panorama - Parrocchia di Santa Margherita

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REPORTAGE
FRANCESCA GRANA
T
orno tra le colline di San Rocco a Pilli (SI) poche settimane
dopo la mia prima visita al Tuscany Camp di Giuseppe
Giambrone, un progetto avviato in collaborazione con la
Federazione ugandese di atletica leggera. Sosta tecnica: giusto il tempo
di ultimare i bagagli, conoscere i nuovi arrivati e dare al terzetto l’assetto
definitivo. Oltre a Giambrone, infatti, mi accompagna anche Fabio Fiaschi,
presidente della Lega Atletica Uisp e giornalista di www.runners.it oltre
che del periodico Runners e Benessere. Destinazione Uganda. Per scoprire
la sponda africana del Tuscany Camp e (provare a) carpire i segreti della
terza potenza mondiale nella corsa prolungata.
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CORRERE
L’Uganda
(ri)comincia
a correre
foto Francesca Grana
È il nuovo serbatoio di talenti nella corsa
prolungata. Dal campione olimpico e
mondiale di maratona, Stephen
Kiprotich, alla squadra che ha dominato
le gare iridate di corsa in montagna a
Casette di Massa. Eppure in tutto il
Paese, grande come il centro-nord Italia,
c’è una sola pista.
Lungo strade di terra cancellate dalle
piogge, su pulmini-rottame stipati
all’inverosimile, dentro lodge co n pareti
di legno e letame siamo andati a cercare
di capire quale sia il segreto di questa
nuova Nazione del running
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Benvenuti in Africa
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Aspettando Kiprop
L’Uganda (ri)comincia a correre
La mia prima alba africana, in aereo, mentre sorvolo la Rift Valley. Una
spaccatura che fende la crosta terrestre, sotto di me; una lama arancione
che fa breccia nel buio, fuori dall’oblò. La mia giornata inizia a colorarsi.
Scesi dalla penombra ovattata dell’aereo l’impatto è abbacinante: sole
cocente, luce abbagliante. Stordisce quasi. Benvenuti in Africa! Superati
anche gli ultimi, esagerati, controlli di sicurezza, all’uscita troviamo ad
attenderci Flavio Pasqualato, responsabile finanziario della Federazione
ugandese di atletica leggera (UAF). In Uganda da oltre vent’anni, Flavio
è il titolare di un’impresa specializzata nella realizzazione di pozzi per
l’estrazione di acqua potabile. È anche il marito di Beatrice Ayikoru,
segretario generale della UAF e membro del Cross Country Commitee
della Iaaf (International Association of Athletics Federations), collega del
nostro DT Massimo Magnani.
I risultati parlano chiaro: l’Uganda è il nuovo serbatoio di talenti nella
corsa prolungata. Isaac Kiprop, Daniel Rotich e Kibet Soyekwo hanno
monopolizzato il podio della gara maschile agli ultimi Campionati del
mondo di corsa in montagna. Stella Chesang si è imposta nella gara
riservata alle Juniores, dopo il quarto posto nei 5.000 m ai Campionati
mondiali Juniores di Eugene (USA), dove Joshua Kiprui Cheptegei aveva
vinto i 10.000 m (quinto il compagno di squadra Abdllah Kibet Mande).
Da Nanchino Geofrey Balimumiti è tornato con l’argento degli 800 m
dei Giochi olimpici giovanili.
Capitolo maratona: Stephen Kiprotich è il campione olimpico e mondiale
in carica; Abraham Kiplimo e Munyo Solomon Mutai si sono classificati
terzo e quarto ai Commonwealth Games di Glasgow. Andando indietro
di qualche anno, troviamo poi la siepista Dorcus Inzikuro, allenata proprio
da Flavio Pasqualato, campionessa del mondo a Helsinki nel 2005.
Ero partita per l’Africa immaginandomi la solitudine della savana e il
silenzio del deserto. Quanto mi sbagliavo! È incredibile la quantità di
gente che gira per le strade o tra le case. A piedi, in bici, in moto, in auto.
