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LE TECNICHE IMMAGINATIVE
IN TERAPIA COGNITIVA
Strategie di assessment
e di trattamento basate sull’imagery
ANN HACKMANN
JAMES BENNET-LEVY
EMILY A. HOLMES
EDIZIONE ITALIANA A CURA DI NICOLA MARSIGLI
ECLIPSI
Collana Scienze Cognitive e Psicoterapia, con la Supervisione ScientiÞca
dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e
Cognitiva (IPSICO, Firenze)
Traduzione italiana di:
Oxford Guide to Imagery in Cognitive Therapy
Ann Hackmann, James Bennett-Levy, & Emily A. Holmes
Traduzione: Elisa Brumat
Cura: Nicola Marsigli
Videoimpaginazione: Gesp srl
Editing: Andrea Pioli
Copyright © 2011
Oxford University Press
Great Clarendon Street
Oxford OX2 6DP
Copyright © 2014
Eclipsi srl
Via Mannelli 139
50132 Firenze
Tel. 055-2466460
www.eclipsi.it
978-88-89627-26-6
I diritti di traduzione, di riproduzione, di memorizzazione elettronica, di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microÞlm e le copie fotostatiche) sono riservati
per tutti i paesi.
A Wilhelm, Anneke, Corinna e Dylan
A. H.
A Judy
J. B. L.
Ad Alan e Astrid
E. H.
SOMMARIO
Gli autori
VII
Ringraziamenti
1
Prefazione
3
Introduzione
5
Saggio introduttivo
11
L’imagery nella tradizione della terapia
cognitiva di Beck
25
La fenomenologia dell’imagery nella
pratica clinica
31
Ricerca sperimentale sull’imagery:
implicazioni per la pratica clinica
55
Le componenti efÞcaci degli interventi
di imagery nella pratica clinica
73
Le basi degli interventi di imagery:
principi e strategie generali
93
CAPITOLO 6
Assessment dell’imagery
111
CAPITOLO 7
La micro-formulazione dell’imagery
125
CAPITOLO 8
Lavorare sulle immagini intrusive diurne
137
CAPITOLO 9
Utilizzare l’imagery per lavorare
con i ricordi angoscianti
157
CAPITOLO 10
Lavorare sull’imagery notturna
187
CAPITOLO 11
Lavorare con l’imagery metaforica
205
CAPITOLO 12
Imagery positiva: goal setting,
skills training e problem solving
227
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
BibliograÞa
Imagery positiva: creare
“nuovi modi di essere”
241
Futuri sviluppi delle tecniche
immaginative in terapia cognitiva
263
271
GLI AUTORI
Ann Hackmann è una delle ricercatrici più inßuenti nel campo dell’imagery. Negli ultimi 15 anni ha studiato il ruolo dei
ricordi intrusivi nella depressione (assieme a Jon Wheatley e
a Chris Brewin) e nel Disturbo Post-Traumatico da Stress (assieme ad Anke Ehlers), oltre che dei ricordi dell’infanzia nella
Fobia Sociale (assieme a Jennifer Wild e a David Clark). Nel
2004 ha curato con Emily Holmes un’edizione speciale della
rivista Memory dedicata al tema dell’imagery. Ha collaborato con
David Clark e Anke Ehlers in diversi studi randomizzati controllati, e di recente ha studiato assieme a Mark Williams l’efÞcacia della terapia mindfulness based
nel trattamento della depressione e di altri disturbi. InÞne, ha curato la Oxford
Guide to Behavioural Experiments in Cognitive Therapy (Bennet-Levy, Butler, Fennell,
Hackmann, Mueller e Westbrook, 2004) e, assieme a Gillian Butler e a Melanie
Fennel, ha scritto il libro Cognitive Therapy for the Anxiety Disorders: Mastering Clinical
Challenges (2008).
James Bennet-Levy è professore associato presso l’Università di Sidney, all’University Centre for Rural Health (North Coast).
Ha curato due testi clinici fondamentali: la Oxford Guide to Behavioural Experiments in Cognitive Therapy (Bennet-Levy, Butler,
Fennell, Hackmann, Mueller e Westbrook, 2004) e la Oxford
Guide to Low Intensity CBT Interventions (Bennet-Levy, Richards,
Farrand et al., 2010). Insegna e divulga le principali tecniche
della terapia cognitivo-comportamentale e nell’ultimo decennio ha pubblicato numerosi saggi pratici e teorici su di essa. Il suo interesse per
l’imagery e per gli esperimenti comportamentali nasce dalla constatazione della
capacità che hanno gli interventi sperimentali mirati nel trasformare il vissuto dei
pazienti.
Emily A. Holmes, psicologa clinica, è dottore di ricerca in
neuroscienze cognitive presso il dipartimento di psichiatria
dell’università di Oxford. Ha una comprovata esperienza clinica nel campo dell’imagery (in particolar modo riguardo ai ricordi
traumatici) e attualmente si occupa della depressione e dei disturbi bipolari. Le sue ricerche nel campo della psicopatologia
sperimentale, focalizzandosi sulle immagini mentali, puntano a
identiÞcare i meccanismi cognitivi che sono alla base del disagio
emotivo presente in molti disturbi psicologici. È Senior Research Fellow e Wellcome
Trust Clinician Fellow e nel 2010 le è stata assegnata la medaglia British Psychological
Society Spearman. Ha ricevuto delle sovvenzioni per la ricerca da parte del Wellcome
Trust, della Royal Society, dell’Economic and Social Research Council (ESRC), del John
Fell OUP Research Fund e della Lupina Fundation. Ha fondato a Oxford il team di
ricerca “EPaCT” (Experimental Psychopatology and Cognitive Therapy). Per ulteriori
dettagli si consulti la pagina http://www.psychiatry.ox.ac.uk/epct/publications/
index_html.
RINGRAZIAMENTI
Nello scrivere questo libro ci siamo ispirati al lavoro di diversi autori, tra i
quali vogliamo citare soprattutto Aaron T. Beck (che ha sempre riconosciuto
il ruolo fondamentale dell’imagery nella terapia cognitiva), David Clark e Anke
Ehlers (i cui studi sui disturbi d’ansia hanno fatto luce sul concetto di imagery in
psicopatologia), e inÞne Andrew Mathews (che ha incoraggiato e sostenuto la
ricerca sull’imagery nella psicopatologia sperimentale).
Ringraziamo anche Arnoud Arntz, Tom Borkovec, Chris Brewin, Gillian
Butler, Martin Conway, Melanie Fennel, Art Freeman, Paul Gilbert, Nick Grey,
Kees Korrelboom, Mary Anne Layden, Deborah Lee, Christine Padesky, Jeffrey
Young e Kerry Young.
Siamo grati ai nostri colleghi e collaboratori: Jackie Andrade, Mike Berger,
Myra Cooper, Catherine Crane, Tim Dalgeish, Rachel Handley, James Hawkins,
Colette Hirsch, Bundy Mackintosh, Michelle Moulds, Paul Salkovskis, Anne Speckens, Creaig Steel, Luisa Stopa, Richard Scott, David Veale, Adrian Wells, Jon
Wheatley, Jennifer Wild e Mark Williams.
