranno toccare se non per utilizzarli estraendone il massimo del valore d’uso) 14 Cfr. Arnold Van Gennep, op. cit. Rimandiamo qui al bel libro di Ray Bradbury Fahrenheit 451. Gli anni della Fenice, Milano, Mondadori, 16 Cfr. André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 1977 15 Il nostro percorso negli organi di senso, che cercherà di svilupparsi a ritroso rispetto all’avvenuta evoluzione, inizia allora dalla vista17, il senso che è stato a fondamento della tradizione positivistica e in fin dei conti della scienza moderna; se per confermare la comprensibilità del discorso del mio interlocutore affermo: “vedo che cosa dici”; se il testimone a un processo è sempre “oculare”18; se io “ho visto con i miei occhi” l’evento che voglio raccontare, (foss’anche la resurrezione del Redentore), e che nessuno potrà allora mettere in dubbio, ciò significa che la verità nella cultura occidentale del XX secolo è divenuta “cosa che si vede”19. Osservare un oggetto significa in un certo senso cristallizzarlo, fermarlo, sottrarlo alla legge del divenire e in ultima analisi al destino della morte; la macchina fotografica è l'invenzione decisiva del secolo20 proprio perché rende immobile un’immagine e permette di mantenere in vita (ma quale vita?) ciò che è destinato a morire. La vista ci può anche ingannare, nei sogni piuttosto che nei miraggi, nelle illusioni ottiche piuttosto che nei trompe l’oeil, ma comunque è sempre grazie alla vista (stavolta a uno sguardo divergente, che sposta il punto di osservazione, che capovolge le prospettive) che posso capire di essere stato ingannato. E’ propria della vista una capacità di auto-correzione che gli altri sensi sembrano non avere; la città di ciechi descritta da Josè Saramago21 sarebbe condannata a permanere nell’errore e nella perdita di sé e del mondo, se non vi fosse la donna che vede e che grazie alla vista ben utilizzata (perché nel romanzo c’è anche chi la utilizza male, a scopi egoistici e violenti: e si tratta di figure maschili) potrà salvare forse l’intera umanità; e d’altro canto anche un’altra anti-eroina di Saramago22 riesce a vedere oltre la superficie delle cose e questa è al contempo la sua fortuna e la sua dannazione. Fortunati e dannati al contempo sono tutti i veggenti, che il più delle volte vedono ciò cui gli altri esseri umani sono ciechi ma al contempo sono puniti con la cecità per avere visto troppo (Tiresia). Ma non si vede sempre allo stesso modo né alcun uomo o donna vede come vedono gli altri; lo sguardo è la declinazione soggettiva del fatto oggettivo del vedere; “lo sguardo è l’ultima goccia dell’uomo”23, nel senso che l’ultimo assaggio di mondo che ci è concesso permane forse negli occhi, è un’immagine visiva; sembra addirittura che coloro che muoiono di morte violenta conservino nelle loro retine l’immagine dell’assassino 24. Il mio sguardo può allora dire l’ultima verità sul mio destino, così come sono intimamente convinto che gli occhi dell’altro non mentono; “guardami negli occhi” diciamo a chi forse ci sta ingannando; ma ci sentiamo al contempo oggettivati, denudati, gettati in una cosalità che ci perturba, quando qualcuno ci guarda: lo sguardo dell’altro/a mi oggettivizza mi coglie in una nudità che non vorrei esibire, e l’esperienza dell’essere osservati risveglia le strategie di resistenza del pudore e della vergogna. Osservare una foto scattataci a nostra insaputa fa sorgere quello strano senso di estraneità e di imbarazzo; è come se fossimo stati cosalizzati senza il nostro permesso, come se ci sentissimo osservati da mille punti diversi, se ci sentissimo gli occhi del mondo addosso. Ogni sguardo che avvertiamo puntato su noi contiene in sé i germi di quello sguardo panottico25 che ci reclude e ci fa diventare a nostra insaputa degli autoosservatori, degli agenti della nostra stessa cosalizzazione. Forse il Super-Io è un occhio interno che ci guarda, l’interiorizzazione del gigantesco occhio divino. A questo accerchiamento di sguardi, a questa oggettualizzazione è forse possibile sfuggire ricambiando lo sguardo; la reciprocità degli sguardi è così precaria e così fragile da contrapporsi per un attimo al deliro di onnipotenza di chi vuole vedere tutto; la parzialità degli sguardi complici o il desiderio mai del tutto appagato dello sguardo innamorato costituiscono la declinazione umana di un organo di senso forse ancora troppo “divino”. 17 Per quanto riguarda questo organo di senso, rimandiamo ovviamente anche al paragrafo I colori del mondo E’ interessante a questo proposito analizzare le posizioni sostenute dagli studi della psicologia della testimonianza, che mettono seriamente in dubbio l’attendibilità del “dato di fatto” costituito dalla visione diretta di un evento. 19 La scossa provocata in questa accezione della verità dalla consapevolezza del fatto che non sempre si vede ciò che si crede di vedere e che anzi l’oggetto che si sta osservando è modificato dall’atto stesso di osservare, sarà studiata più avanti. 20 Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte dell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966 21 José Saramago, Cecità, Milano; Einaudi, 1997 22 José Saramago, Memoriale del convento, Milano, Einaudi, 1987 23 Walter Benjamin, Strada a senso unico, Torino, Einaudi, 1983, pag. 47 24 E’ su un gioco raffinato a partire da questa ipotesi che si basa il perturbante film di Dario Argento Quattro mosche di velluto grigio 25 Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1977 18 Se alla vista abbiamo associato la tradizione positivistico-scientifica, associamo all’udito la tradizione ermeneutica ; dire che una cosa è vera perché l’abbiamo sentita dire significa far rientrare la propria affermazione in un regime di verità completamente differente da quello della spiegazione scientifica; la parola di verità che si sente, la verità che si esprime nella parola sono quelle divine; l’ascolto della parola divina sta, per le civiltà giudaico-cristiane alla base di ogni successivo ascolto e di ogni successiva ricerca di verità. Dobbiamo agli studi di Walter J. Ong26 l’analisi del ruolo della parola nelle società ad oralità primaria, ovvero di quelle società che non conoscono affatto la scrittura; in esse, prima di essere cristallizzata nel libro o nella pagina scritta o stampata (e quindi sottoposta al dominio della vista) la parola è detta e pronunciata, è “flatus vocis”. Ci interessa soffermarci su alcune delle caratteristiche tipiche della narrazione e dell’ascolto nelle società orali sottolineate da Ong, per riportarle al nostro discorso sull’udito; anzitutto, la socializzazione e contestualizzazione della narrazione, che costringe colui o colei che vuole essere ascoltato/a a riferire il suo discorso a “qualcosa che è qui” o “che è stato qui”, dunque a contestualizzare il proprio discorso all’interno del campo di esperienza possibile di chi ascolta: l’ascolto ci pone allora in una situazione di vicinanza all’esperienza concreta sia del narratore che dell’ascoltatore; l’udito e l’ascolto ci rendono consapevoli del carattere di evento della parola, della sua precarietà e fragilità: prima che siano stati inventati strumenti per registrare e riprodurre la parola parlata essa rischia di cadere nell’oblio e nella dimenticanza, e dunque l’udito e l’ascolto ci fanno sottolineare il ruolo centrale della memoria; che permette di far risuonare ancora dentro di sé il suono che è ormai svanito (e le società tradizionali insistono per questo sul fondamentale valore sociale ed educativo della memoria); infine la ripetizione e la paratassi (equidistanza dal centro delle proposizioni sempre legate da un rapporto di coordinazione, mai di subordinazione) proprie della