È zeppo di camion e di matatu, pulmini sgangherati usati come taxi…
quando non fermi a bordo strada bloccati da qualche avaria. Sulle moto
e sulle biciclette trasportano di tutto, sfidando apertamente le leggi
della fisica. Le ho viste vacillare sotto i carichi più impensabili: da famiglie
intere a frigoriferi, taniche d’acqua e caschi di banane. Tronchi, tubi e
canne da zucchero, il tutto rigorosamente perpendicolare al senso di
marcia, così da occupare l’intera carreggiata. Fantastico.
Boniface Toroitich Kiprop è il talento cristallino esploso nei 10.000
m nell’estate del 2004, prima a Grosseto, dove vinse in quel
Campionato del mondo Juniores che lanciò anche il nostro Andrew
Howe, poi ai Giochi di Atene, dove si piazzò quarto. Posizione replicata
ai Mondiali di Helsinki 2005 e rinforzata da tempi mirabolanti al
Memorial Van Damme di Bruxelles: 27’04”00 e record del mondo
Juniores nel 2004: 26’39”77 e record ugandese l’anno successivo, nella
gara stratosferica del record del mondo di Kenenisa Bekele e del nuovo
record del mondo Juniores di Samuel Wanjiru. Vent’anni appena e le
porte dell’olimpo dell’atletica spalancate.
Poi l’infortunio e tutti che gli voltano le spalle. Soprattutto il manager.
Strappo all’altezza dell’inguine del muscolo adduttore lungo, proprio uno
di quelli che servono per alzare le gambe, semplificando. Uno di quelli
che si sforzano quando devi sollevare scarpe dal peso decuplicato dal
fango che le avvolge. E la stagione delle piogge è lunga, in Uganda. E
l’unica pista in tartan è quella del Nambole National Stadium di
Kampala. Peccato che i campioni non abitino certo tra il cemento della
capitale, quella è per i ricchi che fanno jogging sperando di dimagrire.
Kiprop e Giambrone si sono incontrati lo scorso gennaio. Erano quattro
anni che Boniface non correva, trascinandosi dietro quell’infortunio mai
curato. È da quando siamo arrivati in Uganda che proviamo a metterci
in contatto con lui, tornato a casa da qualche settimana in attesa di
rinnovare il visto per l’Italia. Sempre staccati i due cellulari, costantemente
irraggiungibile. Alla moglie risulta che sia in viaggio per raggiungerci a
Kampala. Pare. Nessuno sa esattamente dove si trovi, ma nessuno però
sembra preoccuparsene. “Pole pole (piano piano, ndr)”, arriverà. Del
resto, è solo l’atleta di punta del Tuscany Camp e uno degli uominiimmagine della Federazione ugandese. Del resto, l’appuntamento per il
visto è soltanto la formalità imprescindibile per poter tornare a curarsi
e allenarsi a San Rocco. Del resto, mancano ancora tante ore a
domattina. Arriverà, no?
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L’Uganda (ri)comincia a correre
Accordo fatto
Intanto arriva la mattina del 23 ottobre, data storica per il progetto del
Tuscany Camp, che viene ufficialmente riconosciuto e approvato dalla
Federazione ugandese di Atletica Leggera (UAF) quale proprio centro
federale per la preparazione e l’assistenza sanitaria degli atleti ugandesi
probabili olimpici. Giuseppe Giambrone, responsabile del Tuscany Camp
e allenatore Fidal, è ufficialmente accreditato come tecnico federale.
Potrà siglare accordi commerciali in rappresentanza della UAF e agire in
sua vece. Contratto firmato nella sede del Comitato Olimpico Ugandese
(UOC), a Kampala, alla presenza del responsabile amministrativo
dell’UOC, Collins Joseph Ssemmanda, e delle principali cariche della UAF,
tra cui il presidente Dominic Otuchet e il segretario generale, Beatrice
Ayikoru.
Ogni anno potranno accedere al Tuscany Camp una decina di fondisti
e mezzofondisti selezionati, che verranno tesserati per squadre italiane
e ospitati presso le strutture di San Rocco a Pilli. In ingresso, lo staff
sanitario del centro medico avviato da Giambrone li sottoporrà a una
serie di esami clinici, ripetuti con cadenza trimestrale, per controllare lo
stato di salute e redigere il passaporto biologico.
