donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2015 numero 34 Donne ed ecologia Questa fotografia di Ruud Elmendorp ritrae un gruppo di donne che sopravvivono grazie a ciò che quotidianamente raccolgono in una delle discariche alle porte di Nakuru, in Kenya «Che rapporto c’è fra l’ecologia e le donne e la Chiesa?» potrebbe domandarsi qualche lettore, osservando con stupore il tema del nostro numero di aprile. L’impegno ecologico sembra infatti avere a che fare con la politica, i grandi problemi come l’energia atomica o il riscaldamento della terra, piuttosto che con la dimensione spirituale e domestica in cui solitamente si muovono le donne. Invece, se guardiamo agli effetti dell’inquinamento, vediamo che i più danneggiati sono i poveri, fra i quali le donne costituiscono la maggioranza. Per di più, sono loro a misurarsi ogni giorno con l’acqua inquinata, i cibi avariati o dannosi, le difficoltà di allevare i figli in un ambiente avvelenato. Sono le donne, infatti, quelle che patiscono più pesantemente le conseguenze di una politica di sfruttamento della terra sempre e solo finalizzata al profitto, nella quale l’utilità economica conta molto di più del rispetto per l’ambiente, e che vivono questa situazione come esperienza concreta e non come questione ideologica. Se la guardiamo dal punto di vista femminile, infatti, l’ecologia non è più una delle tante ideologie che hanno segnato la vita politica della modernità, ma una necessità vitale. L’attesa enciclica di Papa Francesco sull’ecologia chiarirà il rapporto fra spiritualità e cura della terra, che ci è stata donata e affidata dal Creatore perché la rispettassimo, non perché ne facessimo oggetto di rapina. E senza dubbio — conoscendo l’attenzione del Papa per gli emarginati — metterà in evidenza l’equazione inquinamentopovertà, che tanto spesso sfugge agli occhi di chi vive l’impegno ecologico come un’ideologia, se non addirittura come una religione della natura. I cristiani devono rispettare la natura anche — se non soprattutto — per proteggere i deboli, perché devono in ogni occasione intervenire in loro difesa. E noi sappiamo che, come sempre, i deboli sono in gran parte donne. (l.s.) Una casa bianca molto speciale Suor Goretta Favero e il suo Centro olistico a Huaycán sulle montagne sopra Lima di SILVIA GUSMANO li abitanti di Huaycán la chiamano la Casa Blanca. Dalle loro baracche sulle montagne sabbiose, a venti chilometri da Lima, guardano con sollievo a quel grande edificio che cura le loro anime e i loro corpi. Lì, nel Centro de Salud Holística Casa Naturista Anna Margottini, molti di loro hanno imparato a prevenire, curare e riconoscere le epidemie più diffuse come tubercolosi, dissenteria o broncopolmonite, hanno scoperto i benefici di una dieta sana — e le pericolose insidie della cattiva alimenta- G donne chiesa mondo Partita per fare l’infermiera tra i poveri nel tempo ha arricchito le sue competenze occidentali con ricette, usanze e nozioni della medicina popolare andina zione imposta dalla povertà — e hanno assistito a tante miracolose rinascite fisiche e spirituali. Inaugurato nel 2008, il Centro olistico rappresenta in questo sobborgo di miseria sorto negli anni Ottanta, senza i più elementari servizi igienici, un centro di eccellenza per la salute e un’oasi di pace e speranza dove sempre più numerosi giungono anche visitatori da lontano. A crearlo e a gestirlo, suor Goretta Favero, che ci ha raccontato la propria esperienza durante un recente soggiorno in Italia, suo Paese d’origine. Come tutti i grandi testimoni di Cristo che hanno scelto di realizzare la loro sequela in terre lontane, suor Goretta ha sempre anteposto l’ascolto all’insegnamento, l’osservazione alla dimostrazione, la curiosità alla comodità del già noto. E dopo trent’anni in Perú il suo accento è spagnolo e i suoi racconti di vita iniziano immancabilmente con un “noi”. Sin dagli esordi della sua missione, sulle Ande a 4800 metri di altezza, suor Goretta ha saputo mettersi in gioco dal punto di vista non solo umano, ma anche professionale. Partita per fare l’infermiera tra i poveri, ha dovuto arricchire le sue competenze occidentali con le ricette, le usanze e le nozioni della medicina popolare andina. «Quando ho visto che il nostro presidio di salute era per i malati l’ultima spiaggia dopo tutti i rituali della loro tradizione — racconta la missionaria — ho iniziato a lavorare al fianco di parteras empíricas e cu- randeros, ossia delle levatrici domestiche e degli sciamani che godevano di una fiducia indiscussa». La loro era una medicina completamente naturale e suor Goretta ha messo da parte la sua borsa di analgesici e ha iniziato a studiare quella scienza antica a lei sconosciuta, fino a seguire dei seminari di biosalute e urinoterapia in Argentina e in Ecuador. Da subito si è circondata di volontari, per lo più donne, che, dopo aver seguito dei corsi di formazione sanitaria, aiutavano il resto della comunità. Il suo lavoro è sempre stato a stretto contatto con le famiglie, con la “sua” gente, sia sulle Ande che dopo, quando nel 1991 si è trasferita a Huaycán, in una baracca senza luce né acqua. «Gli ospedali — spiega — erano a pagamento: abbiamo aperto una sorta di policlinico in parrocchia dove, proponendo i rimedi della tradizione e lavorando al contempo sulle regole igieniche e alimentari, ottenevamo ottimi risultati sul fronte di malattie come tubercolosi e parassitosi, causate quasi sempre da condizioni di vita malsane». Nel giro di poco tempo, a Huaycán ha avviato tredici piccole farmacie gestite da altrettante donne, ha iniziato a coltivare piante medicinali sul terreno dietro la Chiesa e ha intensificato i programmi di informazione e prevenzione attraverso decine di “promotori della salute”. Victor Salvo, «Natividad» Grazie a questa rete, Huaycán ha arginato l’impatto dell’epidemia di colera nella prima metà degli anni Novanta e, passata l’emergenza, suor Goretta ha approfondito ulteriormente l’idea di una salute globale basata sulla stretta relazione tra anima, mente e corpo. Così nel 2005 la missionaria ha presentato il progetto del centro olistico al Fondo peruviano-italiano, che prevede la conversione del debito estero dovuto da Lima a Roma in sovvenzioni sociali, e ha potuto realizzare un grande sogno. tà quotidiane ci spingono a cercare l’uno l’aiuto dell’altro e questa è la nostra salvezza. I pensieri positivi sono più potenti delle medicine e sentirsi amati e considerati guarisce!». Pur affascinata da questa testimonianza, la mentalità occidentale non vince facilmente il proprio scetticismo. C’è malattia e malattia: sin dove arrivano le cure di suor Goretta? «Dodici anni fa — racconta — è arrivata una donna con tre metastasi al cervello. Madre sola di troppi figli da sfamare, era disperata. L’abbiamo aiutata e sostenuta non solo con i rimedi medici naturali, ma con un’amicizia vera, prendendoci cura ogni giorno dei suoi bambini e sollevandola da ogni incombenza. È rinata e oggi, con un circolo virtuoso cui ho assistito spesso, contagia di speranza tanti nostri pazienti. È una testimone preziosa». Proprio grazie allo spirito di fratellanza che scorre a Huaycán e confluisce alla Casa Blanca si sono qui moltiplicate negli ultimi anni numerose iniziative sociali che, a ben vedere rappresentano una conseguenza della cura e dell’attenzione globali all’umano. Molte sono finanziate dalla Fondazione Solidarietà della Repubblica di San Marino — dall’asilo nido al corso di taglio e cucito per avviare i ragazzi a una professione — e la più importante è la casa famiglia dove sono state accolte tredici bambine orfane o sottratte a contesti degradati. Nel pomeriggio le bambine raggiungono i loro coetanei per le attività organizzate nello spazio del doposcuola, un servizio vitale per l’intero barrio. La domenica, infine, a Casa Anna Margottini si riunisce il Gruppo Compartir, una comunità di persone con disabilità mentali che, sole o con qualche familiare, si ritrovano