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Luci e ombre del Jobs act
I dossier de lavoce.info
• Il contratto a tutele crescenti è legge. È una buona notizia? – Pietro Garibaldi, 24/02/15; • Cosa succede con la fine di collaboratori e finte partite Iva – Marco Leonardi, 24/02/15; • Jobs act, verso nuovi ammortizzatori sociali – Patrik Vesan, 13/02/15; • Art. 18 nuovo e “armonizzato” per i dipendenti pubblici – Luigi Oliveri, 10/02/15; • La povertà continua a non essere in agenda – Chiara Saraceno, 10/02/15; • Politiche attive del lavoro tra stato e regioni – Francesco Giubileo, 03/02/15; • Quanta instabilità nei contratti a termine – Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, 22/01/15; • Nel Jobs act buoni propositi per il lavoro delle donne – Alessandra Casarico e Daniela Del Boca, 13/01/15; • Così il Jobs act cambia la struttura dei salari – Marcello Esposito e Marco Leonardi, 07/01/15; • Incompleta e confusionaria, ma è una riforma del lavoro – Pietro Garibaldi, 30/12/14; • Quali tutele? E quanto crescenti? – Tito Boeri e Pietro Garibaldi, 23/09/14; • Lavoro: gli scenari dopo il decreto Poletti – Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, 02/09/14; • La semplificazione che complica il lavoro – Luigi Mariucci, 15/04/14; • Tanti contratti, poco lavoro – Tito Boeri, 28/03/14; • Renzi, il Jobs Act e la precarietà infinita -­‐ Chiara Saraceno, 18/03/14; • Per favore, cambiate quel decreto! – Tito Boeri, 14/03/14; Il contratto a tutele crescenti è legge. È una buona notizia? Pietro Garibaldi, 24/02/15 Il contratto a tutele crescenti è legge dello stato: dal 1° marzo regolerà le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Porterà davvero a un miglioramento del mercato del lavoro? Dipende dalla sua capacità di ridurre la precarietà. E il risultato non è scontato. Gli effetti del decreto Poletti. UNA BUONA NOTIZIA? Il contratto a tutele crescenti è legge dello stato. Dal primo marzo le nuove assunzioni a tempo indeterminato saranno regolate da un nuovo contratto. Per questo sito è certamente una buona notizia. Con Tito Boeri abbiamo scritto su queste pagine il primo articolo a sostegno dell’idea di un nuovo contratto a tempo indeterminato nel 2006. Possiamo dire che si tratti di una buona riforma e di una buona notizia per il paese? Non ancora. Perché la riforma porti davvero a un miglioramento del mercato del lavoro, abbiamo bisogno di vedere i suoi effetti in termini di riduzione della precarietà. Il risultato non è scontato. Primo, perché alcuni errori di architettura sono stati commessi. Secondo, perché la riforma non è completa. Vediamo in dettaglio questi punti. Sulla riforma degli ammortizzatori sociali e la nuova Aspi, torneremo nelle prossime settimane. IL NUOVO CONTRATTO Dal primo marzo 2015 il contratto a tempo indeterminato per i nuovi assunti non sarà più regolato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il licenziamento per motivi economici sarà regolato da un indennizzo monetario anche quando l’interruzione di lavoro avverrà senza giusta causa. La reintegra resisterà soltanto per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari. E ovviamente per i licenziamenti discriminatori. Se il lavoratore accetterà la risoluzione immediata del contratto senza aspettare il giudizio di un tribunale, il risarcimento -­‐ che partirà da un minimo di due mesi e crescerà di un mese di retribuzione all’anno -­‐ sarà doppio. Sui confini labili tra licenziamenti economici e disciplinari abbiamo già scritto. Il decreto di venerdì ha risolto l’incertezza sui licenziamenti collettivi. L’indennità monetaria senza reintegra si applicherà anche per i licenziamenti collettivi senza giusta causa. Nonostante il parere contrario del Parlamento. Questo significa che nei prossimi anni -­‐ in caso di licenziamento collettivo infondato -­‐ alcuni lavoratori avranno diritto alla reintegra e altri no. In questa prima fase, il trattamento differenziato tra lavoratori assunti con le vecchie regole e quelli assunti con le nuove sarà forse eccessivo, ma più avanti (quando quasi tutti i lavoratori saranno regolati dal nuovo contratto) la differenza sui licenziamenti collettivi sparirà. Forse un compromesso poteva essere quello di posticipare di qualche anno l’applicazione della parte relativa ai licenziamenti collettivi. Ma il Governo ha voluto essere molto decisionista e ha confermato in pieno le nuove regole, anche per i licenziamenti collettivi. COME VALUTARE IL SUCCESSO DELLA RIFORMA? Dobbiamo ora aspettarci un aumento dell’occupazione? Su questo punto dobbiamo prestare molta attenzione, anche perché il Governo sta facendo un po’ di confusione e un po’ di propaganda. Di fianco al contratto unico, la Legge di stabilità approvata a fine 2014 ha introdotto un beneficio fiscale per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. È una riduzione di tasse per chi assume a tempo indeterminato che può raggiungere i 24mila euro su tre anni. Non è chiaro se il beneficio si potrà estendere anche al 2016, ma indubbiamente la domanda di lavoro nel 2015 dovrebbe aumentare. Essendo una riduzione del cuneo fiscale per le nuove assunzioni, questo aspetto della Legge di stabilità deve essere visto con favore. Ma i suoi effetti non devono essere confusi con quelli del contratto a tutele crescenti. Se nei prossimi mesi osserveremo un aumento degli occupati, non dobbiamo pensare che sarà necessariamente dovuto al nuovo contratto. Molto probabilmente sarà dovuto al beneficio fiscale. Che effetti dovremmo quindi aspettarci dal nuovo contratto? Rendendo più facili le interruzioni di lavoro, implicherà ovviamente un aumento dei licenziamenti. Al tempo stesso, renderà anche più facile assumere nuovi lavoratori. Il saldo netto è però ambiguo, come da sempre evidenziato dagli studi empirici in materia. Il vero obiettivo del contratto a tutele crescenti non va ricercato tanto nella riduzione della disoccupazione, quanto piuttosto nella riduzione della precarietà. Questo significa che la riforma avrà avuto successo se la quota di assunzioni a termine si ridurrà. Come dovrebbe ridursi anche la quota di assunzioni sotto altre forme instabili (in particolare contratti a progetto e false partite Iva). GLI ERRORI DI ARCHITETTURA Nella riforma vi sono peraltro degli errori di architettura. Il Governo nel maggio 2014 (attraverso il cosiddetto decreto Poletti) ha liberalizzato i contratti a termine. Pensiamo a cosa succederà quando il beneficio fiscale della Legge di stabilità verrà meno. Non si tratta di un’ipotesi accademica perché il rischio che il bonus fiscale non sia sostenibile per le nostre finanze pubbliche è molto concreto. In Italia è ora possibile assumere a termine senza causa scritta e rinnovare per cinque volte il contratto nell’arco di tre anni. Nulla vieterà a un’impresa di offrire il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti soltanto dopo tre anni di contratto a termine. Tenendo conto che nei primi due anni l’indennizzo è decisamente modesto, in queste condizioni si rischia di rendere precario un nuovo assunto per almeno cinque anni. Ciò significa che una volta esaurito il beneficio fiscale, la precarietà potrebbe anche aumentare. Una situazione paradossale. Il Governo avrebbe dovuto ridurre a due anni la durata massima del contratto a termine. Nei provvedimenti emanati venerdì si è deciso di non toccare il decreto Poletti del 2014. Il Governo ha mosso i primi (timidi) passi per la riduzione del precariato a partire dal 2016, come illustriamo più in dettaglio. I nuovi decreti dovranno comunque attendere il parere del Parlamento: ci auguriamo che questa volta sia più efficace e riesca a convincere il Governo a ridurre la durata massima dei contratti a termine. Cosa succede con la fine di collaboratori e finte partite Iva Marco Leonardi, 24/02/15 L’attuazione del Jobs act mira all’abolizione -­‐a partire da gennaio 2016-­‐ delle finte partite Iva e dei contratti a progetto che ingrossano le fila del precariato. Facciamo il conto di quanti sono i collaboratori che possono diventare lavoratori subordinati. In ossequio alla promessa di ridurre il numero delle forme contrattuali, il secondo round di decreti del Jobs act, ha messo al centro l’abolizione del contratto a progetto per ora solo nel settore privato. L’articolo del decreto approvato il 20 febbraio recita: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.” ITALIA, PATRIA DI LAVORATORI AUTONOMI Questa nuova norma allarga la definizione di lavoro dipendente subordinato anche a quei lavori “autonomi” che sono in qualche modo organizzati da un committente (i cosiddetti autonomi etero-­‐organizzati). L’intento è riportare nell’alveo del lavoro dipendente le molte finte partite Iva e contratti a progetto che ingrossano le file del precariato. L’Italia è il paese del lavoro autonomo: i lavoratori autonomi sono circa 6,3 milioni, il 23 per cento dell’occupazione totale, quasi dieci punti percentuali in più dei vicini francesi e tedeschi (15 per cento). Alcuni sono imprenditori, ma la maggior parte sono autonomi senza dipendenti (il 18 per cento dell’occupazione totale contro l’11 per cento in Francia e Germania). È probabile che molti di questi ultimi sarebbero lavoratori dipendenti in qualunque altro stato europeo. L’implicazione pratica della nuova norma è che d’ora in poi un lavoratore etero-­‐organizzato può andare dal giudice e chiedere di essere trasformato in subordinato. Questo vale per qualunque lavoratore autonomo che abbia una partita Iva o sia un collaboratore. Molte partite Iva e collaboratori sono davvero lavoratori autonomi e rimarranno tali. Ma quali e quanti sono i collaboratori che più probabilmente diventeranno subordinati? I contratti di collaborazione sono di vario tipo e i “collaboratori” fanno mestieri assai diversi (co.co.co e co.co.pro ci sono sia nel pubblico sia nel privato) e la loro quota nell’occupazione totale è già in calo per effetto della legge Fornero collaboratori (soprattutto collaboratori a progetto: 200 mila unità in meno rispetto al 2011). La tabella riassume le loro principali caratteristiche come si evincono dai dati della gestione separata dell’Inps. Tabella 1: caratteristiche dei collaboratori nel 2013 La grande maggioranza dei collaboratori ha un contratto a progetto (502 mila) o è amministratore o sindaco di società (506 mila). Queste due figure sono molto diverse per età media e reddito: giovani e a basso reddito i lavoratori a progetto, anziani e ad alto reddito gli amministratori. I collaboratori nel settore pubblico sono 42 mila(soprattutto università) cui vanno aggiunti molti sindaci o amministratori di aziende pubbliche o para-­‐pubbliche, più ovviamente i dottorandi (52 mila) e i medici specializzandi (28 mila). QUANTI SONO TOCCATI DALLA RIFORMA E QUANTI NO Nessun collaboratore del pubblico è toccato dalla riforma almeno fino al 2017 e in attesa della riforma del pubblico impiego. Il decreto esclude infatti dalla riforma gli amministratori, i collaboratori della Pa, i dottorati e i medici specializzandi. In più esclude i lavoratori il cui contratto collettivo ammette esplicitamente i contratti di collaborazione (in sostanza i lavoratori dei call centre che sono classificati tra i co.co.pro). Alla fine la riforma riguarda circa 500 mila collaboratori del settore privato. Per cercare di capire quanti di loro potenzialmente potranno diventare lavoratori dipendenti, la tabella sotto indica se i collaboratori sono mono o pluri-­‐committente e se vivono solo di quel contratto da collaboratore (se cioè non hanno altre forme di tutela previdenziale obbligatoria, sono i cosiddetti collaboratori “esclusivi”). Tabella 2 I collaboratori che hanno maggiori probabilità di essere trasformati in lavoratori dipendenti con il nuovo contratto a tutele crescenti sono quelli che sono mono-­‐committenti ed “esclusivi”, cioè non hanno altra copertura previdenziale se non la gestione