narrazione orale, che fanno sì che l’ascolto sia in un certo qual modo conservatore (il bimbo vuole ascoltare sempre la stessa fiaba, e narrata sempre allo stesso modo) e permetta altresì, data la struttura circolare della narrazione27, di iniziare sempre la storia “in medias res”. Ascoltare l’altro/a non significa cosalizzarlo/a o sorprenderlo in un atteggiamento vergognoso, ma ricercare una consonanza con lui/lei; l’ascolto si dà sempre nei confronti di un oggetto che risuona e rispetto al quale occorre saper accordare le proprie corde segrete; l’ascolto è sempre consonanza tra vibrazioni, ricerca di unisono. Certo, esistono anche ascolti alienanti e cosalizzanti: c’è un ascolto voyeuristico, quello sempre teso alla ricerca dello scandalo e dell’anormale nelle narrazioni dell’altro, ascolto occhiuto e onnipresente che spia ciò che l’altro/a dice esattamente come fosse un grande occhio; c’è un ascolto obbligante che teme a tal punto il silenzio dell’altro/a che lo costringe a parlare, gli estorce delle narrazioni, non sa stare in ascolto ma vuole strappare all’altro/a un suono qualsiasi, foss’anche un gemito; avremo un ascolto normalizzante, teso alla creazione di casi e di dossier, che utilizzerà la narrazione altrui per catalogarla e farne un esempio, sempre alla ricerca del caso patologico e in un totale disinteresse per la “medietà”; avremo un l’ascolto confondente, che utilizza ideologicamente la strategia dell’ascolto per far credere alla possibilità di una confusione di ruoli, come se sempre chi parla e chi ascolta fossero sullo stesso piano e non vi fosse un problema di potere; ci sarà poi un ascolto spersonalizzato, che è tipico di certi adolescenti che scrivono lettere al personaggio dei fumetti piuttosto che all’attore famoso, raccontando ciò che nessun altro vuole ascoltare ma privandosi così della possibilità concreta di una restituzione; avremo infine un ascolto clinico, un “ascolto loquace”28 del quale torneremo a parlare diffusamente più avanti, che si caratterizza per una vicinanza al corpo del soggetto parlante (o muto), per una palpazione del suo corpo, per una restituzione e categorizzazione non intrusiva e non schematica del suo raccontarsi. Per tutti questi tipi di ascolto, è chiaro che la verità è cosa che si sente: lo è per il professore/ssa universitario/a che ascolta dall’allievo/a una verità che egli/ella stesso/a hanno precedentemente immesso nel soggetto; lo è per il confessore che co-produce nell’ascolto muto ma loquace una verità che parte dal peccatore ma ha la sua ultima sede in Dio; lo è infine per il/la psicoanalista che si fanno co-produttori di una verità che invece ha la sua sede nel soggetto ma alla quale il soggetto da solo non potrà mai accedere29 . Archetipo di questa concezione 26 Cfr. Walter J.Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986; id., Interfacce della parola, Ibidem, 1989 Alla quale forse sono debitrici certe strutture circolari di narrazioni scritte del XX secolo da Gabriel Garcìa Marquez a Isabel Allende. 28 Cfr. Michel Foucault, Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969 29 Cfr. Michel Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1977 27 dell’ascolto è il risuonare della parola divina all’orecchio dei primi uomini; ma gli uomini e le donne possono ascoltare anche i suoni e i rumori della natura; anzi, è proprio nell’ascolto, inizialmente muto e rispettoso, dei suoni naturali che l’uomo e la donna possono davvero farsi interpreti della natura, articolando nel loro il suo muto linguaggio30: “E' una verità metafisica che ogni natura prenderebbe a lamentarsi se le fosse data la parola (...) essa piangerebbe sulla lingua stessa. L'incapacità di parlare è il grande dolore della natura (e per redimerla è la vita e la lingua dell'uomo nella natura)” 31 Ma essere capaci di cogliere il suono della natura e articolarlo in lamento significa anzitutto affinare ed allenare il proprio udito all’ascolto del lamento; che esso si esprima con il grido lacerante o con l’impercettibile sussurro32, si tratta sempre di articolare in parole comprensibili il rantolo del moribondo o del sofferente; e questa caratteristica dell’udito la si ritrova anche nell’ascolto della musica, inteso come decifrazione di un crittogramma della sofferenza dell’uomo e della natura inciso nella più immateriale delle arti; che si esprima attraverso il suono “maledetto” del flauto o quello “angelico” dell’arpa 33, nel Canto della Terra Gustav Mahler o nel Sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schoenberg la vera musica è sempre la formulazione di una richiesta di ascolto che ci proviene dalla disperazione; ascolto che richiede risposta ma soprattutto silenzio, come consapevole condivisione muta dell’ingiustizia sempre legata al dolore. In posizione mediana rispetto alla freddezza dei sensi distali e alla invasività dei sensi prossimali abbiamo il tatto: un individuo che “ha tatto” è una persona che sa mantenere le giuste distanze senza però comunicare un distacco inumano, che sa interessarsi a noi senza però invadere il nostro cerchio vitale34; e d’altro canto i limiti del tatto sono limiti letteralmente fisici: posso toccare una persona se questa è abbastanza vicina a me, ma se le sono troppo vicino il fatto di toccarla può portare all’aggressione o alla confusione: l’esperienza erotica realizza questa fusione quasi completa, e in quel caso non si può più parlare, a rigore, di tatto35. Del resto la sede del tatto non sono a rigore solamente i polpastrelli; e tutto un intrico di comportamenti anche feticisti legati al piede ci ricorda che al di là della manipolazione esiste anche una “pedipolazione” della materia36. E’ proprio del tatto un carattere di mediazione tra il soggetto e l’oggetto; una mediazione che è essenziale alla scoperta dell’oggetto e che al contempo ci permette di tenerlo alla debita distanza, di maneggiarlo senza essere troppo scoperti nei confronti della sua potenziale distruttività. La vista ci permette di cogliere le differenze tra gli oggetti, ma in certi nostri gesti quotidiani ci affidiamo ancora al tatto per verificare alcune differenze qualitative37: la palpazione del corpo del malato permetteva al medico di scoprire neoformazioni o ingrossamenti sospetti e la pratica dell’autopalpazione nella prevenzione del tumore alla mammella consente alle donne anche una maggiore conoscenza del proprio corpo; ogni genitore sa come toccare la fronte del figliolo per verificare una febbre che sarà poi compito del termometro quantificare, e per stabilire se un frutto è maturo o meno lo si dovrà palpare; una buona sarta verificherà con un delicato tocco della mano la pregevolezza di una stoffa e il falegname passerà la mano sul legno che ha appena piallato “non saprei bene se per proteggerne la verecondia; o per velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per compensare con un gesto di tenerezza il trauma della violenza” 38; in una società dove si tocca e ci si tocca sempre meno, dove il tabù del contatto fisico tra le persone (e anche tra persone e 30 Anche certi suoni prodotti dall’uomo e dalla donna, come il suono delle campane, non sono che tentativi di articolare in un linguaggio umano e artificiale certi suoni naturali. La musica deve la sua levità e la sua nobiltà alla dialettica mai del tutto risolta tra suono naturale e suono “culturale”. 