per il pranzo e per un momento di festa e condivisione. Sempre più numerosi i volontari che arrivano al Centro per dare una mano e La Casa Anna Margottini è stata inaugurata nel 2008 ed è oggi una struttura all’avanguardia in tutti gli ambiti della medicina naturale, dall’agopuntura alla riflessologia plantare, dall’ipertermia all’odontoiatria olistica, dalla promozione di una dieta sana e consapevole alla biodanza. Metodi che solitamente in occidente o si scontrano con un profondo scetticismo o vengono sperimentati a caro prezzo solo da chi può permetterselo. Suor Goretta al contrario li ha usati sin dall’inizio per curare i poveri, anche in ragione della loro sostenibilità economica e oggi che la sua clinica è famosa li usa per curare anche i ricchi. Simbolico il contributo chiesto ai primi, fondaLa struttura è stata dedicata mentale quello versato dai secondi, soprattutto ad Anna Margottini in termini di donazioni Donna del popolo spontanee. Una delle attività più vissuta sempre di fede e servizio al prossimo apprezzate del centro che «non si lamentava mai sono i ritiri mensili, tre giorni in cui si alternano ed era sempre pronta al sorriso» attività diverse e complementari con profondi benefici per i pazienti: esercizi di respirazione, pulizia del fegato, «non importa se non hanno particolari corsi di cucina vegetariana, lezioni sulle competenze — spiega suor Goretta — la lopiante medicinali e introspezione psicolo- ro voglia di esserci e di sorridere a chi argica. «Ma questi — continua suor Goretta riva già significa tanto». Sono i piccoli ge— in fondo sono palliativi collaterali. sti che qui, giorno dopo giorno, fanno la Quello che fa la differenza è la fede. E ciò differenza ed è per questo che invece di che conta è l’accoglienza che la gente riceintitolare la clinica a qualche santa nota, ve qui: una solidarietà e un’attenzione capaci di generare nuovi flussi vitali, di su- suor Goretta ha deciso di dedicarla ad perare quei blocchi energetici, emozionali Anna Margottini, una donna del popolo e spirituali che sono dietro ogni malattia. vissuta sempre di fede e servizio al prossiNonostante l’avanzamento dell’individua- mo: un esempio di santità quotidiana che, lismo, la gente qui vive ancora con spirito «come tante nostre donne, non si lamencomunitario. La miseria e le gravi difficol- tava mai ed era sempre pronta al sorriso». Suor Goretta Favero Miotti, nata a Padova nel 1952, dopo il diploma da infermiera professionale e assistente sanitaria, nel 1980 parte come missionaria per il Perú. Trascorre dieci anni sulle Ande e dal 1991 vive a Huaycán sobborgo a sud di Lima. Dal 2008 gestisce Casa Naturista Anna Margottini, Centro di salute olistica ed ente promotore di numerose iniziative sociali. Suor Goretta con lo staff del Centro di salute olistica Anna Margottini donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Il romanzo Next di SILVINA PÉREZ Macrocosmo e microcosmo nella visione ecologica della profetessa del Reno a monaca benedettina tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179) è uno dei personaggi più significativi della storia medievale. Ebbe infatti un ruolo importante nella vita non solo religiosa, ma anche politica del suo tempo, in rapporto con vescovi e Papi, con san Bernardo di Chiaravalle, con l’imperatore Federico I Barbarossa, prendendo parte attiva nelle dispute tra Chiesa e impero, come pure nella lotta all’eresia catara. L L’immagine racchiude in sé i quattro elementi Il guscio è freddo e secco come la terra il bianco è simile all’elemento acqua la parte gialla e oleosa al fuoco la parte acquosa all’aria Temperamento mistico, visionario, fino a meritarsi l’appellativo di profetessa del Reno, fu dotata di una cultura enciclopedica, che andava dalla teologia alla musica, dalla botanica all’anatomia e alla fisiologia, fino alla cura del corpo e all’alimentazione, tanto che oggi la sua riscoperta da parte del grande pubblico si deve, spesso, proprio a questa sua competen- Barbara Sukova interpreta Ildegarda nel film di Margarethe von Trotta (2009) za, che con termine attuale definiremmo “nutrizionista”. Non si deve sorridere: c’è una logica in ciò. Infatti in Ildegarda l’attenzione all’essere umano — maschio e femmina, anche nella sua dimensione corporea, inclusa la sessualità e la riproduzione — deriva da una profonda riflessione filosofica e religiosa che affonda le sue radici nella cultura antica, ma che in lei assume accenti nuovi e originali. Il punto di partenza è quello classico: tutto è uno, questo cosmo è divino. Una concezione, questa, che rafforza, per così dire, l’idea biblico-cristiana per la quale il mondo è buono in quanto creato da Dio. Il cristianesimo infatti tiene ben distinto Dio dal mondo e ha sempre visto nel panteismo un nemico mortale, tanto da difendere a spada tratta quella creazione che stabilisce la differenza ontologica tra Creatore e creatura. Si suole dire, anzi, che il cristianesimo ha, rispetto al paganesimo, desacralizzato la natura: quei boschi, quelle acque, quelle montagne che venivano pensate dagli antichi come abitati da divinità e divinità esse stesse perdono, infatti, ogni carattere sacro. Così ha fine la contemplazione religiosa e si prepara quella osservazione neutrale da cui scaturirà la moderna scienza della natura. Nello stesso tempo però la natura stessa, privata di ogni intrinseco significato religioso, diventa prevalentemente oggetto di utilizzazione per l’uomo, considerato centro della creazione e destinato al dominio sul mondo inanimato. Non meraviglia perciò che anche la contemporanea coscienza ecologica pensi al rispetto dell’ambiente per un motivo essenzialmente utilitaristico, ovvero perché lo sfruttamento indiscriminato rischia di compromettere la vita stessa dell’uomo su questo pianeta. Per comprendere la differenza tra questo modo di pensare e quello della cultura antica si pensi alla differenza che c’è tra non sporcare un corso d’acqua perché così si inquinerebbe ciò che dobbiamo bere, e non sporcarlo perché così si commetterebbe un peccato, offendendo la sacralità del cosmo. La parola stessa “ambiente” lo testimonia: essa significa infatti, etimologicamente, ciò che ci circonda, come se, appunto, l’uomo fosse il centro, cui tutto ruota intorno e cui tutto deve servire. Perciò non meraviglia neppure il sostanziale fallimento dell’ecologia contemporanea: essendo un’ecologia su base economica, un’ecologia-economia, nel conflitto degli utili c’è sempre un utile economico più forte, più immediato, che ha la prevalenza sul “rispetto dell’ambiente”. Ildegarda trae la consapevolezza dell’unità del tutto dalla sua ispirazione mistica, dalle sue fonti tardo-antiche e alto-medievali, come pure — probabilmente — dall’eredità pagana, allora ancora viva nel mondo germanico, particolarmente in quella conoscenza de occultis operationibus naturae che permaneva in quell’ambito marginale, prevalentemente femminile, che sarà poi oggetto della caccia alle streghe. Nel Libro delle opere divine, ad esempio, Ildegarda descrive l’universo in forma di uovo: il cosmo è uno come l’uovo, che racchiude in sé i quattro elementi: il guscio è simile all’ele- gio, appunto, lumen de lumine, luce emanata dalla fonte della luce, distinta ma non separata da essa. Il cosmo, dunque, come qualcosa che ha in sé la luce divina, dalla quale è costituito e che perciò è degno non solo di essere rispettato, ma anche profondamente amato come teofania divina. Questa esperienza non è affatto isolata nella storia della spiritualità. Essa interviene ogni volta che l’evangelico distacco dall’amore di sé fa uscire dalla prigione dell’ego: allora ci si sente in profonda unità con il cosmo, percepito appunto come un tutto. Questa esperienza implica anche il superamento di quel dualismo mente-corpo o spirito-natura che tanto ha afflitto e affligge la cultura occidentale: all’uomo distaccato la natura appare, infatti, come lo spirito visibile e lo spirito come la natura