separata. In questo caso il collaboratore ha tutto l’interesse a diventare un dipendente e il suo unico committente potrebbe essere invogliato a trasformarlo in dipendente approfittando degli sgravi contributivi previsti per il nuovo contratto a tutele crescenti. In termini di reddito, il 90 per cento dei collaboratori mono-­‐committenti ed esclusivi guadagna meno di 24 mila euro annuali e quindi avrebbe diritto alla decontribuzione totale per tre anni se firma un contratto a tempo indeterminato nel corso del 2015. Non tutti i 371 mila collaboratori a progetto mono committenti ed esclusivi verranno ragionevolmente assunti come dipendenti. Molto più probabilmente saranno circa 200 mila perché dobbiamo togliere i lavoratori dei call centre e dobbiamo considerare che molti committenti non vorranno comunque stipulare contratti a tempo determinato o indeterminato. Infine molti collaboratori in realtà preferiscono rimanere autonomi e ovviamente potranno continuare a esserlo. Gli altri tipi di collaboratori, quelli “pluri-­‐committenti” e quelli “non esclusivi”, probabilmente rimarranno lavoratori autonomi ma senza contratto a progetto. Quelli che sono pluri-­‐committenti (circa 50 mila) probabilmente apriranno una partita Iva. Tutti gli altri probabilmente manterranno un rapporto di lavoro autonomo senza necessariamente aprire una partita Iva. Avranno un rapporto di collaborazione come ora e il datore verserà una quota di contributi alla gestione separata Inps esattamente come ora. Per esempio tra i 502 mila co.co.pro, circa 85 mila non sono “esclusivi” cioè coperti anche da altre casse previdenziali. La maggior parte di essi sono pensionati (38.900) ma anche lavoratori pubblici o privati (30 mila) o artigiani e commercianti (10.400). Tutti questi probabilmente sono veri autonomi e rimarranno collaboratori. Il problema (o la fortuna) sarà per i collaboratori mono-­‐committenti ed “esclusivi” il cui committente non vuole comunque fare un contratto di tipo subordinato. Se sono evidentemente etero-­‐organizzati d’ora in poi possono chiedere al giudice di essere assunti come dipendenti. Jobs act, verso nuovi ammortizzatori sociali Patrik Vesan, 13/02/15 A partire dal primo maggio 2015 la Nuova assicurazione sociale per l'occupazione (Naspi) prenderà il posto sia dell'Aspi, sia della mini-­‐Aspi. L'innovazione principale riguarda l'abbattimento dei requisiti contributivi e di anzianità assicurativa, che vengono portati rispettivamente a 30 giornate di lavoro effettive nei 12 mesi precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione e a 13 settimane di contributi versati negli ultimi quattro anni. Per avere un termine di paragone, si ricordi che la mini-­‐Aspi richiedeva 13 settimane di contribuzione nell'anno precedente la perdita del lavoro, mentre l'accesso all'Aspi era ancora regolato secondo criteri definiti nei primi decenni del XX secolo. Si tratta dunque di un risultato importante perché, modificando le rigide condizioni di accesso previste in passato, si dà vita per la prima volta in Italia a un'indennità assicurativa di natura tendenzialmente universale. La durata della nuova indennità sarà pari alla metà delle settimane di contribuzione versate negli ultimi 4 anni, fino a un massimo potenziale di 24 mensilità. Con le nuove regole si stima una durata media effettiva delle prestazioni superiore all'assetto vigente, a fronte di un incremento degli oneri complessivi di circa 1700 milioni di euro una volta a regime. Il decreto attuativo introduce altre due novità. La prima riguarda l'indennità assicurativa riservata ai collaboratori a progetto (Dis-­‐Coll), che sostituirà la precedente misura "una tantum" caratterizzata da un importo più limitato e da più stingenti requisiti di accesso. La seconda novità riguarda l'introduzione di un Assegno per la disoccupazione (Asdi), riservato alle persone in stato di bisogno, e prioritariamente ai lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni o in età vicina al pensionamento che hanno esaurito la Naspi senza trovare un'occupazione. Al momento si tratta di uno schema di durata semestrale non rinnovabile, che eroga una somma pari al 75% dell'ultimo importo della Naspi ricevuto, fino a un ammontare non superiore all'assegno sociale. L'importo potrebbe quindi rimanere limitato per i redditi da lavoro molto bassi, non essendo prevista una soglia minima (o fissa) di sussistenza. Ciononostante, si tratta di un'innovazione importante che potrebbe servire da "testa di ponte" per l'introduzione e il consolidamento di un sussidio assistenziale per la disoccupazione di carattere permanente e universale, da tempo presente in molti paesi europei. ALLA RICERCA DI UNA MAGGIORE COERENZA Il nuovo sistema di tutele del reddito contro la disoccupazione è certamente più equo rispetto a quello disegnato dalla legge 92 del 2012 sia in virtù della sua maggiore copertura, sia perché il suo importo è agganciato più esplicitamente all'effettiva storia contributiva del lavoratore. È possibile comunque ravvisare alcune debolezze che potrebbero risiedere nel raccordo tra questo decreto attuativo e le altri componenti del Jobs Act. Per brevità, menzioneremo solo due aspetti. Il primo aspetto riguarda il rapporto tra la Naspi e le indennità di licenziamento previste nel decreto sul contratto a tempo indeterminato "a tutele crescenti". Queste ultime sono concesse solo nel caso in cui il giudice sentenzi l'illegittimità del licenziamento o quando le parti giungono a una conciliazione. Non si tratta dunque di indennità che scattano automaticamente in caso di licenziamento, indipendentemente dalla sua legittimità, come avviene in altri paesi. Se anche in Italia si optasse per tali misure (severance payments), esse potrebbero affiancare la stessa Naspi, rafforzando per tutti il livello delle tutele offerte e liberando eventualmente risorse. Il secondo aspetto riguarda l'annosa riforma del sistema delle politiche attive del lavoro, oggetto anch'esso del Jobs Act. Il decreto sugli ammortizzatori sociali tocca indirettamente la questione sia con riferimento all'introduzione del nuovo contratto di ricollocamento, sia alle politiche di condizionalità che dovrebbero accompagnare la concessione dei sussidi. È chiaro che la reale consistenza di quanto previsto dal decreto dipende da come verrà rivista la governance dei servizi per l'impiego pubblici e privati, che finora ha dato prova di scarsa performance. ASDI: SPERANZA O DELUSIONE? Una delle novità più rilevanti introdotte dal decreto è l'Asdi. Purtroppo tale assegno ha per ora solo una natura sperimentale e sarà disponibile fino all’ esaurimento dei fondi stanziati, anche se, una volta introdotto, non rifinanziarlo significherebbe assumersi la responsabilità politica di un passo indietro. Come rilevato da più parti, l'Asdi non potrà rispondere ai bisogni di quelle persone in condizioni di povertà caratterizzate da una bassissima intensità di lavoro o che non hanno mai lavorato, per le quali sarebbe opportuno intervenire con uno strumento diverso da un sussidio di disoccupazione. Tale questione ci riporta al grande assente nell'agenda di riforma del governo Renzi, ovvero lo schema nazionale di reddito minimo. Le novità introdotte dal Jobs Act, pur essendo focalizzate sulle politiche del lavoro e non di assistenza sociale, potrebbero comunque essere foriere di sviluppi anche su questo fronte. Tanto più l'Asdi sarà in grado di assistere i disoccupati che hanno esaurito la copertura assicurativa, tanto più mirata e residuale potrà essere la risposta che l'introduzione di un reddito minimo universale dovrà dare. In tal senso, l'Asdi, potrebbe contribuire a levigare alcune resistenze di fondo, favorendo la futura introduzione di uno strumento di garanzia di ultima istanza, a fianco o in sostituzione dello stesso Asdi. Se però ciò non dovesse avvenire, l’Asdi, una volta generalizzato come schema assistenziale di disoccupazione,contribuirebbe perlomeno a rafforzare il sostegno fornito dalla nuova indennità di disoccupazione (la Naspi), divenuta ora di facile accesso anche rispetto a quanto accade in altri paesi. Dopo anni di buoni intenti e propositi, si tratterebbe di un risultato non trascurabile. La replica di Chiara Saraceno Come ho scritto, le buone intenzioni dell'Asdi non ne modificano il carattere categoriale, che conferma la frammentarietà, oltre che l'iniquità, del sistema di protezione sociale in Italia. Pensare che possa servire da “testa di ponte” verso l'introduzione di un reddito di garanzia per chi si trova in povertà è, nel migliore dei casi, un “wishful thinking” che non trova alcuna giustificazione nella storia passata e recente del nostro paese. Art. 18 nuovo e “armonizzato” per i dipendenti pubblici Luigi Oliveri, 10/02/15 Difficile sostenere che la riforma dell'articolo 18 contenuta nel Jobs Act non si applichi al lavoro pubblico. Vero però che serve un'armonizzazione, per evitare storture applicative. Ricollocazione del dipendente licenziato e pagamento degli eventuali indennizzi sono le questioni più spinose. RIFORMA DELL'ARTICOLO 18 E LAVORO PUBBLICO Emanato lo schema di decreto sul “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, torna il tormentone sull’applicabilità dell’articolo 18 al lavoro pubblico, già manifestatosi all’epoca della riforma Fornero. Nei giorni scorsi, si è assistito nuovamente all’insorgere di opinioni divergenti. Pietro Ichino, relatore della riforma, propende per la piena applicabilità del Jobs Act al lavoro pubblico. Il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno sostenuto che la riforma delle tutele contro il licenziamento illegittimo, oggetto del Jobs Act, non investono il lavoro pubblico, visto che l’intera riforma riguarderebbe il solo lavoro privato. Toccherà, dunque, alla prossima riforma della pubblica amministrazione esaminare la questione. Per la verità, gli emendamenti al testo del disegno di legge apportat lo scorso gennaio non hanno contribuito a chiarirla in modo definitivo. Quella espressa dai ministri è una vecchia tesi, molto debole, che non esamina a fondo la questione delle tutele nel caso di licenziamenti e si basa sulle peculiarità del lavoro pubblico, che derivano dall’assunzione tramite concorsi. Tuttavia, non si capisce per quale ragione la modalità di reclutamento seguita dal datore pubblico debba o possa influenzare la tutela apprestata al dipendente illegittimamente licenziato. Sin dalla riforma Fornero, la risposta alla possibilità di estendere o meno le disposizioni sulle tutele dei licenziamenti nel lavoro pubblico e, in particolare, i contenuti dell’articolo 18, è fornita espressamente dal testo unico che lo disciplina, il decreto legislativo 165/2001. L’articolo 51, comma 2, è inequivocabile: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Non c’è, dunque, nel testo unico sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni una disciplina speciale o derogatoria, rispetto a quella operante nel lavoro privato, per la tutela dai licenziamenti. Senza una norma speciale di deroga, eventualmente da introdurre con la riforma della pubblica amministrazione, l’unico modo per affermare che il Jobs Act non vale per il lavoro pubblico, è ammettere che resti in vigore il testo dell’articolo 18 ante riforma Fornero. Un’oggettiva forzatura. Per altro, il nuovo decreto legislativo, se verrà conservato il testo divulgato, elimina una possibile fonte di equivoci, presente nella legge Fornero: l’indicazione, cioè, che si tratti di una norma di principio per il lavoro pubblico, cui debba conseguire una successiva “armonizzazione”. Il che aveva fatto ritenere ad alcuni che l’armonizzazione fosse condizione preventiva dell’estensione della riforma dell’articolo ai lavoratori pubblici. In effetti, nella primavera del 2012 l’allora ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, stipulò con i sindacati un’intesa per armonizzare la riforma del