Piazza dell'Aracoeli, 12 - 00186 Roma - tel *30 06 6784168 Bollettino 8 aprile 2015 A cura di Manlio Lo Presti ESERGO I sensi non ingannano. Inganna il giudizio. GOETHE, Massime e riflessioni, De Silva Editore, 1943, pag. 222 Il Giudizio nella XX lama dei tarocchi °°°°°°°°°°°°°°°°°°° CHI SIAMO La Lidu è la più antica Organizzazione laica che difende i diritti dell’Uomo. Si è aperta la campagna tesseramenti 2015. Sosteniamola affinché non si spenga una delle poche voci indipendenti esistenti in Italia ___________________________________________ __________ L.I.D.U. Lega Italiana dei Diritti dell’uomo TESSERAMENTO 2015 Socio Giovane quota minima € 10,00= (fino a 30 anni) Socio Ordinario quota minima € 50,00= Socio Sostenitore versamento minimo € 200,00= Socio Benemerito versamento minimo € 500,00= data ultima di versamento per il rinnovo 30 GIUGNO NOTA Poiché la L.I.D.U. è un'Associazione Onlus e la quota associativa è stata fissata ad euro 50,00- ogni versamento maggiore della quota suddetta, verrà considerata come versamento liberale e potrà essere dedotta, nei termini di legge, dalla dichiarazione dei redditi. La condizione necessaria è che il versamento debba essere effettuato direttamente alla L.I.D.U. nazionale, in qualsiasi forma, salvo che in contanti. L'attestato del versamento dovrà essere richiesta alla Tesoreria nazionale. si può effettuare il pagamento della quota dovuta a mezzo: contanti; assegno; bollettino di c/c/postale n° 64387004 bonifico bancario IBAN IT 90 W 05216 03222 000000014436 bonifico postale IBAN IT 34 N 07601 03200 000064387004 Intestati a: F.I.D.H. Fédération International des Droits de l’Homme - Lega Italiana onlus ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5 x 1000 Come previsto dalla legge è possibile destinare il 5 x 1000 del reddito delle persone fisiche a fini sociali. La nostra Associazione è ONLUS e può beneficiare di tale norma. Per effettuare la scelta per la destinazione, occorre apporre la propria firma e indicare il Codice Fiscale 97019060587 nell'apposito riquadro previsto nei modelli dell'annuale denuncia dei redditi. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° LO SCRITTOIO DEL PRESIDENTE COMUNICAZIONI DAI SOCI E DAI COMITATI Vi invio il comunicato relativo alla Premiazione del Sig Umberto Miniussi della LIDU prov di Gorizia,che sara’ premiato dall’UNCI di Gorizia. Ufficio stampa LIDU FVG-Dottor Antonello Quattrocchi. Di seguito notifica evento: U.N.C.I. UNIONE NAZIONALE CAVALIERI D’ITALIA SEZIONE PROVINCIALE DI GORIZIA XVIII CONVEGNO INTERREGIONALE DEI TITOLATI DI ONOREFICENZE AL MERITO DELLA REPUBBLICA ITALIAN XX di Fondazione Sezione Provinciale di Gorizia XI EDIZIONE PREMIO BONTA PROVINCIA DI GORIZIA II° Premio Solidarieta ai bambini E PREMIO BONTA U.N.C.I. CONI ALLO SPORT VI EDIZIONE COMUNE DI MORARO Sala Consiliare, (Via Francesco Petrarca,15) Domenica, 17 maggio 2015 …, quest’anno è il 20° di Fondazione della Sezione Provinciale U.N.C.I. Gorizia in concomitanza al XVIII Convegno Interregionale dei “Titolati Onorificenze al Merito della Repubblica Italiana”, che ospiterà la XI Edizione del “Premio Bontà” della Provincia di Gorizia e II Premio Solidarietà, congiuntamente al VI Premio “Bontà UNCI - CONI”, la ricorrenza sarà ospitata dal Comune di Moraro, grazie alla piena disponibilità offertaci dal Sindaco, sig. Alberto Pelos, che ha aderito all'iniziativa, manifestando sin da subito il proprio entusiasmo per una buona riuscita dell’evento Le persone premiate su segnalazione dei Sindaci sono: PERGAMENA Benemerenza PREMIO BONTA’ 2015 UNCI - GORIZIA - Al Sig. Cesare CONTIN -Medea - Al Sig. Claudio SOGLIO- Moraro - Al Sig. Vinicio POHLEN –Ronchi dei L. RE MAGI (Sveti Trije Kralji )-San Florianod’Isonzo Al Sig.ra Gabriella PEZIL – Farra II °PREMIO SOLIDARIETA’ su proposta degli insegnanti: alunna PEJICIC SANDRA della classe V A della Scuola Primaria “L. Brumati” di Vermegliano -------------------------------------------------PERGAMENA di BENEMERENZA --------------------------------------------------UNIONE NAZIONALE REDUCI DI RUSSIA Sezione Friulana CARGNACCO ( Udine ) --------------------------------------------------- Sig. Massimiliano Bellon -------------------------------------------------- L.I.D.U.- Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo Provincia di Gorizia PERGAMENA SOCIO ONORARIO - GRAFICHE CIVASCHI s.n.c. di Civaschi Aldo e Riccardo Salt di Povoletto PROGRAMMA Ore 09,45 Ritrovo dei partecipanti (davanti al Comune) Ore 10,30 Convegno - dibattito nella Sala Consigliare in Via Francesco Petrarca n. 15 con intervento del Presidente Provinciale Uff. Selva Roberto, del Presidente Nazionale U.N.C.I. Gr. Uff. Marcello Annoni e di altri invitati Seguirà l’intervento del Sindaco di Moraro Alberto Pelos e quello del Prof. Vincenzo Orioles (docente di Linguistica presso l’Universita di Udine), sul tema: “Lingua e visione del mondo” In conclusione parlera l’Onorevole Ing. Giorgio Brandolin, Presidente Regionale del C.O.N.I. Ore 11,45 Consegna degli attestati di benemerenza, di adesione all’U.N.C.I. e quelli del “Premio Bonta” Provincia di Gorizia e del CONI allo Sport Ore 13,00 Pranzo presso il Ristorante “da VINICIO”, a Dolegna del Collio, musica dal vivo con Sandro Il Direttivo della Sezione Provinciale U.N.C.I. di Gorizia: Uff. Roberto Selva, Uff. Arduino Altran, Cav. Antonio Boscolo, Cav. Del Giudice Mauro, il Consigliere Nazionale Cav. Dott. Verilli Massimo ed il Presidente Onorario Uff. Michele Totaro invitano alla cerimonia autorità civili e militari tutti i soci U.N.C.I., amici e simpatizzanti. Partecipano alla consegna del “Premio Bontà” i Comuni di: Moraro, San Floriano del Collio, Farra d’Isonzo, Medea e Ronchi dei Legionari. Si invitano i Sindaci Italiani a indossare la fascia tricolore durante la cerimonia. Per le adesioni chiamare i seguenti numeri: uff. Totaro Michele 0481/534657 - 347/7109247 uff. Selva Roberto 348/6050351 cav. Del Giudice Mauro 347/5309465 Comunicati stampa Premio Bonta' 2015 UNCI-CONI http://www.viagginrete-it.it/eventi/evento.asp?id=52449 http://www.viaggieventi.it/regione.asp?regione=Friuli%20Venezia%20Giulia http://www.teleagenda.it/friuli_venezia_giulia/gorizia/ http://www.comunicatostampa.org/8657032/premio-bonta-e-premio-bonta-unci-coni-allo-sport2015/ Antonello Quattrocchi °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° Incontri organizzati dal Club UNESCO di Udine nel mese di aprile 2015 in occasione delle Giornate Internazionali ONU Trasmetto notizia degli eventi in oggetto con preghiera di presa d'atto, di cortese diffusione e, quando possibile, di partecipazione. Ringrazio e porgo i migliori saluti. Renata Capria D'Aronco tel. e fax 0432.521124, cell. 330.241160, E-mail [email protected] Club UNESCO di Udine, via Solferino, 7 - 33100 Udine Per l'invio di messaggi al Club UNESCO di Udine si prega di usare l'indirizzo ufficiale [email protected]. NON inviare all'indirizzo di servizio da cui è stato spedito il presente messaggio. Grazie per l’attenzione. Antonello Quattrocchi °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° REPORT SUI VENEZUELA DIRITTI UMANI IN a cura di Ilaria Nespoli Attualmente il Venezuela vive una profonda crisi economica e politica, che è emersa con forza attraverso una serie di manifestazioni tuttora in corso, iniziate a metà febbraio 2014. I motivi di tali proteste riguardano la sistematica violazione dei diritti umani da parte delle autorità venezuelane, la mancanza di sicurezza a causa di una criminalità dilagante, la carenza di beni di prima necessità ed un tasso di inflazione superiore al 50%. Infatti, da tempo il Venezuela soffre di una preoccupante situazione di insicurezza sociale e di costante violazione dei diritti umani, soprattutto dei popoli indigeni. Lo Stato Venezuelano ha sempre cercato di cerca di nascondere i dati sul numero reale di omicidi e furti, crimini che rimangono impuniti, ma fonti ufficiali, quali l’Instituto Nacional de Estadistica, affermano che solo nel 2009 nel Paese sono state uccise 19.133 persone, una ogni mezz’ora. La situazione raggiunge livelli ancora più allarmanti nelle zone di frontiera: la cittadinanza vive in totale assenza dello Stato in territori militarizzati, dove i diritti umani di venezuelani e stranieri, prevalentemente colombiani, sono ripetutamente e sistematicamente violati. Si tratta di violazioni concernenti sia i diritti imprescindibili della persona umana, quali il diritto alla vita e alla libertà, sia sono violati i loro diritti economici, sociali e culturali, in particolare per quel che riguarda la proprietà e l’uso della terra. Le autorità venezuelane, responsabili del controllo degli ingressi di stranieri associano la nazionalità colombiana alla guerriglia, al traffico di droga o ai sequestri e tendono così a considerarli come i responsabili dei problemi che caratterizzano la zona in questione. I membri delle comunità indigene sono molto spesso vittime di questi abusi. Inoltre, gli abitanti delle frontiere devono convivere quotidianamente con gravi problemi come gli omicidi per mano di sicari, il lavoro minorile, l’aumento della prostituzione e i sequestri. Delinquenza e vandalismo, azioni violente commesse dagli appartenenti a gruppi legati al narcotraffico, alla guerriglia e al contrabbando di benzina e di alimenti. Per quanto riguarda le proteste in corso, al di là dei motivi scatenanti esse riflettono l’immagine di un Venezuela tuttora politicamente diviso fra sostenitori e oppositori del Presidente Nicolas Maduro, uscito vincitore alle elezioni presidenziali, convocate alla morte del predecessore Hugo Chavez, nelle quali ebbe la meglio sullo sfidante liberale, Henrique Capriles Radonski, per una manciata di voti. In un’analisi condotta nel marzo 2014 dall’International Crisis Group, un’organizzazione no profit volta a prevenire e risolvere i conflitti in corso in tutto il mondo, è emerso sin da subito come la situazione rischiasse di erodere ulteriormente la stabilità e la tutela dei diritti umani in una nazione già polarizzata alle prese con una grave crisi economica e con uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. Quindi, il centro studi con sede a Bruxelles ha esortato l’Esecutivo e l’opposizione a cercare di instaurare almeno un minimo di dialogo politico per porre freno alla criminalità e capire in che direzione debba andare l’economia. Sin dal principio, Maduro ha condannato le manifestazioni, accusando i manifestanti antigovernativi del partito d’opposizione di aver tentato un golpe fascista volto a rovesciare il Governo eletto, con la complicità degli Stati Uniti. Di qui la crisi parallela con Washington, la quale è stata segnata dall’espulsione di diplomatici statunitensi, accusati di aver incontrato gruppi di violenti legati all’opposizione e dalla revoca degli accrediti per i giornalisti della Cnn che seguivano le manifestazioni. Mentre la piazza anti-governativa chiede la scarcerazione del suo capofila, Leopoldo Lopez, tuttora agli arresti con l’accusa di essere il responsabile di disordini dello scorso 12 febbraio 2014 scoppiati durante una manifestazione per chiedere la liberazione di alcuni dimostranti, contro l’Esecutivo piovono le accuse di torture