invisibile. Per i medievali secondo un’etimologia sbagliata ma significativa la radice della parola «homo» era legata a «omnis», tutto «Ildegarda e le stagioni», Codex Latinus 1942, c. 38r (Lucca, Biblioteca statale) mento terra, freddo e secco; il bianco è simile all’elemento acqua; la parte gialla e oleosa al fuoco; la parte acquosa al soffio o aria. Questa immagine risale addirittura alla tradizione orfico-pitagorica, pervenuta al mondo medievale attraverso la cultura ellenistica, l’ermetismo e gli scritti alchemici, ma non dobbiamo supporre che la monaca benedettina conoscesse tutta questa letteratura. Basta ricordare la descrizione della mirabile visione cosmica che Gregorio Magno attribuisce a san Benedetto: «Poiché l’ora esigeva il riposo, il venerabile Benedetto prese dimora nella parte superiore della torre e il diacono Servando nella parte inferiore (…). Poiché l’uomo del Signore, Benedetto, aveva anticipato il tempo della preghiera, era in piedi per le veglie notturne quando i fratelli riposavano ancora. Mentre era affacciato alla finestra e pregava il Signore onnipotente, improvvisamente, nel cuore della notte, vide una luce diffusa dall’alto fugare tutte le tenebre della notte, una luce che rischiarava con tanto splendore, pur irraggiando nelle tenebre, da vincere la luce del giorno. Una cosa veramente mirabile si produsse in questa contemplazione poiché, come successivamente ha raccontato egli stesso, il mondo intero, come raccolto in un unico raggio di sole, fu portato dinanzi ai suoi occhi». In questa — che giustamente Marta Cristiani definisce «ultima folgorante sintesi di platonismo antico e cristianesimo» — l’intero cosmo appare raccolto in un unico raggio: rag- «Questo romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che non lo sono» scrive lo statunitense Michael Crichton in apertura di Next (2006): ambientato nel presente, il libro descrive un mondo dominato dall’ingegneria e dalla ricerca genetica in cui governi e privati fanno a gara — tra scienza e diritto — per accaparrarsi il controllo sulla natura e sui cittadini, sui loro corpi e le loro vite. In teoria, in nome del progresso; in pratica, per trarne il maggior vantaggio possibile. Perché — racconta Crichton, con lo stile avvincente che lo caratterizza, prendendo però spunto da fatti di cronaca e casi giudiziari realmente avvenuti — una volta messe a punto, le scoperte scientifiche scivolano via verso orizzonti impensati, ben al di là di ciò che il singolo esperto avesse o non avesse voluto e preveduto. In questo circolo perverso che riduce il corpo umano a un mero insieme di geni e tessuti da sfruttare e vendere, le vittime più vittime sono però, ancora una volta, le donne. Figlie e madri, sorelle e scienziate. (@GiuliGaleotti) I L’uovo di Ildegarda di MARCO VANNINI l diritto a far nascere i figli in un luogo dove possano crescere. C’è una parte di umanità ad esempio che vive nel bacino del fiume Matanza, in Argentina, all’ottavo posto tra i dieci luoghi più inquinati del mondo. Nello spazio di pochi chilometri si concentrano infatti una molteplicità di strutture che inquinano l’ambiente rendendo l’atmosfera carica di veleni. Una striscia lunga sessanta chilometri dove numerose fabbriche manifatturiere, soprattutto chimiche, hanno riversato per anni i loro materiali di scarico. Zone ritenute inadatte alla presenza umana eppure densamente popolate. Lo Stato negli ultimi anni ha stanziato molti milioni destinati a interventi di riqualificazione e risanamento del corso d’acqua, ma i primi risultati si vedranno tra vent’anni. L’enciclica verde di Papa Francesco, in fase di preparazione, è proprio questo: un documento composto da pagine di vita vera, legate con un lungo filo d’acciaio dalle storie dei profughi dalla dignità sociale negata, vittime dello sfruttamento delle risorse e della «cultura dello scarto». Papa Bergoglio infatti inquadra il suo ambientalismo in queste situazioni, cioè senza mai disgiungerlo dalla condizione dei poveri della terra, i primi a subirne le conseguenze. E si sa, il peso della povertà cade in misura maggiore sulle donne rispetto agli uomini. Proprio per questo, grazie alla loro concreta conoscenza del territorio e delle risorse naturali, le donne sono divenute protagoniste di primo piano nella lotta per la tutela ambientale. Parlare di salvaguardia del creato per Francesco vuol dire parlare di globalizzazione, di sviluppo solidale e di donne. L’idea dello “scarto” che si ritrova spesso nei discorsi del Papa vale per tutto. A cominciare dall’uomo, perché viviamo in una cultura che scarta gli uomini che non servono. Francesco parte dalla valorizzazione e dalla centralità dell’uomo cui è stato affidato il creato e che ha il compito di farlo fruttificare e, al tempo stesso, di trasmetterlo il più possibile integro ai suoi figli. Bergoglio ha chiesto molti pareri e contributi, ha lavorato per lunghi mesi alternando e sovrapponendo — tra scrivania e altare — giornali, testi segnalati da vecchi collaboratori e letture liturgiche. Ma non solo. Il parere delle donne nella fase di progettazione di questo documento è stato fondamentale. In particolare quello di Clelia Luro, scomparsa alla fine del 2013 che di solito chiamava tutte le domeniche alle 15. Da grande esperta della storia e delle culture andine, Clelia raccontava con grande passione a Bergoglio di quanto fosse diffuso il rispetto per l’ambiente, ancora oggi, nelle popolazioni indigeni locali: «L’essere umano non è padrone della terra, non la possiede, ma è invece parte di essa: noi siamo la terra, ci nutriamo di essa. Facciamo parte della madre terra; come possiamo arrogarci il diritto di possederla?». Come possiamo pretendere di possedere lo spazio-tempo? Chi è in grado di impadronirsene? È impossibile. In una tranquilla domenica di settembre, nel 2013, Clelia Luro, seduta nell’androne della sua casa coloniale — che miracolosamente ancora resisteva all’assedio delle palazzine nel cuore di Buenos Aires — tra i suoi quadri, i mobili di bambù e l’artigianato indigeno in terracotta, ricevette la telefonata del Papa. Emozionata, Clelia disse a Francesco che c’era lì, insieme a lei, Leonardo Boff che, proprio in quei giorni, aveva finito di scrivere la sua ultima opera, Dignitas terrae, dove afferma che cos’è la militanza verde: «Non si tratta semplicemente di difendere l’ambiente in quanto tale, ma di elaborare il paradigma di un modo nuovo con cui l’esse- Tra le molte possibili testimonianze, vogliamo ricordare quella di un altro monaco benedettino, nostro contemporaneo, Henri Le Saux, che nel suo Diario nota come la dualità primordiale da superare sia quella tra noi stessi e il resto del cosmo, e non quella tra noi e Dio. Infatti, finché vi saranno “altri” fuori di noi, Dio e il mondo vi saranno confusi, anche se possono essere distinti e definiti in seconda battuta. Finché il mondo resta altro, Dio non potrà mai esser percepito all’interno di noi stessi. Occorre perciò — scrive — innanzitutto sopprimere questo “centro”, che chiamo “me stesso” e attorno al quale traccio cerchi concentrici che sono la mia mente, il mio corpo, il mondo concepito essenzialmente in relazione a me e infine Dio, concepito anch’esso, ahimé, in relazione a me. È dal distacco da se stessa che la monaca Ildegarda ricava il senso dell’unità e della divinità del cosmo, con il quale l’essere umano è profondamente, mirabilmente unito, tanto da costituire esso stesso un cosmo, e un tutto. Secondo un’etimologia errata ma significativa, per i medievali homo, essere umano, era infatti legato a omnis, tutto, e perciò non meraviglia che per Ildegarda le dimensioni del corpo umano e le loro proporzioni reciproche costituiscano la misura dell’universo, per cui la misura della statura e delle braccia aperte consentono di inscrivere la figura umana nel cerchio, secondo quella rappresentazione che ispirerà le versioni rinascimentali, prima fra le quali quella di Leonardo da Vinci. Uomo