31 Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo in Angelus Novus, Milano, Einaudi, 1962, pag. 63 32 Cfr. Giuseppe Ungaretti, Non gridate più: “Hanno l’impercettibile sussurro/non fanno più rumore/del crescere dell’erba/muta dove non passa l’uomo” 33 Cfr. Aa. Vv., Storia della musica Torino, Einaudi, 1988, cap. I “La musica nel mondo antico” 34 Cfr. Theodor Adorno, “Per una dialettica del tatto” in Minima Moralia, cit. pagg. 40/42 35 La prossemica di Edward Hall ha studiato gli influssi sociali sul concetto di distanza tra esseri umani, giungendo a scoprire come le culture codificano il fatto di potere o non potere toccare l’altro/a; cfr. Edward T. Hall, La dimensione nascosta, Milano, Bompiani, 36 Ricordiamo a tale proposito i lavori pionieristici di Stefania Guerra Lisi sulla percezione globale dell’oggetto e sulla “globalità dei linguaggi” 37 Theodor Adorno, op. cit., pag. 41 “Il tatto è una differenza specifica” 38 Antonio Bello, op. cit, pag. 17 cose) ha raggiunto dimensioni preoccupanti, il tatto ci ripropone un approccio mediato e rispettoso al mondo degli oggetti, che ci restituisce la loro insopprimibile materialità Certo, il tatto ha anche delle dimensioni pericolose; ci mette maggiormente allo scoperto rispetto a vista e udito, ci espone alle possibili ferite, ci mette a confronto con le asperità del reale; e sarebbe interessante studiare a questo proposito la dialettica ruvido/liscio o quella leggero/pesante; toccare le cose significa anche esserne feriti o irritati: le ortiche e certe edere velenose, le meduse e certe sostanze chimiche ci mettono in guardia contro l’abuso del tatto, contro una eccessiva disinvoltura nel gesto di toccare, come se volessero comunicarci che per poter davvero toccare le cose “occorre tatto”. Ma c’è anche un fascino nello sfiorare senza farsi del male gli oggetti taglienti, gli angoli vivi del legno, i mobili scheggiati: in questa sfida nei confronti del potere di ferire proprio dell’oggetto, la mano impara un gesto trattenuto, incompiuto, lontano dalla violenza a scatti della gestualità che spesso le macchine ci richiedono39; ed è proprio disabituando il gesto allo strappo e alla violenza propria della dimensione del colpo che è possibile, attraverso l’esperienza del vellutato, ovvero di un contatto dolce con le cose, giungere alla dimensione della carezza; modalità privilegiata della trasmissione di affetto, la carezza è forse in origine un colpo trattenuto: è la possibilità di spogliare il gesto della violenza che altrimenti l’abiterebbe, la ricerca di una nuova dolcezza al di sotto della aggressività socialmente incistata nel nostro corpo; è il gesto della fiducia che scioglie la rabbia, del pugno che si apre perché crede e cede alla non aggressività dell’altro/a. La carezza è il momento del contatto epidermico che trasmette il senso dell’avvenuto contatto spirituale, la possibilità di sciogliere almeno in parte i tabù e i pregiudizi sul toccare e sul toccarsi e la ricerca di una nuova complicità. Ma anche avventurarsi alla cieca con le dita delle mani nei buchi, nelle crepe, negli anfratti, è una esperienza che da bambini ci insegna un toccare “a fondo perduto”, alla ricerca di un contatto proibito e spaventoso; toccare il corpo dei ragni o delle lucertole realizza quella esperienza del brivido che fa accapponare la pelle, tipica della dimensione del toccare il totalmente altro da sé; tale esperienza è stata probabilmente espulsa dalla filosofia e dalla riflessione occidentale, ma è alla base della percezione dell’altro/a; toccare il corpo del diverso da me è inizialmente causa di disgusto e di orrore; occorre penetrare in questo orrore, modificandolo dall’interno, perché la mano si abitui a restare lì, a non sfuggire e, alla fine, a trasformare in una carezza la repulsione: certa filosofia irenistica dovrebbe rendersene conto. Infine, il contatto tra due corpi realizza quella duplice percezione che costituisce la peculiare materialità del corpo e che avviene solamente quando un corpo tocca un altro corpo: ma per cogliere l’altro/a come corpo occorre superare la cosalizzazione dell’uomo e della donna, prendendola però sul serio; posso capire che l’altro/a è corpo se inizialmente mi si è presentato/a come cosa orribile, terrificante o semplicemente indifferente e se io ho superato -abitandola- questa sensazione. Solo allora toccare l’altro/a significa sentire l’altro che si sente toccato e che risponde al mio tocco; il tatto qui si ripiega su se stesso, dimodoché io mi sento toccare l’altro/a e sento l’altro/a che mi tocca: solo con questo gioco di rispecchiamenti tattili posso davvero credere che l’altro/a è corpo, ed è forse nell’abbraccio o nella stretta di mano (sentirmi abbracciato abbracciante; sentire l’altro/a abbracciante ed abbracciato/a) che risiede il segreto della tattilità messa al servizio dell’umano. Diversa, e ancora più profonda, è la dimensione del toccarsi; quando mi tocco sento che sono corpo (e questa esperienza è fondativa dell’esperienza del corpo dell’altro/a ed è assolutamente decisiva a proposito di come andrò a toccare l’altro/a) e sento il mio corpo che si sente toccato: qui la duplice percezione è tutta in me, è me, nel senso più forte dell’espressione. Si situa qui la straordinaria portata evolutiva della masturbazione infantile o adolescenziale; il ragazzino o la ragazzina che si masturbano realizzano una peculiare scoperta di sé, nel senso che scoprono un sé che sente se stesso, che si sente toccato, e che può dare piacere proprio a partire da tale conoscenza. Il nesso tra piacere e conoscenza è svelato anzitutto nell’esperienza puberale della masturbazione, che è anche scoperta di nuove dimensioni e di nuove profondità (soprattutto per la masturbazione femminile). Forse è proprio per questo motivo che il tabù sulla masturbazione è così difficile da far cadere: non c’entra forse solo la sessualità ma una esperienza di sé senziente e di sé sentito/a che potrebbe essere alla base di una nuova tattilità solidale e nonviolenta; proprio perché accarezzando il proprio corpo si scopre la potenza svelatrice e piacevole 39 Cfr. Theodor Adorno, “Non bussare” in op. cit. pag. 35 della carezza, il motto dell’Occidente potrebbe essere quello scritto sugli scaffali dei suoi Grandi Magazzini: “si prega di non toccare”. Uno dei primi gesti che il bambino e la bambina compiono è quello di mettersi in bocca le cose; testimonianza forse di un desiderio di incorporare l’oggetto, di farlo scomparire e al tempo stesso di farlo diventare tutt’uno con se stessi, da adulti diverrà il gesto di assaggiare le cose, di sentirne il sapore; più invasivo del tatto, meno discreto e più aggressivo e anche più “caldo” della vista, il gusto però sa anche non spingersi all’eccesso; c’è differenza tra ingoiare e degustare, tra divorare ed assaggiare; un esperto d’arte avrà buon gusto a proposito di quadri se saprà cogliere le differenze specifiche tra le diverse opere, preferendo una sola tela d’autore a cento croste; e avrà gusto nel vestire chi saprà accoppiare eleganza a piacere del portare determinati capi: soprattutto quelli, solo quelli e non altri; la qualità è ciò che d° piacere a chi sa usare il gusto: la quantità può addirittura dare la nausea. Il gusto è un senso direttamente legato al piacere e al dispiacere, ma si tratta di un piacere che raramente si concede eccessi; sa che il troppo fa male e sa limitarsi trovando proprio nel limite la sua soddisfazione. Il mondo ha per noi uomini e donne un sapore, anzi diversi sapori (e anche il sapere è un sapore e va assaporato); è stata già scritta una antropologia culinaria, una storia dell’umanità basata sul concetto di “buono da mangiare”40 o sulla opposizione tra “crudo” e “cotto”41; è possibile scrivere una biografia individuale a partire dal gusto, magari chiedendo a qualcuno di raccontare “la prima volta che una cosa gli/le è piaciuta” o meno, o magari di farcela assaggiare; d’altro canto chi sa vivere senza negarsi i piaceri ma senza caderne schiavo è forse colui/colei che sa “assaggiare