Un ringraziamento speciale va a tutti coloro che hanno contribuito in prima
persona alla realizzazione di questo libro: David Edwards (che ha scritto un dettagliato resoconto storico sull’utilizzo dell’imagery in psicoterapia), Aaron T. Beck
(che ha scritto la prefazione del volume) e tutti coloro che ci hanno fornito i casi
clinici che troverete alla Þne di ciascun capitolo (Arnoud Arntz, Judith Beck,
Chris Brewin, David Edwards, David Gillanders, Margret Hovanec, Deborah
Lee, Kathleen Mooney, Michelle Moulds, Martina Mueller, Nick Page, Christine
Padesky, Clare Philips, Diana Sanders e Jon Wheatley).
Emily Holmes ringrazia in particolar modo il Wellcome Trust, la Royal Society e
la Lupina Fundation - che hanno Þnanziato le sue ricerche - e il suo laboratorio
EPaCT (Experimental Psychopatology and Cognitive Therapy) per l’entusiasmo profuso
nella ricerca sull’imagery. È particolarmente riconoscente a chi le è stato accanto
durante la stesura di questo libro: Chantal Berna, Simon Blackwell, Mike Browning, Ian Clark, Anna Coughtrey, Catherine Deeprose, Martina Di Simplicio, Susie Hales, Ella James, Tamara Lang, Aiysha Malik, Arnaud Pictet, Dhruvi Shah,
Sophie Wallace-Hadrill, Muriel Hagenaars e Julie Krans.
Ringraziamo Charlotte e il Rouge-Design Center per le opere d’arte riprodotte in queste pagine: il linguaggio visivo è fondamentale quando si lavora con
l’imagery.
InÞne, siamo molto riconoscenti alla British Association for Behavioural and Cognitive Psychoterapies (BABCP), che ci ha messo a disposizione per anni degli spazi
per i vari meeting e workshop sull’imagery, permettendoci di essere produttivi e di
approfondire quest’ambito di conoscenza.
PREFAZIONE
Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni
interne, cosa decisamente favorita dall’imagery (Beck, 1970), che ha contribuito
sia a livello teorico che a livello pratico all’evoluzione della terapia cognitiva. Nonostante questo, tuttavia, è solo negli ultimi 10 anni che si è dedicato particolare
attenzione alla ricerca e alla pratica clinica basate sull’imagery.
Questo libro contribuisce signiÞcativamente alla ricerca in questo campo,
sintetizzandone gli sviluppi empirici e clinici. Ann Hackmann e Emily Holmes,
illustri ricercatrici esperte nell’uso dell’imagery in terapia cognitiva, hanno scritto
assieme a James Bennett-Levy, che le ha supportate con la sua esperienza clinica
ed editoriale, questa guida esaustiva e coinvolgente alla ricerca e alla pratica clinica
basate sull’imagery.
Questo libro è al contempo una guida per i professionisti e un punto di riferimento per i ricercatori che operano in questo settore. Chi avesse poca dimestichezza con le tecniche immaginative ne apprezzerà certamente la chiarezza: gli
esempi e le illustrazioni permetteranno infatti di familiarizzare rapidamente con i
metodi proposti. I clinici più avvezzi ad esse, invece, potranno afÞnare e approfondire le proprie conoscenze, espandendo il proprio repertorio e imparando a
trattare pazienti e sindromi sempre differenti.
Questo libro rappresenta una guida essenziale - oltre che necessaria - per
comprendere i principali concetti concernenti l’imagery, che viene sempre più riconosciuta quale elemento fondamentale nella genesi, nel mantenimento e nel
trattamento della psicopatologia. Nei prossimi anni credo inßuenzerà signiÞcativamente la ricerca sperimentale che verrà condotta in quest’ambito nella psicologia e nelle neuroscienze cognitive.
Aaron T. Beck
INTRODUZIONE
L’imagery è una delle frontiere più innovative della terapia cognitiva: è una
tematica particolarmente stimolante, che racchiude interessanti prospettive di
trattamento. Attraverso questo libro, che abbiamo scritto sia per i clinici (afÞnché
possano ampliare il proprio bagaglio di conoscenze e usarlo con più dimestichezza) sia per i ricercatori (afÞnché si confrontino con questo Þorente settore
di studio) intendiamo offrire una panoramica aggiornata sui suoi ultimi sviluppi
teorici e pratici. Desideriamo anche manifestare il nostro entusiasmo per ciò che
consideriamo un campo di indagine tanto affascinante e gratiÞcante.
Molti terapeuti conoscono solo marginalmente gli ultimi sviluppi nel campo
dell’imagery e si servono sporadicamente di essa in ambito clinico. Altri invece,
pur servendosene frequentemente, non possiedono le conoscenze necessarie per
approfondirne l’utilizzo. Ci auguriamo che questo libro sia al contempo una fonte di informazioni e una guida pratica, che illustra ai professionisti come poter
sfruttare creativamente ed efÞcacemente l’imagery in situazioni diverse e per manifestazioni cliniche differenti.
Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, l’imagery ha avuto un ruolo fondamentale nei trattamenti comportamentali di desensibilizzazione sistematica e di ßooding,
oltre che nella terapia multimodale di Lazarus. Beck ne ha rimarcato l’importanza
Þn dagli albori della terapia cognitiva e, tra la Þne degli anni ’80 e l’inizio degli
anni ’90, David Edwards, Jeffrey Young e Mary-Anne Layden ne hanno iniziato a
descrivere l’applicazione in tale ambito. È solo nell’ultimo decennio, tuttavia, che
ricercatori e clinici l’hanno analizzata nel dettaglio, cercando di chiarirne il ruolo
nei normali processi cognitivi, nella psicopatologia e nel cambiamento terapeutico.
L’inizio del ventunesimo secolo è stato particolarmente produttivo per lo studio dell’imagery, tanto che le teorie a riguardo e i trattamenti che la includono sono
aumentati in modo esponenziale. È molto probabile che nel prossimo decennio
la ricerca e la pratica in quest’ambito si diffonderanno ancora di più, sia nella
terapia cognitiva che nelle altre psicoterapie. Ci è sembrato pertanto opportuno
riassumere le attuali conoscenze in un’opera fruibile dai clinici e dai ricercatori, a
prescindere dal loro livello di esperienza.
Il nostro obiettivo è quello di offrire una guida sistematica ai clinici, giacché
Þno ad oggi l’imagery è stata affrontata in modo frastagliato; è infatti applicabile
a diversi disturbi, ma non viene utilizzata allo stesso modo in tutti i protocolli di
trattamento (a volte è quasi del tutto assente). Attraverso questo libro, dal taglio
trans-diagnostico, abbiamo cercato di dare maggiore coerenza all’argomento, fo-
6
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
calizzandoci sul processo terapeutico anziché sugli speciÞci disturbi, ed evidenziando il legame intercorrente tra ricerca sperimentale, teoria e pratica clinica. Ci
auguriamo che esso possa servire tanto ai clinici quanto ai ricercatori. L’imagery è
infatti una branca affascinante e ricca di opportunità: un altro nostro obiettivo è
pertanto quello di stimolare il lavoro di questi ultimi.