nei confronti dei manifestanti fermati e di uso eccessivo della forza per disperdere le proteste da parte delle forze di sicurezza. In particolare, violazioni dei diritti umani sono state denunciate da Amnesty International, sia nel rapporto "Venezuela: diritti umani a rischio nelle proteste”, sia nel “Rapporto 2014-2015: la situazione dei diritti umani nel mondo”. Nel primo report sulla situazione venezuelana, presentato il 1 aprile 2014, nel documentare violazioni dei diritti umani commesse nel contesto delle manifestazioni di massa in corso dall'inizio di febbraio, Amnesty International ha evidenziato come il Venezuela corra il rischio di una delle peggiori minacce allo Stato di diritto degli ultimi decenni se le contrapposte forze politiche non s'impegneranno a rispettare pienamente i diritti umani. In caso contrario, il numero delle vittime delle manifestazioni continuerà a crescere e il tributo maggiore verrà pagato dalla gente comune, come dichiarato da Erika Guevara Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International, la quale ha precisato come la crisi politica rischi di pregiudicare i progressi compiuti negli ultimi anni per il rispetto dei diritti umani delle persone più emarginate del paese. Infatti, secondo le denunce ricevute da Amnesty International e riportate nel “Rapporto 2014-2015: la situazione dei diritti umani nel mondo”, le forze di sicurezza venezuelane avrebbero affrontato i manifestanti ricorrendo alla forza eccessiva, compreso l'impiego di proiettili veri e persino della tortura contro persone disarmate. Inoltre, nel suddetto Rapporto, Amnesty International parla di decine di persone arbitrariamente detenute, cui è stato impedito l’accesso ad avvocati e medici prima di comparire davanti al giudice. Inoltre, nel Rapporto vengono denunciate le aggressioni e le intimidazioni di cui sono vittime i difensori dei diritti umani, nonché le interferenze dell’Esecutivo nei confronti del sistema giudiziario, specialmente in casi in cui erano coinvolte persone critiche nei confronti del Governo o quanti erano ritenuti aver agito contro gli interessi dello stesso. Infine, il “Rapporto 2014-2015” di Amnesty International denuncia come le condizioni all’interno degli istituti di pena siano rimaste deplorevoli, nonostante le riforme introdotte al sistema carcerario: in particolare, continuano a destare preoccupazione la mancanza di assistenza medica, cibo e acqua potabile, le condizioni non igieniche, il sovraffollamento e la violenza nelle stazioni di polizia. Recentemente, anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, il principe Giordano Zeid Ra’ad Al Hussein, ha espresso preoccupazioni in merito al deterioramento del rispetto dei diritti umani in Venezuela; in particolare per le dure risposte del Governo alle critiche, alle manifestazioni di dissenso e per l’uso eccessivo della forza nel reprimere le proteste. Infine, è necessario sottolineare come l’attuale situazione venezuelana abbia destato una serie di reazioni non solo fra le organizzazioni non governative maggiormente rivolte alla tutela dei diritti umani ma anche da parte di entità governative, quali gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Unione Europea, una ferma condanna alla sistematica violazione dei diritti umani in Venezuela è giunta dal Vice Presidente vicario del Parlamento europeo, Gianni Pittella. In una interrogazione inviata nel 2014 all’allora Alto rappresentante per la Politica Estera dell’Unione, la Baronessa Ashton, Pittella ha esortato l’Ue a non rimanere indifferente di fronte alle violenze perpetrate in Venezuela negli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti e a condannare i ufficialmente le violazioni dei diritti fondamentali, ricordando al governo venezuelano che è tenuto a garantire la sicurezza di tutti i cittadini del Paese, a prescindere dalle opinioni e affiliazioni politiche. Inoltre, in tale interrogazione Pittella ha evidenziato il dovere dell’Unione europea di valutare misure concrete, da prendere nel caso in cui il governo venezuelano perseverasse nella violazione delle libertà civili continuando così a minare la sicurezza dei tanti cittadini europei residenti nel Paese. La reazione più recente alle sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dal Governo Maduro si è avuta da parte degli Stati Uniti. In un comunicato del 9 marzo 2015, la Casa Bianca ha espresso preoccupazioni sul trattamento degli oppositori politici da parte del governo venezuelano, soprattutto in ordine ai tentativi del governo venezuelano di aumentare le intimidazioni nei confronti dei suoi oppositori politici, evidenziando come i problemi del Venezuela non possono essere risolti criminalizzando il dissenso. Sulla base di tali presupposti, Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha emesso un ordine esecutivo che dichiara il Venezuela una minaccia alla sicurezza nazionale. Inoltre, Obama ha dato il via libera ad una serie di sanzioni contro sette funzionari del governo venezuelano, accusati di violazioni dei diritti umani e di corruzione pubblica. Tali sanzioni prevedono: il congelamento dei loro beni e delle loro proprietà negli Stati Uniti, il divieto per essi di oltrepassare le frontiere statunitensi e per i cittadini americani di concludere affari con essi. Inoltre, la Casa Bianca ha anche invitato il Venezuela a rilasciare tutti i prigionieri politici, evidenziando un ulteriore peggioramento della situazione in Venezuela nelle ultime settimane, caratterizzate da torture e abusi sessuali operati delle forze militari contro i civili al fine di limitare la loro libertà di espressione e culminate con l’assassinio di Kluiver Roa, un ragazzino di soli quattordici anni, il quale rappresenta la quarantaquattresima vittima della spirale di violenza fra manifestanti e autorità del Governo Maduro. Concludendo, appare opportuno sottolineare come tale situazione appaia in netto contrasto non solo con le principali convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani ma anche con la stessa Costituzione del Venezuela, approvata mediante un referendum il 15 dicembre 1999, la quale al primo articolo afferma: “la Repubblica Bolivariana di Venezuela è costituita da uno Stato sociale e democratico di diritto e di giustizia che propugna come valori supremi del sistema giuridico la vita, la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, la solidarietà, la democrazia, la responsabilità sociale e, in generale, il rispetto dei diritti umani, l'etica e il pluralismo politico”. LA LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO AL TEMPO DI INTERNET di Ilaria Nespoli La libertà di manifestazione del pensiero costituisce uno dei pilastri fondamentali di ogni ordinamento democratico, essendo il pluralismo di opinioni e nel dialogo fra più punti di vista la base della democrazia. Nel nostro ordinamento tale diritto è tutelato dall’articolo 21 della Costituzione in base al quale “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Tale formulazione è analoga a quella contenuta nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, il cui articolo 19 afferma che “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Oggetto specifico della libertà di manifestazione del pensiero è dunque non già il diritto di comunicare liberamente con un destinatario specifico ma il diritto di comunicare il proprio pensiero ad una sfera indeterminata di potenziali destinatari, il quale rientra tra quei valori primari e inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 della Costituzione. Sebbene l’art. 21 si limiti a disciplinare quello che costituiva il principale strumento di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, ovvero la stampa, è innegabile che l’uso di una formula (“ogni altro mezzo di diffusione”) dotata di così ampia flessibilità ha permesso l’integra sopravvivenza del principio di libertà di espressione all’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione di massa che non erano neppure ipotizzabili ai tempi della redazione della Carta, primo fra tutti internet. Nel linguaggio informatico la rete è un sistema di trasmissione di dati che consente uno scambio di informazioni e opinioni planetario, automatico e senza controllo umano, risultando certamente qualcosa di assai più complesso dei mezzi finora conosciuti. Il rivoluzionario mezzo di comunicazione, pretende un riadattamento della legislazione già in vigore o un’elaborazione ex novo di regole per ogni settore del diritto, fra cui anche la libertà di manifestazione del pensiero, che con l’avvento dei nuovi strumenti informatici ha conosciuto una valenza sconosciuta in precedenza: attraverso internet, infatti, tutti possono manifestare liberamente le proprie opinioni e comunicare, sia in forma privata, tramite i servizi di posta elettronica, che in forma pubblica, tramite il web, le chat e, da ultimo, i social network. E’ indiscutibile la sua essenza di veicolo di comunicazione, caratterizzato, peraltro, da uno straordinario potenziale di democraticità e di uguaglianza sostanziale. Per la prima volta nella storia, infatti, pone Internet chiunque nella condizione di diffondere le proprie idee presso un pubblico mondiale e di accedere alle più disparate fonti informative, condividendo conoscenze e divulgando notizie senza costi economici eccessivi e senza difficoltà tecniche. Inoltre, Internet segna il passaggio da una comunicazione autoritaria, dall’alto verso il basso, come quella tradizionale, ad una nuova organizzazione in cui la comunicazione corre lungo canali trasversali od orizzontali, piuttosto che verticali: la consapevolezza che qualsiasi tipo di messaggio può vivere di vita propria indipendentemente dalla fonte che lo ha generato, conduce spesso ad un ribaltamento del ruolo degli utenti che da passivi fruitori di contenuti si trasformano spesso in veri e propri autori. Inoltre, la recente diffusione capillare dei social network ha applicato a tale esplosione di contenuti creativi il legame sociale insito nei rapporti istaurati in questi nuovi ambiti di socializzazione. Infatti, attraverso i social network gli utenti rivelano agli altri i propri gusti, le loro relazioni sociali, le proprie attività, dando vita ad una vera e propria personalità virtuale. Inoltre, Se si considera che il raggiungimento del pluralismo è uno degli obiettivi dell’art. 21 Cost., ci si avvede che Internet risponde meglio degli altri mezzi allo scopo della norma costituzionale, poiché in rete ciascuno può creare informazione, esprimere il proprio pensiero, leggere le opinioni altrui. In dottrina, c’è chi parla di un nuovo diritto soggettivo, il diritto di libertà informatica come pretesa positiva di valersi degli strumenti informatici per fornire e ottenere informazioni di ogni genere, come diritto di partecipare alla società virtuale in cui ogni individuo è sovrano delle sue decisioni e può esprimere le proprie idee nella forma della libera comunicazione. Sotto questo profilo, la rete costituisce anche un fattore di crescita sia economica sia culturale e scientifica, che non richiede opere dispendiose o interventi statali di sostegno, ma che si alimenta autonomamente con l’utilizzo degli