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STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
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LA GEOGRAFIA STORICA DEI PASTORI BERGAMASCHI
di Anna Carissoni
La plurisecolare esperienza delle transumanze estive ed invernali ha caratterizzato e caratterizza tuttora la vita, l’attività e il mondo culturale dei pastori bergamaschi.
BREVI CENNI STORICI
La pastorizia, insieme all’industria laniera, è stata la componente più importante dell’economia
bergamasca per ben tre secoli, dal ‘500 alla fine dell’’800. La lana è un prodotto della pastorizia,
non dell’agricoltura, e quella del pastore è una figura ben diversa da quella del mandriano stanziale
- semplice variante del contadino- con cui spesso viene confusa.
Nel graduale evolversi della civiltà, la pastorizia è la prima attività economica cui l’uomo di è
dedicato (probabilmente i cacciatori si trasformarono in pastori seguendo con le pecore i percorsi
degli animali selvatici in cerca di erba).
Vi sono molti modi di allevare le pecore, ma quello diffuso nella zona alpina e prealpina
“testimonia il persistere di una cultura e di un’economia che hanno scavalcato la millenaria esperienza
della fase agricola per giungere a noi quasi intatta, coi tipici tratti della fase precedente, quella del
nomadismo, che riesce ad inserirsi ed a mescolarsi ad economie e modi di vita ben diversi ed apparentemente incompatibili” (DODI, 1977)
In provincia di Bergamo, è soprattutto la Valseriana che spicca per la sua vocazione pastorale:
una vocazione che ha
sicuramente radici
nella particolare conformazione geografica del territorio: la
Valle, da Ponte Nossa
in su, è ricca di pascoli di limitata pendenza – altopiani di
Parre, Premolo, Bossico, Clusone e dintorni – vicini tra loro
e ben collegati ai
pascoli alti agibili in
estate (zona del
Branchino, del Barb e l l i n o , d e ll a V a l
Goglio, del Lago NeFig. 1 - Pastore bergamasco in Engadina in una fotocartolina cegli inizi del ‘900
ro, della Val di Scal-
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ve…, a loro volta comunicanti con la Val Brembana, la Valtellina, la
Val di Poschiavo, la Svizzera.
L’attitudine del territorio alla pastorizia ha
poi determinato, insieme alla disponibilità dei
corsi d’acqua ed alla
manodopera abbondante, la nascita e lo sviluppo della manifattura
laniera, attualmente
Fig. 2 — Pastori bergamaschi in Svizzera negli anni ‘50
ancora importante in
Val Gandino (Radici,
ecc….), ma un tempo fiorente anche a Clusone, Vertova, Alzano, Albino, Ranica. Un’attività
che si è via via sviluppata e trasformata continuando però a rappresentare uno dei più affollati settori dell’industria dell’intera Valle, il settore tessile: fino ad ora, perché adesso i Cinesi….
La pastorizia ha ancora uno spazio non piccolo nell’economia della Provincia: il patrimonio
ovino attuale viene quantificato in 40.000 capi (90.000 l’ammontare del patrimonio lombardo), di cui 14.000 selezionati facenti parte di una ventina di greggi iscritti al Libro Genealogico della razza Bergamasca.
I prodotti: la lana - di qualità poco pregiata rispetto alla concorrenza della merinos — è
utilizzata per materassi, cuscini e come isolante in edilizia; la carne, è il prodotto più importante: le partite di agnelloni e di castrati che il pastore vende ogni anno – in ragione di 100
capi per un gregge di 300 bestie – prendono la strada dell’ Italia centrale e del Meridione; ora
c’è una nuova fetta di mercato, quella rappresentata dagli immigrati di religione musulmana.
E’ una carne buona e leggera, solo noi non la apprezziamo e non la valorizziamo come meriterebbe.
La “gigante Bergamasca” è
una razza da carne, di costituzione robusta e di facile
contentatura: si adatta anche
a condizioni ambientali difficili, resiste al freddo, al caldo, alle lunghe marce, alla
siccità; si accontenta di erba
ma anche di ristoppie, foglie,
edere, licheni, tutto ciò che si
riesce a brucare anche sotto
la neve, più una manciata di
sale, quando c’è … Un pastore
può vivere discretamente
Fig. 3 — Transumanza sul punte dell’ex ferrovia di Ponte Selva
bene con un gregge di 300
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pecore, ma oggi ogni pastore
ne possiede almeno 500.
