Tezavvè - Mevakshe Derekh

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TEZAVV'


“E tu ordinerai ai figli di Israele….”
Seguitano, in continuazione con la parashà precedente, le norme per il culto nel Mikdash, il
Santuario. Mosè ordina ai figli di Israele di recare olio d’oliva puro vergine per alimentare il
Ner tamid, il lume continuo, che deve ardere incessantemente durante la notte davanti al
Tabernacolo, per rischiarare nelle tenebre, dalla sera al sorgere del mattino.

Ner tamid
Diversamente da molti altri elementi ed oggetti del Mikdash, il Ner Tamid resta, fino ad oggi,
magari a funzionamento elettrico, nelle sinagoghe. La prescrizione è ripetuta in Levitico, 24, 1.
La
mizvah, cioè il precetto, con il sentimento del precetto, prende figura di lume, perché luce è la
Torah nell’insieme: «E’ un lume la mizvà (ogni mizvà) e la Torà è luce» (Mishlé, Proverbi, 6,
23)

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Ognuno di noi può essere portatore di un lume nella propria interiorità, nella propria
condotta, nelle relazioni che cura: «Lume di Dio è l’anima dell’uomo, ne scruta la profonda
intimità» (Proverbi 20, 27). Possiamo dire che
ne esplora, ne ricerca, ne riscontra tutte le
sue stanze interne, i meandri dell’anima, della persona, le sue interne zone, il vario insieme
dei nostri pensieri, sentimenti, pulsioni, compreso l’inconscio.



Dagli oggetti di culto, descritti nella precedente parashah Terumà e su cui si tornerà,
si
passa all’abbigliamento sacerdotale di Aronne e dei quattro figli (Nadav, Avihu, Elazar e
Itamar). Essi indosseranno vestimenti sacri, lekhavod uletiferet, per dignità e per
magnificenza.

Bigdé kodesh lekhavod uletifaret
Troviamo l’espressione, riferita al Regno persiano di Assuero, nella Meghillat Ester, che ci
prepariamo a leggere nella vicina festa di Purim. Il sovrano indice un convito ai grandi del
vasto impero,
dispiegando con fastosi segni
l’onore, il prestigio, la magnificenza del suo
regno:



Onore del suo regno Splendore della sua grandezza
Qui invece si tratta del Regno di Dio e del culto che gli si presta nel Mishkan ed attorno al
Mishkan, ma le espressioni sono analoghe. E’ l’ estetica del Sacro, che dà prestigio e
bellezza di forme, al ruolo del sacerdozio nell’antico culto ebraico. Come c’è bisogno della
sensazione di vicinanza di Dio, con il santuario in mezzo all’accampamento, così giova alla
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coesione spirituale del popolo ed al suo senso di Dio l’elemento estetico, che va inteso nel
significato proprio di questa
dimensione dello Spirito come conoscenza sensibile e
promozione artistica della sensibilità. Segnalo, in proposito, un piccolo libro del professor
Leonardo Amoroso, Estetica della Bibbia (Pisa, ETS). La religione ebraica ha sobrietà, ma
non è detto che sia disadorna, e non credo che la distruzione dell’antico Tempio abbia dovuto
necessariamente condannarla alla dimessa austerità, pur serbando la dignitosa semplicità il
suo merito. L’Italia ebraica, a contatto di una civiltà ricchissima di arte, ha edificato nei secoli
e tuttora conserva pregevoli sinagoghe.
I rabbini non sono più l’equivalente del sacerdozio, che spiccava anche per il pregiato e
complesso addobbo dei paramenti. Hanno anche loro, specie nelle maggiori solennità, un abito
che li caratterizza nella loro funzione di culto. Apprezzo peraltro anche i rabbini che
scelgono di indossare il comune abito dei laici. Lo spirito soffia in diversi modi e la santità
alberga anche in decorosi abiti borghesi o in lindi vestiti più semplici.
La fabbrica e
confezione richiedeva un’alta qualità di sartoria artistica, un senso dell’arte definito come una
ispirata sapienza del cuore, la forma sensibile dell’intelligenza e una attitudine sensibile della
conoscenza:

Tedabber el kol hakhmé lev asher milletiv ruah hokhmah
Il corredo dei vestimenti sacerdotali era costituito da pettorale, dorsale, manto, tunica
trapunta, turbante, copricapo con diadema, cintura.