utenti. Tuttavia, accanto a queste potenzialità virtuose la comunicazione via Internet contiene gravi rischi di violazioni delle regole che la legislazione prevede riguardo ai tradizionali mezzi di comunicazione a tutela degli altri valori propri degli ordinamenti democratici, fra cui il diritto all’onore e alla reputazione, il diritto alla riservatezza e l’interesse alla sicurezza nazionale, dal momento che risulta evidente come Internet non si presti ai classici sistemi di disciplina, riuscendo a scavalcarli ed eluderli senza difficoltà. In Italia la regolamentazione di Internet come mezzo di diffusione del pensiero ai sensi dell’art. 21 Cost. è ancora allo stato iniziale. Per anni è regnato il silenzio, interrotto di tanto in tanto da qualche proposta di legge, che tradisce ansie e timori di chi ancora non si è abituato al web. I primi interventi normativi sul tema hanno riguardato essenzialmente la tutela dei minori e del diritto alla privacy: sotto il primo profilo ricordiamo la legge n. 269/1998 che, allo scopo di reprimere ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale ai danni dei minori, ha introdotto come apposita fattispecie criminosa quella di colui che “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica divulga e pubblicizza materiale pornografico relativo a minori”, stabilendo l’applicazione della disciplina repressiva anche nelle ipotesi in cui il fatto sia stato commesso all’estero da cittadino italiano, ovvero in danno di cittadino italiano, proprio in considerazione dell’extraterritorialità delle comunicazioni telematiche. Per quanto riguarda la tutela del diritto alla privacy, se il d.lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali) estende il principio di necessità anche ai sistemi informativi e ai software, stabilendo che i dati personali o identificativi siano utilizzati solo se indispensabili per finalità stabilite, è il Codice delle comunicazioni elettroniche che reca una normativa assai più dettaglia, prevedendo il vincolo al trattamento dei dati personali secondo correttezza e per scopi determinati ed espliciti, l’obbligo di ottenere il consenso al trattamento dei dati personali, sulla base di apposita informativa sulle proprie finalità e l’obbligo di cancellare i c.d. logs, ovvero le informazioni che automaticamente vengono registrate dal fornitore d’accesso alla rete (indirizzo IP, data, ora e durata della connessione). Recentemente è stato adottato il primo Codice di autoregolamentazione per il contrasto al cyberbullismo, approvato agli inizi del 2014 durante la riunione tecnica presieduta dal viceministro dello Sviluppo economico, Antonio Catricalà, con l'accordo dei rappresentanti delle istituzioni (come Agcom e Garante per l'infanzia), le associazioni italiane del settore elle associazioni (Confindustria digitale, Assoprovider, eccetera) e i colossi globali come Google e Microsoft. Si tratta del primo caso di autoregolamentazione da parte degli operatori e delle istituzioni: un intervento ritenuto necessario anche a seguito dei gravi fatti di cronaca che hanno visto alcuni giovanissimi arrivare a gesti estremi dopo essere stati oggetto di insulti e diffamazioni su Internet. Il testo prevede che gli operatori della Rete, e in particolare chi agisce all'interno dei servizi social, si impegnino fermare qualsiasi episodio di cyberbullismo segnalato dagli utenti attraverso meccanismi e sistemi che dovranno essere adeguatamente visibili e cliccabili all'interno della pagina visualizzata; e dovranno essere anche semplici e diretti, in modo da consentire anche agli adolescenti un'immediata capacità di segnalazione delle situazioni di pericolo. Inoltre, il 13 ottobre è stata presentata a Montecitorio la Carta dei diritti di Internet della Commissione per i diritti e i doveri in Internet voluta dalla Presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini e guidata dal giurista Stefano Rodotà. Essa si compone di quattordici articoli la cui cifra unificante è la tutela dei diritti della persona umana riconosciuti dai documenti internazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, dalle costituzioni e dalle leggi, i quali “devono essere interpretati in modo da assicurarne l’effettività nella dimensione della rete”. Fra i diritti contemplati spicca il diritto di accesso, che la Dichiarazione prevede sia “eguale” per tutti e “in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e aggiornate che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. Altra condizione fondamentale per l’effettività dei diritti della persona è rappresentata dalla neutralità della rete, in cui “ogni persona ha il diritto che i dati che trasmette e riceve in Internet non subiscano discriminazioni, restrizioni o interferenze in relazione al mittente, ricevente, tipo o contenuto dei dati, dispositivo utilizzato, applicazioni o, in generale, legittime scelte delle persone”. Essa è un freno al tentativo degli oligopoli delle telecomunicazioni di creare corsie preferenziali per chi paga di più e uno stop ai governi che potrebbero voler ispezionare i dati in rete per decidere chi passa, quando e con quale priorità. Inoltre, la Dichiarazione ribadisce il diritto di ciascuno alla protezione dei dati personali, i quali devono essere trattati rispettando i principi di necessità, finalità, pertinenza, proporzionalità e, in ogni caso, prevale il diritto di ogni persona all'autodeterminazione informativa, ciò al fine di assicurare “il rispetto della dignità, identità e riservatezza di ogni persona”. Da ciò discendono il diritto all’anonimato e all’oblio, contemplati rispettivamente negli articoli 9 e 10, per cui “ogni persona può comunicare elettronicamente in forma anonima per esercitare le libertà civili e politiche” e ha il “diritto di ottenere la cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei dati che, per il loro contenuto o per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza”. Comunque, la Dichiarazione pone dei limiti al diritto all’oblio sottolineando come tale diritto non possa limitare la libertà di ricerca e il diritto dell'opinione pubblica a essere informata, che costituiscono condizioni necessarie per il funzionamento di una società democratica. Infine, la Dichiarazione mira a promuovere l'uso consapevole di Internet, il quale è fondamentale perché possano essere concretamente garantiti lo sviluppo di uguali possibilità di crescita individuale e collettiva; il riequilibrio democratico delle differenze di potere sulla rete tra attori economici, istituzioni e cittadini; la prevenzione delle discriminazioni e dei comportamenti lesivi delle libertà altrui. D’altronde, per contrastare le idee più sgradevoli e assurde non servono leggi o filtri, ma argomenti efficaci che, dialetticamente, vi si oppongano e, stimolino la capacità critica degli individui in generale e degli adolescenti in particolare, i quali nell’attuale società dell’informazione, sono gli utenti che sperimentano sempre meno direttamente ed acquisiscono sempre di più una conoscenza mediata. Dare loro l’opportunità di incontrare contenuti che li arricchiscano, anziché vietare quelli pericolosi, è l’impegno più serio perché sappiano distinguere autonomamente ciò che è nocivo da ciò che è positivo per la loro crescita. Quindi, solo redendo effettivo il diritto all’educazione all’uso di Internet in modo consapevole e attivo si potrà rendere i giovani veri e propri attivisti dei diritti umani e non promotori di messaggi di intolleranza e odio. Nei prossimi mesi la bozza di Dichiarazione verrà ampiamente discussa con esperti e con tutti i cittadini interessati alla materia con l'obiettivo di arrivare a un documento definitivo da consegnare al Parlamento e al Governo affinché contribuiscano - in Italia, in Europa e nel mondo - a tutelare Internet come grande piattaforma non solo di sviluppo economico, ma anche e soprattutto di esercizio di diritti umani fondamentali. RASSEGNA STAMPA http://www.opinione.it/ Il diritto al gioco nell’infanzia di Maria Vittoria Arpaia Il gioco è un diritto? Assolutamente si! Mauro Laeng nel suo Lessico Pedagogico definisce il gioco infantile “un’attività spontanea avente il suo fine in se stessa; si distingue come tale dal lavoro, attività avente un fine distinto da sé. Ogni attività può dare origine a gioco quando sia esercitata per il mero piacere del suo svolgimento”. Non c’è definizione più giusta, la necessità del bambino di avere tempo libero da dedicare alle attività di gioco e alla creatività parte innanzitutto dal bisogno del bambino di confrontarsi con sé stesso e poi con il mondo esterno per riconoscersi come individuo. Il gioco rappresenta per il bambino uno strumento di crescita personale. Il gioco rappresenta per lui la presa di coscienza del mondo esterno, siamo noi che ci diamo l’accezione di gioco come aspetto ludico ma per lui è una cosa serissima e complessa. Il bambino non sa di giocare lo diciamo noi che gioca, lui lo fa e basta; siamo noi che diciamo che gioca, continuiamo a essere noi a parlare di una cosa che è completamente diversa. Gran parte della responsabilità perché questo diritto venga rispettato è dei genitori, che devono per quanto possibile assicurare che il bambino venga cresciuto in condizioni di vita necessarie al suo sviluppo. Gran parte degli adulti vogliono crescere i propri figli con i divieti distruggendo lo spirito animista del bambino che non vive la realtà separata da se stesso ma è egli stesso la “realtà”. Il bambino con il gioco esprime la sua anima. Non a caso la produzione di cartoni animati per il cinema e poi per la televisione fornisce da sempre tantissimi esempi di oggetti, piante, automobili, animali che parlano ed esprimono sentimenti (es. la Pimpa, Cars, Toys story, ecc.). I bambini con il gioco si confrontano con gli altri bambini contribuendo così alla coscienza dell’essere individui. Il gioco collettivo come realizzazione della propria personalità attraverso il confronto con l’altro. I bambini infatti non chiedono nient’altro che di stare insieme ai loro coetanei anche per sviluppare le proprie inclinazioni affettive. Bisogna infine saper ascoltare quello che ci dicono i bambini e insegnare loro come trovare la soluzione, lasciandoli liberi di cercare e di capire da soli. L’azione dell’Osce in Ucraina di Domenico Letizia 08 aprile 2015ESTERI In molti ricordano che tra le prime organizzazioni internazionali ad intervenire in Ucraina vi è stata l’Osce. Attualmente è l’unica presenza internazionale che opera in tutta l’Ucraina, soprattutto nel sud est del paese, dove sono ancora in corso i combattimenti tra i ribelli filorussi e i militari ucraini. Fin dal Marzo 2014 è presente in Ucraina attraverso il programma SMM (Missione di Monitoraggio Speciale) che ha tra i coordinatori Alexander Hug. Sul sito internet (che si occupa di diritti umani e sicurezza), grazie anche al lavoro del Comitato Helsinki Olanda per i diritti umani, Alexander Hug ha descritto il lavoro dell’Osce nella regione, ricordando che proprio grazie al programma SMM le autorità internazionali riuscirono ad avere l’accesso facilitato di alcuni esperti sul luogo divenuto tristemente celebre a seguito dell’ abbattimento dell’aereo di linea della