Si tratta del primo accordo siglato tra un privato e la UAF, un contratto
rivoluzionario sotto diversi punti di vista. La posta in gioco non è la solita
assistenza manageriale rivolta individualmente agli atleti top, con la
promessa di ingaggi mirabolanti e bypassando la Federazione. Salvo poi
fare una sola gara (extra Nazionale) all’estero in tutto l’anno, come nel
caso dei due gioiellini junior Joshua Kiprui Cheptegei e Abdllah Kibet
Mande. O non poter proprio uscire dal Paese, come capitato a Stella
Chesang, bloccata per l’illegalità di aver firmato addirittura due contratti
contemporaneamente, con Global Sports Communication e con Run
Fast. Una vera e propria corsa contro il tempo quella dei manager: alla
ricerca di atleti sempre più giovani e approfittando dei varchi legislativi di
federazioni non ancora strutturate.
«Partiamo con oltre un ventennio di ritardo rispetto al Kenya, è normale
avere ancora qualche problema di assestamento e organizzazione»
centra il punto Pasqualato, sotto l’occhio attento della moglie. Beatrice
parla poco, ma quando lo fa è perentoria. Ha polso, è abituata a farsi
rispettare. Ex detentrice dei record ugandesi di 10.000 m e maratona,
faceva parte di quella prima cordata di ex atleti che hanno scalato i vertici
della Federazione, a suon di rinnovamento e fiducia conquistata sul
campo.
«Dobbiamo fare come in Kenya: stilare una lista di manager accreditati
e permettere soltanto a loro di entrare in contatto coi nostri ragazzi −
precisa la Ayikoru −. Ci vorranno riunioni annuali e regole uguali per tutti,
non è accettabile che i manager vadano direttamente a casa degli atleti,
magari minorenni, e facciano firmare loro contratti di cui non afferrano
il contenuto. Il caso di Stella Chesang è emblematico, è servito a tutti
come monito.»
Ma in tutto questo come si inseriscono Giambrone e il suo Tuscany
Camp? Cosa ci guadagna e cosa c’è dietro? Tanto per evitare i giri di
parole. Giambrone è un sognatore, ma sogna coi piedi per terra. Alle
spalle ha un centro medico che funziona, che gli garantisce tranquillità e
una solida base di partenza. Economica e a livello di credibilità. Il suo
obiettivo è conquistare da allenatore una medaglia che conta, meglio se
più di una. Facile con gli africani, penserete. E allora perché di allenatori
alla Giambrone non ce n’è già uno in ogni città?
In questi giorni, in questi mesi, mi sono interrogata spesso sui punti del
progetto che ritenevo non filassero, che non capivo, su cui io al suo
posto mi sarei ancorata. Uno dopo l’altro, non c’è un singolo aspetto che
sia di facile gestione. Chi sarebbe così incosciente da investire così tanto
su un programma che in partenza non dà nessuna garanzia di successo?
Chi di noi avrebbe avuto il coraggio di assecondare pienamente un
sogno nel cassetto? Io no, lo ammetto.
Ma se questi ragazzi sono diventati forti allenandosi in Uganda, perché
sradicarli dal proprio ambiente e farli correre in Italia? L’ho capito
andando là. Perché in Uganda non sempre ci si riesce ad allenare: le
strade sono di terra e quando piove diventano impercorribili. E se
anche ti ostini a correre, finisce che ti fai male, perché le scarpe diventano
spugne pesantissime e inzuppate di argilla. E il giorno dopo non ci sarà
certo un fisioterapista pronto a farti stare meglio.
Ed è dura anche per la Federazione, che fatica a monitorare la situazione.
Gli atleti abitano in villaggi isolati e difficili da raggiungere, magari l’indirizzo
te lo indicano descrivendoti l’ultima collina da superare prima di arrivare.
E magari il giorno della gara non si presentano, perché non sono stati
abbastanza previdenti circa il tempo necessario ad arrivare o perché,
banalmente, mancavano i soldi per il trasporto. Punto.
Da qui il tentativo di creare dei training camp ufficiali, come quello di
Bukwo, in cui aggregare e gestire meglio gli atleti. Peccato però che a
quel punto subentrino altri problemi, come allenatori non specializzati
che dai 1.500 alla maratona fanno seguire a tutti lo stesso programma.
Storia vera, capitata prima degli ultimi Giochi del Commonwealth.