Abbiamo cercato di:
1. basare tutto il libro sulle conoscenze relative all’imagery, attualmente in fase
di rapida evoluzione a livello clinico e sperimentale;
2. sviluppare un manuale per i terapeuti fondato su queste conoscenze;
3. corredare il libro di casi clinici, afÞnché questi possano comprendere come
l’imagery può essere usata creativamente nel corso del trattamento.
Quella che doveva essere un’opera di modesta entità è diventata un libro di
una certa ampiezza; abbiamo dovuto scegliere cosa inserire e cosa escludere,
soffermandoci in particolar modo sulle prospettive attuali e future, anziché su
quelle passate. Non ci dilungheremo quindi sulla desensibilizzazione sistematica
o sul ßooding - senza volerne sminuire l’importanza nelle prime fasi della terapia
comportamentale -, ma daremo spazio agli approcci emergenti, quali l’uso delle
metafore in terapia cognitiva e la Compassion-Focused Therapy.
Abbiamo inoltre scelto di concentrarci sul processo degli interventi di imagery,
anziché sulle diverse terapie: non scenderemo pertanto nei dettagli della Schema
Therapy1, della MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy)2, dell’MCT (Metacognitive
Therapy)3 e dell’EMDR (Eye-Movement Desensitization and Reprocessing), pur riconoscendo il valore di ognuna di esse. Evidenzieremo invece alcuni aspetti chiave di
queste terapie dal punto di vista della teoria, dei processi e delle tecniche, sottolineando l’importanza delle credenze metacognitive, dell’accettazione non giudicante e delle tecniche di autoregolazione per accedere ai ricordi d’infanzia e
traumatici, e per poterci lavorare.
La parte principale del libro è introdotta da un saggio di David Edwards (Dalle
antiche guarigioni sciamaniche alla psicoterapia del XXI secolo: il ruolo delle tecniche immaginative nel cambiamento psicologico). Come Edwards ha magistralmente dimostrato,
l’imagery gioca un ruolo centrale nella consapevolezza umana e nelle pratiche di
guarigione da almeno 20.000 anni, e la psicoterapia, Þn dalla sua nascita, ne ha
riconosciuto il valore.
1
Si veda il volume Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità, di J.E. Young, J.S. Klosko, & M.E. Weishaar. Firenze: Eclipsi.
2
Si veda il volume Mindfulness e Acceptance in psicoterapia. La terza generazione della terapia cognitivocomportamentale. A cura di F. Bulli & G. Melli. Firenze: Eclipsi.
3
Si veda il volume Terapia Metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione, di A. Wells. Firenze:
Eclipsi.
Introduzione
7
La parte principale del libro è a sua volta suddivisa in 5 parti: la prima - La
contestualizzazione dell’imagery - presenta la cornice storica, teorica, fenomenologica
e sperimentale su cui si basa il resto del libro. Il primo capitolo spiega come lo
studio dell’imagery e delle relative tecniche terapeutiche si inserisca nel contesto
teorico e ÞlosoÞco della terapia cognitiva di Beck. Il capitolo 2 illustra le manifestazioni dell’imagery in diversi disturbi e ne esamina la fenomenologia - talvolta
sconcertante - che ha cominciato ad essere compresa solo di recente, alla luce
degli ultimi sviluppi delle teorie sulla memoria. Nella parte Þnale del capitolo
chiariremo le deÞnizioni e i termini utilizzati in questo libro. Il capitolo 3 esamina
le prove sperimentali sull’imagery ed evidenzia il legame di questa con le emozioni,
oltre a dimostrare la rilevanza degli interventi imagery-based nella pratica clinica. Il
capitolo 4 si concentra sulla teoria e sulla ricerca, cercando di individuare le componenti più efÞcaci degli interventi di imagery (che saranno oggetto della terza e
della quarta parte del volume).
La seconda parte - Preparazione agli interventi di imagery - è divisa in tre capitoli:
il 5 è pensato per i clinici e speciÞca “cosa fare e cosa non fare” quando si propone ai pazienti un intervento basato sull’imagery. Il capitolo 6, che si concentra
sui metodi per valutare l’imagery dei pazienti e il suo impatto, anticipa logicamente
il 7, la Micro-formulazione dell’imagery, che introduce una formulazione della terapia
cognitiva centrata sul ruolo dell’imagery nelle manifestazioni cliniche.
La terza e la quarta parte si focalizzano sugli interventi terapeutici: solitamente
i pazienti giungono in terapia con un’imagery negativa disturbante (sotto forma di
immagini intrusive, ricordi o incubi). La parte 3 - Interventi di imagery: trasformare
e rimuovere le immagini negative - si concentra su come eliminare l’imagery negativa
trasformandone i contenuti e i signiÞcati, e affronta l’imagery intrusiva diurna (capitolo 8); successivamente vengono trattate l’imagery associata ai ricordi (capitolo
9), l’imagery notturna - inclusi i sogni e gli incubi - (capitolo 10) e l’imagery metaforica (capitolo 11). Abbiamo suddiviso ogni capitolo in fasi e processi chiaramente
deÞnibili, ovvero:
•
•
•
•
•
•
•
•
Familiarizzazione del paziente
Evocazione e valutazione dell’imagery
Micro-formulazione dell’imagery
Manipolazione dell’imagery
Differenziazione dell’imagery
Trasformazione dell’imagery
Costruzione di un ponte emozionale con il passato
Creazione dell’imagery
Ci auguriamo in tal modo di poter uniformare quella che a prima vista sembrerebbe solo una serie di interventi differenti.
8
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
La parte 4 - Interventi di imagery: creare una nuova imagery positiva - consta di due
capitoli che sottolineano la necessità di creare un’imagery positiva ex novo, anziché
modiÞcare quella negativa. Il capitolo 12 dimostra come l’imagery potenzi le tecniche tradizionali di terapia cognitiva utilizzabili con ogni paziente (ad esempio,
la deÞnizione degli obiettivi). Il capitolo 13 sottolinea l’efÞcacia degli interventi
di imagery nei pazienti con difÞcoltà di lungo corso o croniche e privi di credenze
o immagini positive su se stessi (come quelli con bassi livelli di autostima o compassione verso se stessi, o che presentano disturbi di personalità). In questi casi,
l’obiettivo della terapia è quello di costruire nuove immagini positive.
La parte 5 - Commenti conclusivi - esamina le possibili prospettive future dell’imagery: abbiamo appena iniziato ad esplorarne il potenziale negli interventi psicoterapeutici, e siamo certi che si rivelerà un fecondo campo di indagine per studiosi
e ricercatori.