il mondo”. Ma anche per chi ha buon gusto, e anche se è sempre di cattivo gusto ricordarlo, è difficile non tenere presente che ciò che gustiamo non ritorna più allo stato originario; il fascino terribile e perturbante di film come La grande abbuffata di Marco Ferreri o Il fascino discreto della borghesia di Luis Bunuel risiede proprio nel sottolineare come la misura prevista dal gusto sia sempre pronta a tramutarsi nel suo opposto: e solo una sottile linea di demarcazione divide il “buono” dal “cattivo” gusto. D’altro canto il gusto prevede sempre e comunque l’incorporazione dell’oggetto che è al contempo una sua distruzione e una sua metamorfosi; e dunque è sempre presente, sotto la superficie del gusto, il fantasma della indicibilità del prodotto finale della metamorfosi: il disgusto degli escrementi e del vomito è spesso portato da certi pazienti anoressici come pretesto per il rifiuto del cibo. Per la nostra civiltà ciò che è stato gustato e incorporato deve restare dov’è; ci si deve disinteressare delle metamorfosi che lo attendono. Sarebbe interessante studiare come e perché determinate sostanze, di per sé non dannose per il corpo umano, siano arrivate a provocare disgusto, sia a livello di specie sia individualmente; e tutto ciò concerne anche una particolare dialettica dentro/fuori42, che potrebbe essere collegata al disgusto che da bambini si prova nei confronti delle interiora degli animali. L’opposizione dolce/amaro43 è alla base di una delle possibili esperienze gustative del mondo: e sembra che al primo polo siano sempre associate esperienze e situazioni positive (una musica “dolce”, la dolcezza di un incontro amoroso) anche se l’eccesso può portare al disgusto e alla categoria del “dolciastro”; le amarezze della vita e l’amaro di certe medicine sembrano invece squalificare il secondo polo, anche se gustare la vita significa coglierne anche il lato amaro, e vi sono cibi o bevande che sono più buone se non zuccherate44. Anche all’origine del gusto per il sapore aspro sembra esserci il superamento delle resistenze che l’organismo oppone a certi sapori: un cibo o una bevanda aspra sembrano provocare quasi naturalmente una sorta di allontanamento 40 Cercare riferimento Claude Levy Strauss, Il crudo e il cotto 42 Un noto esperimento consiste nel far bere a un soggetto un bicchiere d’acqua e nel fargli risputare nel bicchiere quanto ha bevuto; quasi sempre si rifiuterà di bere una seconda volta...ma si tratta della stessa acqua e nessuno è intervenuto a contaminarla! 43 Sulla ricerca attorno ai sapori dolci, amari, aspri, piccanti e salati si basa una parte importante dell’anamnesi nella medicina cinese. 44 Bere bevande amare può anche essere associato a una identità machista che forse è finalmente andata fuori moda; gli amari e le aranciate senza zucchero sembrano richiedere al soggetto una smorfia che dovrebbe essere caratteristica degli “uomini veri”: chissà se a certi uomini virili l’amaro piace davvero, o se si costringono a farselo piacere! Il sapore amarognolo di certi vini accarezza il palato con tutta un’altra delicatezza. 41 istintivo, e tale immediato rifiuto deve essere attraversato per arrivare al piacere 45; e del resto è aspro il fiele che viene fatto bere a Gesù sulla croce, per allontanare da lui la sete e non, come l’immaginario popolare vuole, per infliggergli una ulteriore tortura. Il gusto del salato è anch’esso legato al superamento delle resistenze del corpo; il sale provoca il vomito e nei popoli mediterranei una dieta molto salata è funzionale alla provocazione della sete che a sua volta serve alla compensazione dell’acqua dispersa attraverso il sudore: il salato richiama il suo contrario, richiede al soggetto di spegnere la sete che provoca, e dunque affida la sensazione di piacere alla creazione di uno stimolo o di una tensione che dovrà essere smorzato o lenito46; è salata l’acqua del mare così come sono salate le lacrime, “sa di sale” una esperienza negativa ma del resto l’imprevisto è “il sale della vita” e una situazione insipida è squalificata come poco interessante. Il sale è alla base dei condimenti, che sembrano spesso assurgere, da orpelli marginali, a vera nobilitazione delle pietanze. Il cuoco la cuoca che hanno buon gusto sanno che il sale va sparso con parsimonia (un errore per eccesso è irreversibile47); chi sa vivere tra i fornelli deve saper salare i cibi..: “cum grano salis”! Un particolare tipo di sapore è costituito dal piccante: quasi una provocazione puntuale e precisa, l’imitazione di una ferita inferta e poi subito trattenuta, una specie di puntura di spillo che permane provocando piacere anziché dolore, forse proprio per questo accostamento il piccante è forse il gusto che maggiormente si avvicina al proibito: non sono forse “piccanti” certi incontri erotici o certi romanzi? Il piccante ci insegna che una lieve sensazione di dolore può essere piacevole, che tra piacere e dolore non c’è una linea di demarcazione così netta, ma che occorre molta esperienza e molta cura nel dosare il dolore in modo che non ecceda la misura e perda le possibili dimensioni piacevoli. Abbiamo parlato sopra delle autobiografie gustative: a partire da queste biografie è forse possibile tematizzare una educazione del gusto che porti ad esempio a interrogarsi sulla storicità di questo organo di senso e delle sensazioni ad esso collegate; occorrerà probabilmente domandarsi come sia stato possibile per l’uomo e la donna (ma il discorso vale in modo specifico per il primo) abituarsi ai sapori forti e innaturali tipici della civiltà del XX secolo48. Che si manifesti nel leccare, gesto che espone la lingua (che è il muscolo più sensibile di tutto il corpo umano) a un possibile attacco e che proprio perciò è limitato ad alcune situazioni, quasi sempre connesse ad esperienze infantili; nell’ingoiare, che non trattiene nella cavità orale ciò che si gusta e che quindi esclude in realtà la degustazione vera e propria49; nel masticare (ed è diverso farlo incidendo, o lacerando strappando o molando ciò che si ha in bocca); nel degustare vero e proprio che mette in azione tutta la cavità orale, dai denti al palato, l’esperienza del gustare si snoda sempre tra i due poli del “buono” e del “cattivo”, che a nostro parere sono delimitati da due esperienze limite, che ovviamente a loro volta si toccano: il mangiare fiori, che “promette uno stato in cui la riproduzione della vita è indipendente dall’autoconservazione consapevole, la beatitudine sazia dall’utilità dell’alimentazione metodica”50, e dunque avvicina all’esperienza di un gustare separato dal nutrirsi, di un gustare fine a se stesso, che a sua volta porta alla rinuncia al principio di autoconservazione in nome del principio di piacere, in modo che il mangiare si apparenta strettamente all’essere mangiato (esperienza a nostro parere assai vicina al bacio erotico, offerto all’amante che non per nulla si vorrebbe mangiare di baci); e il mangiare ciò che maggiormente ci disgusta, che è probabilmente a metà strada tra il cadavere e l’escremento; è il caso del cannibalismo e della coprofagia; e se il primo ricorda la difficoltà nel superare il tabù nei confronti della morte ma al contempo si rifiuta di ridurre il morto a cadavere, cercando dentro le sue carni la traccia di uno spirito vitale, dimodoché il pranzo inconsapevole di Tieste, quello carico d’odio di Ugolino e quello avido di potere di Crono hanno in comune un rispetto 45 Nel dolce e nell’aspro sono sintetizzate due diverse tipologie di piacere gustativo; nel primo caso si accondiscende...dolcemente all’oggetto incorporato, nel secondo gli si oppone resistenza e il piacere è legato al superamento di questa resistenza. 