microcosmo, dunque, in profonda corrispondenza con il macrocosmo: non ci si stupisca di trovare in una monaca del lontano medioevo le radici di quanto viene spesso presentato come nuovo, laico, moderno. La voce del fango Il saggio Viaggio fra i testimoni di uno sviluppo disumano re umano può e deve entrare in relazione con la natura». Boff sostiene che «le maggiori vittime dell’inquinamento sono i poveri, costretti a vivere nelle favelas senza acqua e senza igiene ma oggi tutta l’umanità, e non solo i poveri, è oppressa. Tutti siamo vittime di uno sviluppo disumano. Le nostre attività economiche stanno contribuendo alla perdita di biodiversità e degli habitat: questo mina i sistemi naturali dai quali dipendiamo per il cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo e il clima stabile di cui abbiamo bisogno». Si muove così velocemente, Papa Bergoglio, da riuscire a sentire in modo informale tante persone. Tra queste, Pino Solanas, regista cinematografico e politico argentino, il «Facciamo parte della madre terra come possiamo arrogarci il diritto di possederla?» si chiedeva Clelia Luro amica di Bergoglio e grande esperta delle culture andine quale sostiene che sarà un’enciclica che non indulge a un certo tipo di ideologia verde, ma si tratterà di un documento che chiamare green o ecologista è un po’ riduttivo. Secondo fonti Onu — sostiene Solanas — attualmente in tutta l’America latina ci sono ancora centotrenta milioni di persone che non hanno accesso all’acqua potabile. Parliamo di un continente che può contare su riserve idriche imponenti: il Rio delle Amazzoni, il Paraná e l’Orinoco sono tra i fiumi più importanti al mondo, e il solo Brasile possiede la quinta parte di tutta l’acqua del pianeta. Il lago Titicaca, che si estende tra il Perú e la Bolivia, e quello di Maracaibo, in Venezuela, soddisfano da soli il fabbisogno di acqua di milioni di persone. In Brasile la situazione è più critica. È il Paese che possiede la più grande riserva di acqua dolce al mondo ma si trova a dovere affrontare addirittura il rischio di razionamento nelle grandi città perché l’acqua, sempre più sottratta al consumo domestico, viene preferibilmente dirottata verso l’utilizzo agro-industriale, sotto la gestione delle imprese transnazionali. È questo uno dei più grandi paradossi dell’America latina: una terra ricchissima di fonti idriche, i cui abitanti non sono però in grado di disporre della loro acqua in modo adeguato e “democratico”. Succede in America latina, ed è in America latina che il cardinale Bergoglio ha cominciato a riempire questo diario di bordo con l’esperienza nei luoghi dove le «logiche di mercato non risparmiano niente e nessuno: dalle creature agli esseri umani». Un altro contributo fondamentale è quello di monsignor Víctor Manuel Fernández, il rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina, uno degli ecclesiastici argentini più vicini a Bergoglio. Ha lavorato nel Consiglio episcopale latinoamericano nel campo della riflessione teologica pastorale e ha collaborato con Bergoglio nella stesura del testo finale di Aparecida. Per Fernández «tutti gli esseri umani sono chiamati a un’assunzione di responsabilità nei confronti dell’ambiente in cui vivono, la riflessione sull’opera di Dio e sulle meraviglie create dall’uomo sono strettamente intrecciate tra loro e se la fede nel Creatore è parte essenziale del credo cristiano, allora è compito della Chiesa manifestare la propria responsabilità nella salvaguardia del creato, difendendo la Terra, l’aria e l’acqua, e anche l’uomo contro la distruzione di se stesso». Perché, prosegue Fernández, «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani ma una dimensione che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato. Sono certo che l’enciclica verde di Francesco proporrà soltanto dottrina sicura, non ipotesi». Il cardinale Peter Turkson e gli esperti del Pontificio Consiglio della giustizia e della Il tempo stringe Papa Francesco vorrebbe che la pubblicazione dell’enciclica verde avvenisse prima dell’avvio della Conferenza sul clima di Parigi pace hanno raccolto materiale proveniente da varie parti del mondo, sviluppato varie bozze che Papa Francesco ha visto e rivisto, inviando la terza stesura alla Congregazione per la dottrina della fede, alla Segreteria di Stato e al teologo della Casa pontificia. Il tempo stringe. Papa Bergoglio vorrebbe che la pubblicazione dell’enciclica avvenisse prima dell’avvio della Conferenza sul clima di Parigi: «Quella di Lima mi ha un po’ deluso, speriamo che a Parigi siano un po’ più coraggiosi» ha detto il Pontefice durante il suo viaggio in Sri Lanka e Filippine, a proposito della precedente conferenza internazionale sul tema. Chi non ha mai udito la voce del Río de la Plata non capirà mai la tristezza di Buenos Aires, la tristezza del fango che reclama un’anima diceva Adán, personaggio letterario dello scrittore argentino Leopoldo Marechal. Oggi l’anima del fiume e del fango presentano il conto e ci ricordano che le risorse della natura non sono inesauribili. The Green Belt Movement Era il 1977 quando la biologa keniota Wangari Maathai (1940-2011), la prima donna centroafricana laureata (nel 1966 presso l’università di Pittsburgh) lanciò la sua sfida: per combattere l’erosione selvaggia che stava minando la sussistenza del suo Paese, e dell’intero continente africano, Maathai fondò un’organizzazione non governativa composta da donne provenienti dalle aree rurali. La loro arma, la vanga: le aderenti, infatti, iniziarono a piantare alberi indigeni, alberi da frutto e piccoli arbusti. Da allora in Kenia si contano più di 51 milioni di alberi piantati e curati dal Green Belt Movement. Tra i tanti libri firmati da Maathai, la prima donna africana a vincere il Premio Nobel per la pace, ricordiamo The Green Belt Movement: Sharing the Approach and the Experience (uscito nel 2003, l’anno prima del riconoscimento ricevuto a Oslo). In esso l’attivista descrive un percorso che intende unire ecologia, democrazia e pace in nome del rispetto per il creato e per le creature. Specie per quelle più deboli e minacciate. (@GiuliGaleotti) Il film Noah Non si cerchino somiglianze o contraddizioni con il testo biblico nel film Noah (2014) di Darren Aronofsky; sarebbe un esercizio inutile. Meglio abbandonarsi alla storia e alle immagini di un colossal che fra tanti errori, effetti speciali, ingenuità, induce a qualche riflessione importante. Dio incarica Noè (Russell Crowe) di costruire un’arca e di salvare gli animali perché l’uomo, divenuto cattivo, sta distruggendo la terra e la natura. Su quell’arca si salverà la famiglia di Noè, ma anch’essa si estinguerà perché, come il resto del genere umano, è incapace di apprezzare il dono del Creatore e non è degna di abitare sulla terra. Noè porta al termine il compito che gli è affidato da Dio — salva gli animali, la natura e il mondo — e si accinge ad attendere l’estinzione della sua famiglia. Il genere umano sarebbe finito, ma la nuora, la moglie di Sem (Emma Watson), dà alla luce inaspettatamente due bambine che possono essere la salvezza. Di fronte a quella maternità che è disposta a tutto per salvare se stessa, la mano di Noè che vorrebbe uccidere le due bimbe si ferma. L’umanità è salva. L’uomo accetta il nuovo messaggio che Dio manda attraverso la donna. Una riconciliazione con la natura è possibile. (@ritannaarmeni) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women IL CORANO RILETTO DALLE D ONNE «Il vero problema è l’ignoranza»: punta dritta al bersaglio Shahrzad Houshmand Zadeh, teologa musulmana docente di studi islamici alla Gregoriana di Roma, intervistata da Chiara Zappa sul numero di marzo di «Mondo e missione». Nata e cresciuta in Iran, madre di tre figli, da sempre impegnata nel dialogo islamocristiano, Shahrzad Houshmand — con altre teologhe musulmane — porta avanti un’opera di interpretazione e attualizzazione dei testi sacri. «A livello globale — spiega — sono molti