Questo libro ci ha dato molte soddisfazioni; una delle più grandi è stata quella
di aver avuto Aaron T. Beck, che ha sottolineato l’importanza dell’imagery già agli
albori della terapia cognitiva, come autore della prefazione. Adesso, a 30 anni di
distanza, iniziamo a comprendere il signiÞcato delle sue parole. Le sue brillanti
osservazioni, come speciÞchiamo nel primo capitolo, hanno ispirato il nostro
lavoro.
Siamo anche molto grati a David Edwards, che ha scritto il saggio iniziale,
perfetta introduzione storica alle tecniche immaginative.
Ringraziamo Charlotte Holmes per le sue opere d’arte, che illustrano magistralmente il libro. Ogni litograÞa rißette la sua personale visione artistica dei temi
trattati.
Ringraziamo tutti i colleghi e gli amici che ci hanno accompagnato lungo
questo viaggio, troppo numerosi per essere menzionati singolarmente. Un ringraziamento speciale va ai colleghi che ci hanno concesso di inserire in questo
libro alcuni casi clinici. Ne abbiamo apprezzato i contributi che aiutano il lettore
a inquadrare l’imagery nelle pratiche psicoterapeutiche evidence-based. Ci auguriamo
che la ricca bibliograÞa al termine del volume induca i lettori ad approfondire il
nostro lavoro, ma soprattutto auspichiamo che, da qui al prossimo decennio, questo libro possa essere pubblicato in una nuova edizione: pur essendo fermamente
convinti del valore dell’imagery, non sappiamo quali potranno essere i progressi
della ricerca negli anni a venire!
SAGGIO INTRODUTTIVO
Dalle antiche guarigioni sciamaniche
alla psicoterapia del XXI secolo:
il ruolo delle tecniche immaginative
nel cambiamento psicologico
David Edwards
L’uso dell’imagery nel setting psicoterapeutico ha una storia articolata e complessa,
che è a tutt’oggi di grande attualità.
(Achterberg, 1985, p. 149)
Le tecniche immaginative vengono utilizzate da quasi 20.000 anni. Fin dai
tempi delle guarigioni sciamaniche, furono impiegate per modiÞcare i processi
cognitivi consci e inconsci (Achterberg, 1985). Nei templi di Imhotep, gli antichi egizi impiegavano il metodo di incubazione dei sogni che, a partire dal V
secolo a.C., è stato applicato anche nei templi greci di Esculapio (Meier, 2003;
Oberhelman, 1983). Il letto su cui giaceva la persona era chiamato cline - da cui
origina il termine “clinico” - e l’assistente era denominato therapeutes - da cui deriva l’appellativo “terapeuta”. Nel buddismo tibetano riscontriamo la presenza, sin
dall’VIII secolo d.C., di pratiche di visualizzazione meditativa delle divinità (Beer,
2004; Samuels & Samuels, 1975), mentre nell’Italia cristiana S. Ignazio di Loyola
(1491-1556), fondatore dell’ordine dei gesuiti, ha reso popolare la visualizzazione
degli episodi salienti delle vite dei santi (Haraguchi, 2009). Nella ÞlosoÞa e nella
medicina occidentale il termine “immaginazione” è stato usato da Aristotele (384
a.C. - 322 d.C), da Galeno (129 d.C. - 199 d.C.) e da Paracelso (1493-1541) per
indicare i signiÞcati personali presenti sotto forma di credenze, di atteggiamenti o
di immagini. Il giovane Galeno era stato therapeutes a Pergamo, presso il tempio di
Esculapio, il quale gli era apparso più volte in sogno (Oberhelman, 1983).
Il concetto di immaginazione ha permesso una spiegazione psicologica di fenomeni e comportamenti - quali il bilanciamento dei ßuidi corporei o, nel XIX
secolo, l’attività del sistema nervoso centrale (Achterberg, 1985; Jackson, 1990;
Samuels & Samuels, 1975) - che altrimenti sarebbero stati descritti in termini di
12
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
fattori Þsici. Nella sua Anatomy of Melancholy (1621), Robert Burton (1577-1640)
si è basato su fonti antiche e contemporanee per dimostrare il potere dell’immaginazione nell’alimentare le emozioni intense e sgradevoli. Ha anche riconosciuto
come la stessa possa essere utilizzata nel processo di guarigione, sulla base del
“principio dei contrari” descritto da Thomas Fienus (1567–1613), che asserisce
che il medico può contrastare gli aspetti negativi dell’immaginazione inducendo
«un’immagine opposta, tale da produrre una reazione emotiva contraria» (Jackson, 1990, p. 347). Per ottenere questo risultato non ci si basava sulle moderne
tecniche di immaginazione guidata, ma su una serie di strategie, volte ad alimentare la speranza di guarigione, più simili alla magia, agli incantesimi o a dei rituali
speciÞci.
DAL “MAGNETISMO ANIMALE” ALLA PSICOTERAPIA
Alla Þne del XVIII secolo, Franz Anton Mesmer (1734-1815) ha reso popolare un metodo di guarigione detto “mesmerismo”, basato sull’induzione di uno
stato di coscienza alterato che produce immagini vivide (comprese quelle legate
a eventi traumatici). La guarigione, più che all’immaginazione, era attribuita a un
campo di forza chiamato “magnetismo animale”. Nel 1813 due medici olandesi
che stavano sperimentando i “trattamenti magnetici” hanno curato una domestica che, dalla morte dell’anziana di cui si prendeva cura, accusava affaticamento,
attacchi di panico, cattiva digestione e spasmi muscolari, ed era tormentata da
incubi inquietanti. Grazie a un trattamento durato sei mesi, è riuscita a rielaborare
«le ultime agonie della sua padrona con più precisione e maggiori dettagli spaziali
e temporali di quanto non avrebbe potuto fare in stato di veglia». I medici hanno
attribuito i suoi progressi al magnetismo, escludendo qualsiasi ruolo dell’immaginazione (Vijselaar & Van der Hart, 1992, p. 2).
Nonostante Mesmer sia stato screditato, i suoi metodi sono stati ripresi sia in
medicina che in psichiatria - con il nuovo nome di “ipnoterapia” - e considerati
strumenti basati sull’immaginazione e sulla suggestione. Il lavoro di Bernheim
(1840-1919) a Nancy, in Francia, è stato da questo punto di vista molto importante (Ellenberger, 1970; Pintar & Lynn, 2008).
Nel XIX secolo è stato riconosciuto il ruolo dei fattori psicologici nella psicopatologia (Ellenberger, 1970; Van der Hart & Horst, 1989) e nel 1851, in Olanda,
quello del trattamento psicoterapeutico nel rielaborare l’esperienza traumatica
(Van der Hart & Van der Velden, 1987). Rika, una donna di 22 anni, dopo il
suicidio per annegamento dell’ex Þdanzato, era «impazzita per 5 mesi» (p. 264),
manifestando diversi sintomi, tra cui allucinazioni che la spingevano al suicidio.