lavoro con la normativa del pubblico impiego, ma il tutto finì in un binario morto. In ogni caso, si “armonizza” una norma che si applica. Armonizzare non condiziona il “se” applicare, bensì il “come”, verificando in che modo l’applicazione si dipana in un sistema, come quello del lavoro pubblico, caratterizzato da alcune peculiarità. Tra le quali, una minore discrezionalità e flessibilità del datore nel decidere di giungere al licenziamento, rispetto al datore privato. CHI PAGA GLI INDENNIZZI? Acclarato (come del resto conferma la giurisprudenza prevalente) che l’articolo 18 modificato, in assenza di una norma speciale di deroga, si applica senz’altro alle amministrazioni pubbliche, occorre verificare se e come possano funzionare realmente i meccanismi di tutela successiva ai licenziamenti. C’è, ad esempio, il problema della responsabilità nel caso in cui l’amministrazione venga condannata dal giudice al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, se si accerta che non ricorrevano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa. La pubblica amministrazione dovrebbe, in questo caso, rivalersi sul dirigente che ha dato corso al licenziamento, per danno erariale? Potrebbe ritenersi di sì. Ma occorrerebbe comprendere perché nel sistema privato la monetizzazione della risoluzione del rapporto di lavoro, anche se illegittima, è considerata come fisiologica, mentre nella pubblica amministrazione, poiché si gestisce denaro pubblico, ciò dovrebbe apparire come patologia. Quanto meno, occorrerebbe identificare con precisione gli elementi di dolo o colpa grave alla base della responsabilità del dirigente che licenzia illegittimamente, per evitare che il timore del danno erariale costituisca un deterrente ai licenziamenti. Che, infatti, nell’ambito del lavoro pubblico non sono certo molto frequenti. In ogni caso, al di là della possibilità di rivalersi contro i dirigenti responsabili per dolo o colpa grave di licenziamenti illegittimi, occorrerebbe stimare quanto peserebbe, sul piano finanziario, l’indennizzo a carico della pubblica amministrazione, laddove essa iniziasse a estendere i casi di risoluzione del rapporto di lavoro. C’è, poi, la questione delle politiche successive al licenziamento, finalizzate al reimpiego. In effetti, per questo tema la questione dell’assunzione mediante concorso pubblico ha un certo peso. Gli schemi di decreti sul contratto a tutele crescenti sperimentano, ad esempio, il “contratto di ricollocazione” a favore del lavoratore licenziato illegittimamente o per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo. La ricollocazione dovrebbe essere curata da un’agenzia per il lavoro. È chiaro che per un lavoratore pubblico la ricollocazione più immediata e diretta è all’interno di un’altra amministrazione. Scaduti i 24 mesi di disponibilità, entro i quali il lavoratore pubblico può ancora trasferirsi in un ente diverso da quello che lo ha mandato in esubero, si risolve il rapporto di lavoro. Dunque, il dipendente pubblico, illegittimamente licenziato, per rientrare nell’alveo della professionalità a lui più idonea, dovrebbe nuovamente sottoporsi a un concorso pubblico. Ergo, la ricollocazione nei suoi confronti avrebbe un’efficacia davvero molto bassa. E non mancherebbero paradossi, come quello di un dirigente pubblico licenziato per motivi economici che dovrebbe rientrare nella Pa solo mediante nuovo concorso, magari a un livello inferiore, mentre nel frattempo l’ente che lo ha licenziato assume dirigenti a contratto per via fiduciaria. A ben vedere, allora, fermo restando che l’articolo 18 e le sue modificazioni si estendono al lavoro pubblico, un lavoro attento e non banale di armonizzazione occorre, per evitare possibili storture applicative. Oppure, se intenzione del governo è confermare la divaricazione tra lavoro pubblico e privato, sarebbe necessario prevedere espressamente la disapplicazione della riforma dell'articolo 18 intervenendo sull'articolo 52, comma 2, del testo unico sul lavoro pubblico. La povertà continua a non essere in agenda Chiara Saraceno, 10/02/15 Il decreto di riforma degli ammortizzatori sociali fa un nuovo passo verso l’introduzione di una misura unica di sostegno per chi perde il lavoro. Ma smentisce subito la logica universalistica riservando l’assegno di disoccupazione solo ad alcune categorie di poveri. VERSO UNA LOGICA UNIVERSALISTICA Il decreto di riforma degli ammortizzatori sociali, approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre e trasmesso alla Camera dei deputati, per la conversione in legge, il 13 gennaio 2015 fa un ulteriore passo avanti, rispetto alla riforma Fornero, nella direzione della introduzione di una misura unica di sostegno pera chi perde il lavoro. In attesa della annunciata riforma che semplifichi l’attuale molteplicità attuale dei contratti di lavoro, la misura introduce, accanto alla ribattezzata Naspi (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l'impiego), diretta ai lavoratori dipendenti, anche una indennità con caratteri analoghi diretta ai lavoratori parasubordinati – la Dis-­‐Coll. La combinazione di criteri contributivi e tempi minimi in cui si è stati occupati probabilmente lascerà privi di protezione ancora un buon numero di persone che perdono il lavoro prima di aver maturato uno o entrambi i requisiti. Così come rimarranno escluse le false partite Iva. Si tratta, tuttavia, di un importante passo avanti verso una logica universalistica. MA NON TUTTI I POVERI SONO UGUALI Il decreto, tuttavia, contiene anche una novità che smentisce quella stessa logica. Si tratta dell'assegno di disoccupazione (Asdi, vedi Titolo III, art. 16 del decreto) destinato “ai lavoratori beneficiari della Nuova prestazione di assicurazione sociale per l'impiego (...) che abbiano fruito di questa per l'intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, siano privi di occupazione e si trovino in una condizione economica di bisogno”. In un paese come l'Italia in cui manca una misura di garanzia del reddito per i poveri, viene individuata una categoria di poveri “meritevoli” in quanto hanno fruito del periodo massimo dell'indennità di disoccupazione. Coloro che hanno carriere lavorative troppo frammentate per fruire del Naspi, o per fruirne per il massimo periodo possibile, e soprattutto coloro che sono poveri perché non hanno mai avuto la possibilità di avere un rapporto di lavoro regolare, sono ancora una volta esclusi. Si pensi, per fare solo un esempio, a donne con figli che sono fuori dal mercato del lavoro da tempo, o non vi sono mai entrate, perché si sono dedicate alla famiglia e che si trovano prive di reddito a seguito di una improvvisa vedovanza o di una separazione. O a uomini e donne disoccupati di lunga durata, da prima del 2015, che proprio per questo non hanno potuto accedere al Naspi. Ricordo che, mentre l'assegno di disoccupazione è uno strumento molto poco diffuso nell'Unione Europea ed è stato abbandonato nel 2000 dalla Germania che lo aveva, una misura di reddito di garanzia per i poveri – a prescindere dalla loro storia contributiva e lavorativa pregressa – fa invece parte del sistema di protezione sociale di quasi tutti i paesi europei. Il decreto poi accompagna questa inaccettabile categorialità con ulteriori limitazioni: la priorità verrà data ai disoccupati con figli e a quelli prossimi al pensionamento. Inoltre la misura, proposta come sperimentale, è subordinata a un vincolo di risorse. Il che significa che verrà erogata sulla base di una sorta di “first come, first served”. Occorrerà che i disoccupati poveri abbiano l'avvertenza di calcolare bene il proprio periodo di disoccupazione coperto da Naspi, per poter eventualmente fruire dell'assegno assistenziale tra i primi, senza rischiare di averne titolo quando le risorse saranno esaurite. Si continua a dire che in Italia non si può introdurre una misura di reddito minimo universale per i poveri, del tipo Sostegno all'inclusione attiva (Sia) proposto dalla commissione Guerra durante il Governo Letta perché mancano le risorse. Ma si continuano a consumare risorse preziose in mille rivoli che non riescono mai a fare massa critica e che spesso escludono proprio i più poveri: dagli 80 euro mensili per i lavoratori dipendenti a basso reddito che escludono gli incapienti, agli ottanta euro mensili per tre anni per i neonati in famiglie a basso reddito (che escludono gran parte delle famiglie numerose in cui più è concentrata la povertà), fino a questa proposta di assegno di disoccupazione che esclude tutti i poveri talmente sfortunati da non avere avuto né un lavoro regolare, né la nuova prestazione sociale per l'impiego, il Naspi. Qualcuno potrebbe obiettare che iniziare dai disoccupati poveri può essere un'utile mossa tattica per arrivare a tutti i poveri in un paese – e in una classe politica e sindacale – in cui la povertà, per quanto estesa e in aumento, non riesce a entrare nell'agenda politica. Temo che non sia così. Piuttosto non fa che confermare la logica categoriale del sistema di welfare italiano, responsabile non solo di molte ingiustizie, ma anche di molte inefficienze. Politiche attive del lavoro tra stato e regioni Francesco Giubileo, 03/02/15 Il Jobs Act intende riportare a livello centrale i servizi pubblici per l’impiego. È un bene o un male? Il vero problema in Italia non è tanto che siano affidati agli enti locali. Ma che manchi una qualsiasi valutazione delle politiche e di chi è chiamato a realizzarle. Il confronto in Europa. I SERVIZI PER L’IMPIEGO IN EUROPA Le politiche attive del lavoro sono tutte quelle volte al collocamento o ricollocamento delle persone inoccupate e disoccupate. Nel 2002, Eurostat e Ocse stimavano che Francia, Germania e la maggioranza dei paesi scandinavi, spendevano più dell’1 per cento del proprio prodotto interno lordo in politiche attive (significa che in Germania si spendeva oltre 20 miliardi euro all’anno). Dal punto di vista della sussidiarietà orizzontale, vi è un crescente consenso verso la netta separazione tra governo dei servizi ed erogazione delle attività (servizi di orientamento, mediazione e formazione professionale), con una modernizzazione dei public employment services (Pes, termine per definire i servizi pubblici per l’impiego a livello europeo) che li veda al centro di una forte rete di cooperazione, se non di collaborazione, con altri attori (profit e non-­‐profit) sul mercato del lavoro (www.ec.europa.eu). L’esternalizzazione dei servizi pubblici non è un fenomeno nuovo. Tuttavia, mentre in passato l’appalto era relativo al processo (ovvero alla sola erogazione del servizio), oggi l’attenzione si è spostata verso la “stipula” di contratti di rendimento. Un sistema che vede coinvolti una vasta gamma di attori, dove i Pes sono i “direttori d’orchestra” di una complessa sinfonia di attività del mercato del lavoro. La vera incognita è se il ruolo di “direttore d’orchestra” è meglio realizzarlo a livello centrale oppure a livello sub-­‐nazionale. La lunga fase di decentramento amministrativo dei servizi pubblici avvenuta in Europa negli ultimi decenni, ispirata ai principi della New Public Management, considerava i Pes sub-­‐nazionali (in Italia regioni/province) meglio attrezzati per orchestrare sinfonie in sintonia con i gusti locali. Ma non tutti i paesi hanno deciso di delegare tali competenze e addirittura alcuni intendono oggi ri-­‐centralizzare le funzioni attribuite a livello locale, esattamente come intende fare il Governo Renzi con il Jobs Act e l’eventuale modifica del Titolo V della Costituzione. PREGI E DIFETTI DELLA GESTIONE A LIVELLO REGIONALE Il dibattito su meriti o svantaggi del decentramento, inteso come “trasferimento di responsabilità per le politiche pubbliche” dal livello nazionale a quello sub-­‐nazionale (in alcuni casi addirittura municipale), riguarda praticamente tutti i paesi dell’Unione Europea, tanto che nel 2011 Hugh Mosley ha pubblicato sul tema un vero e proprio manuale. Innanzitutto esistono due tipi di decentramento: il decentramento amministrativo in cui ai Pes regionali o locali sono attribuiti maggiori margini di flessibilità nella realizzazione degli obiettivi di politica nazionale; e il decentramento politico (noto come devolution), che di solito comporta una delega di responsabilità di ampia portata per i Pes sub-­‐nazionali (regionali, statali o comunali) anche per quanto riguarda i livelli di governo. Accanto alla differenziazione tra decentramento amministrativo e politico, Mosley definisce sette "componenti" di decentramento, quali: flessibilità di bilancio (livello di libertà dei Pes sub-­‐nazionali nella gestione delle risorse finanziarie); flessibilità nel programma (quanto gli strumenti progettati centralmente possono essere adattati, oppure la libertà dei Pes sub-­‐nazionali di progettare nuovi modelli); risorse umane (misura la libertà dei Pes sub-­‐