Complici la disinformazione generale e il disinteresse
delle istituzioni, dei pastori e
della pastorizia non si è ancora compreso il fondamentale
ed importantissimo ruolo ecologico ai fini della manutenzione del territorio. La pastorizia vagante ha costituito,
nei secoli passati, il miglior
baluardo contro gli incendi, il
Fig. 4 — Sosta durante la transumanza
degrado boschivo e le alluvioni e da quando la nostra regione non viene più percorsa dalle pecore, il numero degli incendi – statistiche alla mano – è vertiginosamente aumentato perché il fuoco trova facile esca nell’erba che, non più sfalciata né pascolata, diventa secca. ( E infatti in Francia, in Svizzera e in Spagna lo Stato incentiva il pascolo in funzione antincendio).
Un ruolo unico e prezioso, quello della pastorizia vagante, in territori come il nostro che la rapida e spesso dissennata industrializzazione ha consegnato al degrado e all’abbandono, con le conseguenze che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi. Un ruolo che però stenta ancora ad essere recepito,
sia perché i mass-media non informano adeguatamente su questi temi, sia perché la figura del pastore viene ancora associata a stereotipi culturali ormai superati.
Tuttavia, dagli anni ’90 in poi, la pastorizia in Bergamasca è in netta ripresa, sia per il numero
degli addetti che per la consistenza delle greggi.
Gli esiti di un “industrialesimo” che per tanti anni ha messo in crisi la loro attività, adesso sembrano giocare a favore dei pastori: l’abbandono di estese aree verdi non più sfruttate come prati da
fieno per l’allevamento bovino le ha trasformate in pascoli per le greggi; il fenomeno immigratorio
ha portato anche nella nostra Valle molte famiglie dal Nord Africa, incrementando il consumo di
carne ovina; molti proprietari di boschi e di incolti hanno capito che il pascolo delle pecore è un
ottimo sistema, oltretutto
economico, di manutenzione
dei loro fondi.
A queste ragioni pratiche ed
economiche si aggiunge la
maggior consapevolezza culturale dei pastori, soprattutto
dei giovani che hanno scelto
la pastorizia dopo aver verificato, nell’ambito di altri lavori, la non corrispondenza con
le proprie esigenze di libertà,
di autonomia decisionale, di
contatto con la natura e di
Fig. 5 — Gregge nella zona del Gleno
fedeltà alla tradizione, tradi-
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Fig. 6 - La geografia storica dei pastori bergamaschi
zione della propria terra più
che della propria famiglia
perché molti di essi non provengono da famiglie di tradizione pastorale.
I giovani poi approfittano con
disinvoltura di tutte le opportunità offerte dai nuovi mezzi
tecnologici, dal telefonino al
camper, dal furgone attrezzato alla roulotte alla moto da
cross per spostarsi sugli alpeggi, alla partecipazione assidua
alle fiere, alle mostre, che
consentono loro sia di tenersi
informati che di socializzare e
confrontarsi coi colleghi.
C’è infine da dire che i giovani pastori si vedono circondati
da una maggiore considerazione sociale: probabilmente sia
i locali che i turisti hanno
maturato una maggior coscienza ecologica e guardano
questo lavoro con maggior
rispetto e simpatia; soprattutto i bambini, i più affascinati
dallo spettacolo di un gregge,
dai cani, dagli asini….
Ma anche per noi adulti la
figura del pastore mantiene un fascino antico:
”Vedi un pastore che passa col suo gregge e senti il desiderio di liberarti di tutto quello che di artificioso ti circonda e di partire e di andare per strade polverose con la solida e vecchia terra sotto i
piedi e l’ampio e vecchio cielo sopra la testa e respirare aria che sa di aria vera e vedere nuvole e
vaste distese di terra ed erbe e fiori…” (BINI E VIQUERY, 1979)
“Il pastore marcia con gli occhi al cielo e così stringe il nodo provvisorio tra la terra e l’infinito
spazio in cui s’aggira” (DE LUCA E MATINO, 2004)
IL CALENDARIO E LA GEOGRAFIA STORICA DEL PASTORE BERGAMASCO
Il calendario annuale del pastore bergamasco è infatti il seguente:
•
•
da ottobre a marzo: ‘ndà a remènch in pianura;
da marzo a maggio: ’ndà ‘n paìss a tusà, tornare in paese per la tosatura primaverile;
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•
da maggio a luglio: ’ndà a
tempurìt, temporeggiare in
collina o comunque in valle,
per acclimatare il gregge gradatamente ad una vegetazione più fresca rispetto a quella
della pianura, prima di salire
ai pascoli alti;
•
da luglio a settembre:
’ndà i mut, salire agli alpeggi
in quota.
Di conseguenza, la geografia
storica dei pastori è vastissima ( vedi cartina e foto).