Malaysia Airlines. Fin dall’inizio della missione, Marzo 2014, l’SMM ha istituito una considerevole rete di contatti in Ucraina divenendo “gli occhi e le orecchie della comunità internazionale in Ucraina”. Stando ai continui rapporti elaborati dai paramilitari separatisti, il contesto geografico è in continua variazione. Le forze filorusse, riportano i rapporti consegnati, hanno guadagnato campo d’azione riuscendo a sequestrare, a fine 2014, l’aeroporto della città di Luhansk. L’Osce ha una presenza permanente nella città di Donetsek, stabili contatti con la città di Luhansk e analizzando le relazioni degli esperti durante le ultime settimane del 2014, la situazione nella zona risulta poca chiara, in quanto non si sono più registrati combattimenti né presenza dei ribelli filorussi. Il contesto continua ad essere delicato e tra le varie problematiche affrontate vi è anche quella della sicurezza del personale Osce nella regione. La priorità della Missione è quella di garantire a tutti i componenti dello staff un livello di sicurezza elevato. Sono recenti i sequestri, nella regione, del personale dell’organizzazione trattenuti come ostaggi. La congiuntura varia di ora in ora, dichiarano i componenti della missione SMM, ciò richiede non solo un’attenta pianificazione del monitoraggio in corso ma anche un continuo controllo delle informazioni, spesso discordanti, provenienti sia dai ribelli filorussi che dalle truppe governative ucraine. L’azione di controllo dell’Osce ha luogo sia con la collaborazione del governo ucraino che con i paramilitari separatisti, evitando che una delle parti non sia a conoscenza dell’ubicazione dello staff durante lo svolgimento dei lavori di monitoraggio e per evitare incidenti diplomatici. I contatti sono frequenti con entrambi le parti e tale rapporto rassicura gli esperti che si muovono sul territorio. Infatti, se un gruppo di monitoraggio viene intercettato o fermato da un posto di blocco, si è a conoscenza con chi parlare per sbloccare la situazione. La missione SMM dell’Osce va valorizzata e conosciuta poiché il lavoro di transizione verso la democratizzazione e la smilitarizzazione della zona è il primo passo per il mantenimento della pace e per porre fine alla continua violazione dei diritti fondamentali dei cittadini, a partire dalle condizioni dei Tatari della Crimea. http://www.valianti.it/ Chi e cosa si cela dietro l'immigrazione 16 Aprile 2009: di Legionario su primopiano, 965 letture Di Giuli Valli, da: «Il vero volto dell’immigrazione: la grande congiura contro l’Europa», 1993 Un primo consistente indizio per sapere dove andassero cercati i meno occulti promotori di questo grandioso fenomeno ci fu offerto da un articolo apparso sul quotidiano «Alto Adige» del 10 agosto 1989, dal titolo: «Ondata di immigrati africani». Vi si riferiva l’intervista col presidente degli ambulanti trentini aderenti alla «Confesercenti», il quale, tra l’altro, dichiarava: «si calcola che nei prossimi anni, 30-40 milioni di africani verranno in Europa, e i governi centrali, su direttive dell’ONU, (il corsivo è nostro), hanno affidato a Italia, Spagna e Grecia il peso maggiore. Sembra che l’Italia, nella spartizione internazionale, debba farsi carico dell’immigrazione senegalese, e si stima in 5 milioni la dimensione numerica: quasi una persona ogni dieci italiani» Dunque l’ONU veniva indicata come la centrale da cui è partito l’ordine che è alle origini di questa vicenda e le si attribuiva un preciso programma che non potrà non incidere in maniera sconvolgente sul prossimo avvenire del popolo italiano, i cui destini, al di là dell’amena tavoletta della sovranità popolare, evidentemente sono in mano di lontani e sconosciuti padroni. Successive ricerche confermano che la pista era quella giusta: l’Italia, con la legge 10 aprile 1981 n.158, ha ratificato la convenzione n.143 del 1975 della Organizzazione Internazionale del Lavoro (uno degli organi dell’ONU), recante il titolo: «sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti». Da qui si vede che già almeno dall’ormai remoto 1975 si venivano addensando sul capo degli ignari italiani fosche nubi foriere di tempesta. In obbedienza a quei patti, il Governo nazionale proponeva e il Parlamento approvava la legge 30.XII.1986 n.943 che sin da allora garantiva (art.1) «a tutti i lavoratori extracomunitari parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani», nonché il godimento “dei servizi sociali e sanitari” e il diritto “al mantenimento dell’identità culturale, alla scuola e alla disponibilità dell’abitazione”. E all’art.2 prevedeva, proprio come riferito dal citato articolo dell’”Alto Adige”, “accordi bilaterali e multilaterali previsti dalla convenzione dell’OIL n.143 del 24 giugno 1975…per disciplinare i flussi migratori» Si aprivano, insomma, fin da allora – in nome di una convenzione dell’OIL, e cioè di un istituto specializzato dell’ONU, le porte dell’immigrazione, nonostante che ancora, malgrado le statistiche del CENSIS, il fenomeno non fosse neppur lontanamente così evidente, come è diventato oggi. E, in realtà, l’Italia non era affatto allora, così come non lo è a tutt’oggi, un paese che possa ragionevolmente attirare un consistente flusso immigratorio: di modesta estensione, montagnosa, povera d’acqua e di materie prime, densamente popolata, con grave penuria di alloggi già per i suoi abitanti, grazie anche a mille pastoie burocratiche che ostacolano le nuove costruzioni e persino il restauro di quelle già esistenti, con ancora molti suoi figli emigrati all’estero e una lieve disoccupazione e sotto-occupazione interna, con servizi pubblici e sanitari largamente e spesso drammaticamente inefficienti, e insufficienti anche per la sola sua popolazione, davvero non si vede come potrà fronteggiare i mille problemi posti dalla valanga extracomunitaria. Invero, come si è visto e si ribadisce, per uno straniero senza arte né parte, le principali offerte di lavoro provengono dalla malavita organizzata, sempre bisognosa di manovalanza a buon mercato, e dall’ambiente dello sfruttamento della prostituzione, a meno di non volersi accontentare di un lavoro nero senza garanzie, della mendicità o di un misero commercio ambulante che, dalla mendicità vera e propria ben poco si distingue. Ma è facile capire come anche queste vie siano anch’esse facile anticamera al delitto! Cosa, dunque, era necessario fare per mettere in moto verso l’Italia l’immensa ondata di spiantati che la sta sommergendo? Occorreva una duplice disinformazione: una internazionale, volta ad ingannare gente ignorante o, comunque, non al corrente della nostra realtà sociale, presentando, con capillare propaganda, l’immensa menzogna di un’Italia simile a un nuovo Eldorado, un vero e proprio paese di Bengodi; e una all’interno dell’Italia stessa, tendente a fare apparire come un frutto ineluttabile della storia quello che, invece, è l’effetto della cinica e meditata orchestrazione. A tal fine, con ammirevole improntitudine, si osa parlare di imprescindibili esigenze di mano d’opera nel nostro mercato e di carenza delle nostre forze lavorative, ma su ciò rimandiamo al lettore a quanto si è già detto al capitolo VIII della prima parte di questo studio. (…) In tutto questo piano, la parte dell’ONU è primaria ed evidente. Infatti, la legge Martelli esordisce (art.1 comma 1) presentandosi come emanata in attuazione della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, che fu appunto promossa dall’ONU, e prosegue riconoscendo a un ufficio della stessa ONU – l’ACNUR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – importanti poteri di ingerenza sulla immigrazione extraeuropea in Italia. Che poi si tratti di un piano su scala soprannazionale, preciso e programmato, lo si ricava anche dal fatto che da più parti si specificano i numeri e i tempi dell’invasione, così come abbiamo visto fare sulle colonne dell’«Alto Adige» del 10 agosto 1989. Ad esempio anche su un articolo de «Il Giornale» del 9 novembre 1989, intitolato: «L’Italia deve affrontare la mina vagante degli immigrati di colore», si legge che, entro 20 anni, gli immigrati dovrebbero essere 5 o 6 milioni. Ci si domanda come sarebbe possibile formulare previsioni del genere se si trattasse di un fenomeno spontaneo, imprevisto e imprevedibile, e non di un piano controllato, studiato a tavolino. Similmente il Cardinale Carlo Maria Martini, dando prova di sorprendenti carismi profetici, intervenendo nel corso di una mattinata di «studio e riflessione» sul tema: «Per una società dell’accoglienza verso un’Europa multirazziale», tenuta in preparazione della IX giornata della solidarietà, proclama nella sua diocesi, preconizza, a quanto riferisce Daniela Bozzoli sulle colonne di «Avvenire», che il fenomeno toccherà la sua punta massima nei prossimi vent’anni. (…) Dal libro: «Il vero volto dell’immigrazione: la grande congiura contro l’Europa», Editrice Civiltà, 1993 -------------------------------------------------------------------------------Nel 2050 ci saranno 230 milioni di migranti. E' il dato che emerge dal Rapporto 2003 dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. I migranti regolari nel mondo sono 175 milioni, un 3 per cento della popolazione mondiale. Di questi 56 milioni vivono in Europa, 49,7 in Asia e 40,8 in America del nord, le zone del mondo con il più alto numero di persone immigrate solo nel 2000. Fonte: "Il Nuovo", 1 luglio 2003 °°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://www.comedonchis ciotte.org/site/index.php SUGLI IMMIGRATI Postato il Domenica, 05 aprile DI GIULIETTO CHESA facebook.com Caro Giulietto, resto sgomento e affranto davanti all'ennesima violenza compiuta da un cittadino egiziano ai danni di una ragazza italiana: il fatto, riportato sul Fatto Quotidiano online risale a qualche anno fa, ma solo ora è stato identificato il colpevole, che nel frattempo è stato arrestato per rapina e ferimento di una persona. È di qualche giorno fa la notizia della morte atroce di un ragazzo di Fermo, assassinato da un marocchino ubriaco e di casi del genere è piena la cronaca locale, pertanto non ritengo opportuno riportare altri esempi. Ti prego, non confondermi per un razzista o uno xenofobo, sono consapevole che crimini del genere vengono compiuti giornalmente anche da italiani, ma quel che mi chiedo è: perché dobbiamo prenderci carico dei peggiori sbandati e criminali che bussano alle nostre porte? Non sarebbe utile accertarsi preventivamente se coloro che entrano non sono dei pregiudicati e avranno di che sostenersi lecitamente in Italia? Perché la sinistra post-comunista italiana (sel, civati, ecc.) addita come razzista e xenofobo chiunque osi porre il problema della sicurezza e dell'immigrazione? C'è un interesse secondo te a lasciare che il panico e il timore, legati a tali fenomeni, dominino le nostre vite o è semplice indifferenza della casta politica verso problemi che non la riguardano? Sicuramente il rallentamento dei tribunali e il sovraffollamento delle carceri rende più facile il decorso della prescrizione e l'applicazione di amnistie, cose che ai nostri politici di certo non dispiacciono, ma non crei che tutti questi crimini servano a mantenere anche un