nazionali nel reclutamento, nella formazione e nella retribuzione del proprio personale); ammissibilità (misura la libertà da parte dei decisori locali di definire i criteri di accesso alle politiche attive del lavoro); consegna del servizio (misura quanto i Pes sub-­‐nazionali possono modellare i processi organizzati, in particolare la gestione e raccolta dei dati amministrativi); outsourcing (i Pes sub-­‐nazionali possono contrattare e strutturare la fornitura dei servizi al lavoro o formazione professionale tramite fornitori esterni); obiettivi di performance (misura quanto i Pes sub-­‐nazionali possono strutturare gli indicatori volti alla verifica delle prestazioni utili al raggiungimento dei risultati). La tendenza verso la regionalizzazione del settore pubblico è attuata in modo molto eterogeneo dai paesi, ma proprio le elaborazioni di Mosley e quelle del rapporto Performance management in public employment services (ec.europa.eu) permettono di definire una schema comparativo. A ciò si aggiunge, che secondo timo Weishaupt, le regioni (o sub-­‐regioni) sono istituzioni in grado di realizzare pianificazioni territoriali o definire programmi di ricollocazione in maniera efficiente e “su misura” quanto e come lo Stato. La criticità non è il livello di governo (Stato o regione), ma piuttosto la concreta attuazione delle politiche: emergono in molti casi difficoltà di vedere realizzato nella pratica quanto previsto dal legislatore. I diversi argomenti teorici a favore e contro il decentramento, che sono riassunti nel seguente schema. Nel primo schema risulta chiaro che non esiste un modello unico di “decentramento”, che in ogni caso non è una strada a senso unico, ma a doppio senso e con molte corsie. In altre parole, gli sforzi per decentrare alcuni aspetti amministrativi o di governance può richiedere la ri-­‐
centralizzazione di altre componenti, in una sorta di “Up-­‐and-­‐down” dove i cambiamenti possibili nel tempo sono frutto di compromessi nei quali il decentramento deve essere sempre un mezzo per il fine di una migliore efficacia o efficienza delle politiche attive del lavoro. IL FATTORE DI SUCCESSO Sulla base di schemi precedenti e approfondite discussioni in campo internazionale, sono emerse alcune soluzioni in grado di realizzare una devolution senza produrre effetti indesiderati. Confrontando lo schema 1 con lo schema 3 risulta lampante quale sia il problema italiano: non è la regionalizzazione delle politiche attive (non siamo i soli ad aver fatto questa scelta nel palcoscenico europeo), ma è la totale assenza di strumenti valutativi dei servizi pubblici per l’impiego in Italia. Il nostro paese è l’unico in Europa (assieme a Malta e Slovacchia) che non raccoglie nessun dato sulle prestazioni, se non in sporadici casi “auto-­‐prodotti” e per merito dei singoli dirigenti locali. Soprattutto, l’elemento di successo presente in Germania, Finlandia, Irlanda e Polonia (che pure sono sistemi molto differenti tra loro) sono le sanzioni nei confronti dei Pes sub-­‐nazionali o degli operatori inadempienti o incompetenti. L’auspicio è che la priorità della nuova Agenzia federale/unica del lavoro non sia quello di riappropriarsi di competenze, quanto piuttosto obbligare – e aiutare – le Regioni a raggiungere gli obiettivi fissati attraverso l’analisi di indicatori chiari, comparabili e il più possibile oggettivi. Quanta instabilità nei contratti a termine Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, 22/01/15 Anche senza articolo 18, il contratto a tempo indeterminato resta ben diverso da quello a tempo determinato. Per i lavoratori a termine l’instabilità dei salari è decisamente superiore. Perché solo l’investimento reciproco e duraturo di impresa e lavoratore produce stabilità. Il decreto Poletti. LA DIFFERENZA TRA DUE CONTRATTI Il Jobs Act ha abolito la possibilità del reintegro per un lavoratore licenziato ingiustamente, per sostituirla con un indennizzo monetario: l’obiettivo è di incentivare le assunzioni con i nuovi contratti a tempo indeterminato invece che con i contratti a termine (o contratti a tempo determinato di vario genere). I critici di questa impostazione sostengono che un contratto a tempo indeterminato senza l’articolo 18 e la protezione del reintegro non è diverso da un contratto a tempo determinato ripetuto tante volte (in cui quindi il lavoratore è continuamente occupato). L’argomento è che se c’è libertà di licenziare, pur con una cospicua indennità monetaria, allora i due tipi di contratto non sono molto diversi. Ma è un argomento errato perché il contratto a termine ha una scadenza definita, mentre un contratto a tempo indeterminato necessita comunque di un motivo valido di licenziamento per essere interrotto. A causa del loro orizzonte necessariamente limitato, i contratti a termine non offrono la possibilità di un investimento duraturo del lavoratore nell’impresa e dell’impresa nel lavoratore, che è realizzabile solo in un contratto a tempo indeterminato. Ciò si traduce in una maggiore instabilità delle carriere dei lavoratori a tempo determinato. L’EFFETTO SUI SALARI L’instabilità dei contratti a termine è stata studiata per lo più in termini di maggiore probabilità di avere periodi di disoccupazione o inoccupazione (o, al massimo, per l’estrema difficoltà di ottenere un mutuo in banca). L’instabilità dei salari per i lavoratori a termine durante i periodi di occupazione è invece un fenomeno meno noto, ma altrettanto rilevante. Per instabilità si intende quella parte della variazione del salario che è indipendente dal capitale umano del lavoratore, quindi spesso imprevedibile: si pensi ad esempio alla fluttuazione dei redditi di chi deve trovarsi un nuovo lavoro a seguito di una crisi aziendale. Periodi prolungati di instabilità salariale generano incertezza e influiscono negativamente sul benessere individuale. Anche assumendo che un lavoratore sia continuamente occupato in un contratto a termine, quanto è più instabile il suo profilo di salario? Per identificare l’effetto della diffusione dei contratti a termine sull'instabilità media dei salari di diverse generazioni di lavoratori si possono studiare le storie salariali dei lavoratori italiani utilizzando le riforme Treu (1997) e Biagi (2001 e 2003). In un nostro lavoro abbiamo utilizzato i dati Inps sui redditi annuali lordi di un campione di circa 50mila lavoratori dipendenti maschi continuamente occupati, prima e dopo l’introduzione delle riforme Treu e Biagi. E i risultati mostrano come quelle riforme abbiano fatto aumentare il grado di instabilità dei salari, rendendo più incerta la traiettoria dei redditi nell'arco della vita lavorativa. Come spesso accade, le riforme non hanno colpito tutto il mercato del lavoro in modo uniforme, ma hanno riguardato molto di più i giovani. La figura sotto mostra l’instabilità media del salario delle generazioni in cui l’incidenza dei contratti a termine è inferiore al 5 per cento e quelle per cui l’incidenza supera il 10 per cento dello stock dei contratti. Prima delle riforme, i giovani avevano un livello di instabilità di circa l’80 per cento più elevato rispetto a quello degli anziani; dopo le riforme, il rapporto diventa 2 a 1. Dunque, le riforme hanno aumentato l’instabilità di più del 10 per cento. In conclusione, anche a parità di occupazione, un lavoratore a termine ha redditi più instabili di un collega a tempo indeterminato. La ragione va attribuita ai fenomeni di apprendimento e investimento che caratterizzano il rapporto lavoratore-­‐impresa. In sostanza, durante i primi anni del rapporto di lavoro impresa e lavoratore si conoscono e investono nella relazione. Tuttavia, questo è vero nel caso di rapporti a tempo indeterminato, non in quelli a termine, il cui esito scontato non incentiva alcun investimento. Ad esempio, abbiamo calcolato che in Italia nei primi tre anni del rapporto di lavoro il grado di instabilità si riduce del 20 per cento all’anno; valori analoghi sono stati calcolati anche per gli Stati Uniti. INCENTIVARE LE TUTELE CRESCENTI Questi risultati suggeriscono alcune riflessioni rispetto alla riforma del mercato del lavoro. Il decreto Poletti del marzo 2014 ha liberalizzato l’utilizzo dei contratti a termine, che possono essere rinnovati per cinque volte nel corso di tre anni senza fornire una causale. Pur con tutti i dovuti distinguo per la differente fase storica in cui ci troviamo (peraltro il nostro studio potrebbe tratteggiare scenari ottimistici, visto che oggi i contratti a tempo determinato sono ben più diffusi di quanto lo fossero alla fine degli anni Novanta), sembra di poter affermare che l’ulteriore liberalizzazione dei contratti a tempo determinato renderà più instabili le carriere reddituali, in particolare dei lavoratori più giovani, rischiando di aumentare il dualismo, anziché ridurlo. Il contratto a tutele crescenti è molto più idoneo a “stabilizzare” i rapporti di lavoro proprio perché interviene riducendo i costi di licenziamento nella fase iniziale, quella in cui hanno luogo i processi virtuosi di apprendimento di impresa e lavoratore. Deve però competere con i contratti a termine. Per indurre le imprese a utilizzare il contratto a tempo indeterminato invece del contratto a tempo determinato, sono previsti generosi sgravi contributivi per le attivazioni del 2015. Ma dal 2016, quando gli incentivi fiscali saranno esauriti, è necessario restringere in qualche modo la flessibilità di utilizzo del contratto a termine, attraverso la reintroduzione della causale o di un costo di non-­‐trasformazione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato. Nel Jobs act buoni propositi per il lavoro delle donne Alessandra Casarico e Daniela Del Boca, 13/01/15 Il Jobs act cerca di affrontare i due nodi cruciali della bassa partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro e della scarsa fecondità. E lo fa attraverso misure condivisibili. Ma non sarà semplice realizzarle, se le risorse devono essere trovate senza aumenti di spesa per lo Stato. I DUE NODI CRUCIALI Nel Jobs Act sono incluse proposte che cercano di affrontare i due nodi cruciali -­‐ e apparentemente contraddittori -­‐ della situazione delle donne italiane: la bassa partecipazione al mercato del lavoro e la bassa fecondità. L’occupazione femminile in Italia da anni si trova oltre 10 punti percentuali al di sotto della media europea (è al 46,7 per cento, mentre nei paesi UE è del 58,8 per cento). Nel 2014 il tasso di occupazione femminile ha lentamente ripreso a salire al Nord e al Centro, ma è in continua diminuzione al Sud, dove non supera il 30 per cento. Il tasso di fecondità è al di sotto un figlio e mezzo per donna dalla metà degli anni Ottanta, non è riuscito a risalire negli ultimi trent’anni e ora ha raggiunto il minimo dal 2006 di 1,39 figli per donna, anche a causa della diminuzione della fecondità tra le donne al Sud e tra le immigrate. Ma il dato tutto italiano è l’abbandono del lavoro delle mamme alla nascita del primo figlio: lo fa quasi un terzo delle donne occupate, secondo i dati diffusi dall’Istat e dall’Isfol. Se infatti prima della nascita dei figli lavorano 59 donne su 100, dopo la maternità ne continuano a lavorare solo 43. Le potenziali novità del Jobs Act per donne e mamme riguardano principalmente la conciliazione lavoro-­‐