Sembra forse allora un po’ più facile capire come mai la proposta del
Tuscany Camp sia stata accolta con tanto favore. Facile con un altro
italiano, Pasqualato, ai vertici della UAF, penserete. Vero, senza dubbio
ha aiutato. Ma in quanti hanno capito che forse era il momento di
cambiare i “cavalli” su cui puntare? In quanti avevano notato che ormai
in Kenya i bambini vanno a lezione con lo scuolabus? Posto giusto al
momento giusto. La vita è fatta di occasioni, certo, ma le occasioni sono
di chi se le crea.
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Il tempo non è un problema
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Il training camp di Bukwo
e un allenamento in Kenya
L’Uganda (ri)comincia a correre
Le giornate africane sanno essere infinite. Cominciano prima dell’alba e
scorrono molto lentamente. Non che ci si annoi, ma magari capita che
per percorrere 400 km occorra tutta una giornata, per le condizioni delle
strade. Il tempo non è mai un problema. Da noi lo sanno i vignaioli, che
aspettano pazienti che il vino si faccia buono. Anno dopo anno, strato
dopo strato, come la polvere che lentamente imbianca le loro botti. Di
polvere ce ne era tanta anche sulle coperte della mia branda, quella sera
che volevamo arrivare a Bukwo, ma poi ci siamo dovuti arrendere
all’evidenza. Troppo lontani, troppo fango, troppe buche per il nostro
fuoristrada a mezzo servizio. E allora abbiamo dormito in un lodge lungo
la strada, senza sapere esattamente dove fossimo, in un agglomerato di
casupole che probabilmente non aveva neanche un nome. Pavimento in
terra battuta, pareti di terra, legno e letame. Una branda, una sedia e una
lampadina. Sospesa nello spazio e nel tempo, visto che non potevo
nemmeno decidere fino a quando la luce avrebbe continuato a illuminare
il mio block-notes: facoltà del proprietario del generatore. Sempre meglio
che dormire in macchina. Sempre meglio che giù per una scarpata.
Dovevamo partire in mattinata da Kampala e raggiungere il training camp
federale di Bukwo a ora di cena, ma qui la realtà non si piega facilmente
ai programmi di viaggio di un manipolo di occidentali. Inezie come la
fototessera per il passaporto o spostarsi nel traffico cittadino qui
richiedono ore. Dopo sei ore di viaggio arriviamo a Kapchorwa, estremo
baluardo di urbanità, con gli ultimi scampoli di asfalto e cemento. Da qui
tutto diventa variabile: le distanze chilometriche, a seconda della
percezione di chi te le indica, la fisionomia delle strade, in base alle
condizioni atmosferiche. Dopo due ore di sterrato e scossoni, col buio
che inizia a farsi fitto e la fame placata da una coscia di pollo addentata
senza interrompere la marcia, la nostra destinazione inizia ad assumere
distanze sempre più aleatorie: da 15 a 40 km, dipende dall’interlocutore.
Del resto, se sono abituati a muoversi a piedi o in groppa a un asino, è
lecito non aspettarsi troppa confidenza con un contachilometri. Tutti
concordi, invece, sui tempi di percorrenza da lì sino a Bukwo: incalcolabili.
Tutta colpa di quella terra rossa, che nei giorni di sole ti colpisce con la
violenza dei suoi colori, ma che con la pioggia si fa più scivolosa di una
saponetta, che ti macchia vestiti e cuore. Tutta colpa nostra, che ancora
ragioniamo come fossimo in Europa.
Arrivo in stanza esausta, ma troppo stanca per dormire. Scrivo per farmi
vincere dalla stanchezza, sperando che il sonno prenda il sopravvento
sull’adrenalina, che il tetto in lamiera resista al temporale e che gli insetti
sulle pareti non mi reputino uno spuntino interessante. Passi fuori dalla
stanza e il generatore che smette di ronzare. Buio pesto.
L’High Altitude Training Camp di Bukwo è stato fondato una decina
di anni fa da Flavio Pasqualato col contributo dell’ambasciata olandese.
Stephen Kiprotich ha ultimato qui la preparazione per i successi olimpici
e mondiali.