46 Lo sanno bene i baristi che mettono sul banco i salatini e le patatine per poter vendere qualche birra o bitter in più! 47 Ci perdonino i gourmet: lo sappiamo che dal punto di vista “etico” anche un erorre per difetto è irreversibile! 48 Cfr. Theodor Adorno, “Though Baby”, in op. cit. pag. 43 49 L’iniziazione degli adolescenti ai cosiddetti piaceri del whisky avviene proprio attraverso la pratica dell’ingoiare; gli intenditori di questa bevanda sanno invece che anche il whisky va degustato; come siano arrivati non solo a trasformare l’aggressione del palato non solo in fonte di piacere ma anche a discriminare le varie dimensioni del sapore è forse uno degli elementi decisivi della loro “autobiografia gustativa” 50 Max Horkheimer, Theodor Adorno, op. cit. pag. 71 per il corpo dell’altro certo superiore a quello di certi trattamenti funerari odierni; la seconda avvicina le dimensioni del gusto a quelle del potere, che è forse il solo che può imporre il “gusto del disgusto”; nel caso di un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini il potere costringe alla coprofilia perché si è fatto padrone integrale dei soggetti e degli individui attraverso il controllo e l’espropriazione degli stessi sfinteri dei giovani (che possono evacuare solo quando e dove decidono i potenti), dunque attraverso la presa in possesso di ciò che di maggiormente privato e sottoposto a pudore sembra avere il corpo dell'uomo. Costringere a mangiare è allora una straordinaria e terribile manifestazione del potere, ed è forse possibile solo se si è padroni dell’interno corpo dell’altro/a e di tutte le sue manifestazioni. Sembra infine che una interessante contraddizione caratterizzi l’olfatto: da un lato esso è l’organo di senso più vicino a una dimensione di immaterialità (che cosa è infatti meno materiale di un odore o di un profumo?), dall’altro richiama alla materialità della terra legata all’idea animale dell’annusare; lo sviluppo dell’olfatto è legato infatti alla vicinanza fisica al terreno ed è stato proprio questo l’organo di senso che ha subito un ridimensionamento più radicale e repentino in conseguenza dell’acquisizione della posizione eretta. Mediatore tra l’animalità che comunque ci caratterizza e i tratti di raffinatezza che associamo alla cultura, l’olfatto ci mette in condizione di cogliere l’aspetto più poetico e al tempo stesso più materiale della natura. L’uomo e la donna vivono in un mondo odoroso: e se ne rendono conto subito, all’avvicinarsi di una mammella gonfia di latte; ma essi/e emanano odori: e di questo si rendono completamente conto alla fine della loro infanzia (ed è dunque importante nell’infanzia e nella preadolescenza una educazione olfattiva che permetta di discriminare tra i vari tipi di odori, anche tra quelli emanati dal soggetto); è allora che gli esseri umani cercano di coprire i loro odori personali con i profumi, le lozioni, i deodoranti, che costituiscono il sostituto culturale degli odori individuali e personali che gli animali si scambiano, e come per gli animali allargano nel tempo e nello spazio la sfera della presenza del soggetto (un odore va più lontano di quanto il corpo del soggetto immobile possa arrivare fisicamente, e permane un po’ più a lungo dopo che questi se ne è andato via). Sintomo di raffinatezza se utilizzati con giudizio e senza esagerare, i profumi possono diventare segno di eccessivo amore di sé o addirittura di volgarità: allo stereotipo della donna che seduce grazie alla tenue scia di profumo che lascia dietro di sé corrisponde quello della prostituta di terz’ordine che emana zaffate dolciastre di pessima colonia. Sono soprattutto le donne a profumarsi, e se gli uomini lo fanno è più che altro per coprire l’odore personale: un uomo che esageri con il profumo sarebbe immediatamente catalogato come “effeminato”; ma gli stereotipi culturali ci restituiscono anche odori “maschi”, e se in alcuni paesi italiani il detto “l’uomo vero deve puzzare” è ormai visto con un po’ di scherno e compatimento, la retorica che vede il massimo della virilità nello spogliatoio maschile della palestra che puzza di sudore e di creme al mentolo è dura a morire. L’odore personale del maschio è stato in passato mezzo di seduzione: e questo non solamente in un paradigma “machista” moderno; ne era nutrita per esempio anche l’esperienza greca della pederastia: “il sudore dei ragazzi profuma più di tutti i cosmetici di una donna."51. E d’altro canto commentare per gioco i propri odori personali è tipico oggi dell’adolescenza maschile52. Gli uomini e le donne scoprono a un certo punto della loro esistenza (sia dal punto di vista ontogenetico che filogenetico) di poter emettere cattivi odori, e cercano di correre ai ripari; ma si scopre anche quanto siano importanti gli odori personali nell’esperienza erotica (che compie una sorta di ribaltamento di senso conferendo dignità eccitante agli odori che in altre situazioni sarebbero vissuti come perturbanti); si scopre che il mondo intero ha un odore, si scopre il profumo dei cibi e dei fiori, insomma si ritrova la dimensione olfattiva dell’esperienza del mondo, dimensione che ritroviamo in certi modi di dire; per avere successo occorrerà “avere fiuto per gli affari”, sapere “annusare cosa c’è nell’aria”, saper sentire in ogni situazione “l’odore dei soldi”. E il tratto più tenero di Zio Paperone è proprio questa sua capacità animale di saper fiutare l’oro anche a chilometri di distanza. Una particolare attenzione ci sembra meritino alcuni “cattivi odori”: dalla puzza di smog e di inquinamento che si caratterizza a nostro parere come un odore coprente che fa sì che nelle nostre città si percepisca ovunque lo stesso odore, che Los Angeles puzzi come Milano e come Tokio, che si perda, all’uscita da una fabbrica, quella differenza sensoriale tra interno ed esterno che dava un senso 51 52 Achille Tazio, Gli amori di Leucippe e Clitofonte, II, 37 E’ dubbio se un nostro odore personale possa davvero disgustarci! all’espressione “uscire a respirare un po’ d’aria fresca”; agli odori “artificiali” degli elementi prodotti dall’uomo in laboratorio che spesso sono caratterizzati dal carattere urtante e urticante nei confronti degli organi di senso; all’odore della putrefazione della materia organica, sul quale è steso un grande tabù perché ovviamente l’esperienza che ne facciamo è così vicina al piacere considerato perverso per il dolciastro e per il rifiuto, che l’uomo e la donna adulti se ne devono tenere bene alla larga e che forse ha a che fare con il fascino che la morte e la tanatomorfosi (se non la necrofagia) esercitano sempre su di noi53; all’odore degli escrementi sul quale si stende un altro grande tabù della contemporaneità e che andrebbe studiato a lungo, accanto al fascino che ne promana (nessun contadino potrebbe affermare che quello del letame è un buon odore, ma spesso il poetico e un po’ retorico abitante della metropoli lo associa alla vita idilliaca della campagna); e infine all’odore del fumo, che per il nostro secolo è indissolubilmente associato a quel determinato che per quattro milioni di volte si levò dai lunghi camini dei campi di sterminio, e che rende ancora più attuale la stretta associazione tra profumo e memoria: spesso sede degli stimoli che danno l’avvio alla proustiana memoria involontaria, l’olfatto ci permette anche di ricordare consapevolmente ciò che non è moralmente lecito dimenticare e che si rinnova purtroppo ogni giorno nell’acre odore di tante stragi54. La “scimmia nuda”, come è noto, si caratterizza rispetto agli altri primati per la scarsità di pelo; forse un po’ goffi e ridicoli, uomini e donne quando sono nudi/e esibiscono la loro pelle senza protezioni naturali: è ovvio