famiglia, su cui si articolano i commi 8 e 9 dell’articolo 1. Sebbene la delega parli giustamente ed esplicitamente di promozione di genitorialità, in un paese in cui il lavoro di cura è prevalentemente femminile è più probabile che l’estensione di misure di conciliazione vada a beneficio della forza lavoro femminile. LE LINEE GUIDA PER LA CONCILIAZIONE Quattro sono le linee guida della delega sulla conciliazione: rafforzamento nella tutela dei diritti; misure fiscali per favorire la partecipazione del secondo percettore di reddito; potenziamento dell'offerta di servizi; flessibilità. Sul fronte del rafforzamento delle tutele, la delega prevede in primo luogo l’estensione del diritto al congedo di maternità a tutte le categorie di donne lavoratrici. Viene stabilito l’allargamento del principio dell’automaticità, per cui all’Inps è imposto di pagare la prestazione alle lavoratrici parasubordinate, anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia versato i contributi. L’obiettivo di dare un adeguato e universale sostegno alle lavoratrici madri è certamente un passo importante viste le statistiche citate, per lo più ignorate dai recenti Governi. In secondo luogo, il Jobs Act introduce il tax credit, ovvero un credito d’imposta per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo. Questo può costituire un importante incentivo all’offerta di lavoro, soprattutto se coordinato con la revisione delle detrazioni per coniuge a carico, come indicato nella delega. Poiché la bassa occupazione femminile, specialmente nell’attuale congiuntura, è determinata anche dalla carenza di domanda di lavoro da parte delle imprese, è opportuno che gli incentivi fiscali operino su entrambi i fronti del mercato del lavoro. Da alcuni anni ci sono agevolazioni sull’Irap per le imprese che assumono donne e giovani, ma manca una valutazione compiuta dell’efficacia di queste misure in termini di incremento dell’occupazione generata, che invece potrebbe guidare gli ulteriori interventi. A queste agevolazioni si sono poi aggiunte quelle più recenti introdotte dalla Legge di stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato, che garantiscono una decontribuzione per l’impresa nei primi tre anni di impiego del nuovo lavoratore. Anche su queste misure è importante che vengano effettuate valutazioni, sia in termini di efficacia, sia in termini di corretto utilizzo da parte delle imprese, che potrebbero avere incentivi a cambiare lavoratore per potere sfruttare al massimo i vantaggi dell’agevolazione, con risvolti negativi sulla stabilità del rapporto di lavoro e sugli investimenti in formazione. Il Jobs Act non riduce però il numero di contratti. Rimangono tutti, inclusi quelli a progetto, che nel settore privato rappresentano la vera forma di lavoro parasubordinato. Ciò può avere effetti più pesanti per le donne, che già ora più numerose nei contratti a termine (14,2 per cento contro il 12,6 per cento per gli uomini nel 2013): i datori di lavoro avrebbero infatti possibilità di fare alle donne contratti brevi e di non rinnovarli alla scadenza in caso di gravidanza, aggirando i vincoli alle dimissioni in bianco. I SERVIZI PER L'INFANZIA Il Jobs Act introduce “l’integrazione dell'offerta di servizi per l'infanzia”, che affronta il tema dei pochi nidi pubblici in Italia. La disponibilità di posti al nido pubblico per i bambini va da un’offerta minima del 2,1 per cento in Calabria, fino al 27,3 per cento dell’Emilia Romagna. La delega propone di rispondere alla carenza di servizi con una crescente integrazione pubblico-­‐privato, valorizzando le reti territoriali e l'offerta di servizi per l'infanzia forniti dalle aziende e dai fondi. Ma a supporto della possibilità di ottenere maggiore efficienza anche nel pubblico, va rilevato che in alcune regioni, come l’Emilia, anche in questi anni di crisi e di tagli ai contributi delle regioni, l’offerta di nidi pubblici non è diminuita, anzi è cresciuta consentendo di soddisfare un maggior numero di richieste. La delega contiene inoltre la promozione del telelavoro, l'incentivazione di accordi collettivi per facilitare la flessibilità di orario di lavoro e la possibilità di cessione dei giorni di ferie tra lavoratori per attività di cura di figli minori. Se nel complesso sono indicazioni positive a sostegno della maternità e del lavoro delle donne, restano aperti due aspetti. Il primo è che per ora si tratta di una delega e solo i decreti attuativi stabiliranno se gli obiettivi si tradurranno in prassi. Il secondo riguarda la clausola secondo cui ogni intervento dovrà essere realizzato senza ulteriori spese a carico dello Stato. Il rischio è che per quanto significative o condivisibili possano essere le politiche, la loro realizzazione dipenderà dall’effettivo reperimento di risorse economiche. E finora il nostro paese non è riuscito a considerare queste misure come prioritarie per lo sviluppo, e quindi in cima all’agenda politica. Un cambio di passo è quanto mai necessario. Così il Jobs act cambia la struttura dei salari Marcello Esposito e Marco Leonardi, 07/01/15 Per i neo-­‐assunti di oggi, l’abolizione del reintegro avrà effetti anche sulla struttura del salario. In particolare sulla sua crescita con l’età del lavoratore e sul rapporto con la produttività. Con l'indennizzo certo, i più anziani saranno più facilmente sostituibili con lavoratori giovani. ETÀ E PRODUTTIVITÀ DEL LAVORATORE Con il Jobs Act si è passati da un regime di tutela reale a un regime di tutela indennitaria. Ovvero la possibilità del reintegro è stata abolita praticamente per tutti i tipi di licenziamento ed è stata sostituita con un indennizzo monetario di entità certa. Questo vale solo per i nuovi assunti e non per i lavoratori di oggi che godono del vecchio regime. Il lavoratore licenziato ha la possibilità di optare per la conciliazione rapida, un meccanismo simile a quello in vigore in Germania che serve per limitare al massimo il contenzioso. Se il lavoratore sceglie questa alternativa riceve un mese di retribuzione per ogni anno di anzianità, con un minimo di 2 mesi e un massimo di 18: cioè se ha più di 18 anni di anzianità lavorativa, riceve 18 mensilità (esenti da tasse). Quando c’era il deterrente del reintegro, un lavoratore poteva essere pagato anche molto al di sopra della sua produttività senza poter essere facilmente licenziato. Ma ora, se il salario è nettamente superiore alla produttività del lavoratore (e non può essere ricontrattato), all’azienda può convenire pagare l’indennizzo monetario previsto per il licenziamento e sostituire il lavoratore – magari più anziano e meno produttivo – con uno più giovane e più produttivo. Se negli anni a venire un lavoratore anziano sarà pagato molto più della sua produttività rischierà di essere licenziato. LA TABELLA DEI RISPARMI Nella tabella sottostante abbiamo calcolato per diverse anzianità lavorative quale dovrebbe essere il risparmio sul costo del lavoro che giustificherebbe il licenziamento del lavoratore “anziano” e la sua sostituzione con uno più giovane e meno costoso. Utilizziamo gli indennizzi previsti dalla procedura di conciliazione. Prendiamo il caso di un lavoratore di 50 anni (cui mancano quindi 17 anni dalla pensione) che abbia 18 anni o più di anzianità di servizio e venga licenziato. Nella procedura di conciliazione rapida, al lavoratore sarebbero pagati 18 mesi di indennizzo. L’azienda può recuperare questa somma assumendo al suo posto un lavoratore più giovane per tutti i 17 anni seguenti? E quanto deve costare meno il lavoratore più giovane per rendere conveniente la sostituzione? Siccome non sappiamo esattamente di quanto un lavoratore anziano sia più o meno produttivo di un lavoratore più giovane, facciamo due ipotesi: pari produttività o produttività inferiore del 10 per cento. Tabella 1 La tabella si legge così. La riga indicata con 0% si riferisce a lavoratori con pari produttività: al datore di lavoro conviene sostituire il lavoratore di 50 anni con uno giovane se quest’ultimo costa almeno il 7,07 per cento in meno. Ma se i lavoratori anziani sono meno produttivi dei giovani, tutto cambia in peggio. Se il lavoratore anziano è del 10 per cento meno produttivo del giovane (prima riga), converrebbe sostituirlo a 50 anni con un lavoratore più giovane anche se il giovane dovesse costare il 2,93 per cento in più all’anno: l’azienda risparmierebbe per tanti anni i salari alti di un lavoratore poco produttivo. UNA STRUTTURA DA CAMBIARE Il ragionamento mette in luce come, con il nuovo sistema di indennizzo monetario, non sia sostenibile la struttura di salario sempre crescente con l’età tipica dell’Italia, mentre in altri paesi il salario medio dei lavoratori inizia a calare verso i 45-­‐50 anni, per tenere il passo con la produttività. La figura 1 è prodotta con i dati Eusilc sui lavoratori dipendenti a tempo pieno. Mentre in Francia e Germania i salari (che in media sono più alti che in Italia) iniziano a calare verso i 45 anni di età, in Italia i lavoratori dipendenti mantengono approssimativamente lo stesso salario dai 45 ai 65 anni. Se a un salario alto in età avanzata non corrisponde una produttività equivalente, i lavoratori anziani italiani sono a rischio licenziamento. Non gli anziani di oggi, che sono ancora protetti dal vecchio regime, ma quelli di domani, che entrano nel mercato del lavoro con le nuove regole. Figura 1 Fonte: Dati EUSILC 2012 È evidente che la struttura delle retribuzioni attuale, che prevede una crescita graduale attraverso scatti di anzianità e promozioni previste contrattualmente fino alla tarda età, non potrà persistere in futuro. Oggi esiste una sorta di patto generazionale tra il datore di lavoro e i lavoratori, dove questi ultimi accettano un minore salario iniziale in cambio di una crescita graduale e con la promessa implicita di non essere licenziati nel momento in cui la propria produttività non giustificherà più totalmente il differenziale di salario rispetto a lavoratori più giovani. Con il sistema previsto dal Jobs Act, la promessa implicita in questa struttura contrattuale viene meno e con l’introduzione degli indennizzi dovrà cambiare gradualmente anche la struttura dei salari per avvicinarsi a quella dei nostri vicini europei. Incompleta e confusionaria, ma è una riforma del lavoro Pietro Garibaldi, 30/12/14 Il primo decreto attuativo del Jobs Act è l'inizio di una vera riforma del lavoro. Quello che ancora manca è la lotta contro la precarietà. E sarebbe bene disegnare le regole del mercato del lavoro in condizioni normali, senza i benefici fiscali. Troppa confusione sui dipendenti pubblici. IL PRIMO DECRETO ATTUATIVO La vigilia di Natale ha regalato agli italiani il decreto attuativo del Jobs Act. È un pezzo di vera riforma del lavoro, anche se certamente incompleta e con tratti di grande confusione, come testimonia il dibattito post natalizio sulla sua applicabilità al pubblico impiego. Tra un mese, il licenziamento per motivi economici per i nuovi assunti non prevederà più la reintegra sul posto di lavoro, anche in assenza di giusta causa. L’articolo 18 è sostituito da una compensazione monetaria che crescerà con l’anzianità di servizio. Rimarrà invece la reintegra per i licenziamenti disciplinari, ma probabilmente sarà molto difficile per il lavoratore riuscire a ottenerla. La riforma è decisamente incompleta. Mancano ancora gli interventi sulla precarietà. Senza toccare le regole dei co.co.pro e del contratto a tempo determinato la precarietà potrebbe anche aumentare. Un paradosso. Vediamo nel dettaglio le novità e