ANATOMIA DI UN SOGNO ( La Repubblica Romana ) PRESENTAZIONE Il letterato e saggista Claudio Prili, presenta “LA REPUBBLICA ROMANA” inquadrata magnificamente nel suo periodo storico e con questo lavoro, condotto con competenza fluida e piacevole, offre ai lettori uno scorcio del suo nobile animo, con i diversi aspetti caratteriali e personali. Nel testo vengono descritte con perizia le vicende in passaggi di ore, fino al momento della totale resa della Repubblica; un tipico saggio dove le pagine brillantemente scritte danno brio allo sfondo di una Roma sottomessa alla dittatura papale e di conseguenza francese. Una vigoria attiva, appassionante e didascalica comanda su tutta la registrazione storica, quest’ultima altamente realistica, dove figure infelici precipitano nell’abiezione del nemico. La lettura è espressiva, umana e piacevole: piccoli eroi, che purtroppo non hanno trovato nella Storia giusta collocazione, in noi si immergono grazie al metodo brillante ben prefissato dell’autore. Questa narrazione di Claudio Prili è assai articolata, ma soprattutto utile ed interessante; è possibile identificarla come una guida efficace e sicuramente corretta per la didattica odierna, infatti con saggezza vengono intrecciati errori, debolezze e deficienze storiche, nonché consensi e plausi sfrondati, sempre con distacco obiettivo. “LA REPUBBLICA ROMANA” è senza dubbio un elaborato pregevole, la cui suggestione è accresciuta dal contatto fisico/morale dell’autore con la città natia, quella città che, in quell’obsoleto periodo, fu assoggettata al patrizio snobismo conservatore. Dal primo capitolo, all’ultimo, questo diario è indiscutibilmente un atto d’amore non solo per l’amata città natia, ma soprattutto è generato dall’interesse dell’autore per quello specifico arco storico-temporale, reso in primis famoso e poi, forse, volutamente dimenticato. Con spigliata semplicità stilistica e venature ironiche, lo scrittore si assume l’incarico di presentare nitidi acquarelli, cari ed apprezzati dai veri amatori degli eventi romani risorgimentali, non privi di impressionismo romantico, che rende affascinante la rievocazione letteraria di veri e propri eventi bellici. Una serie di scene vivissime ed ispirate, dunque, mostrano la qualità principale di Claudio Prili: essere un arguto indagatore satirico e, al tempo stesso psicologico, dello spirito umano, capace di registrare le impressioni e i comportamenti della popolazione, in fasi predominanti dell’intera vicenda, dalla lotta, all’annunzio di un regime liberatorio. Dell’intero operato letterario di Prili, la “Repubblica” costituisce senz’altro la relazione più sentita dall’autore che, nella stesura, intesse un vero e proprio colloquio coi “fratelli romani” morti, permettendo al lettore di conoscere il palcoscenico su cui si recita il racconto, nonché la chiara verità circa le gesta che hanno reso possibile la vittoria sull’ingiustizia e la prepotenza sociale. Dunque queste pagine, e l’aedo stesso, si offrono come una sterile espiazione, in rievocazione della barbara sconfitta e innescano il pensiero del fruitore verso una specifica chiave di meditazione ed educazione sentimentale. Il titolo esprime chiaramente il contenuto del romanzo/cronaca, intensamente antropico, protetto dalla sintesi del sogno/desiderio, in cui le vicende riportate toccano il cuore in maniera indimenticabile, anche grazie alla presenza di figure di alto rilievo, quali quelle della giovane Colomba Antonietti e del dodicenne Righetto. Non di meno sono presentati, con adeguata tramatura, gli artefici di questo splendido rinnovamento romano. Lo scrivente apre il racconto con la descrizione del passaggio del potere papale tra le Santità Gregorio XVI e Pio IX, intensificando la copiosa e palpitante narrazione con compendi tratti da notevoli bibliografie; il tutto viene affrontato con filantropia (“e quanno me perdonerebbe Iddio ?”) e versi poetici romaneschi, sempre in grado di polverizzare le angherie, e le malinconie, a discapito della povera plebe. E’ questo un racconto sagace, che offre l’amara visione di un periodo bellicoso ma romantico, dove la conclusione dell’opera riaccende la luce della fiducia e della speranza sugli alti valori umani. dott.ssa Pasqualina Genovese D’Orazio Questa è una storia che i tesA scolasAci hanno da sempre liquidato in pochissime righe. La storia di una straordinaria esperienza, di aH di eroismo, di patrioA che hanno donato la vita per difendere la conquistata libertà di un popolo asfissiato dal giogo Papalino. Le ragioni di chi orgogliosamente ha alzato la testa per resAtuire una nuova dignità alla CiOà Eterna dopo secoli di oOusità e di immobilismo dello Stato più conservatore d’Europa. Una storia scriOa come sempre dalla gente : uomini, donne, bambini romani che combaOono fianco a fianco, strada per strada. Garibaldini e bersaglieri, scienziaA e analfabeA, volontari accorsi da tuOa Italia e dall’Europa in difesa della Repubblica. Una storia di speranze tradite, di voltafaccia, di ideali che sono sopravvissuA a chi decise di spegnerli nel sangue, la storia di un seme che ha generato l’aOuale CosAtuzione Italiana. L’Autore CAPITOLO I Il primo Giugno 1846 morì Papa Gregorio XVI lasciando lo Stato PonAficio in una condizione di arretratezza sociale, di conservazione di privilegi, di miseria diffusa nelle classi più deboli, che non trovava eguali nel resto della Penisola. In questo pessimo clima sociale, il Cardinale Giovanni Mastai FerreH da Senigallia divenne Papa assumendo il nome di Pio IX . Il conclave si aprì il 14.6.1846 alla presenza di 49 cardinali su 79 e soltanto dopo quaOro scruAni venne eleOo il nuovo Pontefice. Tanta freOa era giusAficata dall’intenzione di impedire che il Cardinale austriaco Gaysruch arrivasse a Roma in tempo per imporre la volontà del suo Imperatore a cui avrebbe diplomaAcamente faOo molto comodo un connazionale a San Pietro. L’Europa intera viveva un’atmosfera complessivamente instabile ed incerta, dopo che aveva cercato di rimediare nel modo peggiore a quel ciclone di nome Napoleone, con il Congresso di Vienna che aveva prodoOo una linea di condoOa generale riassumibile nel termine “restaurazione”, termine assai difficile da ingoiare per chiunque anelasse ideali di democrazia . Pio IX, cosciente di questa situazione, opportunamente decise di dare alla sua poliAca una pronunciata impronta riformista e tuOo questo mise involontariamente in moto un meccanismo che avrebbe portato a quella esperienza formidabile quanto effimera, chiamata Repubblica Romana. L’inizio del suo Papato venne caraOerizzato dall’amnisAa per tuH i prigionieri poliAci, concessa soltanto un mese dopo il suo insediamento e da un pensiero che rafforzò non poco le speranze di chi desiderava l’unità d’Italia, l’idea di un unico Stato che coagulasse l’intera penisola soOo la guida del Papa stesso. SoOo il ponAficato di Pio IX si diede inizio alla costruzione di ferrovie, ad una serie di opere pubbliche con lo scopo di ridurre la disoccupazione che cosAtuiva una delle principali ragioni di una criminalità diffusissima. Nelle classi più deboli nacque l’illusione di risolvere in tuOa freOa problemi che si trascinavano da secoli e quindi proprio queste classi sociali furono le prime ad essere deluse e tradite da una poliAca economica che, pur lungimirante, si rivelò comunque insufficiente a fermare una crisi che maturava da anni. TuOavia a Roma si respirava in quel periodo un’aria diversa, più leggera, il fermento che solitamente si accompagna al preludio di cambiamenA epocali. In questo caso aveva un nome che gonfiava i cuori di tuH i patrioA: l’Indipendenza dell’Italia. Quando poi Pio IX decise nel marzo 1847 di inviare truppe PonAficie al comando del generale Ferrari per sostenere Carlo Alberto che aveva in quei giorni dichiarato guerra all’Austria, sembrò che finalmente il momento tanto aOeso fosse giunto. Di lì a poco, tuH invece si resero conto che proprio in quei giorni si sarebbe verificata la spaccatura insanabile tra il Papa ed il popolo romano. Una spaccatura che sarebbe sfociata qualche mese dopo negli evenA splendidi e sanguinosi della Repubblica Romana. Realizzato che le truppe ponAficie erano state inviate contro l’esercito di uno Stato caOolico e, parAcolare non trascurabile, estremamente potente, Pio IX fece un passo indietro che storicamente segnò il suo cocente tradimento alla causa dell’unità nazionale. Il 29 Aprile 1848, nella sua forse più famosa allocuzione, Papa Mastai‐FerreH fece ufficialmente marcia indietro, rifiutando qualunque partecipazione alla guerra contro l’Austria. “ Ai nostri solda,, manda, ai confini del dominio pon,ficio, non volemmo che s’imponesse altro, sennonché difendessero l’integrità e la sicurezza dello Stato pon,ficio. Ma conciossiacosachè ora alcuni desiderino, che Noi altresì con altri popoli e principi d’Italia prendiamo guerra contro gli Austriaci, giudicammo conveniente di palesar chiaro…che ciò si dilunga del tuEo dai nostri consigli, essendochè Noi…abbracciamo tuEe le gen,, popoli e nazioni con pari studio e paternale amore”. Informato dell’allocuzione del 29 aprile, l’esercito ponAficio decise di non ubbidire al Papa e rimase a svolgere l’incarico affidatogli : coprire le ciOà libere del Veneto, appoggiandosi alla solida roccaforte di Venezia, governata da Manin. Daniele Manin Daniele Manin, nato a Venezia il 13 maggio 1804, era il terzogenito di Pietro e Anna Maria BelloEo. La famiglia Manin aveva ascendenze israeli,che. Fu infaS il nonno Samuele Medina, di origini veronesi, a conver,rsi con la moglie Allegra Moravia, assumendo nome e cognome del padrino di baEesimo, il noto Ludovico Manin, ul,mo doge della Repubblica di Venezia. OEenuta la laurea in Giurisprudenza a Padova nel 1821, si dedicò all’aSvità forense nella ciEà na,a. Nel 1824 sposò Teresa PerissinoS, appartenente ad una famiglia aristocra,ca veneziana con ampie proprietà terriere a Venezia e nel trevisano. Imprigionato nelle carceri austriache per la sua aSvità patrioSca, fu liberato a furor di popolo il 17.3.1848 assieme all’altro patriota Nicolò Tommaseo. Alla successiva proclamazione della Repubblica di San Marco ne fu eleEo Presidente e, durante l’assedio della ciEà nel 1848‐1849, diede grande prova di intelligenza, coraggio e fermezza. Contribuì inoltre a fondare la Società Nazionale Italiana. CostreEo all’esilio dal ritorno degli austriaci, visse poi a Parigi dando lezioni di lingua italiana e conservando intaEo l’amore per la patria veneta. Morì esule a Parigi il 22 seEembre 1857. “Er sordato pon,ficio” Ciò ‘na fame che propio nun ce vedo e li piedi gonfi come du’ zzampogne, so’ venuto ‘n Veneto perché ce credo che è ora de scalà ‘ste du’ montaggne. L’austriaci se ne deveno annà a casa, ‘sta nazzione mia dovrà nasce prima o poi, co’ ‘st’idea che soEo soEo nu’ riposa perché l’Itaija la dovemo guidà noi. E ‘nvece poi me dicheno de bboEo che abbisogna fa’ finta de ggnente, che puro ‘n austriaco cià Gesù ner peEo e che ‘n ze po’ ammazza’ ‘sta bruEa ggente. Sarebbe mejo e ‘n domani ancor più bello arivortasse contro er sangue mio ? , tajà la gola puro a mi fratello… e quanno me perdonerebbe Iddio ? Perciò sai che te dico Papa bbono?, te dico che diserto e bbonasera, dovrei infirzà la panza de ‘n romano? vorà ddì che inizzio ‘n’artra guera!. Quella che sarebbe meno strana de questa che me sembra ‘na pazzia, loEerò pe’ la Repubblica Romana, morirò pe’ difenne casa mia!. TuOavia, l’esercito ponAficio non poté mai contare sui notevoli rinforzi ( 16.000 uomini ) inviaA dal Regno delle Due Sicilie che pure avevano già raggiunto il Po ed erano in procinto di entrare in Veneto. Proprio al passaggio del fiume, a quel massiccio corpo di spedizione venne noAficato l’ordine di Ferdinando II di Borbone di rientrare a Napoli. Rifiutò l’ordine solo il generale Guglielmo Pepe, grande patriota, che riuscì a raggiungere Venezia ove gli venne affidato il comando supremo delle truppe e, pur offrendo uno splendido contributo lungo l’intero assedio della ciOà, di faOo non riuscì mai ad affiancare le truppe ponAficie guidate da Giovanni Durando. Giovanni Durando Nasce a Mondovì il 23.6.1804. Fratello del patriota Giacomo Durando e del beato Marcantonio Durando. Suddito sardo, l’11 aprile 1822 entrò tra le guardie del corpo di ViEorio Emanuele I di Savoia, diventando soEotenente nel 1826. Di orientamento liberale moderato, partecipò ai mo, rivoluzionari in Piemonte del 1831, in seguito ai quali fu costreEo a rifugiarsi all’estero assieme al fratello Giacomo. Prestò servizio nella legione straniera belga in qualità di soEotenente (1832), combaEé in Portogallo al servizio di don Pedro, in qualità di capitano dei Cacciatori di Oporto( 1833‐1838) e infine in Spagna nella guerra contro i carlis, nel corso della quale oEenne il grado di Generale. Rimpatriato ai primi del 1842, dal 24.3.1848 assunse il comando delle truppe pon,ficie ed estere al servizio di Pio IX, partecipando alla sfortunata prima guerra d’Indipendenza Italiana. Impossibilitato a contrastare l’avanzata delle truppe austriache di Laval Nugent, fu bloccato a Vicenza e, sconfessato da Pio IX, costreEo alla resa in data 10.6.1848. Passato al servizio del Piemonte e nominato aiutante di campo di Carlo Alberto, partecipò alla baEaglia di Novara nel 1849 al comando di una divisione. Fu eleEo deputato nelle elezioni del 1848 e del 1849. Giovanni Durando morì a Firenze il 29 febbraio 1860. Il piccolo esercito di Pio IX, dopo aver dato grande prova di coraggio nel respingere a Vicenza l’assalto degli austriaci il cui esercito contava il doppio degli uomini, inevitabilmente capitolò quando Radetzky rovesciò l’intero fronte dell’esercito austriaco proprio sul Veneto. Il 9 agosto dello stesso anno, con l’armisAzio firmato a Milano dal generale Carlo Canera di Salasco e dal generale H. Von Hess, cessarono temporaneamente le osAlità tra piemontesi ed austriaci. Tra i patrioA la delusione per quesA avvenimenA fu enorme, superata soltanto dal rancore nei confronA di un Papa che sembrava voler addiriOura incarnare la volontà generale di unificazione dell’Italia e che, alla luce dei faH, si era invece dimostrato inaffidabile e voltafaccia. Il 15 novembre 1848, Pellegrino Rossi, sessantunenne di Carrara e Ministro dell’Interno dello Stato ponAficio, mentre saliva le scale del Palazzo della Cancelleria venne assassinato da un gruppo di popolani di cui faceva parte anche Luigi BruneH , figlio di Angelo deOo “Ciceruacchio”, patriota romano e ormai acceso rivale di quel Papa che l’aveva prima illuso, per poi fargli ingoiare la peggiore delusione per un patriota che in cuor suo desiderava un’Italia libera e indipendente . Scoppiò immediatamente una disordinata rivolta inscenata soOo il Palazzo del Quirinale. Pio IX si asserragliò nel Palazzo , assediato dal popolo romano che addiriOura puntò un cannone in direzione della Sede Papale. ViolenA furono gli scontri con la guardia svizzera ponAficia in cui trovò addiriOura la morte un Monsignore addeOo ai Sacri Palazzi. Convocato il corpo diplomaAco, Pio IX affermò “ AcceEare le loro condizioni, sarebbe per me abdicare ed io non ne ho il diriEo”. Due giorni dopo convocò gli ambasciatori esteri ed a loro dichiarò di essere stato costreOo a cedere alla violenza e che da quel momento i suoi aH sarebbero staA da considerare invalidi a tuH gli effeH. Indignato, quasi incredulo di fronte ad una ribellione che mai avrebbe immaginato potesse divampare così in freOa e virulenta in una ciOà da secoli rassegnata e sonnacchiosa, il Papa