allora che carichino di forte valenza simbolica il poco pelo che rimane loro; anzitutto, uomini e donne pelosi/e saranno comunque considerati/e un po’ rozzi/e, al di là del fatto che in qualche situazione all’abbondanza di pelo del maschio possa essere associata un’idea di virilità. Ma sono soprattutto i capelli ad essere fortemente investiti simbolicamente, fino al punto che essi sono utilizzati come forma di comunicazione, come aspetto fondamentale del proprio “look”; tagliarsi i capelli costituirà un vero e proprio rito di passaggio che demarca l’inizio di una nuova epoca della vita personale del soggetto (si tagliano i capelli i ragazzi che vanno a fare il servizio militare e le ragazze che entrano in convento; le fidanzate che sono state lasciate e i marines che si preparano per uno sbarco); tingersi i capelli sarà una pratica che sempre più sarà adottata anche dagli uomini. Il significato simbolico dell’acconciatura varia a seconda delle culture e dei tempi storici: tenere i capelli lunghi ha significato in passato ribellione nei confronti della società adulta, ma con il tempo ha smarrito la carica eversiva ed è diventato un elemento di integrazione e di massificazione55; la libera scelta dell’acconciatura, come il fatto di doversi iniziare a radere per i maschi, a depilare le gambe per le femmine, demarca spesso il passaggio tra infanzia e adolescenza, così come un forte investimento simbolico sui peli corporei aiuta il ragazzo e la ragazza a passare la difficile soglie della pubertà; scherzare sui propri e sugli altrui peli pubici è tipico della preadolescenza, non solo nella nostra epoca e nella nostra cultura; quando spuntavano i primi peli l’efebo doveva essere lasciato dal proprio mentore ed era libero di cercarsi una donna (ma si sentiva anche tradito e non era più al centro degli sguardi degli altri adulti). Quello che da adulti sarà una sorta di feticismo del pelo pubico si manifesta da ragazzi/e come ricerca di un nuovo schema corporeo all’interno del quale un corpo quasi infantile deve fare i conti con esigenze sessuali ed evolutive quasi adulti: la comparsa dei primi peli fa da intermediario simbolico tra questi due mondi. Ma ciò che maggiormente esibiamo del nostro corpo è naturalmente la nostra pelle, così importante che è anch’essa entrata in parecchi modi di dire; da una persona che mi sta antipatica “a pelle”, fino alle “questioni di pelle”, sembra che all’idea della pelle sia sempre associata un’idea di nudità, di spontaneità, di svelamento: si possono costruire tanti discorsi e tante sovrastrutture, ma è solo “a pelle” che si capiscono i veri problemi. Del resto il colore della pelle è troppo importante per le sue ricadute storico-simboliche e culturali perché lo si possa ignorare; i “bianchi”, i “neri”, i “gialli”, così denominati attraverso un processo che un personaggio del geniale fumettista Mort Walker definirà 53 Si tratta di quel “fascino che viene dalla zona dei rifiuti, dall’odore nauseante e dolce della putrefazione” di cui parla Adorno come presagio infantile di una zona di materialità esclusa dalla riflessione della grande filosofia occidentale; cfr. Dialettica Negativa, Torino, Einaudi, 1975, pag. 330 54 L’amico Pierangelo Barone ci ha fatto notare come l’espressione “l’odore acre dell’esplosivo” ricorresse in modo quasi ossessivo in tutti i commenti giornalistici sulla strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969. 55 Il riferimento quasi d’obbligo è a Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1990, pagg. 5-11 “semplicifazione pubblicitaria” colorano la nostra esperienza del mondo e dell’altro/a; un mondo grigio, senza differenze di pelle, sarebbe povero e monotono: vedere il colore della pelle dell’altro/a e stupirsene, turbarsi della differenza in questo modo esibita e percepita, costituisce l’inizio di una educazione antirazzista che miri all’obiettivo della comunicazione tra diversi. La pelle poi ci fa provare il caldo e freddo, è in grado di “accapponare” dandoci quell’esperienza del brivido di cui abbiamo parlato sopra, arrossa quando vuole smentire le nostre comunicazioni formali56 o quando viene colpita57. Nella particolare dialettica dentro/fuori della quale abbiamo già parlato un posto particolare occupano gli umori corporei, ovvero quel qualcosa di interno che in qualche caso proiettiamo verso l’esterno; poco connotati simbolicamente se non negli scherzi dell’infanzia il muco e il cerume, un forte investimento simbolico riguarda invece la saliva, capace (almeno nell’immaginario diffuso) di trasmettere le malattie e usata come strumento di spregio e di scherno nel gesto dello sputo; ma la medicina non ufficiale conosce il potere lenitivo e curativo della saliva, che del resto viene anche scambiata nel bacio erotico e in tale caso la repulsione diventa attrazione, cosa che fece dire all’adolescente biblico “le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua” (Cantico dei Cantici, 4, 11-12); anche il sudore ricorda la dannazione del lavoro e della fatica che molti miti di fondazione e di origine sottolineano: ma gli uomini e le donne hanno scoperto che sudare può anche essere bello, nelle saune come nello sport, nelle escursioni o nel jogging; in questi casi al sudore è tolta la patina plebea, e anzi chi più suda più si distingue per la sua raffinatezza!58 Al sangue è associata tutta una retorica sulla quale non è possibile soffermarci più di tanto, ma che è comunque legata da un lato alla percezione dell’altrui sofferenza, non ignorabile se l’altro/a sanguina, dall’altro alla aggressività che porta a volere versare il sangue dell’altro/a59, dall’altro ancora alla discriminazione razziale o sociale, che cerca di isolare sangue di volta in volta “blu” o “ariano” o di altri buffi tipi; e del resto il sangue entra di prepotenza in quasi tutti i riti di iniziazione e di passaggio, anche in quelli di certi sottogruppi più o meno criminali della nostra società; sembra che la vista del sangue o almeno la sua nominazione renda più autentica una situazione: dai fratelli di sangue ai duelli all’ultimo sangue, dal picchiare qualcuno a sangue al criminale definito come sanguinario. Il sangue è sempre segno del corpo ferito, che fa godere il sadico e fa impietosire chi poi accorrerà in soccorso di colui/colei che esibisce sanguinando la propria impotenza. Nelle punizioni corporali, il sangue inscrive sul corpo la condanna e la pena del malfattore60. Infine, il sangue può essere scambiato, a certe condizioni, e chi dona il sangue si sente donatore di un principio vitale, di una possibilità concreta di rinascita. Anche alle lacrime sono stati associati tanti discorsi retorici; le lacrime sono tra i pochi umori del nostro corpo che non ci disgustano e sembra che richiamino un istinto protettivo di tipo materno che spesso dà origine all’abbraccio o comunque provoca il contatto con il corpo dell’altro/a; sarebbe interessante studiare le strategie corporee e/o verbali di consolazione tra le differenti culture o, all’interno di una cultura, tra le differenti classi o tra maschi e femmine. Piangere realizza quell’abbandono che esperiamo forse solo nell’orgasmo, quella rilassatezza muscolare che ci mostra nudi e inermi agli occhi del mondo; diversa è l’esperienza del ridere, che porta spesso alle lacrime, è vero; ma chi ride, spesso si irrigidisce; anche a livello muscolare, la risata sguaiata non attua una liberazione, uno scioglimento della tensione muscolare, come invece capita nel pianto. A tale irrigidimento fisico corrisponde un irrigidimento psicologico, un'accentuazione nella tensione dell'identità. Se io rido di qualcuno devo mascherare in me i tratti che mi avvicinerebbero a quel qualcuno su cui l'occhio di bue del comico si è puntato: e allora devo mascherarmi, coprirmi il volto, piegarmi in due proprio per assumere una posizione di difesa. Ridere di qualcuno significa evitare, per una volta di essere oggetto di scherno: e dunque non esibirsi, chiudersi, tendersi. E' tipico del gruppo di maschi che ride delle donne: nel femminile essi colgono attraverso il riso quanto sembra loro più 56 La muscolatura involontaria è investita dalla nostra cultura, apparentemente così verbocentrica, di un elevato valore di verità; così, se una persona che mi sta facendo i complimenti arrossisce, la mia ricerca di verità nel suo discorso “scenderà di livello” dalla comunicazione verbale a quella non verbale e dunque meno controllabile. 