criticità. LE TUTELE CRESCENTI E I LICENZIAMENTI COLLETTIVI Dal febbraio 2015, le nuove assunzioni a tempo indeterminato saranno più flessibili. L’articolo 18 è quasi in pensione. Ha ragione Matteo Renzi quando dice che, con la riforma, “aumenteranno le assunzioni a tempo indeterminato”. Ha anche ragione Susanna Camusso quando sostiene che, con la riforma, “aumenteranno i licenziamenti”. Come è possibile abbiano ragione entrambi? Quando si introduce un nuovo contatto a tempo indeterminato che riduce i costi dei licenziamenti, le imprese diventano davvero -­‐ come afferma Renzi -­‐ più propense a investire a lungo periodo nel lavoratore. Saranno più propense ad assumere perché sanno che, se le cose dovessero andare male, sarà più facile licenziare, come dice Susanna Camusso. Il lavoratore ingiustamente licenziato per motivi economici, quelli legati all’andamento della domanda, alle condizioni di mercato e ai cambiamenti tecnologici e organizzativi, riceverà un indennizzo che sarà pari a un minimo di quattro mesi e inferiore a un massimo di ventiquattro e crescerà di due mesi per ogni anno di anzianità di servizio. L’impresa potrà offrire al lavoratore una conciliazione espressa con un pagamento immediato, in modo da evitare l’attesa della sentenza del giudice (la cosiddetta “rupture conventionnelle”). Il nuovo contratto è coerente con il contratto a tutele crescenti che con Tito Boeri abbiamo a lungo proposto su questo sito. È un grande passo avanti per portare l’Italia verso un mercato del lavoro normale. Il Governo ha esteso la disciplina anche ai licenziamenti collettivi senza giusta causa: sono sempre per motivi economici e riguardano imprese che riducono la forza lavoro di almeno cinque lavoratori. Esistono già oggi e richiedono, per essere ammissibili, una procedura dettagliata, incluso un pre-­‐accordo sindacale. Avere esteso la riforma anche a questi licenziamenti significa che le imprese potranno ridurre l’organico anche senza accordo sindacale. Dovranno però risarcire i lavoratori. È davvero un grosso cambiamento. I LICENZIAMENTI DISCIPLINARI La reintegra prevista dall’articolo 18 dei lavoratori rimarrà per i licenziamenti disciplinari senza giusta causa, ma richiederà che il giudice accerti che il fatto contestato al lavoratore non sussista. L’onere della prova davanti al giudice sarà però a carico del lavoratore. Le imprese dovranno stare molto attente ai dettagli di ciò che contesteranno al lavoratore. Quest’ultimo, a sua volta, avrà incentivo a dire al giudice che il licenziamento economico (che non prevede più la reintegra) sta mascherando in realtà un provvedimento disciplinare infondato. Il residuo di incertezza della nuova disciplina è in questa sottile differenza. Tutto dipenderà da come i giudici interpreteranno le nuove norme. Per i licenziamenti discriminatori, invece, ovviamente nulla è cambiato e si applicherà totalmente il vecchio articolo 18. E LA LOTTA ALLA PRECARIETÀ? La vera assente dal decreto di Natale è la lotta alla precarietà. Il presidente del Consiglio aveva detto più volte che il numero di contratti sarebbe stato ridotto. Rimangono invece tutti in essere, inclusi quelli a progetto, che nel settore privato rappresentano la vera forma di lavoro parasubordinato. Il contratto a tempo determinato, che oggi prevede fino a cinque rinnovi in tre anni senza restrizioni, non è stato toccato. Il vero rischio è che i giovani che entreranno nel mercato del lavoro affronteranno un cursus honorum infernale: un anno a progetto, tre anni a termine, seguiti da un periodo di prova di tre o sei mesi in cui non vi è alcuna tutela. Dopo quattro anni e mezzo, accederanno a un contratto le cui protezioni crescono nel tempo. Un cursus honorum di questo tipo è troppo lungo e troppo precario. Su questo sito avevamo da poco suggerito al Governo di rendere i contratti a progetto legittimi soltanto per un salario sufficientemente alto. E al tempo stesso di ridurre la durata massima del contratto a termine a due anni con tre rinnovi. Il Governo pareva intenzionato a seguire questa strada, ma sembra che all’ultimo abbia fatto marcia indietro. Altri decreti seguiranno quello natalizio, ma per ora contro la precarietà si è fatto troppo poco. Il Governo è convinto che il nuovo contratto sarà stimolato dal beneficio fiscale previsto dalla legge di stabilità. Il beneficio è generoso (fino a 8mila per nuovo assunto), ma per ora dura solo un anno. In generale, è bene pensare e disegnare le regole del mercato del lavoro in condizioni normali e quindi senza i benefici fiscali, che difficilmente potranno essere rinnovati indefinitamente. LA CONFUSIONE DEL PUBLICO IMPIEGO La vera confusione è quella legata alla pubblica amministrazione. In Consiglio dei ministri era entrato un testo che applicava la nuova normativa al pubblico impiego e ne è uscito un testo che la esclude. Il presidente del Consiglio ha posto fine ai balletti delle dichiarazioni che ne sono seguite assumendosi personalmente la responsabilità della cancellazione e rimandando la questione del pubblico impiego a febbraio-­‐marzo nel provvedimento che sta preparando il ministro Madia. È una situazione che riflette molto lo stile di questo Governo, con tutte le decisioni che vengono prese all’ultimo, sia quando si tratta di una nomina importante, che del destino di milioni di lavoratori pubblici. Quali tutele? E quanto crescenti? Tito Boeri e Pietro Garibaldi, 23/09/14 È ancora molto lunga la strada della legge delega di riforma del mercato del lavoro. Ma è bene che sin d’ora si discuta nel merito di ciò che ci sarà nei provvedimenti di attuazione, anche in rapporto ai provvedimenti già varati dal Governo Renzi. Iniziamo dal contratto a tutele crescenti. LA LEGGE DELEGA L’approvazione dell’articolo 4 della legge delega in commissione al Senato ha messo la riforma del lavoro al centro dell’agenda di Governo. La legge delega, nella versione votata dalla commissione, rappresenta un importante passo in avanti per riformare il mercato del lavoro italiano. La necessità di risolvere il dualismo nel mercato del lavoro è ben nota ai lettori di questo sito. Con l’emendamento presentato la scorsa settimana, il Governo ha ora aperto la strada ad almeno due importanti riforme “a costo zero”: il contratto a tutele crescenti e il salario minimo. La legge delega riguarda anche altri aspetti dei rapporti di lavoro (tra cui il cosiddetto demansionamento e i controlli a distanza) mentre ha alcune importanti omissioni (quali la rappresentanza dei sindacati e il rapporto fra i diversi livelli di contrattazione). Trattandosi di una legge delega, il testo si limita a enunciare principi generali senza entrare nei dettagli della riforma. Sappiamo bene che nella legislazione del lavoro questi dettagli sono fondamentali. Per parlare di vera e propria riforma dovremo perciò aspettare 1) l’approvazione del testo finale in aula al Senato e poi in commissione e aula alla Camera; 2) il successivo licenziamento dei decreti delegati da parte del ministro del Lavoro. Bene comunque che sin d’ora si discuta nel merito di ciò che ci sarà nei provvedimenti di attuazione della legge delega in rapporto anche ai provvedimenti in materia di lavoro varati nei mesi passati dal Governo Renzi. Cominceremo dal contratto a tutele crescenti per poi occuparci di salario minimo e di contrattazione. IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI…. Il testo di legge delega fa riferimento a un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti. Si tratta di un principio e un’idea su cui ci siamo personalmente impegnati su questo sito da quasi dieci anni (si vedano "Il testo unico del contratto unico", "Tutti i vantaggi del contratto unico" ed il libro "Un Nuovo contratto per tutti", edizioni Chiare Lettere). Occorre però essere molto attenti ai dettagli. Il testo non specifica ancora in alcun modo di quali tutele si parli e di come le stesse tutele varieranno con l’anzianità di servizio. Alcuni esponenti della maggioranza (appartenenti per lo più al Ncd) sostengono che il nuovo contratto contemplerà il reintegro soltanto per il licenziamento discriminatorio ed escluderà il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici, sostituito completamente da un indennizzo monetario. Il Partito democratico sembra invece spaccato al suo interno tra coloro che auspicano che il nuovo contratto mantenga, a una certa anzianità di servizio, anche la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa e coloro che sostengono che il nuovo contratto non debba considerare la cosiddetta “reintegra” o “tutela reale” oggi offerta dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti a tempo indeterminato di imprese con più di 15 addetti, fatto salvo il caso di licenziamento discriminatorio. …IL CONTRATTO UNICO DI INSERIMENTO La nostra personale posizione è riassunta nel disegno di legge sottoscritto dal senatore Paolo Nerozzi (e altri cento senatori) nel 2010 e poi presentato anche alla Camera da Pier Paolo Baretta. Il disegno di legge istituisce il “contratto unico di inserimento”. Si tratta di un contratto a tempo indeterminato fin dalla sua stipula con tutele crescenti. Il contratto prevede due fasi che si succedono automaticamente a tre anni dalla stipula, senza alcun atto amministrativo o conversione. La fase di inserimento -­‐ che nella nostra proposta dura tre anni -­‐ e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento, il reintegro è concepito soltanto per il licenziamento discriminatorio, mentre il licenziamento economico è consentito dietro un indennizzo pari a cinque giorni lavorativi ogni mese di anzianità aziendale, raggiungendo così sei mesi di salario dopo tre anni di anzianità. Nella fase di stabilità vige la normativa vigente, inclusa la reintegra nelle imprese con più di 15 dipendenti. Riteniamo fondamentale che la fase di inserimento non sia inferiore a tre anni e che preveda un congruo indennizzo. L’errore più grande che si può commettere è quello di considerare la fase di inserimento come una semplice estensione del periodo di prova. In quel caso, il lavoratore potrebbe essere licenziato senza alcun indennizzo. Al tempo stesso, riteniamo che la fase di inserimento possa anche essere estesa oltre i tre anni, con un progressivo aumento dell’indennità da corrispondere al lavoratore in caso di interruzione per motivi economici. Ad esempio, si potrebbe arrivare a una fase di inserimento di sei anni con un indennizzo che arriva al termine di questo periodo a un anno di salario. Siamo profondamente convinti che dopo un periodo di inserimento sufficientemente lungo, le imprese troverebbero comunque poco conveniente interrompere un contratto di lavoro con un lavoratore ormai formato, per di più dovendogli corrispondere un anno di salario. Le imprese vivono per massimizzare profitti e il proprio valore, non per licenziare i loro dipendenti. E LA COERENZA CON IL DECRETO POLETTI? Al di là dei dettagli legislativi che il Governo vorrà dare al contratto a tutele crescenti, occorre ricordare che la nuova normativa dovrà, per essere efficace, risultare coerente con i provvedimenti già in vigore. Il Governo a maggio ha liberalizzato i contratti a tempo determinato rendendoli una specie di periodo di prova di tre anni. Si consentono, infatti, fino a cinque rinnovi nell’arco di tre anni senza che le imprese debbano specificare le cause di tali proroghe in un contratto che continua a essere a tempo determinato. Qualora il contratto a tutele crescenti diventasse legge, sarà perciò necessario rimettere mano a questo primo provvedimento del Governo Renzi, rendendo meno flessibile l’utilizzo, protratto nel corso del tempo, dei contratti a tempo determinato. Non possiamo immaginare un giovane che viene prima assunto per un totale di tre anni a termine con cinque contratti che durano sei mesi ciascuno e che poi debba iniziare un nuovo rapporto di lavoro con il contratto a tutele crescenti. Un