Il suo problema è stato risolto con sedute quotidiane per un anno, che le ha
permesso di rielaborare i traumi subiti nell’infanzia e gli eventi concomitanti alla
morte dell’ex partner.
Saggio introduttivo
13
A partire dal 1880, in Francia, Pierre Janet ha utilizzato l’ipnosi per far rivivere
i traumi ai propri pazienti, descrivendo dettagliatamente la psicopatologia dissociativa e anticipando molte teorie e tecniche moderne (Ellenberger, 1970; Van
der Hart, Brown, & Van der Kolk, 1989). Ha notato, infatti, come identiÞcare e
rivivere il trauma - e convertirlo in ricordi narrativi - spesso non fosse sufÞciente
a risolvere i sintomi, e pertanto ha utilizzato diverse tecniche, tra cui quelle immaginative, per neutralizzare l’impatto dei ricordi traumatici. Nel 1890 ha trattato
Justine, che temeva di morire di colera perché aveva visto da piccola due persone
uccise da quella malattia. In questo caso, Janet si è servito dello psicodramma e
del dialogo.
… la paziente ha urlato: «Il colera! Mi prenderà!»… Janet le ha chiesto: «Dov’è il
tuo colera?», e lei ha risposto: «Qui! Guardalo, è bluastro e puzza!». Janet era in
grado di instaurare un dialogo con la donna durante la crisi, inducendo in quest’ultima uno stato ipnotico classico (Ellenberger, 1970, p. 367).
Un’altra tecnica di cui ha fatto uso consiste nel sostituire alle immagini traumatiche immagini neutre o positive. In un’occasione ha aiutato una donna afßitta
da dolore post-traumatico a sostituire l’immagine del Þglio morente con una di
Þori che sbocciano e, nel 1897, ha usato lo stesso metodo con Marie, che manifestava sintomi conseguenti a traumi multipli. Ha risolto una cecità da conversione
in una paziente che, da piccola, aveva dormito assieme a una bimba col volto infetto dall’impetigine: le ha chiesto di visualizzare quest’ultima come una ragazzina
gentile e dal viso sano, e di immaginare di accarezzarle la faccia. La stessa paziente, alla comparsa del menarca, aveva provato un’intensa vergogna e aveva cercato
di bloccare il ßusso mestruale immergendosi in acqua gelida. Il ciclo è cessato per
5 anni e, una volta ricomparso, ha scatenato tremiti, scosse e altri sintomi. Janet
l’ha fatta tornare mentalmente a prima del menarca, quando non provava alcuna
vergogna, e le mestruazioni sono riprese normalmente (per una descrizione più
accurata, si veda Edwards, 2007; Ellenberger, 1970; Janet, 1914).
Alla Þne del XIX secolo, la comprensione degli stati dissociativi - o alterati di coscienza (inclusi i fenomeni paranormali associati) «ha portato ai principali
sviluppi psicoterapeutici per l’analisi scientiÞca dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni e delle normali immagini mentali» (Taylor, 2000, p. 1030). Il termine
“psico-terapeutico” è stato utilizzato per la prima volta nel 1872 e l’espressione
“psicoterapia” nel 1891 (Shamdasani, 2005, p. 2).
Agli albori del XX secolo, la psicoterapia ha iniziato a essere utilizzata in Europa e in America settentrionale. Gli interventi su cui si basava derivavano dalle
consulenze pastorali - che oggi deÞniremmo metodi cognitivi e comportamentali
- e dalle tecniche ipnotiche sviluppate per trattare problemi di ordine medico e
stress-correlati (quali gli stati dissociativi). Molti clinici erano attenti osservatori dei
14
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
fenomeni relativi all’imagery; Morton Prince, in particolare, ha descritto il caso di
una paziente che, sotto ipnosi, aveva rivissuto una scena familiare particolarmente forte risalente alla propria infanzia che le aveva procurato uno shock emotivo e
l’aveva quasi fatta svenire (e che era all’origine dei suoi attacchi di panico).
[Guardandosi allo specchio] vide, al posto del suo volto, un… «oggetto bianco e rotondo, con due buchi neri» al posto degli occhi. Un pensiero terriÞcante balenò nella
sua giovane mente: «Potrebbe essere la morte?» (Prince, 1909, ch4/5, p. 421).
Prince spiega che la paziente «è stata curata con adeguate psicoterapie» e,
sebbene non speciÞchi l’esatto tipo di intervento effettuato, appare chiaro come
le tecniche immaginative siano state adoperate sia in corso di valutazione iniziale
che di trattamento.
RIVIVERE IL TRAUMA NEL XX SECOLO
Dal XIX secolo a oggi si è dibattuto lungamente sul ruolo dei ricordi traumatici. Ci si è chiesti se la guarigione sia conseguenza dello sfogo di un’emozione repressa (ciò che Freud, nel 1892, ha deÞnito “abreazione”) oppure sia un epifenomeno della modiÞcazione cognitiva (Van der Hart & Brown, 1992), e se la terapia
debba puntare sul fortiÞcare il paziente - in modo che possa accantonare i ricordi
traumatici - oppure focalizzarsi sull’integrazione cognitiva di questi ultimi.
A dispetto dell’entusiasmo iniziale, Freud comprese come recuperare il ricordo
traumatico e convertirlo in una narrazione non fosse sufÞciente per la buona riuscita della terapia: con questa strategia Anna O, la famosa paziente di Breuer, trovò
solo un sollievo temporaneo e, dopo l’interruzione del trattamento, fu internata in
manicomio per mesi e ricoverata più volte negli anni seguenti (Kimball, 2000).
Inizialmente, Freud, seguendo l’approccio di Bernheim, tentò di indurre immagini mentali attraverso azioni Þsiche, come reggere la testa del paziente o premerne la fronte ordinandogli di produrre un’immagine (Ellenberger, 1970). Già
prima del 1900, tuttavia, le abbandonò per concentrarsi sulle libere associazioni
verbali, Þno a rinunciare del tutto a qualsiasi metodo basato sull’imagery. Ferenczi
(1924, 1950) non condivise tuttavia questa visione e descrisse delle tecniche per
perfezionare l’imagery e la connessione emozionale con il materiale rappresentato.
Il suo metodo di “rilassamento e neocatarsi” era fondato sulla conoscenza dettagliata dello sviluppo dei problemi del paziente e sul far rivivere allo stesso gli
episodi infantili traumatici per mezzo del dialogo e del reparenting (Ferenczi, 1930,
1955). Freud, tuttavia, deÞnendo i conÞni di ciò che rientrava nella psicoanalisi
(Shamdasani, 2005), considerò l’imagery una forma di interferenza (Suler, 1989)
nel processo di analisi della resistenza e del transfert (Silverman, 1987).
Ciononostante, la psicoanalisi si è spesso soffermata sull’imagery e sulla re-
Saggio introduttivo
15
gressione al trauma infantile: Clark (1925), ad esempio, ha descritto la ricostruzione della relazione madre-bambino nell’infanzia, e l’“approccio della scoperta
emergente” di Reyher (1963, 1978), come evidenzieremo in seguito, ha molto in
comune con il lavoro degli ipnoterapeuti.