non trovò di meglio che fuggire vigliaccamente da Roma la sera del 24 novembre, travesAto da semplice sacerdote, in una carrozza chiusa ed accompagnato da un suo collaboratore segreto. Raggiunse il conte Spaur, ambasciatore di Baviera e, la sera del 25, giunse nella fortezza di Gaeta. Si pose soOo la protezione del Regno delle Due Sicilie, chiedendo dopo alcuni giorni l’intervento delle potenze caOoliche per ristabilire l’ordine a Roma. Ormai al sicuro, Pio IX rifiutò fermamente l’invito di due DeputaA a rientrare a Roma. Non concesse loro neanche la possibilità di varcare il confine napoletano, facendoli bloccare a Portello dalle truppe borboniche. Involontariamente, questo aOeggiamento fomentò ancora di più gli animi dei mazziniani che ormai ritenevano matura la convocazione di un’Assemblea CosAtuente dato che il Papa si era volontariamente riArato, e con lui la sua autorità, in un altro Stato. Il 21 Gennaio 1849 si svolsero a Roma le prime elezioni a suffragio universale e, nonostante Pio IX avesse vietato a tuH i “bravi cris,ani” di partecipare alle elezioni minacciando nei loro confronA addiriOura la scomunica, alle urne si recò invece gran parte della popolazione dello Stato PonAficio. La CosAtuente divenne di faOo un’assemblea rivoluzionaria. Il 9.2.1849, a Palazzo della Cancelleria la CosAtuente proclamò la nascita della Repubblica Romana “Il Papato è decaduto di faEo e di diriEo dal governo temporale dello Stato Romano. Il Pontefice avrà tuEe le guaren,gie necessarie per l’indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale. La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. La Repubblica Romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune”. La gente si riversò nelle strade festeggiando col tricolore la nascita di un sogno che durò soltanto sino al 4.7.1849, lasciando tuOavia un’indelebile impronta sugli avvenimenA che dodici anni più tardi avrebbero faOo dell’Italia una nazione finalmente unita. Il decreto portava le firme del presidente dell’Assemblea cosAtuente Giuseppe GalleH e dei segretari Giovanni Pennacchi, Ariodante FabreH, Antonio Zambianchi e Quirico FilopanA . Da un manifesAno stampato dai democraAci con molta concitazione, ( come si deduce dagli errori nel resoconto della seduta ) e distribuito in ciOà nella noOe tra l’8 ed il 9 febbraio 1849, subito dopo la proclamazione della Repubblica Romana : W LA REPUBBLICA ROMANA E’ l’una dopo la mezzanoEe, e usciamo in questo momento dalla sala, ove è stata adunata la Cos,tuente dalle undici an,meridiane. Chi potrebbe descrivere la commozione da cui e noi tuS sono sta, commossi ! La gran parola è stata pronunciata. La Democrazia ha vinto. Dopo una discussione grave, animata ma libera, coscanziosa, alle ore undici e un quarto pomeridiane tra gli applausi del popolo affollato nelle tribune, si è proclamata la Repubblica Romana, dopo d’essersi dichiarato la decadenza del potere temporale dei papi. Di centoquaranta Rappresentan, e più, solamente una ven,na è stata contraria alle ammesse proposizioni. (…) Riserbandoci dare a domani esteso ragguaglio dell’importan, faS di oggi, terminiamo come abbiam cominciato col grido di VIVA LA REPUBBLICA ROMANA!. Il palazzo della Cancelleria Il Palazzo della Cancelleria a Roma è situato tra Corso ViEorio Emanuele II e Campo De’ Fiori. Edificato tra il 1485 ed il 1513, è uno dei primi esempi di palazzi costrui, in s,le rinascimentale. Il Cardinal Riario, nipote di Papa Sisto IV, lo commissionò con i proven, di una vincita al gioco. Nel 1517 gli fu requisito da papa Leone X in quanto il Riario aveva preso parte aSva alla congiura de’ pazzi. Nella noEe tra l’8 ed il 9 Febbraio 1849 in questo edificio fu proclamata ufficialmente la seconda Repubblica Romana e successivamente fu sede della Corte Imperiale Napoleonica. AEualmente ospita il Tribunale della Sacra Rota, essendo tuEora territorio dello Stato Va,cano in quanto gode del diriEo di extraterritorialità riconosciuto con i paS lateranensi. “Er Palazzo de la Cancelleria” Tra Corzo ViEorio e Campo de’ Fiori Ce sta ‘n palazzo costruito pe’ scommessa, Vinto a carte dar Cardinal Riario a picche e fiori Pe’ ‘na bboEa de culo principesca. Quanno zì Papa je disse ch’era troppo Quer che aveva ‘ntascato co’ le carte, Je rispose “A zì, sai che nova c’è? Io me ne foEo! E m’apro ‘sto palazzo co’ li sordi de la sorte”. Lo ,rò su cor marmo bbianco der Coliseo E quello rosato d’origgine più oscura, Ma Leone Decimo je disse “Poro babbeo…” E je lo requisì pe’ via de ‘na conggiura. ‘Nzomma, tra Papi,Cardinali e ‘Mperatori Er palazzo de la Cancelleria Più che artro fu ‘n coacervo d’affaris, e truffatori Frequentato guasi più de ‘na bbona pizzeria. Penzà che a febbraro der quarantanove Proprio qua nacque la Repubblica Romana, esempio raro de ‘n’Itaija che se move senza chiede aiuto all’ur,mo vortagabbana!. Soltanto tre giorni dopo, il Papa convocò di nuovo gli ambasciatori di Austria, Francia, Spagna e Regno delle due Sicilie per chiedere il loro sostegno nel ristabilire il potere PonAficio ormai ufficialmente desAtuito. La Repubblica Romana, pur in un clima di grande euforia popolare, doveOe tuOavia fare immediatamente i conA con la peggiore delle eredità dello Stato PonAficio : il disastro delle finanze pubbliche. Così, con una decisione che suscitò grande clamore, il 21 febbraio l’Assemblea votò l’incameramento dei beni ecclesiasAci che complessivamente poteva essere calcolato aOorno ai 120 milioni di scudi. Una somma enorme che tuOavia non venne ritenuta sufficiente per raddrizzare le finanze del Governo. Governo che fu quindi costreOo a dover aOuare altre misure, la prima delle quali fu un presAto forzoso che obbligò tuH coloro che disponevano di una rendita superiore ai 2000 scudi l’anno a cederne una percentuale allo Stato, seppur soOo forma di presAto. TuOa questa frenesia nel recupero di ingenA imporA, queste misure eccezionali, furono comunque rese necessarie non soltanto dalla situazione finanziaria al collasso in cui versava Roma, ma anche dall’addensarsi delle minacce che aOentavano già alla neonata Repubblica Romana : da Gaeta Pio IX aveva invocato con lodevole tempes,vità l’aiuto delle grandi potenze caOoliche e la Repubblica fu quindi costreOa a prevedere un aumento delle spese militari al fine di tutelare sé stessa contro l’imminente aOacco dall’esterno che ormai era certo. la Storia spesso insegna come le situazioni peggiori siano quelle in cui il vento delle nuove idee spesso va ad infrangersi contro le porte chiuse di un’eredità poliAca ed economica ingovernabile. Il verAce della Repubblica Romana si trovò strangolato sin dall’inizio in una situazione ingesAbile che neanche Mazzini e Saffi, che affiancarono Armellini subentrando a Montecchi e SaliceA nel triumvirato, riuscirono a gesAre. La forma di democrazia immaginata inizialmente, era quella di un governo liberale moderato, ma lo stesso Papa, fuggito a Gaeta, contribuì a dare respiro ai massimalisA che diedero forse alla Repubblica Romana il caraOere più nobile e romanAco a questa esperienza, quello utopisAco che, specie Mazzini allora quarantaquaOrenne e giunto a Roma il 5 marzo, cavalcò con passione e capacità perché non andasse perduto il sacrificio di tanA patrioA e per lasciare ai posteri forse la pagina più alta del suo impegno nel Risorgimento italiano. La piccola Repubblica Romana appena proclamata, si doveOe quindi apprestare alla guerra contro l’Austria che il 23 marzo sconfisse Carlo Alberto di Savoia, decidendo il giorno successivo di intervenire pesantemente per restaurare l’ordine nello Stato PonAficio. Contemporaneamente, anche i francesi intervennero in Italia dietro la specifica sollecitazione in tal senso da parte di Pio IX . Anziché organizzare immediatamente la resistenza militare alle preponderanA forze caOoliche, il governo romano ritenne invece più opportuno emanare una serie di disposizioni quali l’abolizione della censura, l’isAtuzione del matrimonio civile, fissò a 21 anni la maggiore età per uomini e donne, abrogò nei procedimenA di successione la norma che escludeva le donne ed i loro discendenA, abolì la tassa sul sale, abrogò la leva obbligatoria, isAtuì la riforma agraria, il diriOo alla casa, la laicità dello Stato, stabilì l’abolizione della pena di morte e della tortura. Venne deciso di suddividere il patrimonio fondiario ecclesiasAco in loH da consegnare alle famiglie povere : Art. 1 Ogni famiglia, composta da un numero di almeno tre individui, avrà da col,vare una quan,tà di terra capace ai lavori di un paio di buoi, corrispondente ad un buon rubbio romano, cioè due quadra, censuari, pari a metri quadra, ven,mila. Art.2 I vigne, saranno da, a coltura all’individui senza che sia richiesta famiglia e verranno divisi in ragione della metà della misura indicata. Il patrimonio immobiliare ecclesiasAco venne uAlizzato per dare una casa ai più poveri, la tassa patenA che i commercianA e gli arAgiani dovevano pagare per esercitare il loro mesAere, fu abolita. La grandezza di pensiero di Mazzini si esprime proprio in questo frangente, in cui apparentemente sembra invece maturare il grossolano errore di anteporre le riforme civili alla difesa della patria minacciata. E’ credibile che Mazzini sperasse realmente nell’affermazione militare della Repubblica Romana? Sarebbe riuscita veramente a difendersi dai suoi nemici esterni? Appare invece più plausibile immaginare che, pur cosciente dell’imminente ed inevitabile tracollo, intendesse quanto meno salvare il valore morale dell’esperienza. La Repubblica Romana fu il primo Stato Europeo, seppur non riconosciuto, a proclamare che la credenza religiosa era libera, né poteva rappresentare una discriminante per l’esercizio dei diriH civili e poliAci. TuH gli altri StaA riconoscevano la religione caOolica come culto dello Stato e comunque lo stesso Statuto concesso da Pio IX stabiliva che le pubbliche carriere erano consenAte solo ai ciOadini di fede caOolica. Quindi, pur essendo impellente l’urgenza di predisporre misure militari a difesa del nuovo Stato, Mazzini reputò ancora più importante salvare i valori morali che lo contraddisAnguevano. Questa la scommessa vinta da Mazzini : lasciare un segno indelebile nella Storia , rendere moralmente eterno il valore dei cinque mesi della Repubblica Romana. Afferma infaH Mazzini “ La Repubblica Romana è anzituEo principio d’amore, di maggior incivilimento, di progresso fraterno con tuS e per tuS, di miglioramento morale, intelleEuale, economico per l’università dei ciEadini…è il principio del bene su quello del male, del diriEo comune sull’arbitrio di pochi, della Santa Eguaglianza sul Privilegio ed il Dispo,smo…”. La guerra era ormai alle porte. Per le uniformi, bastò sosAtuire il simbolo papale delle chiavi incrociate con una semplice coccarda tricolore. Garibaldi, Bixio e Mameli vennero eleH tra i Senatori. L’esercito ponAficio, tranne le forze mercenarie ed estere, passò in blocco dalla parte degli insorA. A questo primo nucleo, si aggiunsero poi i vari Corpi di volontari. Roma, insidiata da ogni parte, si considerava ormai alla vigilia della guerra e si preparava come poteva a difendersi contro tuH, accogliendo allo stesso tempo tuH coloro che arrivavano per offrirle il proprio aiuto. Abbracciò gli esuli lombardi di Luciano Manara, i genovesi di Goffredo Mameli, i legionari di Garibaldi. “V’aspeEamo fratelli!” V’aspeEamo fratelli itaijani, voi che ciavete la Patria ner core, che se farà coll’ unghie e le mani pe’ difenne ‘sta storia, ‘st’amore. Roma sarà pe’voi tuS ‘na casa dove fragole e vino nun mancheranno, a ogni angolo ce sarà ‘na rosa e porcheEa profumata tuEo l’anno. Sarete ‘n tan, a rimeEece le penne, ma co ‘n pizzico de fegato e fortuna potrete meEe propio qui le tende e cantà d’amore sera e ma,na. Lacrime e sangue v’accompagneranno, ma sarà l’avventura de la vita, ‘s, francesi ancora nu lo sanno che pe’ loro è qui che ’ncomincia la salita… Capo di tuOe le forze armate venne nominato il generale Pietro Roselli, con Carlo Pisacane in veste di Capo di Stato Maggiore : comandava venAmila uomini ( quanto di più eterogeneo si potesse immaginare ) e circa un cenAnaio di pezzi d’arAglieria. Nonostante fosse stata l’Austria a decidere per prima l’intervento a favore del Papa, fu però la Francia a muoversi sulla base di un decreto urgente firmato da Napoleone III per controbilanciare il peso poliAco di Vienna, ingraziarsi i caOolici di Francia e sopraOuOo i loro voA. Il 24 Aprile la floOa francese, formata da sei fregate a vapore, due corveOe e due baOelli con circa 15.000 uomini agli ordini del generale Oudinot, arrivò di fronte a Civitavecchia e poco dopo il generale iniziò le traOaAve con le autorità locali per lo sbarco. Da Roma l’ordine era di resistere, la Repubblica non poteva e non voleva credere alla “amicizia” millantata da Oudinot che infaH il giorno successivo occupò Civitavecchia senza sparare un colpo, essendo impossibile per il colonnello Pietramellara opporre la minima resistenza con i suoi duecento bersaglieri. Il 26 Aprile, una delegazione francese chiese al triumvirato di accogliere le truppe francesi come alleaA, ma Mazzini non cadde nella trappola e decise, con il beneplacito dell’Assemblea, di rispondere con forza alla forza. Garibaldi venne richiamato a Roma assieme ai suoi uomini che erano acquarAeraA a RieA. Il giorno dopo giunsero in porto a Civitavecchia due baOelli, il “Colombo” ed il “Giulio II”, salpaA da Chiavari. Trasportavano 600 bersaglieri della disciolta “Divisione Lombarda” dell’esercito sardo : questa divisione era stata cosAtuita nel corso della campagna del 1848 con reclute e volontari provenienA dalle provincie liberate del Lombardo‐Veneto. Colomba Antonie8 “ ‘Nnamo Giggi, se parte pe’ Roma, er sesto baEajone de li bberzajeri dev’annà a trovà er Papa”. “Ma perché, che me vòi seguì ancora? Nun t’è abbastata la guera ‘n Lombardia, ‘n Veneto?….e daje, staEene a casa ‘na vorta tanto…” “A Giggi, fàmose a capì, ma che ggnente ggnente me devi da meEe le corna?” “ E come no?, magara co’ quarche francese o co’ quarche prete. No amò, è che si me venissi a mancà, nu je la farei a annà avan,…” “Anvedi questo….’n ufficiale che se ne more pe’ ‘n bberzaijere!”. “E vabbè, con,nua a scherzà. Ma nun potevi esse ‘na moje come tuEe l’artre? Quelle che penzano solo a fa’ minestre e fiji?” “ E no!, io so’ de quelle che stanno ar fianco der marito. Sempre. A proposito, t’ho s,rato la divisa e ‘n valiggia ciò messo quaEro camicie pulite. Cerca de nun inzozzalle de sangue che poi nun viè più via….” “ A Colò, Manara ha deEo che dovemo arivà fino a San Pancrazzio e che si ce arivamo vivi è ggià tanto”. “ A Giggi, nun esse funesto…daje, cantame la canzone de li fratelli dell’Itaija che me piace ‘n sacco”. “Colomba mia, me dighi come farei senza de te?” ”A Giggè, sta’ tranquillo che io nun t’ammollo e mò da ‘n bacio co’ lo scrocchio ar berzaijere tuo!”