Hoshen efod
Il dorsale, confezionato con oro, lana azzurra, porpora, scarlatto, lino ritorto, aveva due
spalline per tenerlo aderente al pettorale. In più, su una elegante fascia posavano due pietre di
onice, con incisi i nomi delle tribù, in ordine di nascita dei capostipiti, in modo che il sacerdote
le tenesse tutte presenti, per unità della nazione nel Patto, e le rammentasse nell’atto di culto
davanti al Signore.
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Rashì, ricorrendo ad interessanti accostamenti con il vestiario nel medioevo francese, ci ha
dato questa descrizione del dorsale, di cui si era persa l’esatta cognizione: «Era come una
specie di grembiule che indossano le donne quando cavalcano. Lo si cingeva da dietro e lo si
poneva in corrispondenza del cuore sotto le ascelle. La larghezza corrispondeva a quella del
dorso di un uomo e qualcosa di più, e giungeva fino ai calcagni. La cintura era attaccata in
alto per tutta la sua lunghezza. E la si allargava da una parte e dall’altra per la larghezza del
dorsale. Le spalline erano attaccate alla cintura, una a destra e una a sinistra, alle estremità
della larghezza del grembiule, e gli stavano ritte sulle spalle. Vi erano fissate delle pietre
d’onice».
Il pettorale, con gli stessi ingredienti di colori e decorazione, era quadrato e ripiegato in due,
in 25 centimetri circa di lunghezza e larghezza. Era guarnito con file di pietre incassate in
castoni d’oro, pietre di sardonica, topazio, smeraldo, rubino, zaffiro, diamante, opale, agata,
ametista, crisolito, onice, diaspro, recanti anch’esse i nomi delle tribù. Era inoltre adorno di
catenelle e anelli d’oro. Gli anelli del pettorale si congiungevano a quelli del dorsale.

Venatata el hoshen hammishpat et haurim veet hattummim
Aronne, primo gran sacerdote, recava sul pettorale I sacrali urim e tummim, elementi di cui
non sappiamo precisamente la forma. Servivano per concentrazione ed ispirazione oracolare,
nel pronunciare giudizi ed assumere decisioni importanti. Per questo il pettorale sul quale
erano disposti è chiamato hoshen hammishpat, pettorale del giudizio. L’uso di tali strumenti
oracolari era molto limitato e col passare del tempo venne meno, tanto che non si sapeva più
come fossero fatti, al pari dell’ efod sul quale erano apposti. Ancora il re Saul ricorse al loro
uso per sapere come difendersi dall’attacco dei filistei, ma «il Signore non gli rispose, né in
sogno, né con gli urim, né per mezzo dei profeti» (I libro di Samuele, capitolo 28, v. 6).
Alla pagina seguente una raffigurazione
di come poteva essere abbigliato il sommo sacerdote
nell’opera di Jacques Basnage sulla Republique des Hebreux (Amsterdam 1713)
qui riprodotta dalla Encyclopaedia Judaica
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Gli Urim e Tummim sono uno degli elementi arcaici della civiltà ebraica dismessi con il
tempo, una delle prescrizioni, di cui la tradizione dà conto, pur nell’averli dismessi durante
il corso della sua evoluzione. Pensando, evidentemente, a quanto vi era di primitivo nel
ricavare un responso dal contatto di un oggetto, Il rabbino ed ebraista Umberto Cassuto, nel
commento all’Esodo, citato da Dante Lattes nel proprio commento, ha scritto che «si trattava
in sostanza di una specie di concessione temporanea con cui la Torah voleva soddisfare, per
quanto era possibile, le esigenze dell’anima popolare». Penso che le esigenze non fossero
soltanto dell’anima popolare, bensì anche e maggiormente nella sacralità dell’alta funzione
sacerdotale, ma ciò che interessa è il concetto di una concessione antropologica o pedagogica,
attribuita a Dio, nei confronti dell’umanità, conoscendone l’animo e l’immaginazione, in uno
stadio della sua storia. Il concetto di concessione è già in Maimonide nella spiegazione,
razionalistica o storicistica, dei sacrifici degli animali nel culto. Troveremo altri superamenti
di antiche prescrizioni nella stessa logica di umana crescita. Conoscendo la maturità dei miei
lettori, oso comparare questo tipo di spiegazione con l’interpretazione data da Joshua di
Nazaret a proposito del libello di ripudio delle mogli in Matteo 19, 7 – 9, dove però c’è una
inesattezza e malizia dell’evangelista nell’attribuire agli interlocutori di Joshua il pensiero che
Mosè lo abbia comandato, perché, come ben disse il nostro giurista Vittorio Polacco, il ripudio
era una facoltà, non un obbligo, dell’uomo. Ad ogni modo, Joshua, ammettendo il ripudio in
caso di impudicizia della donna, ne deplorava l’uso estensivo o l’abuso, esattamente come
Rabbi Shammai e come più tardi rabbi Ghershon nel Medio evo, che giunse non soltanto a
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deplorare ma a regolamentare e a sancire la monogamia e l’ascolto delle ragioni delle mogli.
Torno a Joshua, il quale disse: «Mosè per la vostra durezza di cuore [possiamo intendere, per
la gelosia, passionalità, presunzione maschilista di uno stadio primitivo] concesse a voi di
ripudiare le vostre mogli, ma all’inizio non è stato così [cioè nello stadio ideale, nel disegno
divino di dare a Adamo la compagna, e anche nell’età dei patriarchi, affezionatissimi alle
esemplari loro mogli]». Quel che interessa, e che ho evidenziato in corsivo, è in Joshua, come
in Maimonide e come in Cassuto, il concetto di concessione, o direi di aderenza ad uno stadio
nello sviluppo della disciplina e della tradizione.
Torno agli urim e tummim per dire che non
erano soltanto, come si può pensare, un oggetto oracolare di origine magica o superstiziosa.
Erano forse un mezzo oggettuale di intima concentrazione di chi deve prendere
una
importante decisione, nel rapporto psicologicamente intenso che si instaura tra il soggetto
umano e un oggetto speciale, carico di significato, in cui si addensa un concentrato di
affettività. Ciò avviene nel prendere una decisione, ciò avviene di fronte a un’angoscia, ad un
pericolo, nella catarsi di una liberazione.
Degli URIM e TUMMIM si parla pure nel capitolo 8 al versetto 8 del Levitico: Mosè mise ad
Aronne il pettorale e pose nel pettorale gli urim e i tummim.
«Farai tuniche, cinture e copricapo in segno di onore e magnificenza»