Questi ultimi aiutano il paziente a rivivere il trauma e utilizzano la regressione
perché consapevoli che tali tecniche permettono di integrare i ricordi traumatici
nella “memoria autobiograÞca”. A un convegno sul trattamento dei soldati traumatizzati dalla prima guerra mondiale, Brown (1921, p. 19) ha riconosciuto come
l’abreazione sia risanatrice in sé, ma ha anche evidenziato
il potente effetto terapeutico della razionalità nel rivedere analiticamente i ricordi
passati… Il metodo… produce un riaggiustamento dei livelli emozionali nei ricordi del paziente… Il progresso sta nel passare da uno stato di relativa dissociazione
a uno di armonia e di unità mentale.
Al medesimo convegno, McDougall (1921, p. 25), più interessato ai meccanismi di guarigione, ha affermato: «Il passaggio terapeutico essenziale è la risoluzione della dissociazione… il disinvestimento emotivo non è necessario, sebbene possa rivestire un certo ruolo». I dibattiti sull’importanza del disinvestimento
emotivo, della guarigione dagli episodi dissociativi e dell’integrazione cognitiva
hanno ripreso campo durante la seconda guerra mondiale e nella letteratura
scientiÞca sul Disturbo Dissociativo di Identità (Van der Hart & Brown, 1992;
Watkins, 1992, capitolo 4).
Kline (1968) e Watkins (1992) utilizzano il termine “ipnoanalisi” per indicare una regressione ipnotica indotta che permette di accedere a episodi dolorosi
dell’infanzia, i quali vengono poi risolti e integrati sulla base della formulazione
psicodinamica del caso. Essi, al pari di Janet e Ferenczi, fanno largo uso delle
tecniche immaginative. Kline (1952) ha descritto il caso di una paziente che aveva
paura di rimanere al buio da sola perché avvertiva la presenza di una strega col
volto nascosto da un cappello. Sotto ipnosi, le è stato chiesto di osservare questa
presenza e di prendere atto di come, in realtà, lei e la strega fossero la medesima
persona. Durante le sedute è emerso come quest’ultima rappresentasse tutto ciò
che ella desiderava essere ma che, a causa della rigidità della madre, temeva di essere. Per integrare questa parte di sé disconosciuta, il terapeuta le ha suggerito di
fondere la propria immagine con quella della strega. La cosa ha funzionato molto
bene, tanto che, al termine della terapia, ha affermato: «Credo che sia una cosa
superata, dato che ora io sono la “strega” e mi piace esserlo» (p. 166).
In un articolo del 1961, John Watkins (1971) ha descritto la tecnica del “ponte
affettivo” (che in questo libro chiameremo “ponte emozionale”; si veda il capitolo 6): il paziente si focalizza sulle emozioni negative attuali e le usa come “ponte”
per accedere a un ricordo del passato, mentre il terapeuta dà dei suggerimenti del
16
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
tipo: «Sta andando indietro, indietro nel tempo… Ritorni alla prima volta in cui
si è sentito così…». Per mostrare come l’identiÞcazione e la gratiÞcazione dei bisogni infantili insoddisfatti possano permettere di risolvere i sintomi attuali, Watkins ha descritto il caso di una paziente in sovrappeso a causa di incontrollabili
abbuffate. Grazie al ponte emozionale, è regredita al tempo in cui, distesa nella
culla, desiderava succhiarsi il pollice, «ma la mamma ci aveva avvolto attorno un
panno intriso di una medicina nera e disgustosa». Il terapeuta le ha permesso di
appagare questo desiderio insoddisfatto, lasciandole succhiare il pollice Þnché ne
avesse voglia (per circa 15 minuti). Questa e un’altra regressione terapeutica hanno portato alla remissione della sintomatologia e a una rapida perdita di peso.
Mary Watkins (1984) ha descritto altre tecniche di intervento, esponendo il
caso di una paziente che immaginava di allontanare il bambino che l’aveva tormentata da piccola attraverso il reparenting, visualizzandosi come un’adulta che
prendeva per mano se stessa da piccola, mostrandole come non ci fosse niente
da temere. La letteratura sull’ipnoterapia è ricca di questo tipo di esempi (Dowd,
2000; Kline, 1968, 1976; Murray-Jobsis, 1989) e l’antico principio dei contrari
proposto da Fienus, Burton e Janet viene esplicitamente riaffermato da Watkins
(1992, p. 66): «Se un ricordo reale determina la presenza dei sintomi… la sua sostituzione con uno positivo ricade nell’interesse del paziente».
L’IMAGERY METAFORICA E I VIAGGI CON L’IMAGERY
L’imagery non riguarda soltanto i ricordi traumatici, ma può essere applicata
all’intera vita psicologica, così come la pittura, la scultura, la danza e altre forme
d’arte. Carl Jung (1977) è stato spinto verso di essa dalla sua vivida attività onirica
e immaginativa. Le sue ricerche sugli stati dissociativi e sui fenomeni paranormali, e la lettura dei testi di Silberer (1909) - che descrivevano come questi fosse
riuscito a mantenere uno stato tra la veglia e il sonno e a tradurre in immagine
metaforica un problema da cui era afßitto (Swan, 2008) -, hanno inßuenzato la
strutturazione del suo metodo di “immaginazione attiva”. Jung (1916/1960, p.
82) invitava i propri pazienti a concentrarsi su una sensazione o su un’emozione,
lasciando emergere un’immagine, che avrebbe offerto «una sorta di arricchimento e di chiarimento dell’emozione stessa» e a partire dalla quale si sarebbe
sviluppata una scena, ed eventualmente un dialogo tra i personaggi immaginati. Secondo Jung, il contenuto dell’imagery non rißetteva la storia personale del
soggetto, ma era piuttosto di tipo simbolico e transpersonale (“archetipico”),
come traspare dalla sua conversazione con Filemone, una sorta di guida spirituale (Jung, 1977).
Hannah (1981) ha documentato l’evoluzione dell’immaginazione attiva nel
corso di settimane o mesi in alcuni pazienti, ma, in contrasto con gli attuali metodi di imagery rescripting, ha raccomandato di non utilizzare rappresentazioni di
Saggio introduttivo
17
persone reali e di condurre l’esercizio a casa, descrivendolo poi in seduta al terapeuta.
Inßuenzata dall’approccio di Jung, Jellinek (1949) ha proposto alcuni interventi basati sull’imagery per trattare la balbuzie e altri problemi di linguaggio. I
pazienti erano invitati a identiÞcare un’immagine associata alla calma o alla padronanza della situazione (ad esempio, camminare sotto la pioggia o essere seduti su
un trono con uno scettro in mano) e a richiamarla alla mente quando si fossero
sentiti ansiosi o minacciati. Un paziente, ad esempio, riusciva a visualizzare due
sé - uno che era un conversatore mediocre e mal vestito, l’altro che era un grande
oratore in abiti eleganti - e aveva imparato a «tenere il secondo sempre al proprio
Þanco» (p. 386).