. Il 13 Giugno 1849 Colomba AntonieS morì a San Pancrazio, nella eroica difesa della postazione assegnata ai bersaglieri di Luciano Manara. Per seguire il marito Luigi Porzi, Colomba aveva deciso di tagliarsi i capelli e di ves,rsi da soldato per combaEere al suo fianco in Lombardia, in Veneto e a Roma. Dalle memorie di Giuseppe Garibaldi “ La palla di cannone era andata a baEere contro il muro e ricacciata indietro aveva spezzato le reni di un giovane soldato. Il giovane soldato posto nella barella aveva incrociato le mani, alzato gli occhi al cielo e reso l’ul,mo respiro. Stavano per recarlo all’ambulanza quando un ufficiale si era geEato sul cadavere e l’aveva coperto di baci. Quell’ufficiale era Porzi. Il giovane soldato era Colomba AntonieS, sua moglie, che lo aveva seguito a Velletri e combaEuto al suo fianco”. Colomba AntonieS morì compianta nei giornali dell’epoca e dalle parole di storici e poli,ci, ma la manifestazione più alta l’ebbe dal popolo romano che accompagnò il feretro coprendolo di rose bianche e seguendolo lungo le vie di Roma fino alla cappella di Santa Cecilia dell’Accademia Musicale, dove la salma fu tumulata. Colomba nacque a Bas,a Umbra il 19 oEobre 1826. Figlia di fornai, si trasferì giovanissima a Foligno dove conobbe Luigi Porzi di Imola, cadeEo del Corpo di Guardia della Guarnigione Pon,ficia. Si innamorarono perdutamente, ma l’enorme differenza sociale tra loro, convinse le rispeSve famiglie che questo matrimonio “non s’aveva da fare”. I due ragazzi, per niente turba, dai rispeSvi ve, familiari, lo contrassero in gran segreto, senza richiedere come da prassi l’autorizzazione alle superiori autorità militari. Scoperto l’inganno, venne rinchiuso a Castel Sant’Angelo per scontare un periodo di prigione. Dover subire questa ingius,zia, sviluppò nei due giovani l’odio per l’oppressione e sen,men, che poco alla volta li avvicinò alla causa dell’indipendenza nazionale. Luigi, abbandonando l’esercito pon,ficio, parp volontario allo scoppio della prima guerra d’Indipendenza e lei, pur di stargli accanto, tagliò i suoi bellissimi capelli neri e si arruolò a sua volta travestendosi da soldato semplice. Il gruppo di volontari di cui facevano parte, divenne una formazione regolare dell’esercito Sardo‐Piemontese, assumendo la numerazione di VI baEaglione Bersaglieri, baEaglione che venne inviato a Roma al comando di Luciano Manara per difendere la Repubblica. Una pagina d’amore come tante altre che crebbe incurante della guerra ed alla quale pagò inesorabilmente pegno. Lei morì nell’adempimento del proprio dovere e lui, disperato, riparò in Uruguay facendo perdere per sempre le sue tracce. I 600 bersaglieri appena sbarcaA a Civitavecchia, rappresentavano una forza significaAva ed estremamente organizzata, probabilmente grazie alla grande personalità e capacità militare del loro comandante, Luciano Manara. GiunA al porto, rimasero non poco sorpresi dalla presenza delle truppe francesi di Oudinot che cercò di impedirne lo sbarco “Voi siete lombardi, perché vi immischiate negli affari di Roma?” e Manara di rimando “E voi generale, che siete di Parigi, di Lione, di Bordeaux, di Marsiglia, cosa c’entrate ?”. “Manara, vi permeEo di sbarcare ad Anzio purchè mi promeSate di non combaEere prima del 4 Maggio”. Allora, la parola tra due genAluomini era sacra. Almeno così credeva Manara…. TuOavia, già dal 27 Aprile De Rayneval, il rappresentante del governo francese, rivelava al Cardinale Antonelli le vere istruzioni date a Oudinot : riportare il Papa a Roma e desAtuire la Repubblica Romana. Di rimando, il Cardinale Antonelli comunicava a De Rayneval che Ferdinando II, re delle Due Sicilie, si apprestava ad invadere lo Stato PonAficio per lo stesso moAvo. Il giorno dopo, oOomila francesi marciarono verso Roma al comando di Oudinot che decise di stabilire il quarAer generale a Castel di Guido in aOesa di sferrare l’aOacco due giorni dopo. Roma sente che stanno arrivando, Roma vuole resistere, Roma è orgogliosa della sua Repubblica, Roma vuole proteggere i suoi figli, vuole godere nella pace la sua prima estate di libertà dopo tanto tempo. Le acque limpide delle fontane, le statue dei grandi arAsA del passato, i palazzi degli architeH più raffinaA sembrano stringersi idealmente tra loro in un’unica voce accorata e fiera “ Romani, noi vi abbiamo donato la casa più bella, a voi il compito di chiudere la porta in faccia a chi vuole rubarvela. E’ casa vostra. Non dimenAcatelo mai, neanche quando la maledirete per le sofferenze che dovrete paAre per difenderla”. Vennero formate quaOro brigate. La prima agli ordini di Giuseppe Garibaldi che ha 42 anni, alla difesa del seOore tra Porta Portese e Porta San Pancrazio. E’ formata dalla legione garibaldina, dal baOaglione dei giovani reduci, dal baOaglione universitario, dalla legione degli emigraA, dai finanzieri, per un totale di 2.700 uomini. La seconda brigata, comandata dal trentaseOenne colonnello Luigi Masi, doveva difendere la zona tra Porta Cavalleggeri e Porta Angelica. La terza brigata, agli ordini del colonnello Savini, a difesa delle mura sulla sinistra del Tevere. Era cosAtuita da circa 400 uomini. La quarta brigata, comandata dal colonnello Bartolomeo GalleH, cosAtuiva la riserva, pronta ad intervenire dove poteva esserci bisogno. Facevano parte della quarta brigata la legione romana, gli zappatori del Genio, i carabinieri, per un totale di 3.000 uomini. Una ci:à non for=ficata Roma non si presentava come una ciOà forAficata : possedeva una cinta muraria, le mura Aureliane, che non offrivano una protezione adeguata ed erano state rinforzate solo per brevi traH con basAoni posA nelle adiacenze della porta San Paolo. L’unico traOo che era stato realizzato con un criterio più moderno era quello che comprendeva la zona trasteverina fino al suo congiungimento alle mura vaAcane. L’opera faOa realizzare da Papa Urbano VIII nel XVII secolo, aveva previsto la revisione del tracciato delle mura preesistenA con l’avanzamento di Porta San Pancrazio e l’arretramento della Porta Portese, la realizzazione ad intervalli regolari di basAoni e l’inserimento all’interno della nuova cinta dell’intero colle Gianicolense. Tale inclusione rispondeva ad una ben precisa esigenza strategica che prevedeva il controllo del Gianicolo, meOendo così in condizione un eventuale aOaccante di bombardare a suo pieno agio la ciOà soOostante. Non a caso Oudinot, sbarcato col corpo di spedizione francese a Civitavecchia, decise di aOaccare proprio questa zona, ponendo le sue retrovie, accampamenA e deposiA a Monteverde e non predispose altro che manovre diversive su altre direOrici. Il problema difensivo della zona era aggravato dal faOo che il terreno anAstante si trovava allo stesso livello delle mura, alcune ville extraurbane ( ad esempio il casino dei QuaOro VenA ) superavano addiriOura in altezza la porta San Pancrazio. Sebbene taHcamente più praAcabile, un aOacco ad uno dei traH di mura situaA sulla riva sinistra del Tevere avrebbe invece posto ai francesi il grave problema strategico di avanzare in combaHmenA che si sarebbero svolA strada per strada senza poter contare su un efficace appoggio delle arAglierie, a parte poi le conseguenze psicologiche che un pesante danneggiamento della ciOà, nei suoi monumenA come nei suoi luoghi di culto, avrebbe comportato sulla “intellighenzia” europea, ma anche e sopraOuOo su quella componente conservatrice e caOolica sul cui incondizionato appoggio alla spedizione Luigi Napoleone contava per preparare la via alle sue più alte ambizioni poliAche. La Repubblica decise di concentrare la difesa sulla riva destra, mentre tuOe le porte di accesso alla ciOà e Ponte Milvio vennero presidiaA e posA in asseOo di difesa. Le postazioni elevate limitrofe alle mura, quali il basAone della Colonnella sull’AvenAno e Monte Testaccio, vennero munite di baOerie d’arAglieria. Il Ba:aglione della Speranza Nel Novembre del 1847, un ex ufficiale piemontese, tale Pan,er, raccolse alcuni adolescen, romani e cominciò ad addestrarli militarmente : nasceva così il baEaglione della Speranza. Nel 1849 il baEaglione, forte di 33 elemen,, partecipò alla strenua difesa della Repubblica Romana nata soltanto poco tempo prima, dis,nguendosi sopraEuEo alla breccia dell’oEavo bas,one presso Porta San Pancrazio che cadde comunque in mano ai francesi accorsi in aiuto dello Stato Pon,ficio per ripris,nare “l’ordine” messo seriamente a rischio da alcune migliaia di patrio, che pagarono con la vita il tenta,vo di rovesciare la diEatura del Papa e regalare a Roma la libertà. Gli “speranzini”, con l’incoscienza ed il coraggio della loro età, scrissero pagine su pagine di coraggio e diedero almeno quaEro mor, alla nobile causa per cui stavano combaEendo. Gli stessi francesi, una volta caduta la ciEà, vollero rendere solenne omaggio a tanto valore. “ Er baEajone de la Speranza” Ereno ‘n trentatre ma no tren,ni, parlaveno ‘n’antra lingua, quella dei romani, te faceveno tenerezza, sbarba, e regazzini, ma pron, a difenne Roma co’ li den, e co’ le mani. Su la breccia ormai sbracata de l’oEavo bas,one, proprio addosso a Porta San Pancrazzio, s’era appostato l’imberbe baEajone, sapenno che a sora morte bbisognava pagà dazzio. E puntuale venne a riscote cor soriso e co’ la farce, ggnente scon, pe’ chi s’era già immolato così giovane e soEo ‘n cumulo de carce, senza gloria e senza cassa seppellito. La speranza però nun s’ammazza cor cannone e, senza sapello, chi ha premuto quer grilleEo ha rigalato l’eternità a quer baEajone che m’ha gguidato a scrive ‘sto soneEo. Quanno d’estate a Roma c’è meno confusione e li rumori se senteno de meno, s’appizzi le recchie tra er Gianicolo e Parione, riesci a senp dis,nto ‘n canto giovane e sereno… Quello der baEajone de la Speranza che ogni noEe ancora fa la ronda su ‘na stella e dice “Romani, nun graEateve la panza, difennete sempre come noi ‘sta Roma bbella!”. Il 30 aprile 1849, la ciOà intera traOenne il respiro. Nell’aria immobile di quella tenera maHnata di aprile che più si addiceva all’amore che non alla guerra, Roma si preparò ad affrontare quella che sarebbe stata una delle pagine più dolorose e gloriose della sua pur millenaria storia. Nei volA dei combaOenA la paura di chi sapeva che la morte sarebbe stata al suo fianco ogni minuto e nello stesso tempo la sicurezza di chi era ben cosciente di quanto alto e nobile fosse l’ideale che si apprestava a difendere. Alle ore 11,30 Oudinot sferrò il suo aOacco lungo due direOrici : Porta Cavalleggeri e Porta Angelica gli obieHvi che 5.000 soldaA francesi dovevano raggiungere . Garibaldi e la sua brigata si trovava fuori le mura, nei pressi di villa Pamphili. Con lui, anche il baOaglione universitario romano . Il Generale aOese pazientemente i francesi per poi coglierli di sorpresa di fianco. Il conAngente di Oudinot venne preso a cannonate e fucilate ed ignominiosamente respinto dai miliA della Guardia Civica mobilizzata, comandata da Ignazio Palazzi e denominata anche Guardia Nazionale per l’aggiunta dei Corpi Civici provenienA da altre ciOà degli StaA Romani. GalleH uscì da Porta San Pancrazio e con lui l’entusiasmo della Legione Romana che, coadiuvata dalle truppe del colonnello Masi, costrinse i transalpini a riArarsi lungo la via Aurelia AnAca. Erano le ore 17 di quel Aepido pomeriggio di aprile. Garibaldi li inseguì sino a MalagroOa per disperderli ed il maHno del giorno dopo chiese i rinforzi necessari per distruggere il conAngente francese in fuga che aveva lasciato dietro di sé 500 morA e 365 prigionieri. Non fu accontentato. Mazzini sperava ancora di poter traOare con i francesi ed un’umiliazione del genere avrebbe reso di certo più difficili le eventuali traOaAve. Si rivelò un imperdonabile errore, considerando il successivo indurirsi della posizione francese. TuOavia, l’immagine della Repubblica Romana ne uscì assai rafforzata, come anche la causa italiana in Europa. Un altro importante e sopraOuOo confortante elemento di quesA primi scontri, si rivelò indubbiamente il provato aOaccamento della popolazione e dell’esercito alla causa. Oudinot rimase sorpreso da tanta veemenza da parte dei difensori di Roma. Cosa stava succedendo a quella gente che per secoli non aveva mai osato ribellarsi all’ordine cosAtuito, cosa stava spingendo il popolo a costruire barricate, a meOere in gioco la propria vita per rovesciare un potere mai discusso per tanto tempo ? non poteva comprenderlo. Lui era soltanto un soldato dell’esercito regolare francese che stava eseguendo un ordine come tanA altri ricevuA in precedenza dai suoi superiori. Una cosa tuOavia aveva ben capito : ora sapeva che con le truppe a disposizione non avrebbe mai vinto questa guerra ed allora chiese a Parigi adeguaA rinforzi che gli vennero accordaA da Luigi Napoleone il 7 di maggio. Intanto gli austriaci avevano occupato Ferrara e contemporaneamente l’esercito borbonico con 16.000 uomini guidaA dallo stesso re Ferdinando II, stava entrando nel territorio della Repubblica Romana, invadendo il Lazio meridionale. Mazzini spedì Garibaldi a fermarli o quantomeno a resistere a quell’ ennesimo aOacco al territorio repubblicano. Al suo fianco i bersaglieri Manara, Morosini e i fratelli Dandolo che già avevano dato prova del loro valore durante le cinque giornate di Milano nel marzo del 1848. CAPITOLO II Spesso sono le diverse moAvazioni a decidere le sorA di una contesa e Garibaldi riuscì infaH a sconfiggere 7.000 napoletani a Palestrina. Alla testa di 2.300 uomini si scontrò con le avanguardie napoletane del generale Ferdinando Lanza che avanzava sicuro della viOoria sulla ciOadina. Garibaldi che, come deOo, tra le sue forze contava anche il baOaglione bersaglieri lombardi al comando di Luciano Manara, contraOaccò furiosamente e costrinse Lanza alla riArata. La viOoria fu in ogni caso parziale, perché il grosso dell’esercito borbonico non partecipò alla baOaglia. Anche gli spagnoli aOaccarono il Lazio meridionale. A Gaeta, rifugio dorato di Pio IX, sbarcò un Corpo di spedizione spagnolo di 9.000 uomini che prese però ad avanzare sulla direOrice Terracina‐Priverno dietro precise indicazioni della Francia. Anche da questa decisione si può capire quanto Oudinot tenesse a condurre da solo questa campagna . La viOoria doveva essere esclusivamente francese!. Ferdinand Lesseps, diplomaAco plenipotenziario del governo francese venne inviato da Luigi Napoleone a Roma con un mandato volutamente equivoco per prendere tempo. Lui probabilmente non era al corrente di questo bieco disegno ed iniziò a traOare con Mazzini una tregua di venA giorni che venne sancita dall’accordo del 16 maggio. In quella stessa data Roselli, comandante di tuOe le forze militari romane, con 10.000 uomini usciva da Roma e si dirigeva su Albano per fronteggiare Ferdinando II e le sue truppe. TuOavia Ferdinando, venuto a conoscenza della tregua firmata dai romani con i francesi, decise di evitare lo scontro e si riArò a Velletri. Garibaldi, con le sue innate virtù di stratega, decise allora di tagliare la strada ai napoletani nel momento in cui sarebbe scaduta la tregua stabilita, ma Roselli gli ordinò di aOendere il suo arrivo. Il Generale sapeva che aOendere, sarebbe potuto risultare fatale ed allora ignorò l’ordine e aOaccò alla testa dei suoi soldaA meOendo in fuga le truppe borboniche che si riArarono nuovamente a Velletri. Roselli mancò l’appuntamento con la gloria, arrivando a Velletri quando i napoletani si stavano già riArando entro i loro confini ancora inseguiA da Garibaldi. Soltanto un preciso ordine del triumvirato fermò garibaldini e bersaglieri già in territorio Borbone. Gli austriaci invece conAnuavano inesorabilmente la loro marcia verso Roma. Conquistarono Bologna e vi insediarono nuovamente un Governatore nominato dal Papa. Pochi giorni dopo caddero anche Imola, Forlì, Cesena e Rimini. In breve tuOa l’Emilia Romagna ritornò soOo il dominio del Papa che, dalla sua comoda Gaeta, già pregustava il suo ritorno trionfale a Roma . Nubi sempre più nere e gravide di pioggia stavano minacciando il cielo della Repubblica Romana che, osAnatamente, conAnuava ad affermare i princìpi che l’avevano vista nascere. Il 29 Maggio il Ministro