continuo stato di tensioni che in passato veniva perseguito con la strategia stragista? Con stima e affetto, cordiali saluti Andrea Ceccaoroni Caro Ceccaroni, un egiziano violentatore, un marocchino ubriaco e assassino... l'elenco può diventare lungo. Se poi aggiungessimo i violentatori italiani e gli assassini italiani, allora diventerebbe sterminato. La questione preliminare è sul come vengono date le notizie: l'aggiunta dell'aggettivo (egiziano, marocchino, tunisino etc) è quella che determina il tuo "sgomento" e quello di migliaia, forse milioni di altri lettori e spettatori. Ma è questa la realtà? Io credo che questa sia solo una pallida immagine, per giunta distorta, della realtà. Ho diverse risposte da proporti. Una è di carattere pratico. Noi possiamo anche non "prenderci carico" di quelli che arrivano. Possiamo anche, per esempio, lasciarne annegare a migliaia. Ma pensi davvero che li fermeremo? Io penso che quello che sta già accadendo si moltiplicherà per dieci , e per cento, e poi per mille. E' facile prevederlo. Siamo stati noi occidentali, la nostra economia, perfino la nostra ricchezza, a creare il problema. Ora non sappiamo come fermarlo, ma se tu promuovi il libero movimento dei capitali, allora devi mettere in conto che anche gli uomini in carne ed ossa cominceranno a muoversi. Ci mettono solo un po' più di tempo, perché sono di carne ed ossa e non sono dei bit di computer, ma si muovono e verranno dove c'è lavoro, dove si mangia e si beve acqua pulita, dove si vive (per ora) come loro sognano di vivere guardando le nostre televisioni sui loro telefonini, che noi gli abbiamo venduto per quattro soldi. E' solo l'inizio di un processo immenso. Niente da fare. Fermarlo non sarà possibile. E loro non sono preparati ad affrontare la vita qui da noi. Si portano dietro la loro storia. E nemmeno noi siamo preparati a stare fianco a fianco alla loro storia, la loro religione, le loro abitudini. Non lo sono nemmeno i nostri leader, in gran parte ignoranti e superbi, che non sanno guardare dieci metri e un anno in avanti. Fossimo stati tutti, loro e noi, più intelligenti, e più lungimiranti, ci saremmo preparati ad accoglierli (visto che ne abbiamo bisogno). Il problema è grande, ne sono perfettamente consapevole. Ma non può essere risolto che con un programma di vasto respiro, che richiede tempo, soldi (tanti) e cultura. A cominciare dalla nostra, che è ai minimi livelli. Pensare di risolverlo con misure repressive è una assoluta illusione. E bisognerebbe che i giornali e i giornalisti non contribuissero ad attizzare odi e inimicizie: ce n'è già abbastanza. Ovvio che i primi che arrivano siano i più spregiudicati e perfino violenti. E sono i nostri criminali che, spesso fanno loro scuola. Si ripete quello che accadde con l'emigrazione europea in America. Ma la maggioranza di quelli che arrivano, la stragrande maggioranza, è fatta di disperati che vogliono solo vivere meglio, o semplicemente vivere. E' difficile, per loro e per noi. Ma noi abbiamo un vantaggio: siamo più ricchi e anche più prepotenti di loro. Sarebbe già un grande passo avanti se facessimo la nostra parte per accoglierli meglio, e per condividere con loro una microscopica parte di quello che abbiamo. Alla lunga, con un po' di pazienza, con la giusta severità delle leggi, con una goccia di solidarietà (parola ormai sconosciuta dalle nostre parti) , vivremmo meglio noi, e anche loro. Giulietto Chiesa Fonte: www.facebook.com Link: https://www.facebook.com/giuliettochiesa/posts/10153140131085269 °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://www.dagospia.com/ 23 mar 2015 17:50 MODA SCHIAVISTA - “GAP”, “H&M”, “ADIDAS”: TUTTI MARCHI CHE SI FANNO CUCIRE I VESTITI IN CAMBOGIA PER 50 CENTESIMI L’ORA, DA OPERAI CHE SVENGONO IN MASSA E BAMBINI DI 12 ANNI TRATTATI AL PARI DEGLI ADULTI Usare la toilette una o due volte nelle dieci ore di lavoro, fa molto arrabbiare i capi. Le donne incinte vengono licenziate. Dal 2011, ogni anno, sono svenuti dai 1.500 ai 2.000 operai, spesso a gruppi di 100, per mancanza di aria, cibo e riposo... Patrick Winn per “Global Post” Nessuno si aspetta un paradiso dentro una fabbrica cambogiana che sfrutta i lavoratori ma il nuovo rapporto del “Human Rights Watch” rivela che le condizioni non sono solo pessime, ma violente in modo criminale. Gli Stati Uniti sono la destinazione top dei vestiti “Made in Cambodia”, cuciti per marchi come “Gap”, “Marks & Spencer” e “Adidas”. Catene come “H&M” possono vendere le felpe a 25 dollari perché le donne cambogiane cuciono per 50 centesimi all’ora. Le fabbriche cambogiane sono notoriamente sgradevoli, calde e rumorose. Dal 2011, ogni anno, sono svenuti dai 1.500 ai 2.000 operai, spesso a gruppi di 100. Le cause sono la mancanza di aria e di ventilazione, i fumi tossici, la poca alimentazione e l’assenza di riposo. E quando hanno fatto sciopero per chiedere un aumento, la polizia ha sparato (12 morti solo l’anno scorso). i bambini lavorano nelle fabbriche cambogiane Mezzo milione di cambogiani lavora in questo settore, perché è un’alternativa migliore alla sfiancante raccolta di riso. Gli abusi sono rampanti e non rari, come dicono le aziende. I bambini che non hanno compiuto i 15 anni non dovrebbero lavorare, secondo la legge cambogiana, invece cuciono dall’età di 12 anni per i marchi internazionali. Secondo il rapporto, in una fabbrica che rifornisce “H&M”, 20 dei 60 operai sono bambini. Lavorano anche di notte e tanto quanto gli adulti. Le sarte sono quasi tutte donne (al 90%) e, se incinte, vengono immediatamente licenziate. La donna incinta è più lenta, meno produttiva e si prende troppe pause per andare in bagno. Molte di loro indossano gonne lunghe e maglie larghe per nascondere la gravidanza il più possibile. Una delle fabbriche accusate di discriminazione femminile fornisce i vestiti a “Gap”. Usare la toilette una o due volte nelle dieci ore di lavoro, fa molto arrabbiare i capi. Dalle casse esce una voce che urla: «Non andate in bagno, dovete essere più veloci a cucire». Alcune fabbriche promettono soldi extra a chi produce un numero eccezionale di magliette. Gli operai si ammazzano per guadagnare quei 50 o 75 centesimi in più, e alla fine, spesso, non vengono nemmeno retribuiti. L’obiettivo per farsi pagare lo straordinario è di 2000 magliette in una giornata di dieci ore lavorative. Se non producono abbastanza velocemente, gli operai vengono mandati a casa e sostituiti. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://www.ilfattoquotidiano.it/ Divario Nord-Sud: tutto iniziò con l’Unità d’Italia. L’incapacità ‘genetica’ non c’entra di Alessandro Cannavale | 25 marzo 2015 Ancora una volta, gli scritti dei grandi meridionalisti del passato trovano un riscontro perfettamente congruente in studi e ricerche attualissimi. Francesco Saverio Nitti, politico lucano e grande esperto di finanze, ne “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897” sostenne che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote “minori debiti e più grande ricchezza pubblica”, fino a ricordare che nel primo periodo si ebbe un notevole “esodo di ricchezza dal Sud al Nord”. Dunque, al contrario di quanto – purtroppo – si continua a leggere e dire a sproposito circa l’incapacità – persino genetica – delle genti del Sud di produrre sviluppo e progresso, lo scenario senza veli e pregiudizi è ben diverso: gli Stati preunitari versavano in condizioni tra loro affini, se non congruenti. La grande soluzione di continuità che innescò la creazione e l’accrescimento del divario tra Nord e Sud del paese furono proprio il processo di unificazione risorgimentale e, soprattutto, le successive politiche in materia di industrializzazione e infrastrutturazione. In “La finanza italiana e l’Italia meridionale”, ancora Nitti: “Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici”. E questa è, come si suol dire, storia nota. Cosa oltremodo interessante è scoprire come recenti ricerche condotte dai ricercatori Vittorio Daniele (UniCz) e Paolo Malanima (Cnr) abbiano portato nuovi riscontri scientifici a quanto sosteneva Nitti. Un loro articolo molto interessante del 2013, riporta una indagine accurata inerente la nascita e l’evoluzione delle disparità regionali nel nostro paese. Il divario economico tra Nord e Sud come noi lo conosciamo nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861 tutto il paese unificato presentava prevalentemente una economia preindustriale (64% di lavoratori in campo agricolo, la restante parte suddivisa tra industria e servizi). I due scienziati riportano una assenza di differenze significative nello sviluppo industriale, per tutto il primo decennio successivo all’unificazione. Il grafico che riporto, (con il consenso degli autori), mostra chiaramente come il numero dei lavoratori impiegati nell’industria fosse sopra la media nazionale in Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Già nel grafico che fotografa la situazione del 1911 si assiste alla formazione del “triangolo industriale” in Nord-Ovest. Nel 1891, solo il 19% dei lavoratori era impiegato nell’industria (21% al Nord e 16% al Sud). Dunque, il divario industriale era ancora esiguo su base territoriale. Vi erano regioni più e meno industrializzate in tutte le zone del Paese. Nell’articolo viene specificato che la prima grande ondata di emigrazione coinvolse oltre 5 milioni di cittadini italiani provenienti prevalentemente da Veneto, Venezia Giulia e Piemonte, (“relatively underdeveloped areas of the North”). Dopo il 1900, prevalse il numero di emigranti provenienti dal Sud. La concentrazione di industrie nel Nord del Paese si accentuò nel periodo tra le due Guerre. I dati relativi al reddito pro capite sono congruenti con quelli inerenti l’occupazione nell’industria. L’immagine di sopra mostra come, rispetto alla media nazionale, il Gdp (cioè Pil) su base regionale era distribuito in modo diverso da come avremmo potuto immaginare: al Sud solo la Calabria e la Basilicata presentavano un Pil pro capite inferiore alla media nazionale, nel 1891. L’ultima immagine che ho tratto dal lavoro di Daniele del 2013, mostra in modo palese come la situazione sia drammaticamente peggiorata in termini di polarizzazione “geografica”, nel corso dei decenni. A 150 anni dall’unificazione, lo scenario è quello che si legge, senza bisogno di commenti, nel grafico sottostante. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://www.comedonchisciotte.o rg/site/index.php I VENTENNI ? MA CHE CREPINO DI FAME ! LA GERONTOCRAZIA DISTRUGGERA' IL MONDO Postato il Martedì, 24 marzo FONTE: RT.COM Il Regno Disunito ovvero, i giovani britannici istruiti che stanno peggio della generazione dei loro genitori La "forbice" dei guadagni salariati tra la generazione dei giovani Inglesi e quella dei loro genitori si va allargando dall'inizio della Crisi, per cui i giovani ventenni di oggi stanno soffrendo la peggiore stretta salariale di qualsivoglia gruppo di età, secondo uno studio recente molto approfondito. Questi ventenni sono i meglio istruiti di tutti gli altri gruppi d'età secondo la London School of Economics, ma a dispetto di ciò, il grafico demografico registra il peggior crollo in impieghi a tempo pieno, il più grande tasso di disoccupazione e pure il peggior rateo di salario medio di qualsiasi altro gruppo d'età. Conteggiando secondo il costo della vita reale il salario medio dei giovani adulti nel 2012-13 è stato di quasi un quinto più ridotto rispetto ai cinque anni precedenti. I ricercatori della LSE centro per l'analisi della Emarginazione Sociale ha studiato la diseguaglianza nel RU dal 2007 al 2013, in pratica dall'inizio alle conseguenze perduranti della Crisi. Hanno scoperto che la Crisi e le sue conseguenze hanno influito diversamente sui vari gruppi d'età. Lo studio guidato dal prof. John Hills scopre pertanto che i giovani d'oggi stanno assai peggio della generazione dei loro genitori. Ancora verso il 2010/2012 i guadagni totali di una famiglia tra i 55-64 erano cresciuti fino a £425,000, ma son caduti sui 60,000£ per il gruppo da 25 a 34 anni. Per chiudere questo gap enorme di 365,000£ tra le generazioni i giovani dovrebbero "risparmiare o versare contributi pensionistici fino a 33£ al giorno per i prossimi 30 anni". Intervistato dal Guardian Hills ha detto: "per richiudere la forbice si dovrebbe risparmiare fino a 12,000£ l'anno, cosa assai improbabile per famiglie che guadagnano sui 24.000£ che devon coprire tutte le spese per vivere..." Questa immane perdita di guadagni è capitata proprio alla generazione che ha più diplomi e lauree di tutte le precedenti, infatti nel 2013 oltre il 30% degli uomini e donne sui 30 anni avevano un titolo di studio superiore. A dispetto di tutto ciò, questi giovani adulti hanno provato sulla loro pelle un crollo mai visto di salario all'ora o paga settimanale. I valori medi di paghe degli attuali trentenni sono caduti di un 10 % rispetto ai trentenni di 6 anni orsono. Per il gruppo 16-19 anni il calo è invece del 30%! In contrasto a ciò, i già alti salari dei neo-sessantenni hanno visto una crescita del 10% nello stesso periodo. I ricercatori della LSE concludono che il benessere futuro degli attuali giovani sarà determinato da come il flusso di denaro si passerà tra le generazioni. "La cosa principale sarà il grado di benessere delle generazioni anziane, e a chi verrà passato in seguito". "Però la ricchezza al presente è distribuita moltissimo inegualmente, per cui il modo in cui verrà trasmessa come eredità o assistenza finanziaria ai giovani che sono così stritolati dal calo di guadagni sarà anche molto ineguale". Questa disuguaglianza formerà "una porzione cruciale del retaggio sociale per qualunque governo venga eletto, o rieletto, nelle prossime elezioni". Duncan Exley, direttore del Fondo per l'Eguaglianza sociale, dice che il rapporto indica la necessità di una azione governativa. " Il rapporto mostra un aspetto cruciale delle disuguaglianze economiche che rendono il RU di fatto un Regno Disunito...infatti oltre ai gaps tra le generazioni qui dimostrati, il nostro Paese ha pure uno dei più alti divari di guadagni tra generazioni tra Paesi sviluppati." "A meno che il governo non prenda la priorità nazionale di ridurre questa disuguaglianza, sarà destinato a guidare un Paese indebolito da spaccature sociali ed economiche." Fonte: http://rt.com Link: http://rt.com/uk/240097-young-poor-generation-inequality/ °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://www.morasta.it/ “Non sono stupido”, un lobbista della Monsanto in tv si rifiuta di bere l’erbicida che “non vi fa male” By mora on 30 marzo 2015 IL GLIFOSATO, L’ERBICIDA DIFESO DAL LOBBISTA, È CLASSIFICATO COME PROBABILE CANCEROGENO DALL’AGENZIA PER LA RICERCA SUL CANCRO “Fate come dico, non come faccio”, sembra essere il messaggio di un lobbista della Monsanto che pur sostenendo a parole che l’erbicida Roundup della Monsanto è totalmente sicuro per gli essere umani, si è rifiutato di berne un bicchiere nel corso di un’intervista con la tv francese. “Non sono stupido” , il suo commento.. Patrick Moore, un lobbista della Monsanto, in un’intervista a Canal + sostiene che il glifosato, un ingrediente utilizzato negli erbicidi come il Roundup (marchio che produce la società) non è dietro l’aumento dei tassi di cancro in Argentina. “Potete berne un litro e vi non farà male”, insiste Moore. L’intervistatore prende subito la palla al balzo e gli offre un bicchiere di pesticida. Il lobbista allora risponde “Sarei felice, so che non mi farebbe male, ma no”. L’intervistatore allora insiste e a quel punto Moore risponde che non era “stupido”. “Allora, è pericoloso?”, prosegue l’intervistatore. Ma Moore sostiene che il Roundup è così sicuro che “la gente cerca di suicidarsi” bevendolo, e “fallisce regolarmente.” “Ci dica la verità, è pericoloso”, insiste l’intervistatore. “Non è pericoloso per l’uomo,” osserva Moore. “No, non lo è.” “Allora, è pronto a berne un bicchiere?” continua l’intervistatore. “No, io non sono un idiota,” risponde Moore con aria di sfida. “Mi intervista sul riso dorato, questo è quello di cui sto parlando.” A quel punto, Moore dichiara che “l’intervista è finita.” “Questo è un ottimo modo per risolvere le cose,” scherza l’intervistatore. “Str..” borbotta Moore mentre si precipita fuori dal set. La cosa più scioccante è che prima di diventare un lobbista per le organizzazioni nucleari e l’ingegneria genetica, Moore, biologo di carriera, è stato ambientalista per Greenpeace. Recentemente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che il glifosato è classificato come possibile cancerogeno per l’uomo. La dichiarazione si basa su analisi condotte in diversi paesi. Tratto da: http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=11088 Fonte: informarexresistere °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://temi.repubblica.it/micro mega-online/ L’educazione privatizzata. Anatomia della “Buona scuola” Dall'attacco agli insegnanti e ai loro diritti, trasformati in esecutori di ordini stabiliti altrove, all'aziendalizzazione della scuola, orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare. Un'analisi del “nuovo discorso” neoliberista sull'educazione, che dagli anni ’80 di Reagan passa per Tony Blair, fino all’impostazione data da Renzi alla sua riforma. di Marco Magni Le premesse storiche Negli anni ’60 e ‘70, i governi occidentali vedevano nelle riforme scolastiche una delle leve della costruzione del welfare state e della relativa base di consenso; dagli anni ’80, considerano le riforme scolastiche un modo per infondere un’“anima” all’“economia sociale di mercato” (o, se vogliamo dirlo in termini più semplici, al “neoliberismo”). Possiamo, quindi, inserire la “Buona scuola” in una genealogia, che inizia proprio dagli anni ’80. Il documento che segna la svolta nelle politiche scolastiche, nel quadro dell’affermarsi dell’egemonia liberista, è “A Nation at Risk”, rapporto presentato dal segretario statunitense all’istruzione di Reagan, Bell, nel 1983. Dalla sua lettura emergono diversi elementi di un’impostazione pedagogica conservatrice (l’invocazione di maggiore disciplina e maggior tempo dedicato allo studio) ma vengono toccati anche dei nervi scoperti del sistema scolastico americano, soprattutto l’eccessiva frammentazione del curricolo, che ha fatto delle high schools un vero e proprio “supermarket educativo” in cui si può studiare di tutto, dalla criminologia all’economia domestica, ma senza alcuna definizione chiara del cosiddetto “curricolo di base”. La stessa Diane Ravitch, leader intellettuale dell’odierno movimento statunitense contro il “teaching to the test” e la privatizzazione dell’istruzione, promossi dalle leggi Bush (No Child Left Behind) e Obama (Racing the Top), considera “A Nation at Risk” un punto di riferimento positivo per la costruzione di un’alternativa all’esistente, fondata sul rafforzamento delle basi culturali del “curricolo” delle scuole Usa, quindi su una maggiore unitarietà dei saperi e dei programmi di studio e sulla centralità del “pubblico”. “A Nation at Risk” diede vita ad un importante dibattito internazionale, negli anni ’80, sulla “qualità dell’istruzione”, cui diedero impulso soprattutto i ricercatori dell’Ocse e di cui si fece portavoce, qui in Italia, Norberto Bottani. La scuola di massa aveva tradito le sue promesse, impoverendo la qualità dell’istruzione. Il rimedio proposto da Bottani e dagli altri esperti dell’Ocse non era la scuola élitaria d’antan, bensì la “liberazione” della scuola da funzioni considerate improprie di socializzazione, di costruzione delle identità degli adolescenti, di sviluppo delle competenze relazionali e affettive, che si erano venute sedimentando a partire dalle riforme “inclusive” ed espansive degli anni ‘60. La tesi era, in pratica, che per rendere la scuola più “accogliente” ad un pubblico più vasto, si era finito per annacquarne la funzione culturale. La scuola avrebbe dovuto tornare alla sua funzione principe, la formazione culturale dell’individuo. Ma l’aspetto essenziale di “A Nation at Risk”, e anche la ragione per cui può essere considerato il punto di riferimento di un “nuovo discorso” che lega tra loro scuola ed economia sociale di mercato, è un altro. Esso si presenta sin dal titolo, e sta nel fatto che la motivazione fondamentale del documento era costituita dall’allarme per la crescente fragilità dimostrata dall’economia americana di fronte alla concorrenza giapponese. La novità politica introdotta da “A Nation at Risk”, consisteva nell’imputazione della causa fondamentale del rischio del “sorpasso” giapponese nei confronti dell’economia Usa alla scarsa qualità dell’istruzione ricevuta dai giovani americani. In realtà, l’America possedeva un precedente, in materia: il lancio dello Sputnik sovietico, nel 1957, aveva già determinato la mobilitazione degli esperti dell’istruzione per l’individuazione di riforme scolastiche che rilanciassero gli Stati Uniti nella difesa del proprio primato tecnologico e scientifico, essenziale ai fini della Guerra fredda. La retorica del capitale umano Possiamo individuare, quindi, alcuni assi portanti del “nuovo discorso” governativo sulla scuola, che dagli anni ’80 di Reagan passa per Tony Blair, quindi all’impostazione data da Renzi alla sua “buona scuola”: a) innanzitutto, la premessa soggettivista connessa alla teoria del “capitale umano”. L’istruzione costituisce il fattore determinante, la “variabile indipendente”, della crescita economica. La competitività di una nazione dipende dalla qualità del suo “capitale umano”. Al di là delle implicazioni individualistiche che la nozione di “capitale umano” denota nei suoi stessi fondamenti (l’individuo-impresa che amministra strategicamente il capitale costituito dalle sue competenze e dai suoi talenti, come ha messo in luce Foucault in “Nascita della biopolitica”), l’uso politico di tali affermazioni da parte dei governi occidentali ha assunto anche un’altra valenza: l’obiettivo della crescita di qualità dell’istruzione (vera o presunta che sia) consente di eliminare dall’inventario delle soluzioni possibili riforme di tipo redistributivo o interventi politici finalizzati alla creazione di nuova occupazione. La teoria del capitale umano, in fondo, altro non è se non una reinterpretazione della massima dell’economia neoclassica (Senior) secondo cui “l’offerta crea sempre la propria