23 marzo 2015 mazzolari: "i poveri non sono una classe"

MAZZOLARI: I POVERI NON SONO UNA “CLASSE”
di Don Salvatore Rinaldi
articolo pubblicato su “Primo Piano” di Lunedì 23 Marzo 2015
I poveri crescono tutti i giorni, perché sono una variante necessaria dell’ economia di mercato. E’ inutile
illudersi. Il benessere non cade dentro a vasi comunicanti. L’unica cosa seria quaggiù è il soffrire a causa dei
nostri rapporti sociali. Il male è dell’uomo in quanto tale ed è vano affidare il proprio riscatto all’ emergenza
di una classe: c’è una miseria che non si guarisce col pane, perché è stagliata nell’avvilimento della persona
umana. Il povero non è il popolo volgarmente inteso: in ogni classe esistono i “disoccupati” in attesa di un
padrone qualunque; è la zona grigia di ogni società, un incrocio di borghesia e di miseria pronta a servire
qualsiasi causa. Cristo non può essere schierato con una classe esistente, proprio perché è salvatore del tutto
e non condottiero di una parte; la prima beatitudine non può essere riferita mai al “povero storico”. Il
“povero” di cui essa parla è il «povero in spirito» - o «mendicante di valori spirituali» - e quindi il dover
essere sia del “ricco storico”, sia del “povero storico”, dentro la comunità. I poveri vanno amati come poveri,
cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà; e ciò perché «cittadini del regno dei cieli i poveri lo sono
già per diritto di chiamata evangelica: “Beati i poveri in ispirito”». Ogni uomo ha il potere di «portar via il
peccato che crea la disuguaglianza e ogni male». Ma come si attua in concreto la magica operazione? Si attua
solo nell’aprire gli occhi agli uni e agli altri: ai ricchi che fanno del possedere il mammona, ai poveri che
misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non hanno una contropartita immediata. Eppure
Gesù dice: «I poveri li avrete con voi». Essi sono le mani inchiodate di tutti i tempi per la nostra pace
temporale. Qui è intesa non la povertà creata dal nostro egoismo, la quale non sarà mai abbastanza
condannata, ma quella libera e spontanea del nostro amore: la povertà eletta, di colui che ha diritti e non li
vanta. I piedi che hanno camminato per il Vangelo, le mani che hanno guarito, assolto, rialzato, lavorato:
mani che hanno fatto bene ogni cosa, come quelle di Cristo. Alcuni hanno creduto inchiodandogli mani e
piedi, di aver reso impotente l’Onnipotente! Ancora oggi gli uomini hanno spesso simili illusioni. Credono di
poter fermare Dio, spegnere lo Spirito, fermare la Verità. Non possiamo nulla contro la Verità; non possiamo
nulla contro lo Spirito; non possiamo nulla contro Dio. Le nostre ribellioni si perdono nel vuoto, anzi
servono alla gloria di Dio. Quante volte siamo passati davanti alla casa a dell’empio: era un festino; siamo
ripassati di lì a poco e non c’era più nulla. Anche al povero, come Gesù, la morte non fa paura. C’è chi ha
bisogno di far meditazione sulla morte per immaginarla: il povero no. L’ha tanto vicina! Sul Calvario si
lasciò crocifiggere tra due ladri. Non li ha scelti, non li ha neanche rifiutati. E vi si è trovato bene, forse
meglio che fra certi galantuomini. Al buon ladrone ha regalato il paradiso, il suo grazie a una goccia di
umana pietà. All’altro, che bestemmia ancora, - forse non sa - dona il suo capo reclinato, perché, incontrando
con lo sguardo il suo volto trasfigurato dalla morte, gli salga dal cuore chiuso un pensiero d’amore. Chi crede
sa che la potenza si esalta nella debolezza. Quale potenza manifesta Gesù in croce!... I piedi non possono più
portarlo verso gli sventurati, né le sue mani toccare gli occhi dei ciechi, né le sue parole raccogliere intorno a
sé la moltitudine stupita e neppure il suo sguardo sconvolgere il fondo delle coscienze e rivelare all’uomo
tutto se stesso. Ma sulla croce, dove ha rinunciato ad ogni potenza esteriore, Egli è più potente che mai. Vi
sono ottime persone che per naturale bontà inclinano a lasciar correre, illudendosi che le cose, dopo un breve
sfogo, riprenderanno da sole la loro andatura e gli uomini la normale misura del buon senso. Le più grandi
ingiustizie vennero quasi sempre commesse per la trascuratezza dei buoni più che per la malvagità dei tristi.
Quando la carità dei buoni viene meno, par che cresca anche l’odio dei cattivi. Non è cresciuto il male, è
diminuito il bene. Nella tragica penombra del tramonto, a volte nelle giornate buie mi rivolgo, quasi a
sollevarmi il cuore, verso il Calvario, nella speranza che una croce vuota mi dia conforto. Invece, è più
spaventosa di prima quella croce vuota: più spaventosa di una culla vuota. Una croce senza Cristo! Chi può
dire quanto pesa? La croce è sopportabile perché sopra c’è Lui crocifisso. Egli placa la mia ripugnanza al
soffrire, doma le mie ribellioni: fa l’unità tra me e la croce. Una croce senza Cristo è una croce a
disposizione. Qualcuno bisogna che vi salga e vi si lasci inchiodare, perché un uomo può rimaner vuoto, una
croce no. Ogniqualvolta uno si schioda dalla propria croce obbliga un altro a salirvi. Quest’altro è quasi
sempre il povero, perché il povero è sempre di fazione ai piedi di tutte le croci. Con la morte, ritorna
istintivamente sacro proprio quel corpo che poco prima doveva essere trattato spietatamente. Nella lettura
della vita del povero è strano, ma vero che solo la morte dà riposo al corpo del povero. Finire purtroppo per
Lui è un sollievo. Il povero non si chiede con molta insistenza quel che ci sarà dopo. Egli sa di certo che
riposerà e ciò gli basta per tirare avanti sino alla fine. Per il povero non vale la legge, ma il beneplacido; e il
beneplacido è misurato dall’interesse. Infatti mentre si moltiplica l’assistenza, diminuisce o scompare la
carità. Rimane l’opera buona senza la bontà. Eppure in questi giorni guarderemo un Sepolcro, che si spalanca
per lasciar passare la vita e ci dà la certezza che l’ultima parola anche quaggiù è detta da Cristo. Sulla Croce
c’è l’Amore crocifisso, il quale sublima, ma non cancella lo strazio della crocifissione. L’ottimismo cristiano
comincia nel momento in cui ci si stende per lasciarsi crocifiggere. «Allora trarrò tutti a me».