degli Esteri francese scrisse a Lesseps “Il governo della Repubblica francese ha posto fine alla vostra missione. Vogliate ripar,re appena ricevuto questo dispaccio”. Lo stesso giorno, a Oudinot scrisse invece il Ministro della Guerra francese per avverArlo che i rinforzi erano parAA da Tolone e che doveva affreOare le operazioni per risolvere la fasAdiosa quesAone romana nei tempi più brevi possibili. Ebbe a sua disposizione un conAngente ben più corposo : 36.000 uomini. La comunicazione arrivò a Oudinot il 31 maggio, proprio lo stesso giorno in cui Lesseps e Mazzini raggiunsero un accordo sul seguente testo, ricco di principi falsi ed ipocriA ma che Mazzini, conscio del potenziale dell’esercito francese, decise comunque di soOoscrivere : Art. 1 ‐ L’appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni degli Sta, romani. Esse considerano l’armata francese come un’armata amica che viene a concorrere alla difesa del loro territorio . Art. 2 – D’accordo col governo romano e senza immischiarsi affaEo nell’amministrazione del paese, l’armata francese prenderà gli accantonamen, esterni, convenevoli per la difesa del paese che per la salubrità delle truppe. Le comunicazioni saranno libere. Art. 3 – La Repubblica francese garan,sce contro ogni invasione straniera il territorio occupato dalle sue truppe. Art.4 – Resta inteso che la presente convenzione dovrà essere soEomessa alla ra,fica del governo della Repubblica francese. Art. 5 – In nessun caso gli effeS della presente convenzione potranno cessare che 15 giorni dopo la comunicazione ufficiale della non ra,fica. Se il governo della Repubblica francese avesse rispeOato anche un solo arAcolo dei cinque soOoscriH, per la Repubblica Romana si sarebbe comunque traOato di un insperato successo diplomaAco, ma non andò così. L’inarrestabile avanzata degli austriaci convinse il triumvirato a richiamare Garibaldi a Roma, ma non part mai contro di loro perché i francesi il primo giugno ripresero le osAlità. Roma stessa stava per essere accerchiata dalle più potenA forze caOoliche del momento. I tamburini della Repubblica Romana Tamburini della Repubblica Romana cadu, durante la difesa di Roma : ASlio Zampini – anni 14 di Roma – Tamburino baEaglione della Speranza Giovanni Gionchini – anni 16 di Rimini, contadino – Tamburino 6° Rgt. fanteria Domenico Subiaco – anni 16 di Ripi – Tamburino 10° Rgt fanteria Ignoto – anni 9 – Tamburino 10° Rgt fanteria Felice Carlini – anni 12 di Roma – Milite Civico – Armaiolo Giuseppe Celli – anni 16 di Roma – Calzolaio Ambrogio Fra,celli – anni 15 di Spoleto – volontario Vincenzo MaEeucci – anni 12 romagnolo – borghese Francesco Michelini – anni 12 di Roma – lavorante alle barricate Lorenzo BruneS – anni 13 di Roma – popolano “Er tamburino de la Repubblica Romana” Quanno sòno ‘sto tamburo all’artri je ribbolle er sangue ne le vene, quarcuno se commove, so’ sicuro, quarcun artro punta lo schioppo pe’ ,rà bbene. Stamo chiusi qua ar Vascello da più de ‘n mese a sputà su li francesi, maggnamo puro le radici e sur più bbello ariva ‘na palla e rimanemo stesi. Io so’ de Roma e questa è la tera mia, cio’ dodici anni e mi madre a casa ancora piaggne da quanno j’ho deEo che venivo via co’ li garibbardini p’arivortà er papato e le sue magaggne. A giugno der ‘quarantanove è arivata l’ora de scrollasse de dosso ‘sta diEatura, de fa’ sventolà ‘n’artra bandiera e ripijasse ‘sta ciEà e le sue mura. L’artri so’ venu, tuS pe’ combaEe come leoni ‘n gabbia pe’ la libbertà, “Repubblica Romana”, che devo diEe, è ‘na parola che nun po’ più aspeEà. Porta San Pancrazzio è già caduta, l’odore der sangue ariva fino qua, po’ esse che l’ora mia sia già arivata, ma io nun tremo e l’aspeEo qua. Ce stanno a bbombardà da seSmane e nun finischeno mai le munizzioni a ques, co’ l’ere moscia e fiji de ‘n cane che de Pio Nono so’ li pecoroni. Sento callo propio su la panza, sarà che l’estate ha ggià steso le mani su ‘s, quaEro straccioni e su ‘na stanza piena de milanesi, de romani, de itaijani! No, nun me la so’ faEa addosso, puro si so’ baggnato su ‘sto leEo, ‘sto colore de ‘sta camicia mo’ è più rosso, è de quer sangue ‘nnocente che ciò ‘n peEo. “Stanno a arivà!” sento da lontano e tuS coreno ancora sopra er muro, s’aspeEeno che puro stavorta do ‘na mano sonanno senza requie ‘sto tamburo. Ma nun ce riesco, nu je ja faccio a arzamme, chissà che m’è preso proprio oggi, er giorno c’hanno smesso de curamme p’annassene via tuS moggi moggi. Dateme ‘n tamburo che puro dar leEo devo sonà la carica ai romani, fosse l’ur,ma cosa solo pe’ dispeEo, puro si nun ariverò a domani. E’ la tera mia, qui so’ cresciuto, m’hanno messo addosso er tricolore, quarcuno dirà che ‘n artro eroe è caduto, ma chi po’ esse felice si un regazzino more… Oudinot, il primo giugno annunciò la ripresa del confliOo per il giorno 4 dello stesso mese, secondo gli accordi che da genAluomo presunto aveva sancito con Manara. La Storia tuOavia gronda di episodi in cui è la furbizia a prevalere sull’onore e così il “genAluomo” francese, venendo meno alla sua parola, aOaccò all’improvviso alle tre della noOe del 3 giugno con 20.000 uomini, trentasei cannoni da campagna e quaranta da assedio. L’aOacco dei francesi colse i romani di sorpresa, ma i difensori avevano già provveduto, almeno parzialmente, a demolire ponte Milvio che rappresentava una delle più comode vie d’accesso per entrare a Roma. Dopo il combaHmento, i francesi riprisAnarono la piena transitabilità del ponte con travi e tavole di legno, aOestandosi anche sulla sponda sinistra del Tevere. A sud di Roma, a Santa Passera, vicino alla Basilica di San Paolo, il fiume era stato sbarrato dai francesi con un ponte di barche, per impedire i rifornimenA alla ciOà. Con l’occupazione di ponte Milvio, restarono tagliaA fuori i rifornimenA alla ciOà per via fluviale, anche da nord. Il cerchio si strinse sempre di più. Immediatamente dopo, vennero occupate Villa Pamphili, Villa Corsini e il Casino dei QuaOro VenA. Da “La Repubblica Romana raccontata da Cesare Pascarella” “Eppure, come daveno er segnale (mentre da le finestre e le ferrate veniva giù l’inferno!), dar viale se rimontava su le scalinate; S’entrava ner portone, pe’ le scale, pe’ le camere, fra le baricate de sedie e tavolini, pe’ le sale, a mozzichi, a spintoni, a sciabolate, Co’ qualunqu’arma, come se poteva, fra fiamme, foco, strilli, sangue, morte, se cacciaveno via; se rivinceva; Se rivinceva; ma nun ce fu verso de spuntalla. Fu preso pe’ tre vorte de fila e pe’ tre vorte fu riperso. Cesare Pascarella ( Roma 28.4.1858 – Roma 8.5.1940 ) Cesare Pascarella è uno dei poe, dialeEali romani di maggior livello. Il suo nome, tuEavia, è assai meno famoso di quelli di Belli e Trilussa, persino nella stessa Roma. A questo ha forse contribuito in parte il faEo che il numero delle sue opere è senz’altro minore rispeEo al patrimonio leEerario lasciato dagli altri due grandi poe,. I soggeS preferi, da Pascarella per i suoi soneS erano sopraEuEo la storia italiana e il vissuto quo,diano di Roma. Il poeta nacque durante anni cruciali per la storia d’Italia. Dopo tre guerre d’Indipendenza, l’unificazione delle molte regioni, da nord a sud, stava gradualmente avvenendo. Roma, ancora soEo il governo del Papa, sarebbe stata conquistata dalle truppe italiane non prima del 1870, quando il poeta aveva dodici anni. Tra gli altri scriS, si occupa anche di descrivere le vicende della Repubblica Romana e tale descrizione in deEaglio è così realis,ca e dramma,ca che, benché in dialeEo, quest’opera andrebbe considerata un piccolo poema epico. Il colonnello Pietro Pietramellara ed i suoi uomini difesero strenuamente Villa Pamphili. Pietro Pietramellara “Sor colonnello, ‘s, fiji de ‘na miggnoEa nun hanno rispeEato li paS, ce stanno pe’ sartà addosso, ‘nnamo sor colonne’, che si se pijeno villa Pamphili semo friS !!” “ MeEete le baioneEe ‘n canna fiji de Roma, damo ‘n’artra lezzione a ‘s, francesi.” “Sete pron,?” “ Sì, sor colonne’, semo pron,.” “Allora aEaccateli!, annateje addosso come le cavalleEe, nu je date requie a ‘s, farzi senza onore!”. Pietramellara, alla testa delle sue truppe, riesce a contenere l’aEacco nemico, coprendo la ri,rata delle tre compagnie ai suoi ordini. “Anvedi er colonnello!, cià tre bbuchi su la giacca e la sciabbola spezzata, ma come cazzo fa a sta’ ancora ‘n piedi?”. Due giorni dopo il colonnello Pietramellara viene colpito alla spalla a villa Savorelli e muore il 5 luglio mentre i francesi, ormai vinta qualunque resistenza, stavano entrando in ciEà. Il suo funerale nella chiesa di San Vincenzo Anastasio, viene interroEo dall’ingresso nell’edificio delle truppe transalpine con le baioneEe in canna. “Ma che stanno a fa’?, lo vonno ammazzà ‘n’artra vorta?” “ Guarda mejo compà, l’offesa a quer poro disgrazziato è puro peggio de ‘na seconna morte. Je stanno a staccà la coccarda bianca, rossa e verde dar peEo. “Ma l’anima de li mortacci loro!, mò je lo fo’ vede io a ‘s, quaEro zozzi….” “ StaEe bbono, tu nu’ je fai vedè propio ggnente. Pija esempio da Roma : porta pazzienza e aspeEa….”. Dopo aver iniziato gli studi nel collegio militare di Venezia, Pietro Pietramellara torna a Bologna dove consegue la laurea in Giurisprudenza. Quindi lascia la ciEà per andare al servizio di Carlo Alberto come ufficiale dei Grana,eri. Durante questo servizio a Genova, diventa membro della Giovine Italia, finendo per essere coinvolto nei falli, mo, del 1833 durante i quali, alla guida di una Compagnia di Grana,eri, avrebbe dovuto occupare il forte dello Sprone, innalzando la bandiera tricolore. Sfuggito all’arresto, torna a Bologna oEenendo di conver,re la condanna a morte con l’esilio dagli sta, sardi. Riprende l’aSvità cospira,va fino a quando, scoperto dalle Autorità Pon,ficie, fugge in Francia. Ritorna nel 1847 a Bologna ove contribuisce alla organizzazione della Guardia Civica e diventa, con il grado di colonnello, il comandante del baEaglione VI fucilieri, dis,ntosi nella difesa di Vicenza durante la prima guerra d’Indipendenza. Dopo la controffensiva austriaca che obbliga Carlo Alberto a chiedere l’armis,zio, Pietramellara si dirige a Roma come tan, altri patrio, per difendere Roma dalle truppe francesi. Muore il 5 luglio per le ferite riportate nelle innumerevoli baEaglie a cui partecipa. Il suo sacrificio verrà ricompensato, ma soltanto 21 anni dopo, quando il 2 oEobre 1870 sarà sancita l’annessione di Roma all’Italia. Due ore dopo il vile aOacco dei francesi, iniziato contravvenendo alla tregua stabilita di comune accordo , Garibaldi, con pochi uomini decisi a far pagare l’offesa perpetrata dai transalpini nei confronA di Roma, intervenne per bloccare i francesi e riprendere le postazioni perdute fuori San Pancrazio. Tra gli altri, anche Nino Bixio venne ferito ad un fianco mentre stava guidando l’ennesima carica contro i francesi. Alle 9 del maHno arrivarono a dar manforte a Garibaldi i bersaglieri di Manara e l’arAglieria comandata da Alessandro Calandrelli, fino a quel momento osAnatamente e inopinatamente bloccaA a Piazza del Popolo da Roselli che intendeva tenerli di riserva. Decisione incomprensibile se si considera l’enorme disparità di forze con la quale le camicie rosse stavano tenendo testa al generale Oudinot. I romani, perché ciOadino romano a tuH gli effeH deve essere considerato chiunque abbia difeso in quei giorni la CiOà Eterna, contavano 6.000 uomini contro 16.000 francesi. Dovevano difendere almeno la zona compresa tra Porta Portese e Castel Sant’Angelo. Il Castello di Roma La storia di Castel Sant’Angelo coincide sostanzialmente con quella di Roma ed è pra,camente impossibile scindere queste due realtà così profondamente compenetrate : i mutamen,, i rivolgimen,, le miserie e le glorie dell’an,ca Urbe sembrano rifleEersi puntualmente nella massiccia mole che da quasi duemila anni si specchia nelle acque del Tevere. Nasce come sepolcro voluto dall’Imperatore Adriano in un’area periferica dell’an,ca Roma ed assolve questa sua funzione originaria fino al 403 d.c. circa, quando viene incluso nelle mura aureliane per volere dell’Imperatore occidentale Onorio. Da questo momento inizia una “seconda vita” nelle ves, di castellum, baluardo avanzato oltre i Tevere a protezione della ciEà. Numerose famiglie romane se ne contendono il possesso, visto che sembra garan,re una posizione di preminenza nell’ambito del confusionario ordinamento dell’Urbe. Sarà roccaforte del senatore TeofilaEo, dei Crescenzi, dei Pierleoni e degli Orsini. E’ proprio un Papa Orsini – Niccolò III – a far realizzare il “passeEo di Borgo”, che collega il Va,cano a Castel Sant’Angelo, in una sorta di con,nuità fisica ed ideale. Nel 1367 le chiavi dell’edificio vengono consegnate a Papa Urbano V per sollecitare il rientro della Curia a Roma dall’esilio avignonese. Da questo momento in poi, Castel Sant’Angelo lega inscindibilmente le sue sor, a quelle dei Pontefici che lo adaEano a residenza in cui rifugiarsi nei momen, di pericolo. Grazie alla sua struEura solida e for,ficata ed alla sua fama di imprendibilità, il Castello ospita l’Archivio ed il Tesoro Va,cano, ma viene adaEato anche a Tribunale e prigione. Con il cambiamento di funzione, l’aspeEo e l’impianto del castello vengono rimodella, aEraverso una lunghissima serie di interven, che si snodano nel corso di quaEro secoli. Nuove struEure si assommano a quelle preesisten,, alterandole, modificandone la funzione, talvolta cancellandole, in un processo di trasformazioni ininterroEe che sembrano scivolare l’una nell’altra senza soluzione di con,nuità. La storia lunghissima e variegata dell’edificio, con le sue mille metamorfosi, sembra essersi sedimentata nel complicato intrico di soEerranei, ambien,, logge, scale e cor,li che cos,tuiscono l’aEuale asseEo del castello. La struEura originaria e le successive modifiche si compenetrano, sovrapponendosi e fondendosi l’una con le altre e dando vita ad un organismo sfacceEato e complesso, carico di valenze simboliche e stra,ficazioni storiche. “Caster Sant’Angelo” Caster Sant’Angelo è ‘n simbbolo, quello de la Roma papalina che co’ ‘na mano te chiedeva l’obbolo e co’ quell’artra faceva funzionà la ghijoSna. Era ‘na priggione che faceva effeEo, Ancora Garibbardi Roma nu l’aveva presa, penzarono li Papi puro ar “passeEo” pe’ dassela a gambe ‘n nome de Santa Madre Chiesa. Pasquino a quer tempo ciaveva sì da scrive Più de chi deEò la Sacra Bbibbia, er popolo ziEo come ‘n sorcio vive pe’ paura de quer posto peggio de Rebbibbia. Er Papa chiamava a sé le pecorelle, ma si eri ggiudio c’era er coprifoco, le messe eri costreEo a sen,nne mille si nun volevi proprio campà poco. Mò rimane solo quarche scriEa a ricordà chi sollevò er popolo romano p’esse gius,zziato da mastro TiEa in nome der popolo sovrano. La baOaglia fu cruenta e senza pause. Mentre i francesi conducevano un’azione diversiva su Ponte Milvio, cadde a soli venAdue anni Enrico Dandolo, varesino e amico fraterno di Emilio Morosini col quale era parAto per difendere la Repubblica Romana agli ordini di Luciano Manara. Alle 18 ancora si combaOeva. Era ormai sera quando anche il genovese Goffredo Mameli, il poeta‐patriota che ci ha lasciato in eredità il nostro fiero e bistraOato inno nazionale che ulAmamente qualcuno ha sacrilegamente proposto di sosAtuire con un altro canto, venne ferito gravemente ad una gamba. Era stato già colpito nella baOaglia di Porta Cavalleggeri il 30 aprile. La gamba gli venne amputata per evitare la cancrena, ma il tentaAvo risultò purtroppo inuAle e morì per le conseguenze il 6 