domanda”; b) la costruzione, al di sopra del primo elemento, di una retorica, o, se vogliamo, di un “appello morale” che assume come posta in gioco l’educazione. Altri hanno già compreso politicamente il valore simbolico della scuola, e lo hanno sfruttato politicamente. Il precedente, rispetto alla retorica renziana, è il Tony Blair dello slogan: “Education, education, education”. L’impegno per la scuola diviene fattore di costruzione del consenso e della “visione” dei governanti poiché chiama idealmente tutti a stringersi nello sforzo di investimento sul futuro. L’appello si rinforza grazie all’identificazione emotiva tra l’investimento della famiglia sul futuro dei propri componenti e l’investimento politico e sociale su scala sistemica. Riagganciandosi ad una tradizione di lunga durata, che riguarda la storia della scuola statale ma risale probabilmente ai suoi precedenti ecclesiastici, a S. Filippo Neri o alle “piccole scuole” primo-settecentesche di Giovanni Battista La Salle, la retorica governativa, nel mentre ribadisce la connotazione morale dell’educazione come “missione”, la utilizza anche per donare una qualificazione morale a se stessa ed al proprio indirizzo politico generale. Ma, come si diceva all’inizio, nel nostro tempo si tratta precisamente di infondere, o inventare, un’anima, al progetto di un’economia sociale di mercato, ovvero ad una società individualistica e competitiva fondata sull’autoimprenditorialità e sulla concorrenza di mercato. Il dispositivo di legge Possiamo, adesso, scendere nei particolari. Il “lavoro”, in senso sia simbolico che pratico, costituisce un elemento portante nel Ddl presentato pochi giorni or sono. Un elemento dal contenuto fortemente simbolico è, senza dubbio, l’inedito allargamento dell’alternanza scuola-lavoro anche ai licei (per un monte-ore non inferiore a 200 ore nell’arco del triennio). Non si tratta, leggendo il testo di legge, di una sorta di “servizio del lavoro” obbligatorio per i liceali, ma solamente di un’opzione offerta alle scuole, previa individuazione delle aziende disponibili sul territorio, nell’ambito dell’elaborazione del loro “Piano triennale dell’offerta formativa”. Se, chiaramente, la conoscenza diretta della realtà del mondo del lavoro, per gli adolescenti, non è certo un male, l’articolato della legge è segnato tuttavia certamente da un tratto ideologico: dal momento in cui un’alternanza scuola-lavoro non è finalizzata, al liceo, scuola istituzionalmente indirizzata allo sbocco negli studi universitari, ad “imparare un mestiere”, allora l’alternanza scuola-lavoro si presenta come una sorta di iniziazione alle dinamiche del mercato e dell’azienda. Si tratta, insomma, di una risposta politica alla tesi per cui le difficoltà occupazionali dei giovani dipenderebbero da fattori psicologici, dall’essere troppo “bamboccioni” o “choosy” nella scelta delle occupazioni. Tra l’altro, le ultime esternazioni del ministro del lavoro Poletti, secondo cui “tre mesi di vacanza sono troppi”, perciò tutti i giovani dovrebbero svolgere ogni anno un periodo estivo di formazione-lavoro (non si capisce in che modo, magari con un “servizio di leva” del lavoro), sembra dichiarare in modo esplicito qual è l’ispirazione programmatica (e “morale”) di questo aspetto del disegno di legge. L’impatto più rilevante sul lavoro, il ddl “La Buona scuola” lo esercita, indubbiamente – come emerge da tutti, o quasi, i commenti a caldo – sul lavoro docente. Se la riconsiderazione della “carriera” mediante l’attribuzione “meritocratica” degli scatti di anzianità al solo 66% dei docenti di ogni istituto, presente nelle linee guida del settembre 2014, è stata eliminata, e il premio discrezionale alle “eccellenze” (massimo il 5% del corpo docente) rasenta il ridicolo, tuttavia viene inserito un articolo che prefigura una vera e propria ridefinizione dello statuto del lavoro docente: tutti i nuovi assunti verrebbero inseriti in “Albi provinciali” (già presenti nella Legge Aprea, non approvata nella scorsa legislatura per le forti opposizioni del mondo della scuola) dai quali i presidi sceglierebbero i docenti più adatti all’”offerta formativa” del proprio istituto. Questi docenti non avrebbero una cattedra definitiva, ma un incarico triennale, rinnovabile dal preside stesso. Così come avvenuto nella legislazione sul lavoro degli ultimi decenni, compiutasi con il Jobs Act, i nuovi assunti godono di minori tutele e minori diritti, determinando un dualismo che indebolisce la posizione complessiva e il potere contrattuale dei lavoratori tutti. L’insegnante: deriso ma resiliente Per comprendere pienamente il senso di tale provvedimento, credo occorra sprovincializzare lo sguardo, contestualizzarlo in un quadro internazionale, inserendolo dentro un processo oramai ventennale: all’interno dell’attacco allo statuto ed al potere contrattuale del lavoro, l’attacco al lavoro degli insegnanti. La riforma italiana viene dopo le riforme inglesi, statunitensi, neozelandesi, australiane, greche e, più recentemente, messicane, che hanno come loro tratto comune la crescita della subordinazione degli insegnanti rispetto al controllo centrale del governo e del “management” scolastico. Tutte si sono venute realizzando all’interno di un programma di trasformazione dell’assetto dell’educazione che la sociologa britannica Sharon Gewirtz ha definito con la felice espressione di “managerial school”, una scuola orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare. Sin dall’Education Act della Thatcher, dell’88, che rappresenta il prototipo delle riforme neoliberiste dell’educazione, gli insegnanti sono divenuto oggetto di un “messaggio derisorio” – secondo l’espressione del sociologo Stephen Ball – teso a imputare loro le responsabilità maggiori della crisi della scuola di massa. Bersaglio principale delle riforme le organizzazioni sindacali, accusate di trasformare la scuola, da servizio pubblico, in servizio ad uso e consumo di chi ci lavora (era questo, il senso, ad esempio, della nota frase della Gelmini, sulla scuola come “ammortizzatore sociale”). È senza dubbio lecito considerare l’indebolimento dello status degli insegnanti come l’effetto di un più generale, e innegabile, attacco su scala globale al lavoro. Ma nell’attacco agli insegnanti, e ai loro diritti, sembra prefigurarsi anche un processo che riguarda lo status e la posizione dell’insegnante nel processo di trasmissione e riproduzione dei saperi. Là dove le scienze sociali hanno riflettuto, negli ultimi decenni, sulla figura degli insegnanti e, più in generale, sulle riforme neoliberiste dell’istruzione, in Inghilterra e Francia (molto poco in Italia), sono emerse delle linee interpretative che cercano di dare una visuale d’insieme all’intero processo. Ad esempio, Gill Helsby (in uno dei rarissimi testi tradotti in italiano della letteratura sociologica sul tema), afferma che gli insegnanti, nella “managerial school” inglese, “da professionisti in grado di operare scelte curricolari” vengono trasformati “in tecnici bisognosi di direttive precise ed esecutori di ordini stabiliti altrove”. Altri hanno affermato che la linea di tendenza generale fosse quella della forte propensione degli apparati politico-amministrativi non solo a far arretrare gli insegnanti nella scala dei redditi, ma a ridimensionare il loro status, declassandoli da professionisti, dotati di una relativa autonomia di scelta e di giudizio, in impiegati, dediti al lavoro esecutivo di somministrazione di programmi e moduli didattici preparati, fin nel dettaglio, da altri (insegnanti cosiddetti “esperti”, agenzie specializzate, ma anche aziende di software didattico). L’impressione è di trovarsi ad un crocevia. Nel senso di stare all’interno di uno scenario molto confuso e imprevedibile. Infatti, da un lato rimane molto forte la pressione a favore di un’istruzione “eterodiretta” e, possibilmente, privatizzata (tanto nella modalità della “proprietà” e dell’”indirizzo” quanto della forma di finanziamento o della trasformazione in senso “manageriale” di scuole che restano, tuttavia, formalmente pubbliche) poiché in questo senso congiurano sia le forze politiche di orientamento neoliberale quanto le organizzazioni e le corporation transnazionali (l’apertura al mercato dell’istruzione è stata uno dei temi nell’agenda del WTO e adesso del TTIP euro-americano). Dall’altro, le stesse contraddizioni dell’operare dei governi, primo fra tutti quello italiano che, pur consegnandoci oggi un pessimo Ddl, lo ha rinviato e modificato nei contenuti innumerevoli volte, fanno pensare che l’opzione fondata sulla privatizzazione, l’aziendalizzazione, la performance, la retorica del capitale umano, stia urtando contro un “fondo” viscoso e duro, la cui resilienza è piuttosto difficile da scalfire. Resilienza sociale, perché il concetto che la scuola pubblica è l’unico modo per garantire standard e spesa pro capite per allievo il più possibile uniformi fa parte della coscienza collettiva perlomeno quanto l’idea che l’acqua costituisca un bene primario sul quale speculare è odioso. Ma anche culturale, e, direi antropologica. Le problematiche della “bildung”, della formazione della persona, hanno una storia di lunga, lunghissima durata. I problemi inerenti il rapporto maestro-allievo su cui ragionavano Socrate, Quintiliano, Erasmo, Vittorino da Feltre, Pestalozzi, non sono poi così dissimili dai discorsi sull’educazione odierni, e neppure dal senso comune di insegnanti, allievi, genitori del presente. Cose che, una volta “aziendalizzate”, sono già distrutte, e il danno provocato resta molto difficile da nascondere. In questa contraddizione, c’è un varco (qui in Italia credo lo stia tenendo aperto la LIP, ma anche dell’altro che si tiene celato, poco visibile, ed altro ancora che va collettivamente costruito). (25 marzo 2015) °°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://comune-info.net/ I ladri dell’acqua che nessuno vuole vedere Luca Raineri | 3 aprile 2015 Come una marea silenziosa, il water grabbing si diffonde sul pianeta. C’è, ma sembra che non si veda, e nessuno ne parla. Andate sui motori di ricerca, cercate land grabbing, e vi ritrovate davanti un’infinità di articoli, rapporti, discorsi politici e documenti ufficiali che parlano dell’accaparramento di terra nel mondo. Cercate water grabbing: la lista è decimata, autoreferenziale, provinciale. Eppure l’accaparramento di acqua è ovunque, in quanto si riferisce alla grande varietà di fenomeni caratterizzati dalla rimozione di acqua come bene comune liberamente disponibile a tutti, e l’alienazione del suo controllo a beneficio di un soggetto privato o pubblico con uno scopo speculativo: dalla sottrazione di risorse idriche per l’irrigazione insostenibile di colture da esportazione alla privatizzazione di servizi di distribuzione e gestione delle acque, dalla contaminazione dei bacini per progetti di estrazione mineraria alla costruzione di dighe grandi e piccole, passando per il fracking. Il water grabbing è una grave minaccia per la sopravvivenza degli ecosistemi e delle comunità, e rappresenta una chiara violazione dei diritti umani. Ma è proprio per la sua varietà e – verrebbe da dire – liquidità, che il water grabbing