Sei stanze arredate con l’essenziale per un totale di 24 posti letto, in una
struttura in muratura che rappresenta decisamente un’eccezione per la
zona. Oltre agli atleti qui risiedono anche una cuoca e un addetto alla
sicurezza. La cucina è una baracca in lamiera e i fornelli sono un falò,
ma nessuno è mai morto di fame. La spesa si fa andando dal vicino di
capanna per scegliere la gallina da condannare, trasportando in qualche
modo 100 kg di riso fino al camp, sperando che la contadina abbia
ancora un po’ di pannocchie, spinaci e pomodori. Cucinare richiede
tempo, come del resto tutto qui. Nel frattempo gli atleti si allenano,
in un contesto che nei giorni di sole ti fa dubitare di voler tornare a
casa. Quella terra rossa, quella luce chiara, quei colori saturi. Attorno
al camp si snodano vari percorsi di allenamento, ondulati, che
attraversano campi, villaggi e campagne. Ogni tanto un ragazzino prova
ad accodarsi, ogni tanto una moto traballante sotto il suo stesso carico
si accosta per fare passare i corridori, probabilmente chiedendosi come
mai una donna bianca li stia seguendo, nascosta dietro quel grosso
obiettivo.
Toccata e fuga in Kenya per accompagnare Fabio in aeroporto a Eldoret,
ma vuoi non passare da Iten? “The home of champions”, come recita
l’arco di accesso alla città. Infatti ci passiamo. Giuseppe e Boniface
trovano pure il tempo di allenarsi; Fabio e io girovaghiamo prima del
tramonto, rapiti dall’atmosfera di una pista che si percepisce essere
magica. Cercando un posto per la notte, arriviamo all’High Altitude
Training Centre di Lornah Kiplagat, costruito dalla tre volte campionessa
del mondo di mezza maratona e dal marito, l’olandese Pieter
Langerhorst. Struttura ultra lusso calibrata sui gusti occidentali, per atleti
o aspiranti tali che vogliano allenarsi a casa dei campioni… senza però
rinunciare ai comfort di casa propria. Ci spiegano, però, che non è
possibile fermarsi per una notte soltanto: «Sapete, non si tratta di un
albergo, ma di un ricovero per atleti». Atleti anche da 7’ al chilometro,
sia chiaro, purché la loro disponibilità non sia soltanto sportiva.
Evidentemente qui si va per estremi, da un lato l’essenzialità di Bukwo,
dall’altro la scaltrezza di Iten.
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Il giorno della gara
Kapchorwa è nell’est dell’Uganda, circa 300 km a nord della capitale. Qui finisce l’asfalto, che comunque è appannaggio della sola via
principale. I successivi 100 km per arrivare al confine col Kenya si affrontano su sterrato, con tutte le variabili già elencate. Di notte o
quando le nubi sono troppo fitte manca la corrente elettrica. Ci si fanno bastare i pannelli solari o al massimo qualche generatore
sgangherato, se proprio in un giorno di pioggia non si riesce rinunciare a qualche frivolezza da occidentale. Una fotocopia, ad esempio.
O un po’ di linfa per la mia reflex. Il piacere di una bibita fresca è un privilegio esclusivamente mattutino, la sera anche i frigoriferi
smettono di funzionare. Il vero antidoto per la dipendenza da smartphone, non c’è dubbio.
A Kapchorwa sono nati alcuni tra i più famosi fondisti ugandesi, come il campione olimpico e mondiale di maratona, Stephen Kiprotich.
Qui c’è una delle principali stazioni della polizia che, come in Italia, recluta e stipendia i giovani atleti più promettenti. Kapchorwa è spesso
sede di manifestazioni federali, occasione per mettersi in mostra piazzandosi bene in gara o sfoggiando l’abito più elegante, se un
anticipo di fama ti ha già fatto montare la testa. Al punto di ritenere superfluo allenarsi, perché tanto si ha già vinto un Mondiale Juniores
e quindi si è già forti. Vero, Joshua (Kiprui Cheptegei, ndr)?
C’è invece chi di strada ne ha già fatta tanta, fisicamente e metaforicamente, ma alla gara si presenta ancora in tuta e dedica il suo tempo
a chiunque lo saluti. Stephen Kiprotich non sarà mai il nuovo Kimetto, non è uomo da sfide al cronometro e ai tempi impossibili.