luglio, due soli giorni dopo la morte della Repubblica che stava difendendo. L’inno d’Italia ‐ il ricordo di Carlo Alberto Barrili A proposito del nostro inno nazionale, la tesAmonianza più nota è quella resa, seppure molA anni più tardi, da Carlo Alberto Barrili, patriota e poeta, amico e biografo di Mameli. Torino, casa di Lorenzo Valerio “ Colà, in una sera di mezzo seEembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scriEore di buon nome, si faceva musica e poli,ca insieme. InfaS, per mandarle d’accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sboccia, appunto in quell’anno per ogni terra d’Italia. In quel mezzo entra nel saloEo un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l’egregio piEore che tuS miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova e, voltosi al musicista Novaro con un foglieEo cavato di tasca in quel punto – Tò – gli disse – te lo manda Goffredo. Il Novaro apre il foglieEo, legge, si commuove. Gli chiedono tuS cos’è; gli fan ressa d’aEorno. – Una cosa stupenda! – esclama il maestro e legge ad alta voce e solleva d’entusiasmo tuEo il suo uditorio. – Lo sen,i – mi diceva il maestro nell’aprile del 1875, avendogli io chiesto no,zie dell’inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli. – Sen,i dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tuS i ven,seEe anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato e non potevo stare fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo con le dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno,meEendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adaEarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me, mi traEenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davan, agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buEai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il mo,vo strimpellato in casa Valerio : lo scrissi su di un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani, nella mia agitazione rovescio la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio : fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia”. Ancora a proposito del nostro inno nazionale…. Da “La Repubblica Romana raccontata da Cesare Pascarella” “E come risen,vi dì : Fratelli D’Italia…, rivedevi tuS quan, co’ l’acceEe, li sassi, li cortelli, corre a le mura e ribuEasse avan,. TuS li rivedevi!...perfino quelli chiusi ne l’ospedali, agonizzan,, li rivedevi pallidi, treman, scenne da leEo e uscì da li cancelli; Rivedevi li mor, insanguina, che riapriveno l’occhi, se riarzaveno da per tera dov’ereno casca,, E senza sen,’ più li pa,men, de le ferite, se ristracinaveno su le mura e moriveno conten,. Era ormai giunta noOe, in soccorso delle truppe romane intervenne anche il reggimento Unione, ma il casino dei QuaOro VenA rimase in mano ai francesi. La resistenza dei romani permise alle truppe di avere ancora soOo controllo il “Vascello”. La baOaglia era durata sedici ore, Garibaldi aveva perso 500 uomini e Manara contava tra i suoi bersaglieri 200 morA. Dal canto loro, i francesi di Oudinot lamentavano la perdita di 250 uomini e 14 ufficiali. A Garibaldi erano rimasA soltanto due ufficiali di Stato Maggiore. Il 4 Giugno i francesi posero l’assedio a Roma forA di circa 30.000 uomini : iniziò così l’agonia della Repubblica Romana che chiamò alle armi “sino all’ulAmo uomo”. A tal proposito, mi è d’obbligo citare il grande Nino Manfredi che, vestendo i panni di Ciceruacchio nel film di Gigi Magni “In nome del popolo sovrano”, mentre incita il popolo a combaOere sino all’ulAmo uomo, ad un prete casualmente presente che aveva appena affermato “Non contate su di me!”, risponde con tuOa l’amara ironia dei romani “ Guarda che mica ce l’avevo co’ te. Ho deOo fino all’urAmo omo, mica fino all’urAmo prete….”. Implacabili le ore erano scandite dai bombardamenA programmaA e direH da Oudinot che non aveva certo scrupoli a distruggere Roma, a radere al suolo le inarrivabili opere d’arte che fanno della Capitale ancora oggi un museo a cielo aperto. Viene da chiedersi quant’altro avrebbe potuto offrire questa ciOà al mondo se nel susseguirsi dei secoli non fosse stata conAnuamente saccheggiata, ferita, violentata dal barbaro isAnto di distruzione degli uomini. I rappresentanA consolari di StaA UniA, Inghilterra, Russia, Prussia, Danimarca, Svizzera, Paesi Bassi, Piemonte, San Salvador e Portogallo inviarono una formale protesta a Oudinot, scongiurandolo di porre fine al tremendo bombardamento che stava distruggendo tante opere d’arte. TuOo risultò inuAle. All’interno delle mura, la difesa venne affidata a circa 16.000 soldaA o volontari della Repubblica Romana, a 2.000 volontari di altre regioni italiane e a 300 volontari provenienA da altri paesi europei : uomini di Scienza, ufficiali, semplici amanA della libertà, delle meraviglie di Roma, uomini che intendevano preservare questo patrimonio arAsAco dell’intera Umanità. Il 10 di giugno i francesi interruppero l’acquedoOo Paolo che riforniva Trastevere e San Pietro. La morte stese lentamente il suo manto nero sulla ciOà anche a causa delle malaHe infeHve che si propagavano senza controllo nelle strade, nei vicoli, nelle povere case di Roma, diventando così il maggiore alleato dei francesi che instancabilmente conAnuavano i bombardamenA. Righe:o “A Righè, ‘nnamo che puro oggi dovemo speggne le bbombe de quei fiji de ‘na miggnoEa. Ce ll’hai li stracci baggna,? Ahò, che cazzo stai a fa ancora llà soEo co’ Sgrullarella? Noi stamo tuS qua sopra a Ponte Sisto, daEe ‘na mossa. Semo sorda,, mica regazzini!. Aricordete quello che cià deEo er Generale…”. “ A regà, che palle che sete!! Me so’ appena sveijato e già state qua? StanoEe nun ho chiuso occhio, ‘tacci loro e de chi ce l’ha faS venì ‘s, francesi. Daje Sgrullarè, famose ‘n ber baggno tuE’e due qua soEo a Tevere…’nnamo cacasoEo che nun zei artro!, guarda che nun è pe’ ggnente fredda. Anvedi ahò! Guardate qua….mò le bbombe ce cascheno ‘n mano, senza dovelle annà a riccoje, Guardate regà, guard……”. RigheEo ha 12 anni quando una maSna del giugno 1849, sulla spiaggeEa della Renella soEo ponte Sisto, una bomba gli cade sulle mani stroncando la sua giovane vita e facendo a pezzi Sgrullarella, l’affeEuosissima cagnolina che rappresentava tuEa la sua famiglia. In Trastevere, uno dei quar,eri più bombarda,, si fa fronte come si può all’aEacco delle truppe francesi. TuS. Si dis,ngue tra gli altri un insolito gruppo di combaEen, : “ li regazzini”. Un gruppo che escogita un sistema di protezione infallibile, seppure ad al,ssimo rischio. Quando le bombe finiscono sul suolo, per disinnescarle basta premere sulle loro micce con uno straccio bagnato. RigheEo è il capo di questa banda di piccoli eroi incoscien, della Repubblica Romana. Senza padre né madre, lavora come garzone presso un fornaio per guadagnarsi un pezzo di pane. La sua famiglia è rappresentata soltanto da Sgrullarella.Come casa la strada. Fino a quella maSna di giugno. La noOe stessa del 10 giugno, i romani tentarono una sorAta con circa 8.000 uomini per rompere l’assedio che ormai durava da sei giorni, ma vennero ricacciaA nelle loro posizioni senza grandi difficoltà. Era ardua impresa per soldaA provaA dalla stanchezza, dalla fame e dalla mancanza pressoché assoluta di approvvigionamenA, riuscire a ribaltare una situazione che giorno dopo giorno volgeva sempre più a favore di un esercito che possedeva risorse enormemente superiori alle loro. Eppure quelle truppe, armate più di determinazione che di altro, non cedevano. SpinA da un ideale che da solo azzerava l’enorme disparità di forze in campo, i soldaA della Repubblica stavano resistendo contro qualunque logica militare . Ogni angolo era un nascondiglio, un possibile agguato da tendere ai francesi. Si combaOeva strenuamente nelle zone della via Flaminia, ai Parioli, a villa Borghese. Cris=na Trivulzio Di Belgioioso Sin dal 20 aprile, a CrisAna Trivulzio di Belgioioso venne dato l’incarico di formare un comitato di soccorso ai feriA. Ecco che le donne entravano in scena nella fase decisiva di una guerra senza speranza. Le barelle andavano e venivano senza interruzione dagli ospedali e le donne romane, incuranA della faAca e dei pericoli che ora incombevano anche su di loro, svolgevano senza sosta la loro preziosa aHvità per salvare tante vite umane. Da San Pietro in Montorio ai vicoli di Trastevere, il sangue dei feriA formava mille geometrici rigagnoli rossi, formando come un’unica ed enorme ragnatela di quel colore cupo in tuOo il quarAere, suscitando orrore e commozione nel cuore di ogni romano ma, contemporaneamente, alimentando in maniera feroce la voglia di resistenza di un popolo allo stremo ed allo stesso tempo senza la minima voglia di cedere allo straniero la propria Patria. Nella tradizione popolare, ancora oggi questa strada ( l’aOuale Via Garibaldi ) è chiamata “la strada del sangue” e purtroppo in questa definizione non c’è alcuna romanAca enfasi, ma soltanto cruda realtà. CrisAna assunse l’incarico di direOrice delle ambulanze. Al suo fianco Giulia Modena, moglie dell’aOore mazziniano, del comitato di soccorso della Repubblica Romana fecero parte anche Margherita Fuller, la scriOrice americana che aveva sposato in segreto il marchese Ossoli ed EnricheOa Di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane. TuOavia, nonostante l’impegno di queste magnifiche donne, la mancanza di mezzi sanitari idonei, permise soltanto parzialmente di fornire ai feriA anche gravi gli intervenA necessari. Se a questo si aggiungeva, come diceva CrisAna che “Il Consiglio di sanità è composto di neri (pre,) e di asini e l’intendenza di ladri”, si poteva capire come i risultaA tardassero a venire. Poiché qualunque iniziaAva doveva essere decisa collegialmente, il Consiglio passava più tempo in seduta che sui malaA. La proposta di CrisAna Trivulzio di Belgioioso di aprire una scuola per infermiere, stante la precaria situazione, cadde nel vuoto. Sugli ospedali decise di stendere un drappo nero, sperando che la pietà dei francesi potesse risparmiare almeno i ragazzi feriA o morenA, ma anche questa iniziaAva non sort alcun effeOo. La sua febbrile aHvità umanitaria e patrioHca, venne oltretuOo ignobilmente infangata da una cocente offesa a lei indirizzata da Pio IX che la insultò volgarmente con l’incipit dell’Enciclica papale “NosciAs et nobiscum” emessa a Napoli, dal sobborgo di PorAci, l’ 8 dicembre del 1849 : “Voi conoscete e vedete con Noi, o Venerabili Fratelli, con quanta malvagità siano invalsi e abbiano preso animo cer, dichiara, nemici della verità, della gius,zia e di ogni onestà, i quali sia con frode e con insidie di ogni faEa, sia all’aperto e come fluS del mare inferito che spumano le proprie turpitudini, si studiano di propagare da per tuEo tra i popoli della caEolica Italia una sfrenata licenza di pensare, di favellare e di osare ogni cosa, e si sforzano di indebolire nella stessa Italia la religione caEolica, e di aEerrarla, se fosse possibile mai, fino alle fondamenta. La trama di questo infernale divisamento si diede a conoscere in parecchi luoghi, ma sopraEuEo nell’alma Nostra ciEà, sede del Nostro supremo Pon,ficato, nella quale, poiché fummo costreS a par,rne, imperversarono più liberamente, sia pure per pochi mesi, e ove, messa li con sacrilego aEentato soEosopra ogni cosa divina e umana, il loro furore giunse a tal segno, che conculcata l’autorità e impedita l’opera dello specchia,ssimo clero romano e delle Autorità che per Nostro comando sopraEende vano ivi alle cose sacre, più d’una volta gli stessi miseri infermi già presso a morire, sprovvedu, di ogni conforto della Religione, furono costreS ad esalare lo spirito fra le lusinghe di sfacciata meretrice”. La Belgioioso replicò fieramente “Non sosterrò che tra la mol,tudine di donne che, durante il maggio e giugno del 1849, si dedicarono alla cura dei feri, non ve ne fosse neppure una di costumi reprensibili : Vostra San,tà si degnerà sicuramente di considerare che non disponevo della Polizia Sacerdotale per indagare nei segre, delle loro famiglie, o meglio ancora dei loro cuori. TuEavia, di una sola cosa si poteva esser cer,, che esse erano state per giorni e giorni al capezzale dei feri,; non si ritraevano davan, alle fa,che più estenuan,, né agli speEacoli o alle funzioni più ripugnan,, né dinnanzi al pericolo, dato che gli ospedali erano bersagli, proprio per con,nuo criminale incitamento papale, delle bombe francesi.”. I romani, in special modo gli abitanA di Trastevere, non dimenAcarono mai l’ignobile aOeggiamento di Pio IX che, proprio lui, rappresentante di Dio sulla Terra, stava incitando la Francia al massacro della popolazione della ciOà sede del Papato. Il 7 febbraio 1878, durante i funerali di questo Papa ineOo e senza alcun fremito umanitario, la polizia e i bersaglieri riuscirono a stento a traOenere la folla inferocita. Il carro venne spinto verso il parapeOo di ponte Sant’Angelo al grido di “A fiume il Papa porco”, mentre il popolo intonava canA patrioHci. I Cardinali del seguito sfuggirono a stento ad una lunga sassaiola e la salma del Papa giunse al cimitero del Verano soltanto a tarda noOe. A proposito di meretrici, cito infine, non senza un filo di amara ironia, un avviso pubblicato in data 27 luglio 1849, dopo che la Repubblica Romana era già decaduta da quasi un mese “ Avviso per i Signori Ufficiali Francesi – La signora Luisa Phiffer, Luigia Ravaglini e Clelia Belli, di pubblica e conosciuta fama, e specialmente per la carriera che fin dalla loro prima gioventù percorsero in servizio dei pre, e degli stranieri, si recano a dovere di prevenire i signori ufficiali francesi che a rendere più gradito il soggiorno di Roma, si sono determinate di aprire nelle loro rispeSve abitazioni casini di piacere esclusivamente dedica, all’uso dei francesi e del clero soEo la protezione speciale della mai abbastanza encomiata commissione municipale : ques, casini saranno monta, con ogni eleganza e pulizia soEo la garanzia sanitaria dell’egregio e chiarissimo signor DoE. Achille Lupi, spontaneo in tuEo. In essi si promeEe varietà di persone e varietà di piacere. TuEe le figlie, tuEe le nipo,, l’affine del parentado in genere, dalla più giovane alla più matura, si presteranno ( ciascuna nelle opportune e convenien, par, ) a soddisfare con impegno ed affeEo, e sopraEuEo con quel disinteresse che per le suddeEe famiglie è ormai tradizione in Roma ai desideri tuS , dei signori uffiziali francesi. Tra le gen,li signore, così sarcas,camente villipese, troviamo Luigia Ravaglini deEa “l’an,camera del Paradiso”, sorella di Carolina Morici, altra romana di razza.”