La terapia cognitiva attuale per la Fobia Sociale utilizza un metodo simile
(Clark & Wells, 1995). Jellinek (1949) ha descritto il caso di un paziente oppresso
dalla balbuzie, che visualizzava come uno gnomo appollaiato sulle proprie spalle.
La terapeuta gli ha suggerito di parlare lentamente, in modo da «far morire di
fame quel piccolo demonio» (p. 380). Ad un altro paziente, che si visualizzava
per strada avvolto in un mantello nero, ha chiesto di immaginare di raggiungere
un’area soleggiata, per vedere il mantello passare dal nero al bianco brillante (per
interventi simili si veda Fromm, 1968). Jellinek ha anche descritto i casi di alcuni
pazienti che visualizzavano scene a contenuto mitologico, talvolta accompagnate
da emozioni intense.
Negli anni ’30 del ’900, Carl Happich e Robert Desoille hanno sfruttato gli
aspetti metaforici dell’imagery nel “sogno a occhi aperti guidato”. La visualizzazione deliberata di una scena (un prato, una montagna o l’ingresso di una caverna)
rappresentava l’inizio di un viaggio immaginario, in uno scenario che avrebbe potuto presentare sÞde o ostacoli e in cui si sarebbero potuti incontrare personaggi
minacciosi oppure saggi e amichevoli (in forma animale, umana o spirituale).
Secondo Desoille (1965), ciò rientrava in un complesso processo di cambiamento
che prevedeva la valutazione dei “pattern dinamici maladattivi” del paziente, «il
loro decondizionamento… [e] la creazione di pattern nuovi e più appropriati» (p.
21). L’opera di Desoille (1945) ha inßuenzato Hans Carl Leuner (1969, 1978), il
cui metodo dell’imagery emozionale guidata è stato applicato a diversi problemi
clinici. Anche la psicosintesi di Roberto Assagioli (1965) era fondata su queste
tecniche immaginative, diffusesi negli anni ’60 tra gli psicoterapeuti e tra coloro
che erano interessati ad applicare i metodi esperienziali alla crescita personale e
spirituale (Gerard, 1961; Crampton, 1969).
Anche gli ipnoterapeuti si sono serviti dell’imagery metaforica: Van der Hart,
ad esempio, l’ha utilizzata per risolvere due casi di amenorrea (1985b), per apportare sostanziali cambiamenti nella vita di un clochard (grazie a un viaggio immaginario di un’unica seduta; 1985a) e per trattare una paziente affetta da ansia
18
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
generalizzata, ritiro sociale e instabilità emotiva (che si percepiva come stretta
da un corsetto e che si è servita delle tecniche immaginative per slacciarselo, toglierselo di dosso e permettere al proprio torace di espandersi metaforicamente;
Witztum et al., 1988).
L’imagery metaforica ha inoltre un ruolo fondamentale nella moderna terapia
cognitiva: nel capitolo 11 descriveremo come il paziente debba essere invitato a
elaborare delle metafore e a esplorarne i signiÞcati personali come preludio al
cambiamento.
LO PSICODRAMMA, PERLS E IL MOVIMENTO
UMANISTICO
Lo psicodramma di Moreno, sviluppatosi negli anni ’30, ha molti punti in
comune con le tecniche immaginative, come è evidente da questo stralcio di caso
clinico (relativo a una paziente psicotica): «… sono chiusa in una scatola. Sono
morta e al sicuro, sul fondo del mare… (piangendo come una bambina)… Oh,
la scatola inizia a risalire… Salgo anch’io, sempre più in alto. La scatola si apre,
sono rinata. Sono un’infante… C’è una Þnestra aperta, un bellissimo albero pieno di foglie, e il sole riscalda ogni cosa» (Moreno, 1939, pp. 12-13). Metodi simili
venivano utilizzati nella terapia della Gestalt di Fritz Perls (Edwards, 2007), che,
pochi anni prima di morire, tenne diversi seminari (durante i quali un volontario
si sedeva e iniziava a lavorare con l’imagery e la drammatizzazione). Per quanto
concerne il contenuto onirico, si chiedeva ai pazienti di interpretare i diversi personaggi dei sogni e di raccontare la propria peculiare esperienza (Edwards, 1989),
il che conduceva spesso a un dialogo tra le varie Þgure rappresentate. Perls chiedeva ai pazienti di concentrarsi sull’esperienza attuale e di farla emergere sotto
forma di emozione, di frase o di immagine, anticipando ciò che Gendlin (1978)
avrebbe deÞnito focusing. L’evoluzione di queste tecniche si deve all’interesse di
Perls per le arti espressive: da giovane, infatti, egli si era avvicinato al teatro sperimentale tedesco (Perls, 1969) ed era stato inßuenzato dal lavoro di Moreno. In
un’intervista, il terapeuta della Gestalt John Wymore ha dichiarato: «La tecnica
della sedia vuota non è un’idea di Fritz Perls. In Europa, Perls conosceva diverse
persone appartenenti al mondo del teatro, tra cui Jacob Moreno» (Madewell &
Shaughnessy, 2009, p. 2).
Negli anni ’70, le trascrizioni dei seminari di Perls hanno contribuito a divulgare le tecniche di imagery e di drammatizzazione sia tra i terapeuti sia all’interno
del movimento umanistico, che promuoveva la scoperta di sé e l’apprendimento
esperienziale (Perls, 1971, 1973). Nel 1978, John Heron ha introdotto questo
tema nell’ambito dell’istruzione, presso l’università di Surrey. Egli, che ha valorizzato e diffuso le tecniche della Gestalt, ha descritto nel suo manuale di cocounselling (Heron, 1974 - ora anche disponibile online: Heron, 1998) e in quello per
Saggio introduttivo
19
insegnanti della medesima disciplina (Heron, 1978) in che modo usare l’imagery
per connettersi emozionalmente agli eventi dolorosi del passato e in che modo
utilizzare il dialogo e la drammatizzazione per porvi rimedio.
L’IMAGERY NELLA PSICOTERAPIA
COMPORTAMENTALE E COGNITIVA
Anche le psicoterapie comportamentali e cognitive hanno attinto a piene mani
dalle tecniche di imagery. Lazarus (1977), che è stato il primo a usare il termine “terapia comportamentale”, afferma di aver appreso le stesse nel 1955, in Sudafrica,
quando Joseph Wolpe gli insegnò la desensibilizzazione sistematica (che avrebbe
rivestito un ruolo fondamentale nella terapia cognitivo-comportamentale). Nella
sua cosiddetta “terapia multimodale” ha utilizzato l’imagery per aiutare i pazienti
a desensibilizzare l’ansia, a sperimentare nuove abilità assertive, a gestire situazioni problematiche presenti e future (si veda il capitolo 12) e ad alleviare patologie stress-correlate (come l’ipertensione, il colon spastico e le dermatiti). Negli
anni ’70, Cautela ha applicato le procedure di condizionamento mediante imagery
(Cautela & McCullough, 1978) a diverse patologie. Nella sensibilizzazione covert i
comportamenti problematici venivano associati in immaginazione a conseguenze
negative: i pazienti affetti da alimentazione incontrollata, ad esempio, venivano
invitati a immaginare di mangiare un dolce e di vomitare per la nausea, mentre
quelli affetti da esibizionismo a immaginare di spogliarsi in pubblico e di essere
immediatamente arrestati e incarcerati (Cautela, 1967).