mercato del lavoro di questo tipo sarebbe davvero di serie B. È evidente che, con il contratto a tutele crescenti, il contratto a termine può avere senso soltanto dietro specifiche circostanze (lavori stagionali, imprese a termine o grandi eventi come l’Expo). In circostanze normali, si deve entrare nel mercato del lavoro subito con il contratto a tutele crescenti e non con il contratto a tempo determinato. LA FALSA STRADA DEGLI INCENTIVI FISCALI Non è possibile pensare di rimediare alle conseguenze del decreto Poletti limitandosi a incentivare fiscalmente il contratto a tutele crescenti. Un’operazione di questo tipo innanzitutto trasformerebbe una riforma a costo zero – fattibile indipendentemente dalla Legge di stabilità che il Governo si appresta a varare – in una potenzialmente molto costosa (senza contare un’eventuale riforma degli stessi ammortizzatori sociali). Questo indebolirebbe la credibilità stessa dell’operazione. Un datore di lavoro prima di assumere con un contratto a tempo indeterminato si chiederebbe: quanto durerà l’incentivo fiscale? In secondo luogo, gli studi che hanno valutato gli incentivi fiscali alla conversione di contratti temporanei hanno generalmente trovato che queste misure si rivelano uno spreco dei soldi dei contribuenti senza apparenti incrementi della quota di contratti a tempo indeterminato. Il fatto è che per rendere davvero vantaggioso un contratto a tempo indeterminato quando i contratti temporanei sono comunque un lungo periodo di prova, gli incentivi fiscali devono essere molto forti. È opportuno, invece, imporre minimi retributivi (più che vincoli di natura amministrativa che appesantiscono i controlli burocratici) al lavoro parasubordinato e contributi sociali più alti per i contratti a tempo determinato, tenendo conto del fatto che questi lavoratori hanno un rischio più alto di rimanere senza lavoro ed è giusto che l’impresa che utilizza queste tipologie contrattuali si faccia carico più delle altre dei costi dei sussidi di disoccupazione. Anche i minimi retributivi e contributi più alti sono previsti nel disegno di legge Nerozzi. Si noti che non sostituiscono affatto il salario minimo, che copre tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro contratto. Ma su questi aspetti torneremo prossimamente. Lavoro: gli scenari dopo il decreto Poletti Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, 02/09/14 La maggiore facilità di instaurare rapporti di lavoro a tempo determinato prevista dal decreto Poletti porterà a un aumento della precarietà? Il dato da guardare è quello delle trasformazioni in contratti a tempo indeterminato, che finora in Italia è rimasto alto. Gli incentivi che servono. TRAMPOLINO O VICOLO CIECO? Il decreto Poletti stabilisce l’acausalità del contratto a termine per l’intera durata di tre anni (non è più necessario fornire una ragione per l’assunzione a termine) e la più larga disponibilità di proroghe consecutive (cinque al posto di una). La norma ha sollevato numerose critiche motivate dalla preoccupazione di un possibile aumento della precarietà nel mercato del lavoro. Per poterne giudicare la fondatezza, il punto fondamentale è capire se i contratti a termine sono stepping stone (ovvero trampolino di lancio verso contratti a tempo indeterminato) o dead end (vicolo cieco, per cui si è condannati a una vita di precarietà nei contratti a termine). La statistica che interessa è quindi il tasso di trasformazione di un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato. Il 65 per cento delle nuove assunzioni sono con contratti a tempo determinato, ed è verosimile ritenere che con il decreto la proporzione aumenterà ulteriormente. Ma il numero di nuove assunzioni non si tramuta in uno stock di altrettanti contratti a tempo determinato sul totale degli occupati, per due ragioni: la prima è che anche il 65 per cento del totale delle cessazioni è di contratti a tempo determinato, la seconda è che molti contratti a tempo determinato si trasformano, vengono stabilizzati, in contratti a tempo indeterminato. Chiaramente il giudizio su una norma come il decreto Poletti dipende anche da quante persone utilizzano i contratti a termine ma alla fine vengono stabilizzate in contratti a tempo indefinito: se il numero di contratti a termine aumenta ma il tasso di trasformazione è alto, il decreto porterà posti di lavoro in più e alla fine anche opportunità di stabilizzazione; se invece il tasso di trasformazione è basso, il decreto porterà solo una giostra di brevi contratti a termine in cui non ci saranno né nuovi posti di lavoro né stabilizzazione. Qual è quindi la probabilità media che un giovane di 25 anni oggi occupato in un contratto a termine venga stabilizzato di qui a tre o cinque anni? Per rispondere a questa domanda servono dei dati longitudinali, utilizziamo perciò i dati Inps recentemente messi a disposizione dal ministero del Lavoro. L’incidenza dei lavoratori con contratto a tempo determinato sul totale degli occupati dipendenti del settore privato va dal 14 per cento del 1998 al 17 per cento del 2010. (1) Se prendiamo i giovani maschi di età tra i 26 e i 30 anni l’incidenza sale dal 18 per cento nel 1998 al 26 per cento del 2010 (gli stessi numeri valgono per le donne). C’è stato quindi un aumento dell’incidenza del contratto a termine nel totale, ma non una crescita travolgente. Nel corso di questi anni, però, all’aumento della quota di contratti a termine è corrisposto un declino delle probabilità di trasformazione in contratti a tempo indeterminato. Il grafico mostra la probabilità di un giovane di 25 anni occupato in un contratto a termine nell’anno t di essere occupato a tempo indeterminato nell’anno t+1, t+3 e t+5. Due sono le cose da notare. Primo, il tasso di trasformazione a tre anni è molto maggiore di quello a un anno, ma non c’è molta differenza tra chi rimane in un contratto a termine per tre anni o per cinque anni. Al netto di pochi lavori che sono svolti sempre con contratti a termine, tale evidenza è compatibile con un effetto trappola: se rimani troppo a lungo (più di tre anni) su un contratto a termine, ne esci più difficilmente perché resti sempre più tagliato fuori dal segmento buono del mercato del lavoro. Secondo, man mano che negli anni i contratti a termine si diffondono, il tasso di trasformazione scende dall’80 per cento del 1998 al 60 per cento del 2007 (lo stesso vale per le donne). Si tratta comunque di tassi di stabilizzazione alti, ma chiaramente in declino negli anni. C’è una relazione meccanica tra l’aumento dell’incidenza dei contratti a termine e il calo dei tassi di trasformazione? Non necessariamente: nello stesso periodo di tempo l’incidenza dei contratti a termine è aumentata anche per gli uomini e per le donne tra i 35 e i 40 anni, rispettivamente dal 4 al 12 per cento e dal 10 al 18 per cento. Tuttavia per gli uomini, e soprattutto le donne, di età superiore ai 35 anni, i tassi di trasformazione sono più bassi (55 per cento a tre anni per gli uomini e 40 per cento per le donne) ma stabili nel tempo, come illustrato nella parte destra del grafico. Per questi gruppi di età anche un tasso di trasformazione stabile nel tempo non ha impedito un aumento dell’incidenza sul totale. VERSO UNO SCENARIO SPAGNOLO? È possibile che il decreto Poletti ci porti a uno scenario spagnolo, dove il 40 per cento dei lavoratori occupati sono in contratti a termine? Per ora non è successo, la liberalizzazione del contratto a termine non ha comportato un aumento travolgente nello stock perché i tassi di trasformazione a tre e cinque anni sono elevati. Ma se il trend continua e il tasso di stabilizzazione scende, c’è il rischio che il 70 per cento di nuove assunzioni a termine si tramuti in un rapido aumento dello stock (e della precarietà). Il decreto Poletti prevede un tetto massimo ai contratti a termine pari al 20 per cento degli occupati nella stessa azienda (con alcune eccezioni previste dai contratti collettivi), potremmo quindi presto arrivare a un livello simile di contratti a termine nello stock totale degli occupati. Tutto ciò è sostenibile e financo positivo se si accompagna a un aumento complessivo dell’occupazione e a tassi di trasformazione molto alti dei lavoratori più efficienti in contratti a tempo indeterminato: le due condizioni, però, non si sono realizzate in questi anni di crisi. Allora, bisogna chiedersi se, invece di insistere sempre sull’articolo 18, non sarebbe meglio incentivare le trasformazioni dei contratti da determinato a indeterminato. Anche perché gli incentivi alla trasformazione sono una delle poche politiche che in passato hanno funzionato. La semplificazione che complica il lavoro Luigi Mariucci, 15/04/14 Davvero il decreto legge sui contratti a termine comporta una liberalizzazione semplificatrice? Dal punto di vista delle aziende aumentano solo le incertezze, almeno finché non sarà approvato dal Parlamento il testo definitivo. Conseguenze della semplificazione malfatta e moratoria legislativa. UN DECRETO DALLE MOLTE INCERTEZZE Il decreto legge n. 34/2014 è stato criticato da più parti, oltre che nel merito, soprattutto per una questione di metodo, data l’evidente contraddizione tra liberalizzazione dei contratti a termine e introduzione di un contratto di inserimento “a tutele crescenti” come strumento di razionalizzazione delle forme contrattuali annunciato dal Jobs Act e ora previsto dal disegno di legge delega. Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate, il disegno organico si farebbe dopo, attuando la legge delega. Ma è proprio così? Davvero siamo di fronte a una liberalizzazione semplificatrice? Mettiamoci nei panni di una impresa che voglia assumere con un contratto a termine. Il decreto dice che il primo contratto può essere stipulato senza causale e prorogato ovvero rinnovato sempre senza causale per otto volte fino a tre anni. È quello che il decreto dice ora: non si sa, però, cosa dirà fra qualche settimana quando sicuramente in sede di conversione qualcosa verrà cambiato, come ha annunciato lo stesso Governo. Forse è meglio attendere. Già questo è un primo effetto negativo della legislazione stop and go all’italiana: non si sa mai quale sia la normativa attendibile. Ma nel caso si decida ugualmente di assumere c’è da chiedersi quale termine di scadenza sia meglio indicare: allo stato attuale si potrebbe assumere con un termine abbastanza lungo, ad esempio per quattro o sei mesi, dato che otto proroghe in tre anni danno ampio margine. Ma se poi, in sede di conversione, come già si dice, le proroghe vengono ridotte e si passa a un arco di tempo inferiore, il termine lungo non conviene: meglio due mesi, massimo tre. Ecco che la legislazione variabile produce un altro effetto negativo, la ulteriore frammentazione dei termini, che non serve né alle imprese che vogliano investire sul lavoratore e non solo averlo come usa e getta, né, tanto meno, ai lavoratori, che in quel periodo piuttosto che cercare di legarsi all’impresa cercheranno altre forme di impiego solo che ne abbiano l’opportunità. Il decreto dice anche che si può assumere o prorogare senza causa per il primo contratto e per le stessa attività lavorativa: ma se quel lavoratore è stato già assunto in passato, quand’è il “primo” contratto, e come si calcolano le diverse forme di assunzione temporanea (lavoro a termine, somministrazione, altre possibili forme atipiche), si sommano o no? E che succede se nel frattempo tra una precedente assunzione e nuove proroghe c’è un cambio di mansioni? Comunque, si può obiettare che c’è da stare tranquilli perché ora è fissato un limite massimo di assunzioni a termine nel 20 per cento dell’organico, questa è una cosa sicura. Già, ma come si calcola la percentuale? Nel 20 per cento vanno incluse anche le assunzioni interinali e nell’organico vanno calcolati anche i contratti di collaborazione o le partite Iva? E che accade se il contratto di