a che serve l`associazionismo giudiziario?

A CHE SERVE
L’ASSOCIAZIONISMO GIUDIZIARIO?
Introduzione alla sessione di lavoro
(sabato 28 marzo 2015 – ore 15.00-16.30)
Aggirandosi nelle mailing-list riservate a magistrati, frequentandone i luoghi
tradizionali di incontro (assemblee, riunione degli organi elettivi ecc.) o anche
semplicemente chiacchierando nei bar dei palazzi di giustizia si ricava un disagio
profondo e la constatazione che l’attuale crisi delle forme tradizionali di
rappresentanza non abbia risparmiato l’associazionismo giudiziario e le sue
articolazioni, soprattutto quelle che, con l’approssimazione degli schematismi,
possono essere collocate “a sinistra”.
Eppure nessuno disconosce (anche se, in realtà, in molti non conoscono) il ruolo
essenziale svolto, nella seconda metà del secolo scorso, dall’associazionismo
giudiziario ed, in particolare, da Magistratura democratica nella trasformazione della
magistratura da corpo burocratico chiuso, cementato da prospettive di ceto, artefice di
un’azione funzionale agli obiettivi del potere politico, strutturalmente ed
ideologicamente vicino alle classi dominanti, a potere diffuso, contraddistinto da
un’organizzazione orizzontale e paritaria, lontana da impostazioni gerarchiche che
affidano l’imposizione di scelte ed orientamenti ai “capi” o a giudici selezionati sulla
base della loro omogeneità culturale (come accadeva in passato per la Cassazione).
E se, tra la fine del secondo scorso e primi anni del nuovo, la magistratura, non
come singoli ma come istituzione, è stata, ed è stata vissuta dall’opinione pubblica,
come baluardo a tutela della democrazia e dei valori costituzionali e come strumento
di garanzia per gli ultimi e i marginali, ciò si deve proprio al progressivo affermarsi, tra
la metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘90, di questo modello di magistratura orizzontale,
fieramente disinteressata alla carriera, capace di non dimenticare mai che dentro ad
ogni fascicolo c’è un individuo che aspetta risposte, consapevole di essere forza e
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garanzia di chi non è altrimenti garantito, capace di non chiudersi nei palazzi di
giustizia e di vivere dentro alla società ma anche di tenersi alla larga dai centri di
potere.
Questo cambiamento, dovuto soprattutto a Magistratura democratica e
all’egemonia culturale che era riuscita a guadagnarsi nell’ambito della magistratura
associata, è stato realizzato grazie allo smantellamento di una legislazione repressiva
nata sotto il fascismo, alle battaglie civili, allo smascheramento di un sistema politicoaffaristico fondato sulla corruzione e sulle clientele, alla lotta alle mafie ma,
soprattutto, grazie alla rivendicazione del primato della Costituzione e alla
affermazione della sua diretta applicabilità da parte del giudice.
Da qui l’idea fondamentale del giudice, non come “servo” e “bocca” della legge, ma
come “giudice” della legge, controllore della sua conformità alla Costituzione, e,
conseguentemente, dell’attività interpretativa non come operazione logico-matematica
ma come operazione complessa che impone al giudice, inevitabilmente, scelte tecniche
e scelte di valore dal contenuto intrinsecamente politico. In una parola, il tramonto del
mito della neutralità della giurisdizione.
Da qui la consapevolezza in capo alla magistratura della propria autonomia ed
indipendenza derivante dalla Costituzione, per cui l'ordine giudiziario non è più una
semplice articolazione della pubblica amministrazione ma è l’insieme orizzontale di
singoli magistrati, ciascuno dei quali incarna la pienezza del potere giudiziario.
E non è un caso che in quel tempo la politica e una parte della magistratura
accusasse di “ideologismo” quei magistrati che pretendevano, addirittura, di
applicare la Costituzione e i suoi principi.
In sostanza, se la magistratura è cambiata negli ultimi quarant’anni, lo dobbiamo
alle tante battaglie di allora. Le idee, un tempo “rivoluzionarie”, sono diventate in larga
parte patrimonio comune all’interno della magistratura. E i magistrati democratici
occupano oggi quei vertici gerarchici da cui un tempo si difendevano.
Negli ultimi venti anni, però, la situazione è cambiata all’interno e al di fuori dalla
magistratura
In primo luogo, in tutti i campi e a tutte le latitudini i “contenitori” politici ed
associativi stentano a conservare il consenso; ovunque cresce un senso di fastidio
verso quella che viene considerata una oligarchia portatrice di privilegi ingiustificati e
separata dal “popolo” che dovrebbe rappresentare.