Eppure fa paura, tanto da spingere l’ex recordman Wilson Kipsang a una partenza assassina all’ultima maratona di New York:
contro il tempo, contro il vento, contro di lui. Kiprotich è atleta da grandi appuntamenti, il suo nome lo scrive là dove nessun record
lo scalzerà mai. Londra 2012, Mosca 2013. Pechino 2015? Difficile a dirsi, quel che è certo è che Stephen sta già guardando oltre,
lavorando per un futuro non soltanto suo. Lo scorso aprile ha lanciato il progetto “Kiprotich Legacy Programme”, dove legacy significa
eredità: promozione dell’atletica attraverso il coinvolgimento di insegnanti e allenatori.
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L’Uganda (ri)comincia a correre
Arriviamo a Kapchorwa il giorno prima della gara, in serata visioniamo la “pista”. Uno spiazzo non del tutto pianeggiante, con mucche,
pozzanghere e bambini. Che impazziscono appena vedono una macchina fotografica: scatta la gara a entrare in quanti più scatti
possibile. Sotto il gazebo, al centro della spianata, si piazza un camion circondato da ragazzi e dal frastuono delle casse: ecco l’expo che
precede la manifestazione! Non ho mai visto tanti bambini tutti insieme. Un fiume in piena. Dopo lo sparo mi sono sfrecciati a fianco
a più ondate, sembravano non finire mai. Quando anche l’ultimo mi ha superato, dietro di loro ha iniziato a correre la gente del posto,
come risucchiata dalla marea che si ritira. Bambini di tutte le età e di tutte le altezze, ma un’unica distanza gara: 5 km. Alla faccia dei
nostri Pulcini, Primi passi, Esordienti e Ragazzi! L’arrivo è stato, se possibile, ancora più dirompente della partenza. Ne sono arrivati scalzi,
con le ciabatte o il maglione in mano, in volata, stremati. Qualcuno poi non è neanche tecnicamente arrivato, visto che a un certo punto
la fila di ragazzi in attesa davanti ai giudici era lunga qualche centinaio di metri.
Prima di loro era partita la gara degli adulti: 10 km per gli Juniores, 21 per i Seniores. Al via mancavano i campioni già conclamati, passerella
per chi ambisce a superarli in futuro. Partenza preceduta da un momento di raccoglimento collettivo, una preghiera corale scandita a
ritmo, come un incoraggiamento. Pensavo che la corsa qui fosse vissuta in maniera elitaria, che in gara si scannassero solo aspiranti top
runner. E invece c’erano signore all’apparenza appena uscite dalla cucina: gonne lunghe, leggero sovrappeso, atteggiamento ciarliero.
L’equivalente dei nostri amatori, incredibile. Subito dopo il via, il pubblico schizza a piazzarsi lungo un pendio, per seguire meglio la gara
che tra poco passerà sotto di noi. Li seguo e ci abbarbichiamo a bordo di una scarpata… staremo anche rischiando la vita, ma lo
spettacolo è mozzafiato. L’Uganda è verdissima e mai pianeggiante: innanzi a noi un susseguirsi di collinette e sfumature di verde,
macchiate qua e là dai primi atleti che iniziano a sfilare. Alla faccia della corsa su strada, questa mezza da noi sarebbe omologata come
trail! Sotto di noi, grandi come formiche, passano i primi atleti… sono bastati pochi chilometri e già le tre master arrancano staccate di
qualche minuto. L’ultima arriverà insieme ai bambini più attardati, al termine di una mezza maratona con pendenze da corsa in montagna.
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Kampala, il ritorno
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Tornare
L’Uganda (ri)comincia a correre
Sveglia alle 6 per seguire l’allenamento dei ragazzi. «Dai, corriamo anche
noi, tanto all’inizio andranno piano» mi faccio convincere. Mi ritrovo
ansante dopo 35’ di equilibrismo su saliscendi nel fango, ben sopra i 5’ al
chilometro e la bellezza di 180 bpm. Ottima forma, non c’è che dire.
Alle 9 avremmo appuntamento con gli atleti selezionati per aderire al
Tuscany Camp, ma nel frattempo ci concediamo ben due tè, tanto ormai
abbiamo capito che non arriveranno mai puntuali. Si presentano, infatti,
tranquilli a mezzogiorno, ben oltre le mie più fantasiose aspettative.