Kuttanot avnetim umigbaot lekhavod uletifaret
Il copricapo non era allora prescritto per gli uomini, come avverrà più tardi, nel culto, e
tanto meno nell’uso comune, quale segno di devozione, ma soltanto per i sacerdoti, quale
elemento di particolare dignità. Può essere tuttavia che comunemente la testa fosse coperta, se
non altro a protezione dal sole.
Sul capo di Aronne, sacerdote principale, si poneva il
turbante (miznefet), mentre i copricapi dei figli sono chiamati migbaot, singolare migbaat.
Anche questo termine può peraltro tradursi turbante oppure semplicemente cappello. Con
migbà si intende oggi il cappello a cilindro. Il normale cappello ora si dice comunemente kova
e la kippà la conoscete tutti. Al turbante di Aronne era sovrapposto il sacro diadema Nezer
haqqodesh
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


Il diadema sacro sul turbante
I calzoni (mikhnasaim) dei sacerdoti, tessuti in lino, andavano dai lombi alle cosce, coprendo
bene le nudità. Ci attenderemmo, per il criterio di pudore così avvertito, che coprissero
interamente le gambe, come fanno oggi i pantaloni da uomo. Vi era, però, si è appena visto, la
tunica (kutonet), che scendeva, ricoprendo, lungo le gambe.
I lembi del manto recavano forme ornamentali di melograna (pare non con ricamo, ma con
disegnosu un tessuto di lana cucito sul manto). Sul manto di Aronne posava un campanello

d’oro,
Paamon zahav
che risuonava al suo ingresso nel santuario e quando ne usciva, sicché «non morirà».
Come intendere? L’accostamento del sommo sacerdote al santuario e l’uscita erano atti di tale
sacralità che venivano avvertiti da un suono. Se la sacrale solennità venisse a mancare, egli
poteva morirne, non per mano umana ma per una esposizione alla potenza della divina
vicinanza.
Spetta a Mosè, serbando egli la posizione eminente, la purificazione con acqua, la vestizione ,
l’unzione e l’iniziazione al sacerdozio (Kheunà) del fratello
Aronne e dei nipoti. Si può dire
che Mosè investe Aronne nell’ufficio sacerdotale. Interessa, al riguardo, la relazione tra i due
fratelli, armonica per nella differenza di personalità e di ruoli, nella familiare consonanza e
nella
guida del popolo, fin da quando insieme hanno affrontato il Faraone. Aronne è il
primogenito, Mosè il fratello minore e geniale, che non destituisce il primogenito, come è
stato tra i figli di Abramo e tra i figli di Isacco, e gli affida anzi l’eccellente ruolo sacerdotale,
che però è lui a trasmettere, essendo a lui rivolta la parola dall’Alto, per primaria ispirazione
al Trascendente e progettazione istituzionale. Il sacerdote Aronne avrà la gestione del Sacro,
ma a ricevere le istruzioni divine dalla Shekinà posta sull’Arca, tra i cherubini, sarà Mosè e
Mosè rimprovererà fraternamente Aronne per l’arrendevole e diseducativa concessione al
popolo del simulacro divino in oro. Aronne, insieme con Miriam, criticherà ad un certo punto
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Mosè, ma l’asse dell’armonia fraterna reggerà fino all’estrema vecchiaia di entrambi ed ala
lascito del loro retaggio alla storia di Israele. Mi propongo di dire in seguito dell’opera Mosè
e Aronne di Arnold Schoenberg, intrapresa negli anni 1930 – 1932, pensata e forse iniziata già
da prima, ma lasciata incompiuta e tuttavia rappresentata nel 1957.
*
Si procede, per una settimana di iniziazione (millui, millui jad), mediante i sacrifici, seguendo
precise istruzioni nella macellazione e nell’uso, di alimentazione dei sacerdoti o di arsione :
un toro (par) e un montone (ail) all’inizio, un toro ogni giorno, due agnelli (kevshim) dell’età
di un anno ogni giorno, uno al mattino ed uno al pomeriggio. Un gesto rituale nel rito di
iniziazione era la dimenazione (tenufà), che consisteva nell’imprimere all’oggetto dell’offerta
un movimento oscillatorio, prima orizzontale, poi verticale, come si fa nel Lulav, agitando tre
volte il ramo di palma in diverse direzioni. Al versetto 26 del capitolo 29 di Esodo, in questa
parashà, il gesto è prescritto per il petto del montone sacrificato nell’iniziazione sacerdotale.
Quando l’offerta era fatta da un laico, non sacerdote, la guidava il sacerdote, ponendo le
proprie mani sotto quelle dell’offerente.
Il tema dei sacrifici presenta un aspetto descrittivo di anatomia, con i termini degli organi,
delle parti, dei tessuti degli animali che venivano estratti : ecco il grasso, la coda, l’intestino e
in genere le interiora, il fegato e un relativo diaframma detto, con termine scientifico, epiploo,
i reni, la gamba