risulta invisibile agli occhi. La recinzione di un campo, l’espulsione e la deportazione dei suoi abitanti, sono fenomeni macroscopici, fisicamente osservabili, che una fotografia può catturare e riportare. La sottrazione di acqua invece uccide per lento logoramento. Ci sono voluti anni perché i contadini dello Swaziland si rendessero conto che le piantagioni di canna da zucchero destinate alla Coca Cola Company stavano prosciugando le loro terre e le loro vite, assorbendo a monte tutta l’acqua destinata alla coltivazione locale. Ci vorranno anni prima che gli effetti della liberalizzazione del settore dei servizi idrici, imposti dai diversi trattati di libero scambio negoziati in giro per il pianeta, si concretizzino nell’aumento vertiginoso delle tariffe e nella criminalizzazione dell’accesso libero all’acqua come bene comune. Eppure in Ghana, in India, in America Centrale, tutto questo sta già succedendo. Mentre in Palestina, nel Kurdistan iracheno o nel bacino del Rio delle Amazzoni, il furto d’acqua diventa una priorità strategica di interesse nazionale della potenza egemone, che non esita a prendere il controllo manu militari di quello che Kofi Annan aveva definito “il petrolio del terzo millennio”. Nonostante il fenomeno del water grabbing sia diffuso in maniera inquietante, con impatti devastanti sulla vita quotidiana di milioni persone in Europa, come in Asia, in Africa e in America, nelle città come nelle campagne, questo problema è ancora poco discusso e di fatto assente dall’ordine del giorno delle priorità della politica nazionale e internazionale. È quindi necessario dare visibilità alle molteplicità dei casi di accaparramento idrico nel mondo, e ricondurre le diverse forme di water grabbing sotto il comune denominatore del furto d’acqua, sia esso a fini minerari, agricoli, speculativi, energetici o militari, per stimolare un dibattito internazionale e sollevare all’attenzione del mondo una questione d’importanza capitale. A questo scopo le Ong Cospe (Cooperazione e Sviluppo Paesi Emergenti,) e Cicma (Comitato Italiano per il Contratto Mondiale per l’Acqua) hanno deciso di lancaire la piattaforma online watergrabbing.net, un database di tutti i casi di water grabbing che stanno avvenendo nel mondo. Tale documentazione, oltre a segnalare l’urgenza e pervasività del fenomeno, si propone di sostenere l’articolazione delle lotte di movimenti, comitati e network che, in diverso modo e in diversi luoghi, si battano per la difesa dell’accesso all’acqua come bene comune e diritto umano inalienabile. Goccia dopo goccia, anche la più rocciosa opposizione ai diritti umani e alla salvaguardia del pianeta sarà inesorabilmente erosa… * Cospe °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://lepersoneeladignita.corriere .it/ Nigeria, 10 proposte al nuovo presidente per migliorare la situazione dei diritti umani 5 APRILE 2015 | di Riccardo Noury Mentre il nuovo presidente Muhammadu Buhari entra in carica, Amnesty International ha elaborato 10 proposte per migliorare la situazione dei diritti umani in Nigeria e cambiare la vita di milioni e milioni di persone. Indagare sulle denunce di crimini di guerra nel nord-est del paese Uomini, donne e bambini degli stati nordorientali della Nigeria vivono nel costante terrore di essere uccisi o rapiti da Boko haram o di essere arrestati, torturati e persino messi a morte dai militari. Sulle numerose denunce di crimini di guerra provenienti da quegli stati è necessario e urgente avviare indagini indipendenti. Proteggere le persone intrappolate nel conflitto I sanguinosi attacchi di Boko haram e la risposta col pugno di ferro dell’esercito hanno provocato migliaia di morti e costretto alla fuga centinaia di migliaia di persone. A gennaio, Amnesty International ha diffuso immagini satellitari per documentare i danni devastanti subiti dalle città di Baga e Doron Baga. Introdurre il reato di tortura Nelle stazioni di polizia e nelle caserme dell’esercito la tortura è praticata regolarmente, anche nei confronti di bambini. I pestaggi, le gambizzazioni e gli stupri non si contano. Il nuovo governo deve introdurre il reato di tortura e garantire che chiunque sia responsabile di atti di tortura sia processato e condannato. Abolire la legge che proibisce i matrimoni tra persone dello stesso sesso Questa legge definisce reato penale qualunque relazione che non sia di natura eterosessuale. Anche coloro che prendono posizione a favore dei diritti delle persone omosessuali rischiano il carcere. Garantire giustizia alle persone più povere Il sistema giudiziario nigeriano è profondamente corrotto e necessita di maggior personale. La maggior parte dei 55.000 detenuti langue in celle sovraffollate, impossibilitato a pagare una cauzione e nell’attesa infinita di incontrare un giudice. Molte persone sono state condannate al termine di processi iniqui Consentire a familiari e avvocati di visitare i detenuti Le persone detenute nelle prigioni civili e in quelle militari spesso non sono autorizzate a incontrare parenti e avvocati. Questa mancanza di comunicazione aumenta il rischio di tortura, uccisione e sparizione forzata. Vietare gli sgomberi forzati Centinaia di migliaia di persone vivono sotto la costante minaccia di essere cacciate di casa da un momento all’altro. Una legge che vietasse gli sgomberi forzati potrebbe evitare la distruzione di comunità e famiglie, costrette improvvisamente a vivere in mezzo alla strada, senza un risarcimento e un altro posto dove andare (nella foto, uno sgombero avvenuto nello stato di Lagos nel 2013). Non permettere più alle compagnie petrolifere di proseguire impunemente a inquinare Recentemente la Shell è stata costretta a versare un risarcimento di 55 milioni di sterline per due enormi fuoriuscite di petrolio, ma deve ancora bonificare le aree interessate. Il governo dovrebbe agire per proteggere la vita delle popolazioni, i posti di lavoro e l’ambiente pretendendo che le compagnie petrolifere riparino i loro oleodotti e bonifichino le aree colpite dalle fuoriuscite Porre fine alle esecuzioni capitali Nel 2013, per la prima volta dal 2006, sono riprese le esecuzioni. La nuova legge antiterrorismo ha ampliato l’uso della pena di morte. Nei bracci della morte del paese sono in attesa dell’esecuzione oltre 1000 persone, compresi minorenni al momento del reato. Abolendo la pena di morte, il governo potrebbe dare un segnale importante ad altri paesi della regione Prendersi cura dei bambini e delle bambine Molti bambini nigeriani sono tenuti fuori dal sistema educativo, costretti a condurre una vita di stenti in strada e sottoposti a violenza da parte della polizia o all’interno delle carceri. Proteggendo il loro diritto all’infanzia, la Nigeria potrebbe investire in un futuro più sicuro e più pacifico. Muhammadu Bukari ha l’occasione per dimostrare di essersi affrancato dal suo passato. Dal dicembre 1983 all’agosto 1985 presiedette la giunta militare che aveva deposto Shehu Shagari. Nei suoi 20 mesi trascorsi al potere, vi furono arresti di massa di oppositori (tra cui anche il noto musicista Fela Kuti, condannato a 10 anni), vennero eseguite 111 condanne a morte e fu introdotta una legge che prevedeva il carcere a tempo indeterminato per chiunque fosse sospettato di “aver preso parte ad azioni contro la sicurezza dello stato” o “contro l’economia della nazione”. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°° http://www.articolo21.org/ Anne Brasseur al parlamento italiano, diritti umani, corruzione e terrorismo di Irma Loredana Galgano Il 30 marzo il presidente del Senato, Pietro Grasso, e la presidente della Camera, Laura Boldrini, hanno ricevuto a colloquio la presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, Anne Brasseur. Nella nota diffusa da Palazzo Madama si legge che al centro del dibattito sono stati i temi de «la minaccia del terrorismo, la lotta alla corruzione, le tematiche dei diritti umani e dell’immigrazione, con particolare riguardo al problema dei richiedenti asilo». Anne Brasseur ha aggiornato «il Parlamento italiano circa l’azione del Consiglio relativamente alle principali questioni dei diritti umani nei 47 paesi che ne fanno parte» indicando nei «conflitti storici e nei nuovi gruppi estremisti la causa del crollo delle democrazie europee». Il portavoce alla Camera per il Movimento Cinque Stelle e membro della III Commissione affari esteri e costituzionali, Manlio di Stefano, dissente dal punto di vista della Brasseur e diffonde online e sui social il video della sua ‘replica’ in cui spiega il suo punto di vista. Per il deputato 5 stelle innanzitutto i «conflitti storici e i nuovi gruppi estremisti non sono la causa del crollo delle democrazie europee ma la conseguenza». «Abbiamo vissuto molto male le sanzioni date alla Russia non perché non condividessimo la necessità di stigmatizzare un atteggiamento che non era adeguato a una Democrazia ma perché riteniamo che il Consiglio d’Europa sia un’Istituzione che debba incentrarsi sul dialogo. Inoltre riteniamo che il Consiglio debba interrogarsi sui reali bisogni e necessità degli europei in questo momento, anzi per tutti i 47 paesi che ne fanno parte». «In Italia siamo oggi al 43% di disoccupazione giovanile, il dato storico peggiore di sempre, siamo il primo Paese in Europa per livello di corruzione, quella percepita dai cittadini verso la politica nell’ultimo dato era al 92%, cioè il 92% dei cittadini pensa che la politica sia corrotta… e questo succede in tanti paesi europei non soltanto in Italia. Abbiamo 9 milioni di poveri assoluti, cioè che vivono al di sotto della soglia di povertà secondo l’Istat, io credo che il Consiglio d’Europa debba farsi promotore di questo tipo di battaglie.» «Soltanto Italia, Ungheria e Grecia non hanno il reddito di cittadinanza in Europa, ad esempio, e il Consiglio d’Europa dovrebbe spingere su queste cose perché nel momento in cui tu risolvi il problema endemico dei cittadini, che oggi è la crisi, è la disoccupazione, è l’assenza di reddito… riduci anche quell’astio, quella forma di odio, di idea che si possa risolvere tutto con la violenza.» «Non abbiamo più le condizioni sociali per poter reggere la crisi e questo crea estremismi. Il diritto umano oggi è quello di vivere bene, serenamente, di arrivare a fine mese e questo automaticamente riavvicinerebbe i cittadini anche alla politica, se questa attuasse delle Leggi a favore del loro benessere. Oggi abbiamo in discussione al Senato la norma sull’anticorruzione in Italia fortemente carente ancora di quei reati che vengono indicati come i reati dei colletti bianchi, i reati della politica. Questo allontana o avvicina i cittadini alla politica? Li allontana e crea ancora una volta quell’odio verso la politica che è sì oggi causa di problemi sociali.» «Il Consiglio d’Europa deve includere nei diritti umani i diritti primari, che sono quelli al reddito e alla percezione di una Democrazia sana anche nei paesi che si sentono immuni da questo rischio, come l’Italia e altri paesi del ‘vecchio continente’… non ci sono più oggi democrazie veramente consolidate perché c’è un abuso continuo da parte dei governi.» 2 aprile 2015
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