In secondo luogo il ritorno all’individualismo, il rifiuto della politica, la diffidenza
per le strutture organizzate si sono affermati nella società e, inevitabilmente, hanno
permeato anche i futuri magistrati. Chi è entrato in magistratura negli ultimi anni è
quasi sempre privo di esperienze politiche, incapace di provare il senso di
appartenenza ad un insieme più grande dell’io, cresciuto in un Paese assuefatto ad un
potere politico che rivendica l’impunità e continuamente apre crociate contro la
magistratura, giudicandone “eversiva” l’indipendenza e l’autonomia. Ne è venuta fuori
una magistratura confusa, di individui isolati, diffidenti, disorientati e, al tempo
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stesso, rivendicativi, angosciati da tempi e carichi di lavoro, nutriti di pregiudizi verso
la politicità della giurisdizione. È come se anche la magistratura fosse stata investita da
quel processo di “decostruzione delle identità” che ha attraversato quasi tutte le
categorie socialmente o politicamente impegnate.
In terzo luogo sono cambiati, in generale, modi e luoghi della partecipazione, è
cambiato il linguaggio: i nuovi strumenti hanno reso facile e accessibile la
comunicazione e lo scambio, ma la discussione spesso si riduce ad essere più
esibizione del proprio pensiero che ascolto e interazione con quello altrui; a ciò si
aggiunga che la comunicazione digitale esige sintesi estrema e interlocuzioni
immediate, finendo spesso per semplificare i contenuti fino all’evanescenza.
Quali sono le ricadute di tutto ciò sull’associazionismo giudiziario e sulle sue
articolazioni, a cominciare da Magistratura democratica?
Innanzi tutto va osservato che, se è vero che la crisi di fiducia investe
trasversalmente tutte le “rappresentanze” tradizionali, la magistratura associata, nel
suo complesso e nei gruppi che la compongono, non ha fatto molto per vincere
pregiudizi e diffidenze: ha spesso gestito l’autogoverno secondo logiche anche
grossolanamente spartitorie, riuscendo troppo spesso a privilegiare i peggiori.
Il rifiuto dell’associazionismo, quindi, trae linfa, oltre che dal disincanto per le
forme tradizionali di aggregazione fondate sull’idea di militanza, anche dalla delusione
per in modo in cui l’Associazione nazionale magistrati e le sue articolazioni hanno
operato.
In questo contesto può apparire curioso che l’anticorrentismo, per lo meno nella sua
componente più estrema, fin dall’inizio si sia legato proprio alla parte più corporativa
ed “assistenziale” dell’associazionismo ma, in fondo, non deve stupire il fatto che,
prima della sua recentissima evoluzione (questa forma di anticorrentismo
“organizzato” sembra ormai puntare con decisione direttamente contro la stessa
Associazione nazionale magistrati in nome di un ritorno al sindacalismo pre-anni ’70),
avesse eletto a bersaglio principale Magistratura democratica ed Area.
La contraddizione è solo apparente, nel senso che non è strano che
l’anticorrentismo si abbatta sui gruppi concepiti come aggregazione di ideali, più che
su quelli costruiti come agglomerati di interesse. Da sempre ed in ogni campo accade
che gli interessi e le convenienze tengano uniti i gruppi assai più degli ideali e,
soprattutto, che le aggregazioni fondate sugli ideali tendano a snaturarsi e confondersi
quando sono chiamate ad amministrare il “potere” necessario a concretizzarli. E
questo è accaduto anche a Magistratura democratica, come al Movimento per la
giustizia: troppo spesso non siamo stati capaci di mettere in pratica ciò che abbiamo
declamato e teorizzato, dalla presa di distanza da logiche spartitorie alla
concretizzazione del modello di dirigente, dal rifiuto del “carrierismo” alla centralità
della giurisdizione come “strumento” di garanzia per i meno garantiti
Per altro verso, è mancata la capacità di coltivare il dubbio, di tentare di capire la
realtà in cambiamento, aggiornando le risposte del passato: l’eresia si è trasformata in
ortodossia, fondata sulla convinzione di sapere già tutto e di essere comunque nel
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giusto. Senza considerare che siamo rimasti sorpresi e abbiamo fatto fatica ad
adeguarci alle nuove forme di comunicazione, ondeggiando tra chiusure pregiudiziali
ed adesioni acritiche.
E, allora, in questo contesto quale sorte avrà l’associazionismo giudiziario?
Riuscirà ancora ad incidere sui contenuti della giurisdizione o si ridurrà a mero
sindacato?
Quale sorte avranno i gruppi in cui si riconosceva la magistratura progressista?
Riusciranno ancora ad essere i protagonisti del cambiamento dal “basso” della
magistratura o si trasformeranno in apparati di potere, condannandosi ad una lenta
estinzione?
E Area è stata o riuscirà ad essere il luogo della rinascita di un progetto collettivo di
rinnovamento?
Sarà possibile passare da un idea di partecipazione fondata sull’appartenenza e sulla
militanza ad una nuova idea di partecipazione fondata sui cd. “legami deboli”,
sintomatici di un’adesione fluida ed intermittente propria di una società frammentata
e liquida, senza ridurre la partecipazione democratica al momento elettorale e la
rappresentanza a tutela di interessi particolari o locali?
E sarà possibile usare i nuovi strumenti di comunicazione come tavolo ideale su cui
riunire e far discutere i magistrati progressisti, senza scadere nella democrazia
plebiscitaria del televoto e del tweet?