57 “Il corpo del fanciullo arrossa sotto la frusta, ma il corpo di chi lo frusta arrossa di vergogna”; proverbio africano 58 Un personaggio del fumettista americano Gary Trudeau, facendo le pulizie nella palestra di Jane Fonda, esclama: “Non credevo che signore così raffinate sudassero tanto!” 59 Cfr. i versi finali della poesia Il sangue del poeta camerunense Ndjock Ngana: “Il sangue non è ricco, povero o benestante/Il sangue è rosso/Disumano chi lo versa/non chi lo porta” 60 Cfr. Franz Kafka, Nella colonia penale in I Racconti, 1989, pagg. 179/210 lontano dall'identità maschile; si ride di una donna che non sa parcheggiare, o di una ragazza giudicata brutta che porti la minigonna. E per far questo si assumono atteggiamenti, linguaggi, pose corporee che attraverso l'insopportabile “machismo” mettono in ombra i lati deboli dell'identità maschile (sui quali, è vero, c'è poco da ridere!). Diverso è il ridere di me, nel quale, senza rinunciare alla dimensione sociale del riso (ridere di sé tra sé è sempre sociale, perché presuppone comunque un "io osservante" distinto dall’“io esperiente”) si opera una sorta di detensione della maschera della propria identità: è uno scioglimento che aiuta tra l'altro a ricercare delle falde e delle falle nella struttura dell'identità stessa; con la sdrammatizzazione propria del riso, è possibile leggere, all'interno dei frammenti di identità irrelati e perciò comici portati alla luce, la storia per episodi del proprio sviluppo e delle cicatrici, delle crepe che esso ha lasciato dietro di sé. Ridere di sé significa allora rendere un po' meno rigido il proprio senso di identità, elastizzarlo, ammorbidirlo; e se dopo aver riso dei propri punti deboli (ma perché poi "deboli"? spesso si ride proprio dei presunti punti "forti"!) si cercasse di riscrivere la propria biografia, la si scoprirebbe alleggerita, sciolta, dinoccolata, come l'andatura di chi è sicuro di sé proprio pealbrché ha abbandonato la sicumera, di chi sa prendersi sul serio proprio perché ha provato, almeno per una volta, a prendersi un po' in giro. Gli escrementi, oggetti come abbiamo già detto sopra di tabù e di fascinazione, entrano nella zona dell’interdetto quando da bambini/e scopriamo che essi non si possono toccare, che con essi non si gioca; l’acquisizione del controllo sfinterico relega nelle zone del non-detto e del tabù gli escrementi, ma non è affatto vero che essi connotino sempre qualcosa di negativo61. Del resto i modi di dire legati agli escrementi sono innumerevoli e forse non c’è oggetto che sia maggiormente citato, sotto la cortina dello scherzo e dell’umorismo; scherzare con gli escrementi significa coglierne tutte le dimensioni simboliche ma significa anche indurre il soggetto alla valutazione del carattere ciclico della vita e della natura 62. Infine, qualche parola sullo sperma e sul mestruo, che demarcano in modo del resto affatto differente l’ingresso del ragazzo o della ragazza nel mondo della pubertà; se alla polluzione è legato comunque un senso di stupore e spavento, soprattutto se avviene in modo involontario, magari durante il sonno63, è forse la ragazza a pagare un pegno più elevato, per quel misto di vergogna e di paura al quale sono associate comunque le prime mestruazioni. Anche laddove questo evento è stato preparato con attenzione e con amore da parte delle madri o delle sorelle maggiori64, il dato di fatto della vista del sangue terrorizza e sconcerta la ragazza. Sperma e mestruo sono il segno di un corpo che cambia, segno che spesso però viene letto a livello simbolico come perdita della cosiddetta purezza infantile e come ingresso del ragazzo o della ragazza in un mondo adulto dove sarà “sporco” tutto ciò che riguarderà gli organi genitali, la procreazione, il coito. Ma mentre il ragazzino troverà a livello sociale dei supporti per la reintegrazione del suo nuovo, ingombrante organo genitale in uno schema corporeo accettabile65, sarà più difficile farlo per la ragazza, chiusa in un reticolo di tabù, non importa se sessuofobi o ispirati a una sorta di declinazione maschilista dell’idea di liberazione sessuale. E’ proprio nel momento magico della pubertà, quando ci si rende conto finalmente “nel proprio corpo” che i corpi non sono tutti uguali, 61 La cultura contadina è ricca di proverbi e di aneddoti nei quali gli escrementi, essendo alla base del letame e dunque di un elemento decisivo nella ricchezza del contadino, hanno valore altamente positivo. Ricordiamo la legenda dell’asino che defeca denari; in Lombardia era diffuso il proverbio “Ann de erba, ann de merda” che la cultura urbana erroneamente interpreta “Se un anno produce troppa erba sarà un anno negativo perché non vi saranno frutti”; esso giocava invece sulla materialità dell’escremento e non sul suo valore simbolico, e significava allora il contrario “Più erba vi sarà in una stagione, più letame sarà possibile produrre, e dunque sarà stato un anno positivo”! 62 Due libri per bambini recentemente pubblicati hanno finalmente il coraggio di sfidare il tabù culturale sugli escrementi che si è sovrapposto al tabù biologico/evolutivo legato all’acquisizione del controllo sfinterico: si tratta di L’incredibile storia di Lavinia di Bianca Pitzorno, Torino, Einaudi, 1997; e di Chi me l’ha fatta in testa? Di Werner Holzwarth e Wolf Elbruch, Fiurenze, Salani, 1988 63 Il cantautore Franco Battiato ha così genialmente sintetizzato questa sensazione nella canzone Mesopotamia: “La prima goccia bianca che spavento/e che piacere strano”. Questa prima associazione tra piacere e sconcerto di sé potrebbe essere decisiva per il soggetto di sesso maschile come per la ragazza è decisiva l’associazione della prima scoperta della propria sessualità con la vergogna (ed occorre rimarcare che nella mestruazione è assente l’aspetto di piacere che c’è invece nella polluzione) 64 E’ impressionante e sconcertante quanto ancora oggi, in Occidente, le mestruazioni siano considerate consciamente o meno qualcosa di negativo e di sconcio e siano caricate con un senso di colpa latente e perciò più pericoloso! 