. A proposito di meretrici…. Durante i bombardamenA, nelle noH di tregua, CrisAna Trivulzio Di Belgioioso leggeva Dickens e assisteOe Mameli nella sua lunga agonia. Lasciata Roma dopo la caduta della Repubblica, vagò per diversi anni nel Mediterraneo, prima da Malta ad Atene, poi da Scutari a Gerusalemme. Nel 1857 le vennero resAtuiA i beni di famiglia confiscaA e poté ritornare a casa, in Lombardia. Rimasta sola dopo il matrimonio della figlia, scrisse “Della presente condizione delle donne e del loro avvenire” e riceveOe nel suo saloOo tuH i reduci del Risorgimento italiano. Il 5 luglio del 1871 morì a Milano, all’età di 63 anni. Seguirono giorni e giorni di bombardamenA ininterroH. Oltre Trastevere, venne colpito l’allora centro della ciOà; ormai le bombe stavano arrivando fino a Largo ArgenAna ed al Campidoglio. Roma era come una vecchia signora che senAva via via venir meno le forze, si stava aggrappando alla vita con ogni mezzo, respirava l’aria acre della polvere da sparo che entrava senza rispeOo in ogni casa, eppure ancora indossava il suo vesAto più bello, quello di tuH i giorni. Nella Cappella del Sacramento della chiesa di San Bartolomeo all’Isola, nel punto in cui cadde, è rimasta incastrata una grossa palla di cannone che durante l’assedio di Roma del giugno 1849 colpì il sacro edificio in quel momento gremito di gente miracolosamente rimasta illesa. La palla deEa “del miracolo” fu lasciata sul muro a ricordo dell’avvenimento. “La palla der miracolo” Ner ‘quarantanove a Roma era bbufera, la Repubblica, nata ieri, guasi morta, assediata dai francesi mane e sera pe’ riconsegnalla ar papa ‘n’artra vorta. La ggente ne le chiese radunata pregava pe ‘n miracolo ‘mprovviso, “Signore Iddio, fa sonà la ri,rata da tuS l’angioleS in Paradiso. Scaccia via ‘sta monnezza da le mura de la ciEà eterna e ridalla a li romani, senza papa e senza diEatura, Signore Iddio, fa che sia domani!”. ‘Na palla de cannone ‘n quer momento arivò driEa driEa a San Bartolomeo, tra li fedeli ce fu vero sgomento, ma a li francesi ‘sta chiesa fece marameo! La boccia rimase appiccicata ar muro e a ggnente e nisuno lì dentro fece male, er boEo fu grosso, de questo so’ sicuro, ma nun fece danni, risurtò ufficiale! “Miracolo!, miracolo!” gridò er popolino guardanno la palla tra i lampadari appesi, “Peccato!” esclamò ‘nvece un regazzino, “Preferivo ce fosse la capoccia dei francesi!”. CAPITOLO III Alcune parole è giusto spenderle sull’accusa di anAclericalismo della Repubblica Romana : è vero che lo stesso Mazzini forse esagerò dichiarando che Pio IX stava scavando un abisso incolmabile tra la Chiesa e i credenA, ma è anche vero che la poliAca della Repubblica non fu mai anAclericale o anAreligiosa, né mai, nei brevi mesi della sua esistenza, ostacolò in alcun modo la professione della religione. Fu una poliAca rivoluzionaria in uno stato in cui l’autorità era rappresentata da uomini di Chiesa, in cui la ricchezza era detenuta dalla Chiesa. L’anomalia dello Stato PonAficio, Monarchia non dinasAca in cui si mescolavano inevitabilmente religione e poliAca, spiritualità ed interessi materiali, rendeva inevitabili cerA evenA ed oggi la stessa Chiesa riconosce come provvidenziale il faOo di aver perso la potestà temporale. La noOe del 20 giugno, i francesi si impossessarono di un traOo dei basAoni di Trastevere dopo una loOa che vide nuovamente l’esercito romano resistere oltre i limiA umani e forse anche questa ulteriore conferma di fedeltà, indusse Mazzini ancora una volta a rifiutare di arrendersi. Oudinot, esasperato da questa rinnovata e osAnata resistenza, riprese con ancor più veemenza il bombardamento e stavolta i cannoni li puntò direOamente sulla ciOà, al fine di indurre Roma alla resa definiAva. Il giorno seguente, tre baOerie francesi iniziarono a sparare da distanza ravvicinata contro i basAoni di San Pancrazio fino ad aprire tre brecce e poco prima di mezzanoOe gli uomini di Oudinot aOaccarono nuovamente, occupandole tuOe, dopo aver promosso un paio di azioni diversive a San Paolo e villa Borghese. Garibaldi organizzò una seconda linea difensiva riArandosi sulla vecchia cinta delle mura Aureliane, ma ormai serviva a poco. Le sorA della guerra, peraltro già segnate sin dall’inizio delle osAlità, ora avevano contorni sempre più chiari e irreversibili. Alle nazioni straniere che scongiurarono di nuovo Oudinot di salvare i monumenA di Roma, il generale francese rispose che era obbligato a conAnuare nelle operazioni militari. Nella Francia stessa, il parAto favorevole alla pace con la Repubblica Romana, dopo aver inuAlmente protestato in Parlamento e sulla stampa, diede inizio a sommosse prontamente e brutalmente soffocate dal regime autoritario di Luigi Napoleone Bonaparte “Il Generale Changarnier fa aEaccare i ridoS, arresta i Deputa, e pone Parigi in stato di assedio, mentre la Milizia Civile invade gli uffici dei giornali contrari all’azione liber,cida della Francia in Italia, e distrugge ogni cosa. A Lione avvennero le stesse scene, gli stessi tumul,, con questo di più grave, che degli ammu,na, fu faEa un’ecatombe”. La villa del Vascello ancora resisteva, nonostante un nuovo assalto al caposaldo dei difensori sul Gianicolo. I volontari di Giacomo Medici chiamarono a raccolta le ulAme forze e riuscirono una volta ancora a respingere i francesi. Risultò allora necessario un aOacco generale, un aOacco che nemmeno il più pessimista rappresentante del Governo francese immaginava sarebbe mai stato necessario per vincere la resistenza di quella piccola Repubblica che aveva osato ribellarsi al Papa e alle maggiori potenze caOoliche. L’esercito francese riuscì ad oltrepassare il Tevere presso ponte Milvio, nonostante la commovente resistenza del BaOaglione Universitario Romano. Si racconta che gli universitari, rimasA ormai senza munizioni, presero a scagliare contro il nemico tuOo ciò che gli capitava tra le mani, compresi i loro libri. I loro libri. Le pagine alle quali avevano affidato le loro speranze, il loro futuro, i loro progeH, intonando tra lacrime di rabbia e paura il loro inno, l’inno degli studenA “ Quanta schiera di gagliardi, quanto riso ne’ sembian,, quanta gioia negli sguardi vedi in tuS scin,llar! D’impugnar moscheEo e spada, primi a offrire il nostro peEo, di salvar questa contrada giuriam tuS nel Signor!”. MolA furono gli studenA romani caduA nelle giornate di giugno, proprio mentre il sole dell’estate invitava alla vita. Roma era ormai rassegnata a rinunciare al suo sogno, eppure nessuno osava pronunciare la parola “resa” . All’una di noOe tra il 29 ed il 30 giugno, nel buio più fiOo, soOo l’imperversare di una vera e propria bufera, iniziarono nuovamente i bombardamenA per poi arrestarsi improvvisamente alle tre. Un silenzio irreale ed angosciante si impadronì della ciOà, negli occhi dei difensori di Roma si leggeva l’aOesa del diluvio di fuoco che si stava per abbaOere su di loro. Nessuno per strada. I pochi bambini che curiosi aprivano l’uscio di casa per capire cosa stesse succedendo, venivano rimbroOaA dai genitori che in tuOa freOa sprangavano le porte e le finestre, solo qualche cane randagio conAnuava ad abbaiare nei vicoli o nelle piazze deserte. “Ninna nanna” Ninna nanna regazzini belli che sete na, sani ‘n braccio a Dio ce so’ a Roma mo’ mille cancelli che ve leveno l’aria, pori fiji…. Ninna nanna a tuS li romani che stasera ‘n ponno chiude ‘n occhio, schioppo ‘n spalla a aspeEà domani e ‘s, francesi fiori de finocchio. Ninna nanna ar soriso de’ ‘na donna che accarezza la paura der pischello pronto a ficcasse soEo quella gonna pe’ nun morì a vent’anni sur più bello. Ninna nanna ar Papa giù a Gaeta che riposa ‘n pace, bbeato lui, tra ricami e pizzi blu de seta, a gozzovijà in casa artrui. Ninna nanna a quer baro de Oudinot che nun ce dorme pe’ rubbà ‘sto sogno a me che pe’ ‘na vorta ho deEo no e si mme tocchi Roma, me te magno!. Ninna nanna ar medesimo cannone che dar bas,one spara tuEo er giorno, guasi fosse l’ur,ma canzone de ‘na baEaja ormai senza ritorno. Eppure, nonostante la situazione disperata e nelle precarie condizioni in cui versava, il governo della Repubblica Romana decise di mantenere la tradizione della luminaria sulla cupola dei SanA Pietro e Paolo nella ricorrenza religiosa del 29 giugno. C’era in ciOà un disperato bisogno di normalità. Le colonne francesi, dopo una micidiale preparazione d’arAglieria, mossero in massa alla volta delle mura di San Pancrazio. Emilio Morosini, al comando di una paOuglia colta di sorpresa dai transalpini, fu tra i primi ad essere ferito mortalmente. Emilio Morosini “Lassateme qua, devo difenne er bas,one, che je vado a dì a Manara, che s’è sbaijato a fidasse de me?, lassateme qua….è ‘n ordine!!” “A sor Tenè, voi state più de llà che de qua, datece reEa state bbono. Mò ve portamo a villa Spada che lì ve cureno e v’arimeEete presto. Nun parlate, che co’ tuEo ‘sto casino finisce che riuscimo a passà puro ‘n mezzo a li francesi senza fasse accorge, ma voi stateve ziEo sor Tenè che sinnò svagheno che nun zemo servi der papa come loro”. “Alt! Chi va là! Fatevi riconoscere!” “ Priggionieri, semo priggionieri….lassatece passà si sete gen,lommini e…nun me fate parlà ancora che nun me reggo ‘n piedi” “Non vi crediamo, voi italiani siete infingardi e contafroEole….avan,, circondiamoli!” “A sor Tenè, noi dovemo scappà, ques, ce fanno fori a tuS…fateve rispeEà, diteje che v’arennete, che state a schiaEà, ‘nzomma fate ‘n po’ voi, ma cercate de capicce…stavorta so’ propio troppi!” “Annate, corete giovinò, io nun servo più a ggnente aridoEo così e ‘nvece voi dovete difenne er bas,one a costo de favve squartà. E forza voi, venite avan,, dimostrateme quello che sapete fa’, dateme solo er tempo de meEe mano alla spada e, puro che nu je la faccio a arzamme, ve fò vede come combaEe la Repubblica Romana, come more ‘n itaijano!”. “MaledeS, m’hanno ‘nfirzato ‘n’artra vorta. Certo che annassene a vent’anni te ce rode…”. E a questo punto ricorro ancora una volta ad una frase di Nino Manfredi rivolta a suo figlio nel film “In nome del Papa Re”. Manfredi interpreta il ruolo di un alto prelato che scopre di avere un figlio di vent’anni, nato da una breve relazione giovanile con una contessa. Il ragazzo, patriota italiano, viene colpito mortalmente, per un equivoco, dal marito di colei che riteneva fosse la sua amante, ma che in realtà era la madre segreta del giovane. “Fijo mio daEe pace. Li ribbelli moreno sempre a vent’anni, puro quanno nun moreno….”. Figlio del nobile Gian BaSsta Morosini e di donna Emilia Zeltner, nacque a Varese dove la famiglia si era trasferita dal Canto Ticino. Unico maschio, con cinque sorelle, crebbe soEo l’influsso dell’educatore e patriota Angelo Fava e studiò a Milano nel ginnasio di Brera e al liceo di Porta Nuova. Qui conobbe e strinse una grande amicizia con altri due eroici patrio, italiani : Enrico ed Emilio Dandolo, oltre che con Luciano Manara. Insieme salirono sulle barricate nelle cinque giornate di Milano del marzo 1848 e, nelle seSmane successive, combaEerono più volte contro gli austriaci come ufficiali del 1° baEaglione dei bersaglieri lombardi comanda, da Manara. TuS e quaEro si rifiutarono di riparare in Svizzera per accorrere nel 1849 a difendere la Repubblica Romana. Durante gli scontri con le truppe francesi che assediavano il Gianicolo, Emilio Morosini fu gravemente ferito il 29 giugno e morì due giorni dopo per le ferite riportate. Dal racconto di Emilio Dandolo “…favori, dalla confusione, si avviarono correndo verso villa Spada per salvare Morosini che era stato ferito da una palla al ventre e da un colpo di baioneEa. Villa Spada era però già circondata dai francesi. S’imbaEerono quindi nei solda, di parte avversa che da lontano gridarono “Chi vive?” “Prigionieri” rispose Morosini con voce fioca, ma i nemici, temendo forse un inganno, si avventarono su di loro con la baioneEa spianata. Raccontò poi uno dei bersaglieri che portavano il ferito che, trovandosi circonda, e minaccia, nella vita dal nemico inferocito dalla baEaglia, avevano deposto la barella e tentato di salvarsi fuggendo. Fu visto quel povero giovineEo di tenente, alzarsi riEo sulla barella insanguinata e, messo mano alla spada che gli giaceva a lato, con,nuare, lui che era già morente, a difendere la propria vita , finchè, colpito una seconda volta nel ventre, si accasciò di nuovo sulla stessa barella a versare dell’altro sangue. Commossi a così tanto e sventurato coraggio, i francesi lo raccolsero e lo portarono all’ambulanza di trincea. Molte narrazioni furono faEe sulla morte di questo giovane tenente. Questo solo io posso dire di sicuro : che visse altre 30 ore, rassegnato, pregando, parlando della sua famiglia e strappando le lacrime ai nemici stessi che accorrevano a froEe per vederlo come fosse una meraviglia. Il maSno del 1° luglio spirò serenamente, senza soffrire”. Garibaldi, ormai soffocato nella morsa delle truppe francesi, organizzò una terza linea difensiva da villa Spada a villa Savorelli. Villa Spada era difesa da Luciano Manara, mentre villa Savorelli da Giacomo Medici. Verso le 10, colpito da una palla allo stomaco, a 25 anni morì Luciano Manara. Nei giorni precedenA al suo sacrificio, Manara ebbe modo di scrivere una leOera ad una sua amica, Francesca “Fanny” Bonacina Spina. Una leOera che conteneva queste parole “ Noi dobbiamo morire, per chiudere con serietà il QuarantoEo. Affinchè il nostro esempio sia efficace, dobbiamo morire.” Garibaldi prese il suo posto al comando delle forze aOestate a Villa Spada, mentre Oudinot si impossessò di tuH i capisaldi fuori le mura Aureliane. Da “ L’assedio di Roma” di Francesco Domenico Guerrazzi : “ Chiudo la narrazione della baEaglia del ven,nove giugno rammentando il caporale Perocco, del quale non poterono impadronirsi i francesi se prima non lo ebbero sternato con ben ven,tre colpi di baioneEa. Scacciani, Spiavanelli ed altri mol,ssimi perirono, ma prima si cacciarono soEo i nemici adagiandoci il capo come sopra un guanciale di riposo; un fanciulleEo tamburino, vis, mor, gli uomini della compagnia, buEato da parte il tamburo, raccolse gli schioppi, e quelli sparò contro i nemici, finché percosso in fronte, anch’egli li seguitava nella morte. Sorge il giorno del 30 giugno, ul,mo della difesa; chi stava sul Gianicolo vedeva la grande cupola va,cana in qua, ed in là rischiarata dalle faci che avevano resis,to all’imperversare della bufera, e che ora andavano una dopo l’altra es,nguendosi. Immagine dolorosa degli sforzi dura, per difendere Roma”. Si arrivò così all’epilogo, sul Gianicolo la Repubblica Romana diede vita alla sua ulAma baOaglia. Il Generale Garibaldi difese caparbiamente il Vascello ed i volontari che erano con lui, senza più munizioni, aOaccarono per l’ulAma volta i francesi alla baioneOa, con la disperazione di chi era ormai cosciente del desAno che lo stava aOendendo, senza alcuna possibilità di viOoria, ma era il loro grande cuore che chiedeva di aOaccare. Ci furono 3.000 italiani fra morA e feriA, mentre ben 2.000 i francesi che rimasero sul campo. La baOaglia e la Repubblica Romana finirono qui, tra le macerie del Vascello, sul colle sacro del Gianicolo dove ora un ossario è stato innalzato ad eterna memoria di quesA splendidi ragazzi. Il leone della Montagnola Dalla “GazeEe Mèdical de Paris” del 2 Gennaio 1850 “…un ufficiale dell’ar,glieria romana fu portato a Villa Pamphili col cranio spaccato da dodici colpi di sciabola, una coscia forata da dodici baioneEate, una doppia fraEura del braccio e dell’avambraccio. Egli aveva difeso la sua baEeria come un leone difende la sua prole, ed aveva allora soltanto ceduto quando il suo braccio non poté più obbedire alla sua volontà”. L’ufficiale di cui si parlava era il tenente Filippo Casini, che comandava la BaOeria della Montagnola insieme al tenente Oreste Tiburzi, anch’egli caduto stoicamente accanto ai suoi cannoni. Casini, nato a Roma il 13 Gennaio 1822, si laureò in Ingegneria. Conosceva seOe lingue e si meritò l’alto grado di Ufficiale Onorario di arAglieria. Nella terribile noOe tra il 29 e il 30 giugno 1849, si offrì volontario “senza soldo e senza ascenzo” per il comando dell’ulAma baOeria della difesa, quella della Montagnola, presso San Pietro in Montorio. Venne accontentato. Intorno a lui vide cadere tuH i suoi soldaA. Rimasto solo, Casini, a cavalcioni di un cannone, conAnuò a Arare terribili fendenA con la sciabola, finché non cadde a terra coperto di sangue. I