Il nomadismo come sistema di
vita non riguarda tuttavia solo
i pastori: la non-sedentarietà,
l’abitudine all’erranza è una
delle caratteristiche fondamentali dei popoli alpini, ancor oggi ravvisabile, seppure
in modo ridotto, anche nelle
pratiche dell’alpeggio, del
loch, termine che definisce la
cascina e il territorio circostante di sua pertinenza, a
mezza montagna, oltre che
nelle transumanze classiche.
(Tra parentesi, un’abitudine
confermata anche dalla reFig. 7 – Pascolo e abbeverata nella zona del Barbellino
cente storia dell’emigrazione:
a parità di condizioni di vita,
chi ha scelto di imbarcarsi verso i paesi più lontani non sono stati i proletari o i sottoproletari urbani
o gli abitanti delle pianure e delle coste, bensì i montanari delle Alpi e degli Appennini: eredi di una
cultura nomade, che consideravano normale lo spostamento. Ed è proprio questa loro civiltà originale e specifica che ha consentito alle comunità migranti di vivere in territori diversi e spesso ostili
-penso ai minatori della Val del Riso che emigrarono non solo per il Belgio ma anche per l’Australia,
o per stare più vicino, ai boscaioli che andavano in Francia, ai pastori che andavano, e ancora vanno, anche se non con greggi proprie, in Svizzera - ).
Il nomadismo, l’erranza, l’abitudine al viaggio, la capacità di sopportare la solitudine dei grandi
spazi – che siano praterie di montagna, o ghiacciai, o il deserto dei tuareg – l’abilità di parlare più
lingue e di riconoscere immediatamente i propri simili – anzi, di avere un linguaggio settoriale specifico, come il gaì -, così come la marginalità, l’isolamento spesso volontario, la disponibilità a dare
rifugio al perseguitato (ci sarebbe da parlare per ore a proposito degli eretici, dei banditi, dei delinquenti, insomma di tutte le categorie di persone che erano”contro” la cultura dominante ed ufficiale che hanno trovato rifugio in montagna lungo i secoli, fino ad arrivare ai partigiani): sono tutte
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CARISSONI
“coordinate
culturali
che
distinguono i popoli stanziali,
le società gerarchizzate in
cui esiste solo la proprietà
privata
della
terra,
dalle
tribù nomadi che si spostano
su estensioni enormi di uso
collettivo” (ZUCCA, 2003)
… e dei loro eredi, cioè i pastori di oggi.
Ovviamente, la storia di questi popoli, e di questi individui, è ancora tutta da scriveFig. 8 — Pastori bergamaschi nel milanese dopo l’eccezionale nevicata del
re: nella scala di valutazione
gennaio 1985
della civiltà di un popolo,
nella cultura accademica che ancora viene tramandata nelle scuole, la civiltà nomade non viene
considerata, come in genere non lo è la civiltà alpina, anche se è indubbio che il paesaggio di montagna, così come ci piace tanto quando ci andiamo a spasso o in villeggiatura, - laddove è ancora
montagna, intendiamoci!- è il risultato di secoli e secoli di conoscenze, di competenze, di progettazioni che hanno richiesto tempo e perizia né più né meno di tante altre opere d’arte. Con la differenza, non da poco, che il paesaggio di montagna è lì a dimostrare come si possa adattarsi all’ambiente senza depauperarlo, senza rovinarlo, senza distruggerlo: cosa che certo non si può dire del
modello urbano ed industriale che viene ritenuto “superiore”….
Voglio dire che i pastori- e i montanari in generale - sono depositari di una conoscenza esperienziale del territorio tanto precisa da rivelarsi, all’atto pratico, più efficace della conoscenza scientifica.
I VALORI- BASE DELLA CULTURA PASTORALE
Credo che alcuni aspetti di
questa cultura rappresentino
valori ancora attualissimi,
anzi, sempre più importanti
anche per il futuro:
il valore del lavoro come
spazio aperto all’iniziativa
individuale, come conseguenza di una scelta precisa: il
pastore è l’unico responsabile
del suo gregge, decide in modo autonomi tempi e modi del
suo lavoro: (“Meglio farsi comandare dalle pecore che
dalle bestie a due zampe” –
afferma Daniele Imberti), ne
Fig. 9 - Pastore sulla Maresana
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conosce i rischi e li accetta
coscientemente. E questo in
un tempo di lavoro alienante
e massificante, in cui all’individuo ed alla sua iniziativa
viene concesso pochissimo
spazio, in cui ognuno tende a
scaricare su altri, o altrove,
la sua responsabilità, in cui il
lavoro diventa sempre più
precario e privo di un senso
motivante per le persone….