Accidenti, non ho ancora capito nulla dell’Africa!
Ultimi matoke, ugali e sakuma wiky, ultimi saluti e poi via di corsa in
macchina… dando ormai per certo che il viaggio ci riserverà delle
sorprese.
Ovvio. Del tipo viaggiare stipati come sardine perché in tre hanno
approfittato di un passaggio in città. Del tipo rimanere a secco dopo aver
ricevuto rassicurazioni dall’autista che eravamo a posto col carburante.
Del tipo vedere del fumo uscire dal cofano, dopo esserci già fermati a
più riprese per rabboccare l’acqua. Game over, stavolta definitivo.
L’unica soluzione è saltare a bordo di un matatu. Pulmini sgangherati
e strapieni di passeggeri, omologati per 14 persone ma stipati volentieri
anche oltre le 20. Lanciati a velocità folli, al buio, su strade dissestate e
spesso attraversate da animali. Ho avuto paura, stavolta sì. Un susseguirsi
d’inchiodate in corrispondenza dei dissuasori o di fermate improvvisate.
Lo spazio vitale sufficiente per stare rannicchiati, cercando invano un
appiglio in caso di necessità. Una muraglia di carne. Uno scudo umano
tra me e il parabrezza in caso d’incidente, se non altro. Una bolla di
solitudine nella calca opprimente di corpi sconosciuti, l’occasione per non
scappare dai propri pensieri.
Dopo 8 ore di viaggio rocambolesco, una macchina abbandonata per
strada, abbandonati a nostra volta dal primo matatu e lasciati a piedi
anche dal terzo pulmino, dopo 4 giorni in un paese senza elettricità,
pioggia pressoché costante e bagno comune fuori dalla stanza, tornare
a Kampala mi è sembrato il paradiso. Un paradiso caotico e sovraffollato.
Un appartamento dotato di corrente “h24”. Un bagno personale, pulito
e illuminato. Fantascienza. Ho rimesso a caricare tutti i miei dispositivi, linfa
a basso voltaggio per le mie protesi digitali. Mi sono addormentata cullata
dalla luce del portatile, con la musica nelle orecchie e inviando un ultimo
sms prima di dormire. Un’orgia di connessioni tecnologiche, allora è
questo il senso della nostra civiltà?
E dunque è questo il mal d’Africa? Montare su un treno super veloce
viaggiando inebetiti fino a destinazione? Perché sento tutti così distanti,
pur essendo esattamente come chi mi circonda?
E dunque è questo il mal d’Africa? Una nostalgia inspiegabile e silenziosa
che inizia a montare ancora prima di ripartire? Razionalmente sai di non
voler rimanere, ma allora perché è così difficile lasciare?
I giorni subito dopo il rientro sono fatti di racconti che si ripetono e che
ti dispiace, ma proprio non riescono a rendere tutto ciò che hai passato.
Sono fatti di impegni che speri ti travolgano più pressanti di prima,
perché di tempo per rimuginare ne hai già avuto fin troppo. Devo
trovare un assetto per i 40 GB di foto. Per i video, per i testi. Devo
trovare un assetto.
Credo che il mal d’Africa sia un problema di tempo, del tempo che là
sei costretta a dedicarti. ◆
L’Uganda nella storia dell’atletica
L’abbiamo vista sventolare sul pennone più alto dei Giochi di Londra 2012 grazie al maratoneta Stephen Kiprotich, ma
la bandiera gialla rossa e nera con la gru coronata era già salita lassù ai Giochi di Monaco 1972, con la vittoria di John
Akii-Bua nei 400 m a ostacoli. Quello fu davvero il primo grosso successo internazionale di un ugandese in atletica,
conseguito oltre tutto con un nuovo record mondiale, 47”82, firmato da un atleta che era il 29° di 43 figli (il padre aveva
avuto 8 mogli). L’Uganda era divenuto indipendente solo nel 1962 (prima apparteneva all’impero britannico).
Roberto L. Quercetani
Nella foto: Joshua Kiprui Cheptegei vince i 10.000 m ai Campionati mondiali Juniores di
Eugene 2014 (USA). Erreà è lo sponsor tecnico della Federazione ugandese di atletica.
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