francesi lo ritennero morto. Solo il maHno dopo, nel corso di una perlustrazione, si accorsero che era ancora vivo e lo trasportarono in un’ambulanza. Il coraggio di Casini aveva toccato il cuore dei francesi. Lo stesso generale Oudinot volle andare a trovarlo per elogiarne la condoOa e per specificare che lo riteneva non un prigioniero ma un ospite. Fu accompagnato a casa della madre, in via Paola, su una barella scortata dal piccheOo d’onore francese. Purtroppo il suo fisico non riuscì a superare le conseguenze delle numerose ferite subite e morì un anno dopo, il 15 agosto 1850. Semplicemente uno degli innumerevoli esempi di eroismo di quel giorno, dell’ulAma resistenza della Repubblica Romana. A sera di quella fatale giornata, Garibaldi si recò all’Assemblea CosAtuente e propose di abbandonare Roma, ormai indifendibile, per conAnuare la loOa altrove ma, parole sue, “Dovunque saremo, colà sarà Roma”. La stessa proposta era già stata avanzata da Mazzini che poteva ormai scegliere soltanto tra la capitolazione totale e la baOaglia in ciOà che avrebbe provocato ancora morte, distruzioni e saccheggi. Dal “Giornale delle Operazioni” del Generale francese Vaillant : “ Verso mezzogiorno del primo di luglio, i difensori romani cessarono il fuoco. Un loro parlamentare venne a chiedere una tregua per raccogliere i mor, e i feri, dissemina, sul campo di baEaglia. La richiesta venne accolta dal generale comandante la trincea. Allora da parte loro e da parte nostra si iniziò quest’opera di pietà, guidandoci reciprocamente nelle ricerche, e spesso scambiandoci i corpi dei cadu,. I feri, che ancora giacevano sul campo, francesi e romani, riceveEero le cure indis,ntamente dai sanitari dell’una o dell’altra parte, lì sullo stesso terreno degli scontri, ancora coperto dalle lance con la bandierina rossa della Compagnia della Guardia di Garibaldi, che durante l’assalto difendevano la baEeria e lì erano in massima parte cadu,. La scena destava commozione. Ne furono tes,moni il generale comandante in capo e gran parte dello Stato Maggiore dell’esercito francese”. Era arrivato il momento di valutare se esistevano alternaAve alla pura e semplice capitolazione, tenendo sopraOuOo conto che anche Oudinot aveva subito pesanA perdite e che quindi un qualche prezzo poteva forse essere richiesto ai francesi. Si traOava di discutere un’onorevole “uscita dalla ciOà” con le forze ancora combaOenA disposte a seguire Garibaldi verso quelle zone degli StaA della Chiesa non occupaA dalle truppe francesi per portare “l’insurrezione nelle provincie”. Tra le richieste di Oudinot per la resa, non era compresa la rinuncia da parte della Assemblea CosAtuente alla avvenuta proclamazione della Repubblica. Di faOo, ciò ne salvaguardava la dignità e la personalità giuridica. Pio IX, d’altronde, non l’aveva mai riconosciuta ufficialmente e quindi i romani erano nella condizione di doversi sì arrendere, ma senza rinunciare formalmente alla loro Repubblica. Raggiunto almeno questo scopo, l’Assemblea CosAtuente approvò il decreto di resa che, tuOavia, ribadì chiaramente che la Repubblica Romana non era desAtuita “ L’Assemblea Cos,tuente romana cessa da una difesa ritenuta impossibile, e sta al suo posto. Il triumvirato è incaricato dell’esecuzione del presente decreto”. Mazzini, Armellini e Saffi, tuOavia, si rifiutarono categoricamente di decretare la resa della Repubblica, di incontrare da vinA Oudinot, quindi presentarono formali dimissioni all’Assemblea che fu pertanto costreOa a sosAtuirli con un altro comitato esecuAvo formato da Aurelio SaliceA, Alessandro Calandrelli e Livio Mariani che invece raAficarono formalmente la resa. Giuseppe Garibaldi, come un leone ferito ma non vinto, perseguendo l’obieHvo stabilito di portare l’insurrezione nelle provincie, nella maHnata del 2 luglio tenne a piazza S.Pietro il famoso discorso “Io esco da Roma, chi vuole con,nuare la guerra contro lo straniero venga con me. Non promeEo paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà.”. L’appuntamento era fissato per le 18 a San Giovanni e quando il Generale entrò nella piazza, trovò ad aOenderlo 4.000 uomini armaA, 800 cavalli ed un cannone. Non riuscì mai a raggiungere Venezia, unica libera Repubblica supersAte. Francesi, borbonici, spagnoli e austriaci rappresentarono un ostacolo insormontabile anche per lui ed i suoi fedelissimi, fino ad indurlo a scioglierne le fila al fine di permeOere ai pochi supersAA di porsi in salvo. Lungo il viaggio vennero caOuraA e fucilaA Ugo Bassi, barnabita e cappellano dei garibaldini, il capitano Giovanni Livraghi, Ciceruacchio ed i suoi due figli adolescenA Luigi e Lorenzo. La fucilazione di Ugo Bassi ( Cento 12.8.1801 – Bologna 8.8.1849 ) “Voi che siete un prete, voi, un prete….vergognatevi! Tradire la vostra Fede e l’abito che portate!. Nessuna giuria al mondo potrebbe assolvervi.” “Sì, io che so’ ‘n prete, che so’ ito ‘n giro pe’ l’Italia a portà la parola de Cristo, che ho dato l’ur,mo sacramento a mille amici mor, ‘n baEaja e puro a quelli dell’artra parocchia. Nun ve sete mai chiesto, voi che ce sete venuto dall’Austria, er perché sto qui, davan, ar plotone d’esecuzzione e ve guardo driEo nell’occhi come si a morì doveste esse voi e no io?”. “ Caro Padre Bassi, io credo, e chi crede ha la coscienza a posto, più di un brigante che si nasconde dietro il saio, più di un prete rivoluzionario, capace di combaEere addiriEura contro il Rappresentante di Dio in terra. Caricate!, puntate!......”. “Io pure credo, credo nell’inzegnamento de Cristo, che nun me pare che ha mai deEo che ‘n Papa po’ fa’ ammazza’ li cris,ani de Roma p‘arimeEese a sede sur trono. Nun ha mai deEo che la Chiesa deve soffocà ner sangue la voce de chi vo’ campà libbero a casa sua. Che razza de Chiesa è quella che nun cià argomen, pe’ convince er popolo caEolico e je deve ‘nvece ‘mpone a forza la miseria, l’anarfabbe,smo, le tasse che lo strozzeno, mentre er Papa galleggia ‘n mezzo all’ori, allo sfarzo, maggna e beve a la faccia de chi ce ce crede sur serio a quer Paradiso che ‘nvece la Chiesa se sta a gode’ qua, tanto pe’ nu’ sbajasse... A me nun me potete ammazzà, me dispiace pe’ voi. Io so’ ggià morto ammazzato da la Fede mia tradita, carpestata, derisa da chi anzi la doveva difenne. Ve chiedo solo artri cinque minu, de respiro pe’ famme armeno recità l’ur,ma Ave Maria.”. La maSna del giorno 8 agosto 1849, due sacerdo, ebbero il compito di assistere i condanna, prima della fucilazione. Un ufficiale lesse loro il decreto di condanna a morte. Ugo Bassi era preparato. Conosceva la legge marziale e non si aspeEava clemenza dal Generale austriaco Gorzkowski. TuEavia protestò fieramente la propria innocenza “Ho assis,to i moren, sul campo, non ho mai negato il soccorso neppure ai nemici, non ero armato, come non lo era il mio compagno, non ero reo…”. Incatena, ai polsi, furono faS salire coi due sacerdo, su un carro militare e condoS in Via della Certosa. Ugo Bassi salutò il compagno che doveva essere fucilato per primo : “Fra poco saremo congiun,”, disse. Chiese che fosse un sacerdote a bendarlo. Prese a recitare l’Ave Maria, ma una fucilata troncò l’ul,ma parola. Fu sepolto senza bara, in una fossa assieme al Capitano Livraghi. Nei giorni successivi gruppi di bolognesi si recarono sulla tomba, la coprirono di fiori e ne tolsero zolle di terra per ricordo. Per impedire ai bolognesi di manifestare i loro sen,men, di amore e devozione al mar,re, nella noEe tra il 18 ed il 19 i due corpi vennero esuma, e occulta, all’interno del cimitero della Certosa. Soltanto nell’agosto del 1859 i paren, oEennero che le ossa di Ugo Bassi venissero collocate nella tomba di famiglia accanto ai genitori. Restarono con Garibaldi soltanto la moglie Anita ed il tenente Giovan BaHsta Coliolo. Quando il 4 agosto raggiunsero la località delle “ Mandriole”, sull’argine sinistro del Po, Anita morì tra le sue braccia, vinta dagli stenA e dalle malaHe. Lui fu costreOo a lasciarla insepolta, braccato com’era dagli austriaci. Soltanto il 5 seOembre, dopo mille peripezie, Garibaldi riuscì a meOersi in salvo assieme al tenente Coliolo, imbarcandosi da Follonica e raggiungendo finalmente la Liguria, nel Regno di Sardegna. Il 3 luglio 1849, lo stesso giorno in cui venne decretata la resa, fu approvata la CosAtuzione come ulAmo aOo formale della Repubblica Romana. Dal balcone del palazzo Senatorio del Campidoglio, il Generale GalleH la lesse al popolo romano mentre i soldaA francesi, increduli di fronte a questa ennesima prova di orgoglio, erano schieraA compaH sulla scalinata dell’Ara Coeli dopo aver già occupato Trastevere, Castel Sant’Angelo, il Pincio e Porta del Popolo. QuesA i principi fondamentali : 1 – La sovranità è per diriEo eterno del popolo. Il popolo dello Stato Romano è cos,tuito in Repubblica Democra,ca. 2 – Il regime democra,co ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce ,toli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta. 3 – La Repubblica colle leggi e colle is,tuzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tuS i ciEadini. 4 – La Repubblica riguarda tuS i popoli come fratelli : rispeEa ogni nazionalità, propugna l’italiana. 5 – I Municipi hanno tuS eguali diriS, la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di u,lità generale dello Stato. 6 – La più equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse poli,co dello Stato è la norma del riparto territoriale della Repubblica. 7 – Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diriS civili e poli,ci. 8 – Il Capo della Chiesa CaEolica avrà dalla Repubblica tuEe le guaren,gie necessarie per l’esercizio Indipendente del potere spirituale. Bisognerà aOendere più di un secolo perché queste riforme, cancellate poi dalla reazione PonAficia, divengano realtà in tuOa Europa. La CosAtuzione della Repubblica Italiana si richiama in tuOo e per tuOo alla CosAtuzione della Repubblica Romana e c’è da aggiungere che la maggior parte delle stesse CosAtuzioni moderne degli StaA Occidentali si sono tuOe ispirate a questo Statuto per redigere il proprio. Proclama del triumvirato al popolo romano “La Repubblica Romana del 1849 visse per 5 mesi, il popolo romano la fece nascere, Mazzini ne fu l’anima poli,ca, Garibaldi il difensore. Mameli, Manara, Dandolo e tan, altri gli eroi che morirono per essa, gli eserci, di Austria, Francia, Spagna e Regno delle Due Sicilie, per volontà di Pio IX, ne decretarono la morte. Mentre l’invasore entrava in Roma per distruggere la nuova Repubblica Romana, in Campidoglio si dava leEura al popolo della Cos,tuzione che non sarebbe mai entrata in vigore. Un comportamento degno dell’an,ca Repubblica Romana. Fede in Dio, nel diriEo e in noi. W la Repubblica Romana!.” Oudinot, entrò a Roma soltanto in serata alla testa di 12.000 uomini, proclamando la legge marziale ed eleggendo governatore di Roma Rostolan, Generale di Divisione, coadiuvato da Sauvan, Generale di Brigata. L’Assemblea CosAtuente, ancora legiHmata dagli accordi di resa sApulaA dal nuovo triumvirato con la Francia, era in seduta permanente e presieduta, ironia della sorte, da Carlo Luciano Bonaparte, cugino di Napoleone III e fervido sostenitore della Repubblica Romana. Alle 18 del 4 luglio, i francesi decisero di interrompere anche quest’ulAma forma di democrazia concessa a Roma , sciogliendo con la forza la seduta. Quirico FilipanA, a nome di tuOa l’Assemblea, consegnò questo documento contenente tuOo lo sdegno per l’ennesimo aOo di violenza compiuto dal governo francese : “In nome di Dio e del popolo degli Sta, Romani, in conformità all’ar,colo V della Cos,tuzione francese, l’Assemblea Cos,tuente romana protesta in faccia all’Italia, in faccia alla Francia, in faccia al mondo incivilito, contro la violenta invasione della sua sede, operata dalle armi francesi alle sei pomeridiane del giorno 4 di Luglio 1849”. L’ar,colo V della Cos,tuzione repubblicana francese del 4 novembre 1848, così recitava : “…la Repubblica Francese rispeEa le nazionalità estere, come intende far rispeEare la propria; non imprende alcuna guerra ai fini di conquista e non adopera mai le sue forze contro la libertà d’alcun popolo”. Mazzini rimase ancora alcuni giorni a Roma. I francesi, sprezzanA, vollero ignorarlo completamente e decisero quindi di non procedere al suo arresto . Il 13 luglio lasciò la ciOà, imbarcandosi tre giorni dopo da Civitavecchia per Marsiglia soOo il falso nome di George Moore, generalità riportate sul passaporto consegnatogli dal Console degli StaA UniA per favorire il suo espatrio. Non tornò in Italia che rare volte, lui che della patria era stato uno dei Grandi Padri. Il suo amaro desAno di esule lo vide in carcere a Gaeta quando il 20 seOembre 1870 i bersaglieri, aOraverso la breccia di Porta Pia, conquistarono finalmente Roma e lo vide morire nel 1872 a Pisa, soOo il falso nome di George Brown, le generalità di uno straniero…. Prima di parAre dalla CiOà Eterna, lasciò ai romani la sua eredità morale aOraverso una leOera scriOa il 5 luglio con la quale esortò tuH a conAnuare la loOa contro l’invasore per una Italia libera e unita e di cui doveva essere Roma la Capitale : Romani!, La forza brutale ha soEomesso la vostra ciEà; ma non mutato o scemato i vostri diriS. La Repubblica Romana vive eterna, inviolabile nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nella adesione spontanea di tuS gli elemen, dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei mar,ri che caddero soEo le nostre mura per essa. Tradiscano a posta loro gl’invasori le loro solenni promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costan, e fedeli al voto dell’anima vostra, nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiacciate e non diffidate dell’avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo di un popolo che spera, combaEe e soffre per la Gius,zia e per la san,ssima Libertà. Voi deste luminosa tes,monianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile. Dai Municipii esca ripetuta con fermezza tranquilla d’accento la dichiarazione ch’essi aderiscono volontari alla forma repubblicana e all’abolizione del governo temporale del Papa e che riterranno illegale qualunque Governo s’impian, senza l’approvazione liberamente data dal popolo; poi occorrendo si sciolgano. Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido : fuori il governo dei pre, ! Libero voto! I vostri Padri, o romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci. In nome di Dio e del popolo siate grandi come i vostri Padri. Oggi come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia. La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere a norma della vostra condoEa, il momento opportuno per riconvocarla.”