i segnali che dimostrano quanto le donne dell’islam possano contribuire alla crescita e allo sviluppo umano della società. Pensiamo solo alla premiazione con il Nobel per la pace, negli ultimi anni, di ben tre attiviste musulmane: l’iraniana Shirin Ebadi, la yemenita Tawakkol Karman e la pachistana Malala Yousafzai. Donne provenienti da contesti geografici e culturali diversissimi, eppure accomunate dall’impegno per rinnovare le proprie società. Segno che lo Spirito ci porta ad agire per il bene comune. Mi auguro — conclude — che il cambiamento possa partire dalle donne». KAVITHA DALLO TSUNAMI AI BIMBI IN DIFFICOLTÀ Il 26 dicembre 2004, mentre la madre era in spiaggia a vendere pesce e Kavitha era a casa nel villaggio di Samiyarpettai con le sorelle minori, la grande onda generata da uno dei più forti terremoti della storia si abbatté sulle coste del Tamil Nadu, regione poverissima del sud dell’India. Fu proprio in quelle ore di terrore — si legge sul sito www.cesvi.org — che Kavitha incontrò gli operatori di Ekta, associazione locale partner del Cesvi, acronimo che sta per cooperazione e sviluppo. «A loro — racconta la ragazza oggi trentenne — devo i miei successi perché mi hanno dato la possibilità di studiare e affinare le mie capacità». Kavitha è ora la responsabile di una delle Case del sorriso per minori in difficoltà nel Tamil Nadu: quando è stata assunta, aveva appena ottenuto il diploma in biotecnologie, mentre ora, concluso un corso di laurea in inglese a distanza, frequenta un master di secondo livello. La ragazza — che ha imparato a guidare, usare il computer, cucire e gestire le relazioni pubbliche — è riuscita a ripagare i debiti della madre e a far sposare le sorelle. Nel Tamil Nadu, moltissime famiglie povere lavorano in condizioni di semischiavitù nei mulini di riso o nelle fabbriche di mattoni, vivendo senza luce, servizi sanitari e la possibilità di entrare in contatto con l’esterno. I bimbi, che non vanno a scuola, accompagnano i genitori al lavoro, mentre i più piccoli rimangono incustoditi. Nelle Case del Sorriso bambini e ragazzi di famiglie disagiate trovano un punto di riferimento importante fatto di cure, sostegno psicosociale, possibilità di studiare e di ricevere assistenza legale. A ESTHER IBANGA IL PREMIO NIWANO A TUNISI PER LA PACE È andato alla nigeriana Esther Abimiku Ibanga, pastora protestante fondatrice nel 2010 del Women Without Walls Initiative (Wowwi), l’ultima edizione del Premio Niwano, il cui scopo è quello di «incoraggiare individui e organizzazioni che abbiano contribuito in maniera significativa alla cooperazione interreligiosa, promuovendo in tal modo la causa della pace nel mondo». La Wowwi — istituita con l’intento di porre un freno agli assassini di donne e bambini nello Stato nigeriano di Plateau — è presto diventata una forte coalizione composta da donne che, al di là delle divisioni etniche e religiose, collaborano insieme. Il risultato è quasi storico: si tratta, infatti, della prima organizzazione in cui il nucleo dirigente vede la partecipazione di esponenti di ogni gruppo tribale, incluse leader cristiane e musulmane. Esther Abimiku Ibanga mira in alto: sottolineando il ruolo femminile per costruire la pace — tema particolarmente urgente nelle regioni della Nigeria in cui sono attivi i terroristi di Boko Haram — la fondatrice ha dato vita a iniziative concrete. Volte, ad esempio, a incrementare le competenze femminili legate alla micro finanza e, attraverso i «dialoghi comunitari con la polizia», diminuire le distanze e aumentare la fiducia tra le comunità e le forze dell’ordine per sconfiggere il terrorismo. Agosto 1996: la fotografa italiana Sebastiana Papa (1932-2002) coglie le monache del monastero greco ortodosso Panagia Kalivyani, nell’isola di Creta, intente a vendemmiare. Come le altre famiglie della zona, le religiose fanno asciugare al sole l’uva per preparare l’uva sultanina. Una specialità rinomata della zona L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2015 numero 34 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: [email protected] IL DIALO GO PARTE DALLE D ONNE È Giada Frana a raccontare su www.santalessandro.org la storia delle “suore bianche” a Tunisi, chiamate così a causa del loro abbigliamento, adattato a quello della popolazione dell’Africa del Nord. Ufficialmente sono le Suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, congregazione fondata nel 1869 dal cardinale Charles Lavigerie: il presule aveva prima creato ad Algeri la Società dei Missionari d’Africa, ma ben presto comprese che, per entrare in contatto con le famiglie, bisognava puntare sulle donne. A raccontare la storia della comunità di Tunisi è la religiosa belga Chantal: «La nostra missione è stare al fianco delle donne africane, siano esse cristiane o musulmane, per formarle in modo che possano esercitare il loro ruolo nella famiglia e nella società. L’educazione parte dalla donna». Inoltre, specie dopo il concilio Vaticano II, queste suore si dedicano al dialogo interreligioso, cercando il dialogo tra la cultura arabomusulmana e quella occidentale. «Organizziamo conferenze per parlare di attualità e una formazione permanente in islamologia, missiologia, dialogo delle culture e delle religioni rivolta sia al personale religioso sia a tutti coloro che desiderano conoscere meglio la religione musulmana e approfondire la religione cristiana. Altre attività a cui partecipiamo riguardano l’accompagnamento delle donne dei cosiddetti matrimoni misti, che noi chiamiamo di disparità religiosa, sostenendole nel loro percorso di fede in un Paese a maggioranza musulmano». LA FAMIGLIA SECOND O D OLCE E GABBANA È partito nel 2013 il progetto #Dgfamily che chiede ai partecipanti di mandare una fotografia della propria famiglia: nemmeno due anni dopo, sono più di quattromila gli scatti giunti, da dieci Paesi, agli stilisti italiani Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Autori di abiti veramente notevoli — ma proibitivi per i comuni mortali — i due, contrari all’utero in affitto e fautori della “famiglia tradizionale”, hanno appena presentato una collezione invernale sorprendente. Un’autentica ode alla maternità, in un tripudio di colori, forme morbide, scritte affettuose dedicate alle mamme e disegni di bambini. Maternità di stoffa e maternità di carne: sulla passerella milanese, davanti a una scenografia con madri e figli di generazioni diverse, molte modelle sorridenti e raggianti hanno sfilato con i loro figli in braccio o per mano. La moda e la pubblicità non esitano il più delle volte a strizzare l’occhio, per interesse, al politicamente corretto. Dolce e Gabbana invece lo hanno strizzato alle mamme. Un messaggio solare, confortante, ottimista. Anche per chi quegli abiti non li potrà mai indossare. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Volha e l’eremita del deserto Maria Egiziaca, la santa del mese, raccontata da Dario Fertilio anta Maria Egiziaca nacque nel quinto secolo — leggeva la vecchia signora alla bambina — e presto fu attratta dalla grande città, Alessandria. Per diciassette anni visse da pubblica meretrice. Non per fame, la sua era una specie di passione, tanto che ripeteva di non essersi mai negata a un uomo». Qui Volha, la badante bielorussa della signora, ebbe un moto di fastidio e fu tentata di interromperla. Non le andava che a Natalya, sua figlia, mettesse in testa certi pensieri: la stava ascoltando fin troppo rapita. Aveva soltanto otto anni e avrebbe avuto tutto il tempo d’imparare il significato della parola “meretrice”. Aprì bocca per intervenire, ma poi non lo fece. Provò un palpito di rimorso, e pensò che la donna da lei accudita, in fondo, non era poi molto diversa dalla sua Natalya. Ancora più ingenua della bambina, e con un debole per le storie. Ma quest’ultima la trovava davvero irritante, lei stessa non ne comprendeva bene il motivo. «Un giorno — proseguì intanto la vecchia, con Natalya accoccolata ai suoi piedi — Maria Egiziaca vide una folla dirigersi al gran porto di Alessandria. S’imbarcava per Gerusalemme, era la festa dell’Esaltazione della Croce. Provò l’impulso di seguirla e parlò ai marinai. Il costo del viaggio era alto, non poteva permetterselo. Ma con la ciurma concordò di pagare con il suo corpo. Salì a bordo. Giunta a Gerusalemme andò subito alla basilica della Risurrezione, insieme agli altri pellegrini, però una forza misteriosa la respinse. Gli altri entravano tranquillamente, lei no. Ci provò per giorni, con lo stesso risultato. Infine cominciò a capire. Gesù non si accontentava che lei andasse a baciare una reliquia. Voleva incontrarla, parlare a lei, alla sua anima. Fu un colpo. “Ma io chi sono? Perché faccio questa vita?” cominciò a chiedersi, e pianse. Le lacrime le inondarono il viso, poi i capelli, senza fermarsi, e infine la liberarono. Vedeva il cielo pieno di colori e lei era di nuovo una bambina, nel suo villaggio, camminava a piedi scalzi sulla sabbia e gettava sassi nel pozzo. Sorrideva, piangendo. S’incamminò verso la basilica e nessuna forza la respingeva più. Si accostò alla Santa Croce, la venerò e uscendo sentì una voce dentro che le diceva “Maria, attraversa il Giordano e troverai la pace”». A quel punto la badante entrò nella stanza dove la signora stava ancora leggendo e accese di proposito il televisore. Ma non ci fu verso. La vecchia continuava (Volha la accudiva da mesi, giorno e notte: non c’era da stupirsi che fosse diventata irritabile). «Uscì dalla chiesa e con l’elemosina di un fedele comperò tre pani. Si fece indicare la via per il Giordano e si lavò nelle acque, poi entrò nella grande voragine del silenzio. Come visse? Che cosa fece? Non sappiamo nulla. In «S Giuseppe Sirni, «Bambina afgana» (2004) A colloquio con la nutrizionista Charlotte Dufour I paradossi della fame di CATHERINE AUBIN ssere nutrizionista alla Fao — spiega Charlotte Dufour — significa innanzitutto chiedersi perché nel mondo da un lato ci sono ancora ottocento milioni di persone che soffrono la fame e un bambino su quattro che soffre di malnutrizione cronica, mentre dall’altro ci sono problemi di sovrappeso e di obesità, con malattie cardio-vascolari e tumori collegati. Interrogarsi su questi problemi, interpellando i sistemi alimentari, le politiche e i programmi agricoli per cercare di concepirli in modo che le persone si nutrano meglio: nel farlo, lavoro insieme con agronomi, esperti di pesca, di gestione delle risorse forestali e di allevamento». Dufour si occupa soprattutto di Africa subsahariana: «Lavoro in sede, a Roma: il mio compito è sostenere i colleghi che operano sul campo nei diversi Paesi. Fanno un lavoro di consulenza politica, stanno in contatto con i ministeri dell’agricoltura e dell’allevamento locali per vedere come la loro politica agricola risponde ai bisogni della gente. Poi c’è un lavoro su un piano più concreto, spesso in collaborazione con associazioni non-governative e società civile, che include, ad esempio, la promozione di piccoli allevamenti e giardini-orti in case e scuole. Serve un’educazione anche in campo nutrizionale: ci siamo accorti che anche quando una famiglia produce a sufficienza, accade che, per mancanza di conoscenze, donne e bambini non abbiano comunque gli alimenti di cui necessitano». La donna svolge un ruolo fondamentale nella nutrizione? «Sì perché spesso ha un posto importante nella produzione familiare. Per esempio, quando ha un’entrata, è lei quella più in grado di spenderla per la salute, l’educazione e l’alimentazione dei figli. È dunque importante che abbia le conoscenze necessarie per utilizzare al meglio le risorse. Lavoriamo con altre organizzazioni: come Fao promuoviamo ricette adatte ai bisogni dei bimbi, guardando quali sono gli alimenti di cui la famiglia dispone e come può preparare una ricetta adeguata per il bene del bambino». Ciò significa che nei diversi Paesi esiste già in loco una rete di formazione? «Esatto. La Fao è prima di tutto un’organizzazione di assistenza tecnica: il nostro valore aggiunto nei programmi di sviluppo è la competenza negli ambiti legati all’alimentazione, per questo lavoriamo in partenariato. Spesso si tratta delle reti più vicine alla realtà locale, come ad esempio gruppi di alfabetizzazione femminile, cooperative gestite da donne, gruppi di sostegno alle madri istituiti dall’Unicef. Sosteniamo questa formazione con manuali e altri strumenti. In alcuni contesti di crisi, dove la presenza sul posto è molto debole, come in Ciad, Somalia, nelle regioni povere del Sahel o del Corno d’Africa, incrementeremo la nostra presenza per andare in aiuto delle popolazioni». Qual è l’ultimo Paese in cui è stata? «Ero al Cairo con i rappresentanti della Fao che lavorano nei Paesi colpiti dalla crisi siriana: sono regioni i cui i problemi sono legati al sovrappeso o alle malattie croniche ma che, di colpo, si sono trovati coinvolti in questo conflitto con tutti gli squilibri che comporta. È triste vedere Paesi che godevano di un certo sviluppo economico completamente destabilizzati dalla guerra. La crisi umanitaria siriana è la crisi più grande della storia». Lei è stata per molti anni anche in un altro Paese in difficoltà, l’Afghanistan. «È stato all’inizio della mia vita professionale, avevo fatto domanda all’organizzazione Action contre la faim e pensavo che mi avrebbero proposto di andare in Burundi o Sierra Leone, i Paesi in crisi all’epoca, invece mi proposero l’Afghanistan. Giunsi lì senza idee preconcette: sapevo solo che i talebani controllavano il Paese e che la regione era tagliata fuori dal mondo. Sono subito rimasta affascinata dal sorriso, l’umorismo, l’intelligenza e la capacità di andare avanti degli afghani, malgrado ciò che vivono. È un Paese ricco spiritualmente: la loro fede mi ha commosso. Ci sono voluta tornare il più spesso possibile. Nel 2001 il regime talebano cadde e l’anno dopo, quando cominciò il processo di ricostruzione, ci tornai per brevi missioni di valutazione. Poi ci sono andata con la Fao: ho potuto così essere testimone della ricostruzione e parteciparvi. Anzi direi che io stessa mi sono ricostruita». In che senso? «Ero giovane quando iniziai questo lavoro: dinanzi a situazioni difficili, ci si sentiva impotenti. Non c’era soluzione, non c’era speranza: tutto era distrutto, eravamo lì con programmi di aiuto d’urgenza, ma erano gocce in un oceano di bisogni. Ci chiedevamo: a cosa serviamo? Poi abbiamo capito che a contare non era tanto l’aiuto alimentare, ma la nostra presenza. Se oggi lavoro alla Fao è perché mi considero un vettore: l’importante nell’azione è l’incontro, quello che s’impara l’uno dall’altro, ciò che si può costruire insieme. Quando si rimane a lungo in un Paese, ci si chiede: cosa rimane? Rimangono le relazioni umane che è stato possibile costruire, rimane quello che ognuno ha potuto trarre da quella esperienza, e che continua a dare nella propria vita. Ho stretto amicizia con i colleghi afghani: resta il rapporto con l’altro, il rapporto con se stessi e ciò che si può imparare sul senso della vita. In effetti, si può essere vettori o traghettatori della volontà di Dio. I miei amici afghani mi hanno insegnato a rimettere nelle mani di Dio ciò che si deve fare. Se possiamo contribuire a questo, se possiamo esserne i traghettatori, allora è bene». Il rischio, conclude Dufour, «è di sbagliarsi sulle costruzioni visibili: spesso si misurano le sfide umanitarie in base ai risultati, mentre di fatto ciò che importa sono la presenza e l’incontro umano, che faranno poi nascere realizzazioni concrete». «E Uscì dalla chiesa e comprò tre pani Si fece indicare la via per il Giordano e si lavò nelle acque Poi entrò nella grande voragine del silenzio quel deserto visse quarantasette anni, nutrendosi solo dei tre pani che aveva con sé. Non incontrò mai un uomo, sebbene a volte la tentazione fosse forte. Ma trovò la serenità e col tempo tutto sembrò svanire. Era in pace con se stessa e con