65 Anche per i maschi questo è sempre meno vero nella nostra società. quando si anticipa nell’onanismo quella sensazione di abbandono al mondo e all’evento che ritornerà centuplicata nell’orgasmo, quando è il corpo a capire che esistono due sessi (e allora forse ne esistono sei miliardi); è proprio allora che la differenza di genere viene declinata come possibile dislivello tra i sessi, come se esistesse un genere privilegiato e uno in qualche modo inferiore; portare il proprio “rinnovato” organo genitale sarà per la ragazza in qualche modo il segno di una colpa, per il ragazzo il segno di un potere e di una possibile prevaricazione. Forse non esiste attualmente un tabù generalizzato sul sesso66, ma la nominazione degli organi genitali, che potrebbe essere alla base di una differenziazione del linguaggio a seconda del genere e dell’attribuzione di due diverse sessualità al maschio e alla femmina67, è spesso impedita o abilmente mascherata: mai come a proposito dei nomignoli affibbiati agli organi genitali il linguaggio umano dimostra tutta la sua potenza creatrice e la sua varietà di modi di dire. Occorre allora una educazione genitale e una educazione ai genitali; e se Freud aveva forse ragione ad affermare che non è possibile trovare “belli” i genitali, è però possibile che sia bella e memorabile nell’adolescenza la scoperta della propria dimensione maschile e femminile; e che non si tratti di una sensazione di colpa e di vergogna; associata perlomeno al piacere per il maschio; per la femmina, nemmeno a quello! Il corpo nasce e muore; il bruto dato di fatto del venire al mondo come corpo ci riporta al trauma della nascita68 e a tutti i traumi successivi in qualche modo ad esso legati; l’esperienza-limite dell’essere gettati nel mondo, venendo così sottratti alla dimensione di quiete tipica dell’universo amniotico, genera probabilmente tutte le angosce successive di separazione e di abbandono; è allora importante nascere bene, è fondamentale un vissuto corporeo di accoglienza al momento della nascita69. Del resto, all’esistenza intrauterina associamo comunque fantasmi di benessere totale e di felicità assoluta, che spesso non è distante dall’immagine della morte70. Infatti, dal momento in cui nasce il corpo deve anche morire, perché ogni nascita è una morte 71; nascere e morire costituiscono delle esperienze che di fatto il soggetto non compie, perché sono i limiti 72 esistenziali della soggettività stessa. E forse non vi è nulla di più perturbante del corpo morto: testimonianza di una ulteriore esperienza-limite, la visione del corpo morto ci risveglia il fantasma dell’essere-gettati, dell’esserestrappati a una dimensione esistenziale (che è poi l’unica che conosciamo); la paura della morte, forse davvero un dato universale73, ci spinge dapprima a trasformare immediatamente il corpo morto in cadavere, e quindi ad oggettualizzarlo e a sottoporlo ai trattamenti di cosmesi che hanno come scopo impedire la vista della putrefazione74; e in secondo luogo a sbarazzarci anche del cadavere stesso, attuando quella rimozione del corpo morto che è tipica dell’Occidente nella seconda metà del XX secolo75. 66 Cfr. Michel Foucault, La volontà di sapere, cit. Occorre ricordare che la nostra concezione della sessualità umana è basata in realtà sull’esportazione di un modello maschile (quale è quello freudiano) nel campo del femminile: espressioni come “invidia del pene” dovrebbero farcelo capire. 68 Cfr. Otto Rank, Il trauma della nascita, Milan, SugarCo, 69 Che dire di questa angoscia esistenziale per i bambini e le bambine che vengono al mondo tra i rifiuti, nelle bidonvilles, sotto i bombardamenti “chirurgici” dei nuovi sceriffi o in tuguri senza luce e senz’aria? L’esperienza della nascita e il trauma ad esso collegati sono certo un universale; ma come può certa psicoanalisi dimenticare le differenti condizioni culturali e sociali nelle quali essa ha luogo? 70 Cfr. Theodor Adorno, “Regressioni”, in Minima Moralia, cit., pag. 239: “Nulla può sostituire, per noi, la luminosità intatta fuorché l’oscurità priva di coscienza. Non abbiamo altro pegno di ciò che un giorno potremmo essere fuorché il sogno di non essere mai nati” 71 E ogni morte è morte di un uomo o di una donna che sono nati, e dunque di un figlio e di una figlia; ogni morte dunque ferisce una madre, viva o morta che essa sia. 72 Fr. Federico Garcia Lorca, Confini: “La mia vita confina al nord con la morte/ e al sud con mia madre ferita” 73 cfr. Louis-Vincent Thomas, op. cit. 74 Si parla sempre del cadavere come di qualcosa di rigido, scordando che il rigor mortis è solamente una fase della tanatomorfosi; il cadavere è rigido ma il corpo abbandonerà ben presto la rigidità cadaverica per sciogliersi nella putrefazione. Resterà (anch’esso non per sempre) lo scheletro, seconda fase di irrigidimento del processo di tanatomorfosi, che se fa paura costituisce comunque (forse proprio per la sua “pulizia”) una rappresentazione della morte sufficientemente addomesticata e socialmente accettata 75 Cfr. Michel Vovelle, op. cit.. 67 Ciò che ci colpisce del cadavere è la sua nudità, l’impotenza che essa sottolinea e il fatto che proprio perché nudo il corpo morto si lascia aggredire dagli agenti della dissoluzione76. Del resto, il corpo spogliato richiama all’idea di impotenza e di mancanza di difese; non si tratta tanto e solamente dell’esibizione delle cosiddette “parti vergognose”, quanto di una offerta totale di sé all’altro/a che diventa davvero completa quando cade l’ultimo gesto del pudore. Se allora il pudore stesso può e deve essere inteso come strategia di resistenza77, il fatto di denudarsi, di mostrarsi nudi/e all’altro/a in una situazione di coppia o agli/alle altri/e in situazioni gruppali sottolinea una fiducia pressoché totale nell’altro/a; non per nulla essere obbligati a denudarsi, magari in pubblico costituisce una delle più sottili forme di violenza che un soggetto possa mai subire; lo sapevano bene i nazisti che facevano della spogliazione dei deportati e delle deportate la prima, terribile violenza; obbligare qualcuno/a a mostrarsi nudo/a cosalizza il suo corpo, lo/la obbliga a una fiducia che egli/ella sa bene di non poter nutrire, lo/la sottopone alla costrizione all’impotenza e alla vergogna78. Dunque, il fatto vestirsi e forse ancora di più di travestirsi79 significa al contempo velare la propria identità, imporre una barriera tra sé e gli agguati del mondo ma anche prendersi cura di se stessi. Si tratta certo di un tratto tipico delle donne che si truccano e dunque aggiungono al vestito un’altra dimensione della cura di sé, ma anche degli uomini in situazioni particolari: i clown, gli attori, tutte le maschere del carnevale. Infine, quel peculiare oggetto dotato di una peculiare materialità che è il corpo, ritrova la sua propria identità quando viene messo alla prova; succede nei riti iniziatici, nelle sfide adolescenziali delle quali è testimonianza il film Stand by me80, in quel surrogato dell’iniziazione che nella nostra società è lo sport81. E’ possibile pensare che il corpo possa de-cosalizzarsi mettendosi alla prova senza cosalizzare il corpo degli altri o delle altre? E’ possibile pensare a una solidarietà creaturale dei corpi che si mettono alla prova come collettività, che lasci ad ognuno/a il suo proprio corpo senza che per questo altri/e debbano soffrire fisicamente o moralmente? E’ possibile pensare, per i nostri ragazzi e le nostre ragazze, dei riti di iniziazione e di conoscenza del proprio corpo che non portino a sfiorare, come oggi accade, gli asintoti della totale decorporeizzazione dell’altro/a, gli abissi di follia dell’omicidio, della tortura e dello stupro? 76 Per questo forse è uso occidentale l’interrare i cadaveri vestiti di tutto punto. Pensiamo all’insensibilità crassa verso le dimensioni della nudità in certe istituzioni totali: ospedali, caserme, carceri ecc. 78 Una delle vessazioni cui i “bulli” a scuola sottopongono i ragazzi più piccoli consiste proprio nell’obbligarli a denudarsi o a mostrare agli altri ragazzi i propri genitali. E’ una procedura inizialmente maschile ma oramai ereditata da tante “bulle”. 79 Cfr. E. Cerulli, Vestirsi, spogliarsi, travestirsi, Palermo, Sellerio, 1981 80 Tanti “incomprensibili” comportamenti degli/delle adolescenti, che li portano a sfidare la morte e spesso purtroppo a incontrarla, potrebbero essere letti in quest’ottica. 81 Cfr. Raffaele Mantegazza, Con la maglia numero sette. Le potenzialità educative dello sport nell’adolescenza, Milano, Unicopli, 1999 77
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