. Ma nun finisce qua….. “ Guarda qua Rosè, ‘ggni ggiorno c’è ‘n manifesto novo appeso ar muro….si sapessi legge ce sarebbe propio da diver,sse, guasi più che soEo le zampe de Pasquino.” “ Embè, si te ‘nteressa così tanto te lo leggo io….” “Ah già, m’ero scordato che anna’ a servizzio da li siggnori una se ‘mpara le bbone maniere e pure a legge. Che per caso la Signoria Vostra ciavrebbe la disponibbilità de tempo e de modo de dimme che ce sta scriEo su ‘sto manifesto?” “A Romolo, quanno decidi de fa’ l’imbecille te viè propio bbene, così naturale che me sa’ che sei davero imbecille…me dovevi fa’ puro l’inchino pe’ pijamme mejo per culo?” “ E vabbè, daje, era solo ‘no scherzo...ahò, guarda piuEosto su a Caster Sant’Angelo. Ammazza come se so’ sbriga, a rimeEe la banniera bianca e gialla de Pio IX…a guardalla bbene, cià lo stesso colore de ‘na minestrina de gallina”. “Mò te ne sei accorto? È da quanno che sei nato che sta llà sopra!, nun me dì che te so’ basta, ‘s, cinque mesi pe’ scordaEela!” “ Sai che c’è Rosè?, c’e che si maggni pe’ tuEa la vita la stessa minestrina de gallina, l’artri sapori manco lo sai come so’. Allora te ce abbitui e nun te chiedi nimmanco più si è bbona o caSva, te la maggni e basta. Armeno la banniera de la Repubblica Romana me ricordava er basilico, la mozzarella, er pommidoro!! Voi meEe? TuEo ‘n arto sapore, ‘n artro gusto, ma nun penzà che all’improvviso me so’ sveijato patriota puro io, a me nun me ne frega ggnente de chi comanna, era ‘na semplice conziderazzione de panza. De Romolo je ne frega assai a quelli che stanno ar Quirinale, ar Campidoijo, ar Castello. Io si nun baEo er fero da ma,na a sera nun maggno e nun maggni manco te e manco NineEo nostro. Allora? Hai finito de chiacchierà? Me lo voi dì che c’è scriEo su ‘sto fojo?” “Ma si stai a fa’ tuEo da solo!… te la can, e te la soni da ‘n quarto d’ora e io nun ho nimmanco fiatato. Stamme a senp: intanto er proclama è de li francesi, ma è scriEo in itaijano” “ E meno male, sinnò quanno lo capivo….” “ E sì perché te ‘nvece l’itaijano lo capisci… ,dice “ AbitanA di Roma, l’Armata inviata dalla Repubblica Francese sul vostro territorio ha per scopo di ristabilire l’ordine e la sicurezza. Una minorità faziosa, o traviata ci ha costreH di dare l’assalto alle vostre mura. Siamo padroni della piazza : adempiremo la nostra missione. “E già qui ce starebbe bbene ‘n ber pernacchione, ‘n te pare Rosè?” “StaEe ziEo che de ‘s, tempi pure li muri cianno le recchie, la ggente pe’ ‘ngrazziasse ‘n’artra vorta li pre,, sarebbe capace puro d’ammazzà la madre!” “ Che esaggerazione…, daje, va avan,” “In mezzo alle prove di simpaAa, che ci hanno accolA, alcune vociferazioni osAli si sono scoppiate, e ci hanno forzaA ad una immediata repressione. I ciOadini dabbene, ed i veri amici della libertà ripiglino fiducia. I nemici dell’ordine e della società siano bene informaA, che se delle manifestazioni oppressive provocate da una fazione straniera si rinnovassero, sarebbero puniA con tuOo rigore”. “Seconno me ‘s, francesi nun cianno le idee pe’ ggnente chiare, anzi so’ proprio rincoijoni, : je semo tarmente simpa,ci che ce reprimeno, l’aman, de la libbertà hanno da ripijà fiducia, ma si quarcuno s’azzarda a dì ‘na parola lo fanno fori. E poi Rosè, la mejo de tuEe è quanno dicheno che le fazzioni straniere saremmo noi che semo romani e loro invece sarebbero li romani veri che difenneno la ciEà! Cianno proprio la faccia come er culo!” “Posso annà avan, Romolè?” “ E come no? Anzi, più vai avan, a legge e più me viè da ride…” “ Per dare alla sicurezza pubblica delle posiAve garanzie prendo le seguenA disposizioni : Provvisoriamente tuH i poteri sono concentraA nelle mani dell’autorità militare. Questa domanderà subito il concorso del municipio. L’Assemblea ed il Governo, il di cui regno violento ed oppressivo ha cominciato con l’ingraAtudine, e finito con un grido all’armi contro una nazione amica delle popolazioni Romane NON ESISTONO PIU’. I Circoli poliAci, e associazioni poliAche sono vietaA. Ogni individuo non militare arrestato portatore di armi visibili o nascoste, sarà immediatamente tradoOo davanA al consiglio di guerra. Sarà lo stesso per ogni individuo militare che facesse uso delle sue armi. Ogni pubblicazione col mezzo della stampa, ogni affisso non permesso dall’Autorità Militare sono provvisoriamente vietaA. I deliH contro le persone e le proprietà, saranno giusAziabili dai Tribunali Militari”. “Ch’hai faEo Romolè , nun te viè più da ride?” “No, da ride ce sarebbe, eccome….te risurta Rosè che uno pe’ sen,sse libbero ce deve avè li cannoni drento casa? Te risurta che uno pe’ ggirà tranquillo pe’ Roma je deve capità d’esse perquisito ‘ggni cinque minu,? Te risurta che uno pe’ sta’ ‘n democrazzia nun deve manco scrive ‘na riga su un fojo? Te lo ripeto che a me nun me ne frega ggnente de quello che succede fori de casa nostra, ma stavo a penzà a nostro fijo NineEo. Bella figura che ce faccio quanno me guarderà ‘n faccia e me dirà “A papà, ma li romani so’ propio tuS così menefreghis, come te? Ma è possibbile che dovemo maggnà sempre la solita minestra riscallata e che nun za’ de ggnente, come tan, pecoroni?”. Hai capito Rosè?, si me dicesse ‘ste parole me farebbe male a ripenzà a quanno ho assaggiato er pommidoro, er basilico, la mozzarella…..e allora sai che nova c’è?, c’è che te mò passi da la sora Lucia a pijà er laEe pe’ NineEo e io me ne vado all’osteria coll’amichi che già me stanno a aspeEà. Se vedemo più tardi a casa. Viè qua Rosè, da ‘n baceEo a RomoleEo tuo…” “Ah, te serve pure er baceEo….ma va a morì ammazzato!, ber padre ‘mbriacone che j’ho dato a mi fijo….” “E no! Qua te stai a sbaijà. J’hai dato ‘n padre che da stasera ha deciso de maggnà pommidoro, basilico e mozzarella tuS li san, ggiorni, puro si solamente de niscosto, ‘nzieme a tuS quelli che la penzeno come lui, ‘n modo da permeEe a NineEo, , quanno sarà diventato granne, de maggnà quello che je pare, co chi je pare e tuEe le vorte che je pare. Puro ‘n prete arosto co’ du’ patate de contorno!” “ A Romolè, pure sacrilego me sei diventato….” “ Ah!, ah!, ma che ancora me piji sur serio? Se vedemo Rosè, aspeEeme sveja che stanoEe te fo’ vede io che ber pezzo de marito t’aritrovi soEo le lenzola!” “Cerca piuEosto d’aritornà tuEo ‘ntero ‘nvece de dì tuEe ‘ste frescacce!”. Romolo s’arivorta all’improvviso verso la moje e pe’ ‘n aSmo se fa serio “ RoseEa, guardame bbene ‘n faccia, io so’ romano e sai come so’ faS li romani Rosè?, come li gaS der Foro so’ faS : je piace de sta’ senza fa ggnente, de pijasse er sole spaparanza, da quarche parte, de godesse er ponen,no e de maggnà e bbeve a la faccia de chi je vo’ male. Però……nu l’annate a stuzzicà, nu j’annate a rompe li cojoni, nu je dite che cianno er core de laEa e er culo de piombo perché sinno’ graffieno e quanno graffieno fanno male! A Rosè, guarda che prima nun scherzavo mica. StanoEe me devi di’ de sì perché vojo ‘n artro fijo e lo vojo chiamà Libbero” Lei se lo guarda tuEa ‘nnammorata e poi fa’ finta de ‘ncavolasse “ E certo, decidi sempre tuEo da solo, no? StanoEe famo l’amore, sicuramente arimango ‘ngravidata, ce se pò ggiurà che nasce maschio, lo chiamamo Libbero…..e si ‘nvece nasce femmina, come la dovessimo da chiamà ?” “ A Rosè, ma te devo ‘nzegnà proprio tuEo? La chiamamo Libbertà!”. Nota dell’autore : Colomba AntonieH era nata a Nocera Umbra, Luigi Porzi a Imola, Pietro Pietramellara a Bologna, CrisAna Trivulzio Di Belgioioso a Milano, Emilio Morosini a Varese, Ugo Bassi a Cento, ma in questo mio scriOo ognuno di loro si esprime soltanto in dialeOo romanesco perché di Roma sono staA figli nel 1849. La memoria dei luoghi della Repubblica Romana VILLA PAMPHILI In questa villa fu combaOuta la più cruenta baOaglia per la difesa di Roma, il 3 giugno 1849. Nella noOe precedente, i francesi con un aOacco a sorpresa avevano occupato villa Corsini, caposaldo della difesa romana. Per tuOa la giornata le truppe garibaldine tentarono con accanimento di riconquistare la posizione con una serie di assalA alla baioneOa, soOo il grandinare delle palloOole. La villa fu ripresa, poi persa, ancora ripresa e infine persa definiAvamente. Alla fine della giornata le truppe di Garibaldi avevano subito gravissime perdite. E villa Corsini era rimasta ai francesi… Immaginando la baOaglia vista da Porta San Pancrazio, sulla sinistra si poteva vedere in posizione dominante Villa Corsini, deOa il Casino dei QuaOro VenA. Sulla destra villa Giraud, deOa “Il Vascello”, splendida costruzione a forma di nave su uno scoglio, presidiata dalla legione di Giacomo Medici. Per tre seHmane il Vascello resisteOe caparbiamente a bombardamenA e assalA, anche quando fu ridoOo ad un cumulo di macerie. Venne abbandonato per ordine di Garibaldi quando si doveOe arretrare tuOa la linea del fronte. Nel corso dei combaHmenA le due ville andarono irrimediabilmente distruOe. Sui ruderi di Villa Corsini è stato edificato l’arco dei quaOro venA ( ArchiteOo Andrea Busiri Vici – 1859 ). Del Vascello resta soltanto il piano terreno col finto scoglio, visibile dalla strada. Il viale di raccordo, è quello sul quale i soldaA di Garibaldi caddero a cenAnaia, andando all’assalto di Villa Corsini. La colonna crucifera a San Pancrazio E’ nei pressi di questa colonnina che i soldaA francesi nella noOe tra il 4 e il 5 giugno 1849 scavarono la prima trincea presso la Basilica di San Pancrazio. Venne così dato inizio ad un complesso sistema di trincee che, partendo appunto da San Pancrazio, nel giro di due seHmane portò i francesi fin soOo le mura gianicolensi per l’aOacco finale. La colonnina, che ora viene a trovarsi al centro di piazza San Pancrazio, in una zona di intenso traffico ed abitazioni, all’epoca era in aperta campagna. Il muro di cinta di Villa Pamphili, adiacente al luogo descriOo, rappresenta l’unica tesAmonianza rimasta pressoché intaOa di quei giorni. Le brecce Mano a mano che le trincee francesi si avvicinavano alla ciOà, venivano portaA avanA anche i cannoni. Quando furono a portata uAle, le arAglierie francesi cominciarono a martellare le mura, aprendo numerose brecce. Dopo la fine dei combaHmenA, l’amministrazione ponAficia restaurò le mura, ricostruendo le parA abbaOute. La nuova muratura corrispondente alle brecce, venne circoscriOa da una serie di piccole lastre in pietra bianca, tuOora ben visibili. Al centro di ogni breccia venne apposta una lapide con lo stemma ponAficio, la sigla S.P.Q.R. e la data 1849 in cifre romane : MDCCCXXXXIX. Porta San Pancrazio Le mura gianicolensi furono costruite nel 1643 da papa Urbano VIII Barberini, come aOestato dalle numerose lapidi poste sulle mura che recano lo stemma ponAficio con le api, emblema della famiglia Barberini. Le mura iniziano a Porta Portese, risalgono il Gianicolo e si collegano alle mura vaAcane nei pressi di Porta Cavalleggeri. Sono munite di dodici basAoni, numeraA a parAre da Porta Portese. In sommità del tracciato si apre la porta San Pancrazio. Queste mura erano ancora efficienA nel 1849 e cosAtuirono la principale difesa durante l’assedio da parte dei francesi. Porta San Pancrazio venne difesa tenacemente fino all’ulAmo. Dopo un furioso bombardamento, la parte alta della porta crollò seppellendo i difensori soOo le macerie. La porta venne ricostruita nella forma aOuale nel 1854 ( ArchiteOo V. Vespignani ). In anni più recenA sono staA aperA i varchi laterali, per consenAre il traffico stradale. Villa Savorelli – Aurelia Per la sua posizione dominante, che consenAva un’ampia visione dei campi di baOaglia, Villa Savorelli fu adibita a quarAer generale di Garibaldi. SoOo l’infuriare del bombardamento francese, il 20 giugno 1849 crollò gran parte della costruzione. Garibaldi spostò quindi il suo quarAer generale prima a Villa Spada e poi a San Pietro in Montorio. Una splendida litografia dell’epoca, mostra un quadro della zona dopo i combaHmenA. DavanA ai ruderi di Villa Savorelli vi sono i resA della baOeria romana della montagnola, così deOa perché piazzata su una piccola altura ora scomparsa. Nella noOe tra il 29 ed il 30 giugno, la baOeria della montagnola oppose una eroica resistenza all’assalto di soverchianA forze francesi. Dopo un’accanita loOa all’arma bianca, gli arAglieri furono tuH uccisi accanto ai loro cannoni. Villa Savorelli, oggi Villa Aurelia, dopo i combaHmenA venne ricostruita e ristruOurata. Dal 1911 Villa Aurelia è sede di rappresentanza dell’Accademia Americana. Villa Spada PerduA due basAoni delle mura Gianicolensi, oggi corrispondenA alle mura di Villa Sciarra, Garibaldi riuscì a realizzare una nuova linea di difesa, più arretrata, che comprendeva Porta San Pancrazio, l’oOavo ed il nono basAone ( a sinistra e destra della porta ), un traOo delle mura aureliane allora esistenA e Villa Spada, divenuta sede del quarAer generale. Su questa nuova linea l’esercito repubblicano tenne testa ai francesi per altri oOo giorni di conAnui combaHmenA. Villa Spada era tenuta dal baOaglione dei bersaglieri lombardi, comandaA dal colonnello Luciano Manara, 24 anni, eroe delle cinque giornate di Milano e ora Capo di Stato Maggiore di Garibaldi. Nella noOe tra il 29 ed il 30 giugno, i francesi sferrarono l’aOacco decisivo. L’oOavo basAone, dove ora si trova l’Accademia Americana, venne travolto dopo una sanguinosa loOa corpo a corpo. Poi fu la volta di Villa Spada. I francesi furono da prima respinA da un contraOacco guidato da Garibaldi e Manara, ma tornarono all’assalto con forze preponderanA. La villa fu squassata dalle cannonate e crivellata dal violento fuoco di fucileria. Manara venne ucciso da un colpo di carabina, ma i suoi bersaglieri conAnuarono a resistere. Era il 30 giugno 1849. La sera stessa l’Assemblea CosAtuente della Repubblica decretò la cessazione della resistenza. San Pietro in Montorio Nel giorno della baOaglia finale, San Pietro in Montorio venne a trovarsi a poche decine di metri dai luoghi dei combaHmenA. Qui vennero portaA i feriA. Qui fu stabilito l’ulAmo quarAer generale di Garibaldi. TuOo il complesso conventuale fu pesantemente bombardato dall’arAglieria francese che, dai basAoni conquistaA, teneva soOo Aro l’intera ciOà. Gravissimi i danni subiA dalla chiesa, dal convento e dal campanile, mentre rimase miracolosamente illeso il tempieOo del Bramante situato in un chiostro. Sul fianco della chiesa, in via Garibaldi ( deOa allora “la via del sangue” ), è stata apposta una lapide con una palla di cannone francese rinvenuta durante i lavori di restauro eseguiA nel 1995. Il Gianicolo – Mausoleo Ossario Gianicolense Sul Gianicolo ebbero luogo gli ulAmi scontri della baOaglia finale, il 30 giugno 1849. Alle ore 12, quando le truppe francesi sfondarono l’ulAma linea di difesa, fu stabilita una tregua per raccogliere i morA e i feriA mentre Garibaldi riuniva gli uomini rimasA per l’estrema difesa della CiOà Eterna. La gente corse ancora una volta alle barricate per difendere sino all’ulAmo respiro la Repubblica Romana , ma l’Assemblea CosAtuente, per non soOoporre la ciOà ad ulteriori ed inuAli distruzioni, decretò il giorno stesso la fine della difesa di Roma. Garibaldi non acceOò la resa e uscì da Roma con Anita, guidando circa 4.000 uomini tra soldaA e patrioA, Mazzini doveOe riprendere la via dell’esilio. Qui sul Gianicolo diedero la vita per la Repubblica gli ulAmi ragazzi provenienA da ogni parte d’Italia e d’Europa, le ulAme baOerie dell’esercito romano. Per questo, dopo che Roma divenne Capitale dell’Italia unita, il colle del Gianicolo venne considerato il simbolo dell’idenAtà nazionale. Qui ora sorge il parco Gianicolense con monumenA, busA e cippi che ricordano le più alte personalità del nostro Risorgimento. Su questo stesso colle, si erge il mausoleo ossario Gianicolense ( ArchiteOo G.Jacobucci 1941 ) che raccoglie nella soOostante cripta i resA di tuH coloro che morirono per Roma. Nell’elenco dei caduA per la Repubblica Romana troviamo incisi nel marmo i nomi di tanA eroi, uomini e donne, conosciuA e sconosciuA, dagli ufficiali di Stato Maggiore ai tamburini morA ancora bambini. In fondo alla cripta vi è la tomba di Goffredo Mameli, il poeta aiutante di campo di Garibaldi, morto di cancrena il 6 luglio 1849 all’età di 21 anni per la ferita riportata nella baOaglia del 3 giugno 1849. Dal 12 oOobre 1946 il suo inno diventa l’inno nazionale della Repubblica Italiana.
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