Dio». Sospirando Volha passò in camera da letto e cominciò a rassettarla. Tolse dalle coperte briciole di pane e biscotto, i resti della cena. Tese l’orecchio ma non sentì più la voce nel soggiorno; rientrando, vide che la signora sonnecchiava adesso sul divano. Natalya davanti al televisore si godeva i cartoni animati. Tolse delicatamente il libro dalla mano della donna. Legenda aurea di Jacopo da Varagine lesse sulla copertina consumata. Andò a riporlo sullo scaffale in camera da letto. Si affacciò al cortile silenzioso e rimpianse i suoi gran giorni da escort. Anni dorati, regali e viaggi attraverso l’Europa. Allora era molto bella, o così in tanti le assicuravano. Poi come quando si fa sera il suo splendore si era velocemente offuscato. Allora si era aggrappata a Natalya, la sua bambina, ed era stata lei a impedirle di affogare. Ma non riusciva più a dormire. Chiudeva occhio di solito dopo le cinque del mattino, e per poco tempo. Una condizione perfetta per una badante a tempo pieno, aveva sorriso amaramente fra sé, quando aveva dovuto adattarsi a quel lavoro per sopravvivere. Cominciò a pulire il bagno. Dal soggiorno giungevano soltanto il leggero russare della vecchia e le voci della televisione. D’improvviso le sembrò di ricordare — fotografia sfocata del suo album d’infanzia — un calendario bielorusso che riportava la festa di quella santa. Era proprio Maria Egiziaca, anche per gli ortodossi. Lei non era religiosa né era mai andata in chiesa, naturalmente, aveva sempre avuto ben altro di cui preoccuparsi, e tuttavia avrebbe giurato che quella festa si celebrasse il primo di aprile. E stranamente in quella certezza le si disegnò sulle labbra un sorriso. Giornalista e scrittore italiano di origine dalmata, Dario Fertilio (1949) lavora nella redazione culturale del «Corriere della Sera». Con lo scrittore russo Vladimir Bukovskij, ha fondato i Comitati per le Libertà ed è stato l’ideatore dell’iniziativa Memento Gulag, ossia la celebrazione, ogni 7 novembre, della giornata in memoria delle vittime del terrorismo. Tra le sue pubblicazioni, La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo (2004), La via del Che (2007), Musica per lupi (2010), L’ultima notte dei fratelli Cervi (2012). Per noi ha già scritto sant’Agnese (gennaio 2014) Le venne la curiosità di riprendere il libro. Circospetta, chissà perché, rientrò in camera da letto e si avvicinò allo scaffale. Ritrovò la pagina che la vecchia aveva letto a Natalya. «In pace con se stessa e con Dio. Un giorno un monaco, Zosima, si spinse nel deserto. Vide una donna magrissima, anziana, coperta da lunghi capelli grigi, nuda e abbrustolita dal sole. Si spaventò. Maria lo chiamò per nome e gli chiese il mantello per coprire la sua nudità: spiegò che il sole aveva consumato le sue vesti decine d’anni prima. I due si confessarono a vicenda, attorno a loro il silenzio era immenso. Alla fine Maria pregò Zosima di portarle l’anno dopo la comunione. Ma quando lui tornò, trovò solo il suo corpo. Volle seppellirla, ma ormai era vecchio e troppo debole. Fu un leone a scavarle con le unghie la tomba». Volha sorrise a quel finale incongruo, ma poi sentì ogni traccia di condiscendenza svanirle dalle labbra. Si accorse invece di tremare leggermente. La notte dormì come non le succedeva da anni, e fece uno strano sogno. Era di nuovo a casa, bambina, a piedi scalzi fra i sassi. Ma la grande pianura bielorussa sembrava in tutto e per tutto un deserto di Palestina. Giovanni Segantini, «Ave Maria a trasbordo» (1886) Riflessioni su una pastorale fallita di SERGIO MASSIRONI donne chiesa mondo aprile 2015 difficili quartieri dell’hinterland, da altri sei mi dedico alla pastorale giovanile in una Brianza plasmata dalla civiltà parrocchiale. Culturalmente, con i miei fedeli, respiro tutto ciò che agita e confonde l’Europa: un universo in crisi. Ciò accade però, tra chiese rimaste piene. Seppure molte cose nel tempo sono cambiate, qui cristianesimo e società non sono giunti al divorzio. Insegno nelle scuole superiori statali e il novanta per cento degli studenti continua ad avvalersi dell’ora di religione. Percentuali addirittura in lieve crescita. La maggioranza dei miei quasi quattrocento alunni testimonia di aver avuto una buona esperienza dell’oratorio o di altre realtà dell’associazionismo cattolico, che in molti casi prosegue nella maggiore età. Posso inoltre contare su un gran numero di giovani nell’animazione delle attività parrocchiali; la catechesi è frequentata; il confessionale, specie in adolescenza, non è disatteso. È quindi diffusa la vita cristiana? La risposta non è semplice. In realtà, mi si impongono dei dati di cui il sinodo sulla famiglia avrebbe ragione di tener conto. Ricordo un titolo del l’autore «L A REALTÀ SI VEDE MEGLIO dalla periferia che dal centro»: Francesco ne è davvero convinto. Lo ribadisce nell’intervista a «La Cárcova News», il giornale di quartiere nato dai ragazzi di padre Pepe, in una villa miseria di Buenos Aires. Le domande rivolte al Pontefice, elaborate tra i giovani nella baraccopoli, non sono le solite della stampa. Affiora piuttosto la vita di un’intera generazione, intessuta di paure, fatica e grandi desideri. Il dialogo a distanza che ne scaturisce è di un’intensità sorprendente: pura evangelizzazione. Ebbene, il sinodo straordinario sulla famiglia che cos’altro si propone? La posta in gioco è missionaria: indicare Gesù Cristo presente in miliardi di storie d’amore. Roma raccoglie, in due sessioni successive, centinaia di sguardi periferici: il Papa dimostra così, sempre più, di considerare i vescovi come i naturali portatori dell’odore della loro gente, un caleidoscopio dell’umana esperienza di amare e di essere amati. Perciò, i mesi che separano la prima dalla seconda convocazione implicano un attivo ritorno alle diocesi. Opportunità formidabile di ascoltare il palpito della realtà. Da combattere è, semmai, la tentazione di risolvere la complessità in un gioco di schieramenti curiali. Se l’attenzione alla vita non prevale, il ritorno a Roma si può infatti ridurre a mera prova di forza, in un conflitto tra sensibilità teologiche che già hanno preso le misure le une delle altre. Non è, in effetti, così chiaro se i media abbiano generato, o soltanto amplificato, lo slittamento del sinodo verso una controversia tutta ecclesiastica su comunione ai risposati e unioni omosessuali. Tenterò allora io per primo di essere aderente a ciò che osservo, se possibile per contribuire al discernimento in corso. Non sono vescovo e non vivo a Roma, dunque non mi trovo in alcun modo al centro della Chiesa. Devo semplicemente dar voce alla periferia, dal punto particolare in cui son stato posto. Al sinodo si è nuovamente colta, se intuisco bene, la tensione tra Chiese ricche e stanche e Chiese povere ma vitali e molti osservatori hanno evidenziato uno spostamento inarrestabile verso sud del baricentro della cattolicità. Ebbene, Milano — diocesi in cui vivo — e in genere il nord Italia costituiscono un caso piuttosto eccezionale di cristianesimo popolare, pur in clima di postmodernità. Dopo sei anni di ministero in Nato nel 1977 a Merate (Lecco), dal 2002 Sergio Massironi è sacerdote della diocesi di Milano. Dopo la prima esperienza come vicario parrocchiale a Corsico e Buccinasco (Milano), dal 2010 è incaricato della pastorale giovanile nelle parrocchie di Cesano Maderno (Monza). Laureato in filosofia, ha poi studiato teologia alla facoltà di teologia di Lugano e alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Dal 2003 insegna religione cattolica nelle scuole superiori statali. Dal 1° ottobre 2014 collabora con l’Ufficio per la pastorale sociale e il lavoro dell’arcidiocesi di Milano. «Corriere della Sera», che poco più di un anno fa mi impressionò: «Divorzi record nelle città bianche». Fedeltà e amore eterno, osservava la giornalista, sono in via di estinzione, soprattutto in Lombardia: ecco quindi elencati gli ultimi dati Istat sulle famiglie