Helev alià kerev khaved ioteret akkaved kelaiot shok
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Su un altro altare, apposito, quadrato e rivestito d’oro,
diverso da quello destinato ai
sacrifici, di cui si è parlato nella scorsa parashà Terumah, ed interno al santuario, di fronte al
coperchio dell’arca, Aronne doveva fare ardere due volte al giorno l’incenso aromatico, un
incenso continuo o perpetuo (tamid), nel senso che arderà e spanderà sempre il profumo, di
giorno in giorno: «Su questo altare Aron farà ardere l’incenso aromatico. Ogni mattina
quando sistemerà le lampade lo farà ardere, e così pure quando accenderà i lumi al tramonto.
E’ un incenso continuo che si farà ardere dinanzi al Signore per le vostre generazioni». E’ il
Ketoret tamid

Su questo altare interno non si facevano normalmente sacrifici di animali, né libazioni o
offerte farinacee. Aron ne doveva purificare, una volta l’anno, nello Yom ha Kippurim, i
corni o angoli, con il sangue di un sacrificio espiatorio, compreso nella tipologia sacrificale di
hattat.

Ancora sull’incenso che arde continuamente

L’uso dell’incenso nel culto era, ed è tuttora, assai diffuso in diverse culture. Ricavato da
piante oleoresine, con il profumo forte e penetrante, attira, rilassa, eleva. E’ stato molto
ricercato, per scopi medicinali e devozionali, costituendo specialmente nell’antichità e nel
medio evo,
un genere di importanza commerciale, con conseguenti relazioni tra diversi paesi
e popoli. Era in culti coevi all’ebraico e nella religione romana. E’, notoriamente, nel culto
cattolico, anche se all’inizio, per ripudio di usanza precristiana, era stato evitato. E’ un
ingrediente della devozione buddista e si lega alla cultura giapponese con il nome di Ko.
Questo dato di antropologia culturale ci aiuta a comprendere come elementi diffusamente
umani facciano parte della civiltà ebraica, elaborati, tra molti altri, nel contesto specifico
della ritualità ebraica, dall’Esodo alla fine del secondo Tempio.
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HAFTARA’
L’aftarà di tezavvè è tratta dal capitolo 43 del profeta Ezechiele con le norme per la
fabbricazione dell’altare e per i sacrifici che vi si faranno. Data l’epoca esilica e postesilica in
cui si colloca Ezechiele, egli si riferisce al secondo Tempio, che fu ricostruito in Jerushalaim.
Da notare che Ezechiele prende a capostipite dei sacerdoti non Aronne, ma il meno antico
Zadoc, di età monarchica, nominato sommo sacerdote dal re Salomone.
Ezechiele, in questa visione del modello del Tempio da ricostruire, adopera
la parola Torà
nel senso specifico di concezione e di disciplina normativa riguardanti l’edificio e la sua
sacralità. La specifica dunque come
Torà della Casa, la casa per eccellenza, di Dio e del
popolo che si riunisce in preghiera:


Questa è la Torat habbait sulla cima del monte (monte Sion)
Tutto il suo recinto intorno intorno è [luogo] santissimo
In modo analogo la parola Torà, seguita da un complemento di specificazione, viene ad
indicare diverse discipline, per esempio l’etica (torat hammiddot),
hazzurot), la psicologia (torat hannefesh), la mistica (torat hassod).
Shabbat Shalom, Bruno Di Porto
la morfologia (torat