categoria stabilisce una limite inferiore? Siamo poi sicuri che la legge dia un colpo di spugna ai contratti vigenti? E se per caso l’impresa ha superato quel limite non essendo prima soggetta a vincoli quantitativi, deve licenziare i lavoratori temporanei in soprannumero? E se con le varie proroghe accade che una lavoratrice entri in maternità, siamo sicuri che non riassumendola non si incorra in un atto discriminatorio? Ed è proprio vero che tutta questa bella liberalizzazione mette al riparo dal contenzioso giudiziario? Non è che il lavoratore assunto senza causa e prorogato invoca la direttiva comunitaria che vieta le reiterazioni abusive dei contratti a termine, per la quale le assunzioni “sono di norma a tempo indeterminato” e si finisce alla Corte di giustizia europea? È bene tenere presente che quella direttiva è scritta in inglese, quindi non ha bisogno di essere “traducibile”, è comprensibile in tutte le lingue europee. L’elenco delle incertezze interpretative potrebbe continuare a lungo: basta vedere quanto hanno detto non i sindacati, ma gli esperti e gli operatori nelle audizioni alla Commissione lavoro della Camera per rendersene conto. LA QUESTIONE DELL’APPRENDISTATO Si dirà, ma c’è pur sempre il buon contratto di apprendistato, molto conveniente sul piano contributivo e retributivo, ora semplificato, senza più l’obbligo del piano formativo scritto, della formazione trasversale e del vincolo di assunzione di almeno il 30 per cento di apprendisti come condizione per assumerne di nuovi. Già, ma è molto probabile che qualcuno di questi obblighi sia reintrodotto in sede di conversione parlamentare perché ci si è resi conto che un apprendistato senza formazione assomiglia come una goccia d’acqua ai vecchi contratti di formazione lavoro, a suo tempo caduti sotto la scure delle autorità comunitarie. Meglio aspettare, quindi, e alla faccia della “scossa” o non si assume o si assume con un termine il più breve possibile. Queste sono le conseguenze della semplificazione malfatta, della semplificazione che complica, già largamente sperimentata negli scorsi dieci anni nella caotica legislazione sul mercato del lavoro, sempre annunciata in nome della flessibilizzazione e della liberalizzazione. Meglio tenerlo presente, anche per non ripetere l’errore a scala più grande, quando si tratterà di attuare la legge delega che annuncia il vasto programma del codice del lavoro naturalmente “semplificato”. Forse è il caso di stare a vedere se i provvedimenti economici del Governo producono qualche risultato in termini di crescita della domanda e, nel frattempo, dare corso a una sana moratoria legislativa ovvero a una più approfondita riflessione. Tanti contratti, poco lavoro Tito Boeri, 28/03/14 Cosa accade quando si liberalizzano i contratti a tempo determinato come nel decreto sul lavoro appena varato, come primo atto del Governo Renzi? L’esperienza della Spagna è molto utile a riguardo. Nel 1984 il governo spagnolo liberalizzò i contratti a tempo determinato eliminando il requisito che l’attività svolta nell’ambito di questo contratto dovesse avere natura temporanea e rendendo ammissibili ripetute proroghe dello stesso contratto. Un recente studio di Garcia-­‐Perez, Ioana Marinescu e Judit Vall Castello analizza gli effetti di queste riforme. Si possono così riassumere: una vita lavorativa con più contratti temporanei, meno giorni di lavoro all’anno e salari più bassi. I grafici qua sotto, tratti dallo studio, analizzano la situazione prima e dopo la riforma. Vanno letti comparando i punti vicino alla retta verticale che denota se l'individuo è stato affetto o meno dalla riforma. Il primo grafico mostra come le persone entrate nel mercato del lavoro nel 1985, dopo la riforma (parte destra del grafico), hanno avuto nell’arco di 15 anni un contratto a tempo determinato in più rispetto agli individui entrati prima della riforma (parte sinistra del grafico). Nota: numero medio di contratti accumulati in base all’anno di nascita Più contratti non significa più lavoro. Le persone entrate nel mercato del lavoro dopo la riforma hanno lavorato, a parità di altre condizioni, 313 giorni in meno nell’arco di 15 anni (21 giorni in meno all’anno). Questo il messaggio del grafico qui sotto che mostra sull’asse verticale le ore lavorate. In sintesi, quindi, più contratti di più breve durata di prima. Nota: numero medio di giorni lavorati accumulati in base all’anno di nascita Tutto questo avviene perché le persone perdono più spesso il lavoro e passano da un contratto all’altro. I grafici qui sotto guardano proprio al numero di episodi di disoccupazione e occcupazione. Aumentano entrambi, il che significa che la carriera dei temporales è ancora di più sull’ottovolante con frequenti passaggi dall’occupazione alla disoccupazione e viceversa. Nota: numero medio di periodi passati in occupazione e disoccupazione in base all’anno di nascita Infine quali effetti sui salari? Come mostra l’ultimo grafico, gli individui che sono entrati nel mercato del lavoro spagnolo dopo la riforma (parte destra del grafico) soffrono una riduzione delle retribuzioni dell’11,8%. E solo l’8% di questa perdita può essere associata alla diminuzione precedentemente illustrata di giorni di lavoro. La riforma ha quindi ridotto i salari orari, aumentando il divario fra contratti a tempo determinato e indeterminato. Nota: numero medio di mensilità accumulate in base all’anno di nascita (*) Non c’è alcuna variabile che influenza i due campioni del 1967 e del 1969 a parte la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato. Il contratto a tempo determinato dopo la riforma può avere una durata minima di 6 mesi e massima di 3 anni. Al termine di questo il lavoratore può essere assunto con contratto a tempo indeterminato oppure licenziato. Non viene invece modificata la legislazione per i contratti a tempo indeterminato. La proporzione dei lavoratori con contratto a tempo determinato in Spagna passa dal 10% degli anni ‘80 al 30% dei primi anni ’90. Renzi, il Jobs Act e la precarietà infinita Chiara Saraceno, 18/03/14 Anche il Governo Renzi sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti. E dunque si estende ancora la precarietà. Che penalizza i giovani e soprattutto le donne. Senza creare un solo posto di lavoro in più. JOBS ACT, ATTO PRIMO Anche Matteo Renzi, come chi lo ha preceduto, sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti, non la carenza di domanda. Perciò, nonostante nel solo 2013 si siano persi 413mila posti di lavoro (dati Istat), il primo pezzo del tanto annunciato Jobs Act è una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con la possibilità di rinnovare quelli a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di quattro-­‐cinque mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni. Come ciò si concili con il promesso contratto unico a tutele crescenti rimane un mistero. Ed è difficile che l'ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro favorisca la ripresa economica, ovvero la competitività delle nostre imprese a livello nazionale. È, infatti, un forte scoraggiamento a investire sulla forza lavoro, specie su quella in ingresso, dato che l’orizzonte temporale della “prova” si allunga a dismisura e assume ancora più di prima un carattere neppure tanto sottilmente minaccioso, o ricattatorio, dato che rinnovi o mancati rinnovi possono avvenire in tempi cortissimi. Nella stessa direzione va la modifica dell'apprendistato, un vero e proprio ritorno indietro, con l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo determinato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di questo tipo – una delle buone innovazioni introdotte da Elsa Fornero. La differenza tra contratti di apprendistato e contratti a termine si annulla di nuovo, pur rimanendo a livello formale (ciò che probabilmente aprirà a nuove sanzioni UE). CONSEGUENZE PER GIOVANI E DONNE Se questo è il modo di investire sui giovani, di offrire loro un orizzonte di vita meno incerto dell’attuale, mi sembra che non ci siamo proprio. Perché sono loro i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi (se va bene). Sono loro i primi a rischiare di entrare in una porta girevole all’infinito, che oltretutto difficilmente consentirà di maturare diritti a una indennità di disoccupazione decente, tra un rinnovo e l’altro. Senza che si crei un solo posto di lavoro in più e probabilmente senza fermare l’emorragia di quelli in atto – moltissimi dei quali stabili, a tempo indeterminato -­‐ in corso ormai da anni. Per le donne, poi, vi saranno costi aggiuntivi. La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non riusciranno a maturare il diritto alla indennità di maternità piena. E faranno fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale. Chissà se, come ha fatto la ministra Boschi per la questione delle norme antidiscriminatorie nella legge elettorale, le ministre considereranno anche questa penalizzazione aggiuntiva per le donne all'interno di norme già di per sé negative, un piccolo scotto del tutto marginale da pagare sull’altare delle riforme “epocali”. Per favore, cambiate quel decreto! * Tito Boeri, 14/03/14 Possibilità di infinite proroghe per tre anni al contratto di lavoro a tempo determinato. Anche una alla settimana o al mese. Con gravi rischi. È quanto previsto dal decreto legge uscito dal Consiglio dei ministri. Da cambiare al più presto! Il decreto legge uscito dal Consiglio dei ministri di mercoledì apre la possibilità di infinite proroghe di un contratto a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro: tutte "le proroghe sono ammesse" nei primi tre anni. In principio si possono fare 365 x 3 contratti rinnovati di giorno in giorno. Di fatto il periodo di prova nel quale si può essere licenziati senza preavviso, indennità e alcuna giustificazione viene esteso a tre anni. Ogni discriminazione è possibile: ad esempio, alla notizia della maternità di una lavoratrice, il datore di lavoro potrà semplicemente non rinnovare il suo contratto. CONTRATTI BREVISSIMI. SENZA RETE Questa norma va assolutamente modificata. Rischiamo di avere un'esplosione di contratti a tempo determinato di durata molto breve (una settimana o un mese) con lavoratori che perdono il lavoro senza alcuna assicurazione sociale. I contratti di una settimana, anche con il sistema di sussidi di disoccupazione più generoso del mondo, non danno infatti diritto a copertura assicurativa. Rischiamo di fare lo stesso errore della Spagna, dove un terzo della forza lavoro è rimasta intrappolata in contractos temporales e dove chi vuole trovare lavoro compete con milioni di lavoratori che passano da contratto a contratto. Anzi peggio, perché in Spagna i contractos temporales avevano una durata minima di sei mesi. Da noi possono essere di un giorno. La distanza fra contratti a tempo determinato e i contratti a tempo indeterminato diventa ancora più forte. Questo significa che passare dagli uni agli altri sarà ancora più difficile. LAVORO INTERINALE E APPRENDISTATO SPIAZZATI Tra l'altro questo decreto di fatto spiazza il lavoro interinale che garantisce al lavoratore una certa continuità con l'agenzia, se non con il datore di lavoro. E spiazza lo stesso contratto di apprendistato che si sostiene di voler rilanciare. Siamo sicuri che sia questo l'intento del governo? Se sì, per favore lo si dica esplicitamente. Se non è così, per favore cambiate questa norma prima che entri in vigore! * Questo articolo è stato scritto in base al testo uscito dal Consiglio dei ministri di mercoledì 12 marzo. Poche ore dopo l’uscita di questo articolo, nell’affinamento del provvedimento, l’orientamento del Governo è cambiato e ora si parla di un massimo di otto rinnovi contrattuali nell’arco di tre anni. Vale a dire contratti di lavoro che possono avere mediamente una durata di quattro mesi e mezzo ciascuno. Una correzione apprezzabile, ma ancora insufficiente.