“Quando parlate con un uomo socialmente tecnico –
tecnologico, diremmo forse
oggi – egli sogna solo il tempo
in cui le macchine faranno
tutto il suo lavoro (….) Questo pover’uomo ha dimenticato, non sa, non può sapere,
nella sua posizione antinaturale, che la vera cultura
dell’uomo è precisamente il
suo lavoro, ma un lavoro che
sia la sua vita, il che non è
evidentemente
il
caso
di
nessun lavoro tecnico. Non si
può sapere qual è il vero
lavoro del contadino: se è
arare,
seminare,
falciare,
oppure se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti
genuini, fare figli e respirare
liberamente,
poiché
tutte
queste cose sono intimamenFig. 10 — I pass o sass de la scritüra
te unite, e quando egli fa una
cosa
completa
l’altra.
E’
tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine. E’ la sua vita.” (GIONO, 2004)
il valore del senso critico: col suo modo di vivere (“Fare il pastore non è un mestiere, è un modo di vivere” – diceva Bortolo Imberti, detto Ghisì) il pastore rappresenta una costante messa in
discussione di un certo tipo di “civiltà”: il suo andare lentamente in un mondo che corre, anzi, vola;
il suo impegno teso a soddisfare l’esigenza delle sue bestie, un bisogno essenziale, quello del cibo,
in un mondo che ci incalza con bisogni sempre più imposti, sempre più sofisticati, sempre più fasulli; il sui isolamento volontario nella nostra società che mitizza la socialità e la socializzazione che
sacrifica la dignità del singolo individuo (perché di isolamento volontario si tratta: il pastore berga-
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masco non è il servo-pastore
sardo, le nuove leve sono
giovani e consapevoli);
il valore dell’intesa e del
reciproco rispetto tra uomo
e natura: il pastore utilizza
correttamente il territorio,
nel senso che ne sfrutta le
risorse senza rovinarle e senza
esaurirle, senza depauperare
l’ambiente in modo irreversibile: l’erba ricresce, lo sterco
delle pecore è un buon concime - dove sono tornate a pascolare le pecore sono tornate
Fig. 11 — Val Calanca: Pietro Imberni indica la direzione da seguire per raggiungere il Pas de la scritüra
anche specie vegetali che
erano sparite- dove pascolano
le pecore il pericolo di incendio si riduce notevolmente, dove le pecore ripuliscono il sottobosco si
evita di farlo con decespugliatori e altri sistemi inquinanti…): e questo in tempi in cui siamo tutti
ecologi solo a parole, in cui lo spreco di territorio ha raggiunto anche le zone più impervie (seconde
case, strade, condomíni, ecc…all’insegna del territorio “usa e getta”)
“Il pastore traversa la superficie e scavalca confini. Ignora le linee immaginarie inventate dai popoli per il loro possesso, a imbracare la terra in un reticolo di separazioni. Perché la Terra è una, e il
pastore più di tutti sa che si è ospiti del suolo, e non suoi proprietari.” (DE LUCA E MATINO, 2004)
il valore del silenzio: il pastore parla poco, dice solo le cose essenziali e il tempo che non dedica alle chiacchiere lo usa per riflettere, per pensare; e questo in un mondo sempre più parolaio e
superficiale….
“Pastore è mestiere esposto agli agguati, sviluppa negli organi l’aguzza attenzione delle solitudini.” (BURATTI, 2004)
il valore della difesa della
propria identità culturale:
argomento molto di moda, del
quale di discetta in mille convegni e in mille modi senza in
concreto concludere granchè.
Il pastore invece attua questa
difesa senza fare tanto chiasso: quella che chiamiamo
tradizione orale trova proprio
nei pastori i suoi più fedeli
custodi, come pure il dialetto
e il gergo, nelle loro espressioni più genuine.
Fig. 12 — Andrea Palamini nei dintorni di Melzo (Mi)
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CONCLUSIONI
Come ben scrive Tavo Buratti
“Oggi, quando cerchiamo un
sistema di sviluppo pulito e
rispettoso della “sacralità”
della Terra, madre e non
schiava dell’uomo; oggi che i
filosofi più avveduti ci dimostrano
la
«bioregione»,
validità
la
della
«regione
della natura» - contrapposta
a quella amministrativa buroFig. 13 — Gregge a remènch nei dintorni di Varese
cratica – dove uomo e terra
interagiscono per la reciproca
salvaguardia prescindendo dai confini politici, oggi forse la strada per riscoprire la rilevanza economica
della montagna e della collina è proprio nella ricerca di quelle tracce antiche, dietro un gregge transumante e un pastore libero.” (BURATTI, 2004)
BIBLIOGRAFIA
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BINI G. , VIQUERY G, (1979) Fame d’erba, Virginia, Pero (Mi).
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GIONO J. (2004), Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, Ponte alle Grazie, Milano 2004.
ZUCCA M. (2003), Donne delinquenti, ed. Centro di Ecologia Alpina, Trento
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