italiane, che collocavano sul podio delle province con il maggior numero di separazioni e divorzi, nell’ordine, Lodi, Monza e Brianza, Pavia. Commento del quotidiano sul primato di Lodi: «Una sorpresa, forse, per una città dalla forte tradizione cattolica, con tante associazioni impegnate nel mondo della famiglia, chiese e parrocchie numerose e frequentate, immersa in un ambiente bucolico». D’altra parte, nella diocesi di Milano, i matrimoni cristiani risultano passati da 15954 del 1999 a 6135 del 2014; nel capoluogo il calo è stato del quarantaquattro per cento nei soli ultimi dieci anni. Il tracollo è demografico, ma non solo: più radicale è una frattura di ordine simbolico. Chi pure incontra il cattolicesimo nella sua infanzia e adolescenza, percepisce in effetti sempre di meno l’amore uomo-donna come questione pubblica, come un bene per la società. Appare poi lontanissima dall’esperienza comune la certezza che Dio parli di sé, in modo nuovo, dall’interno di ogni storia d’amore, così che quanto è dato alla coppia sia un dono che riguarda tutti. Vien da chiedersi se la famiglia cristiana tradizionale abbia avuto sentore del proprio esser sacramento. Nelle gioie e nelle fatiche del nostro amarci, Dio narra se stesso: forse che l’enormità di questo profilo è svanita d’un colpo? Quando lo dico ai giovani mi pare piuttosto sgranino gli occhi. Per loro il matrimonio è un giorno speciale, una celebrazione, la solenne sottoscrizione del patto. E sebbene la famiglia sia tra i loro valori più alti e i genitori, anche separati, punti certi di riferimento, non è “matrimonio” la parola per indicare il quotidiano procedere insieme. Quel vincolo, specie quando tutto fila liscio, è trasparente, affidato all’album dei ricordi, sepolto da decenni nell’armadio del soggiorno. Sacramento significa invece vertigine, incanto, senso della presenza di Dio in un segno fragilissimo. Ciò che nei giorni dell’innamoramento fa battere il cuore si trasforma con lo scorrere del tempo, attraversa crisi e sfide, è costretto a un sempre nuovo scoprirsi, è forgiato dalla densità della vita. E in questo movimento, di cui sentire l’attrito e la fatica è solo la conferma, gli amanti sono plasmati, diventano un uomo e una donna mai visti prima al mondo, l’uno grazie al fatto che l’altro c’è. Che Dio si riveli anche così, che il procedere attraverso stagioni e responsabilità racconti la concretezza con cui Cristo si è vincolato alla Chiesa, che lo Spirito Santo non assista da fuori, ma vivifichi da dentro l’amore di due sposi, è mistero di una bellezza che toglie il fiato. Una casa costruita da chi ne abbia coscienza, non può non esserne piena di profumo. Al sinodo andrebbero, allora, ripercorsi secoli in cui i laici sono stati pensati essenzialmente come oggetto della cura pastorale e non come soggetti dell’evangelizzazione. La vita secolare difficilmente è stata ritenuta luogo di rivelazione e, men che meno, il così carnale incontro di maschio e femmina ha assunto un rilievo teologico o missionario. Nella storia di due sposi, magari di nostra madre e nostro padre, non abbiamo riletto il Vangelo. Il crollo numerico dei matrimoni documenta soltanto la presa d’atto che nessun vincolo pubblico è necessario a un amore romantico: non si istituzionalizza il puro sentimento. Il costume condiviso di sposarsi, così, ha potuto dissolversi anche in una terra in cui si cresce tra oratorio, gioventù studentesca, volontariato e scout. E allora, vien da chiedersi, ai corsi dei fidanzati chi arriva? Generalmente degli adulti, con un legame affettivo stabile, dopo mesi di coabitazione, talvolta coronati dalla nascita di un figlio: una fase in cui si è già configurata buona parte della vita matrimoniale. Evidentemente, grazie a Dio, orientandosi al sacramento essi cercano un di più: l’evangelizzazione dell’esperienza in corso. Sul piano pastorale si tratta di un’opportunità straordinaria. Ma occorre anche chiedersi: negli anni in cui l’attitudine ad amare prendeva forma, che cosa ha saputo offrire la comunità? Guardo ai giovani che incontro e ammetto: quasi nulla. In amore pare ovvio che ognuno debba far da sé. Sarà il pudore, sarà che da una minuziosa casistica morale siam passati a visioni antropologiche troppo generali, quel che sommuove il cuore nella prima giovinezza non trova ascolto, accompagnamento, né granché di investimento. L’eccezione, tra i praticanti, è costituita da chi chieda un consiglio; la norma, pur apprezzando l’educazione a non separare corpo e cuore, è che ciascuno declini la propria etica sessuale e la vita affettiva senza riferimento alla tradizione e lontano da qualsiasi circuito di confronto e d’amicizia. Ciò mi interroga sia su quanto l’oratorio offre istituzionalmente, sia sulla solidità dei legami che spontaneamente sorgono al suo interno. Sono sufficientemente franchi? Oppure prevale quella cortesia per cui anche agli amici non si fanno vere domande? E, soprattutto, mai dire come ti vedo e che cosa farei al tuo posto, se si tratta della tua vita! Semmai, abbiamo gruppi in cui, come in quasi tutti i contesti umani, è concesso di parlare degli assenti: su ogni cosa ci si forma una comune opinione, ma in quale radicale solitudine certe “buone” maniere abbandonano poi ciascuno! Per contro, ricordo due sedicenni di periferia che vennero anni fa a suonarmi il citofono: di quelli che in chiesa non entrano dalla prima comunione e che le forze dell’ordine han già in elenco. Molto deciso, uno di loro aveva da sottoporre al prete, per conto dell’amico, che appariva cupo e silenzioso, un caso dirompente: «La sua ragazza, in discoteca, se la fa sui divani con le amiche. Per lui è peggio di un tradimento e ora è furibondo. Loro invece sostengono non ci sia niente di male, perché non c’è di mezzo un altro maschio ed è solo un modo per divertirsi e per imparare a baciare meglio. Può dirci, don, come stanno le cose, che cosa bisogna pensare? Che altrimenti lui va e l’ammazza!». Lontanissimi dalla vita cristiana, arrivarono alla canonica per dirimere ciò che sconvolgeva il cuore: interessante percezione di che cosa cercare nella Chiesa. Come favorire nei presenti, nei praticanti, qualcosa della medesima libertà? Non necessariamente in rapporto al sacerdote, ma almeno nella più vasta gamma di relazioni educative, affettive, fiduciali che abbiamo ancora la forza di generare. Tutto ciò, a maggior ragione, ora che sempre più sconcertante appare il ruolo giocato dalla pornografia: la disponibilità di internet su smartphone ha coinciso col dilagare, anche tra bambini di nove o dieci anni, di un immaginario che sequestra in seguito ore e ore, in delicatissime stagioni della vita. Così, l’attrazione sessuale e l’innamoramento sono oggi completamente ridisegnati fin dal loro apparire, anche tra giovani cristiani, da un’esposizione senza precedenti a fantasie in altri contesti del tutto eccezionali. Ciò comporta nuove inquietudini, specie quando all’improvviso si manifesta lo scarto tra esperienze virtuali e consistenza della realtà. Un impero economico si alimenta oggi del desiderio sessuale, sganciandolo dal suo contesto interpersonale, ma rilevarlo è tabù. Eppure il dato ha risvolti antropologici, psichici e affettivi e non solo morali. Non può venire esaurito in confessionale. Al sinodo segnalerei l’opportunità di indicare oggi — in modo solenne e con inedita lucidità — carne, sangue e cuore umani come tempio dello Spirito, così che la concretezza dell’amarsi sia nettamente percepita dai cristiani quale spazio di santificazione. A esserne testimoni sono già milioni di uomini e donne cui la Chiesa dovrebbe solo dar coraggio di raccontare. Con loro andrebbero scritte la teologia del sacramento, la morale matrimoniale, la pastorale familiare. In un’epoca che esalta libertà e felicità, il vincolo indissolubile che genera le famiglie potrebbe allora apparire gravido di positività. Bellezza che fa sgranare gli occhi.
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