Singer (1974) ha analizzato diversi studi sull’imagery svolti nell’ambito delle
terapie cognitive e comportamentali: nella terapia implosiva (Stampß & Levis,
1967), ad esempio, i pazienti fobici venivano invitati a visualizzare vividamente la
loro peggior paura e a catastroÞzzare lo scenario negativo. Alcuni principi psicodinamici venivano utilizzati per creare scenari emotivamente carichi, per quanto
all’interno delle teorie dell’apprendimento fossero inquadrati come modalità di
estinzione delle risposte emozionali maladattive. Silverman (1987) ha documentato l’efÞcacia dell’imagery implosiva in ambito psicanalitico, e il largo impiego
di queste tecniche è confermato dalla letteratura sull’ipnoterapia. Fromm (1968)
ha lavorato con un paziente acrofobico, che ha imparato a visualizzare se stesso
come capace e sicuro, fondendosi con questa nuova immagine di sé e affacciandosi a un balcone per ammirare il lago Michigan. Fromm ha affermato: «Durante
la trance abbiamo creato una situazione stressante per il paziente, quindi gliela abbiamo fatta sperimentare afÞnché capisse come poterla gestire più efÞcacemente»
(p. 177).
20
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
L’IMAGERY NEGLI APPROCCI INTEGRATI
CONTEMPORANEI
Negli anni ’70 e nei primi anni ’80 del ’900 si è assistito a «un interesse crescente per l’imagery» (Suler, 1989, p. 347), tanto che diversi testi ne hanno documentato
l’applicazione a una serie di problemi di tipo psicologico e somatico (Achterberg,
1985; Singer & Pope, 1978; Samuels & Samuels, 1975; Sheikh, 1984; Shorr, 1983;
Singer, 1974). Nel corso degli anni ’90, anche nell’ambito della TCC si è iniziato a
riconoscere l’efÞcacia dell’imagery rescripting nel ristrutturare le cognizioni implicite
attraverso la drammatizzazione e il dialogo. Diversi terapeuti cognitivi formati
da Beck (come Jeffrey Young - che in quegli anni iniziava a gettare le basi della
Schema Therapy - e Merv Smucker - che ha sviluppato la Imagery Rescripting and Reprocessing Therapy) sono stati anche inßuenzati dalla terapia della Gestalt. A partire
dai primi anni ’90, questi metodi hanno iniziato a essere integrati nella terapia
cognitiva (Beck et al., 1990; Edwards, 1989, 1990, 2007; Layden et al., 1993; Smucker & Dancu, 1999; Young, 1990) e, attualmente, la Schema Therapy (Young et al.,
2003), la Emotion-Focused Therapy (Greenberg, 2004) e la Compassion Focused Therapy
(Gilbert, 2009) rappresentano delle pietre miliari nel panorama degli approcci
integrati alla psicoterapia.
Da questa breve disamina si evince come le tecniche di imagery fossero utilizzate in psicoterapia sin dalla Þne del XIX secolo e, ben prima di allora, nelle pratiche
di guarigione per le quali la risoluzione dei sintomi emozionali e Þsici dipendeva
da modiÞcazioni della sfera immaginativa. Il “principio dei contrari” proposto da
Fienus è alla base delle tecniche di drammatizzazione, nelle quali il terapeuta guida
la persona verso una credenza più positiva. Analogamente, nei templi di Esculapio, i sacerdoti inscenavano le visite delle divinità per provocare un cambiamento
positivo (tali tecniche erano utilizzate da guaritori appartenenti a tradizioni diverse). Il medesimo principio è alla base dei metodi di sostituzione delle immagini
mentali utilizzati da Janet e da altri ipnoterapeuti, che si sono successivamente
evoluti in moderne tecniche - molto più precise e dettagliate - di trasformazione
dell’imagery (come il rescripting o altre, che descriveremo nel capitolo 8).
Nel XIX secolo è stato riconosciuto il ruolo dei ricordi traumatici nella genesi
dei problemi psicologici e, già prima di Janet e Prince, si è avvertita la necessità di
contrastare la dissociazione degli stessi dal resto dei contenuti cognitivi. Alla Þne
del XIX secolo e nel corso del XX sono state descritte e discusse ampiamente
le tecniche per recuperare i ricordi traumatici (che spesso prevedevano l’utilizzo
dell’imagery) e trattare la dissociazione. Nel XX secolo, gli ipnoterapeuti hanno
proseguito il lavoro di Janet e di Prince, evocando ricordi infantili dolorosi e
lavorando in vari modi su di essi: il ponte emozionale descritto nel capitolo 6,
ad esempio, si rifà all’ipnoterapia del XIX secolo. Nel metodo di immaginazione
attiva di Jung (1916/1960) e in quello di Gendlin (1978) si intensiÞcava la con-
Saggio introduttivo
21
sapevolezza dell’emozione attuale e si evocava un’immagine, creando un ponte
con un ricordo dell’infanzia (tecnica denominata appunto “ponte emozionale”
da Watkins, 1971).
Anche il lavoro con le diverse parti del sé ha una lunga storia all’interno della psicoterapia, ritrovandosi nel metodo di immaginazione attiva di Jung, nello
psicodramma di Moreno e, dalla seconda metà del XX secolo, nel lavoro ipnoanalitico di Kline, nell’analisi transazionale (Barnes, 1977; Goulding & Goulding,
1979), nell’Ego State Therapy di Watkins (Watkins, 1978; Watkins & Johnson, 1982)
e nella Gestalt di Perls (tutte tecniche adesso integrate nella terapia cognitiva contemporanea). Sebbene alcune strategie prevedano la rappresentazione “teatrale”
su un palco ed altre l’utilizzo di sedie per rappresentare le diverse parti di sé, la
maggior parte di esse utilizza l’imagery. Abbiamo anche visto come in ambito
psicoterapeutico vengano utilizzate altre forme di imagery metaforica (ad esempio
nell’immaginazione attiva, nel sogno a occhi aperti guidato e nell’ipnoanalisi; si
vedano Fromm, 1968; Jellinek, 1949; Leuner, 1978; van der Hart, 1985a, 1985b).
InÞne, sebbene le applicazioni delle tecniche immaginative in ambito cognitivo e
comportamentale - per la desensibilizzazione e per l’induzione ed esercitazione
di nuove abitudini e abilità - siano emerse solo alla Þne degli anni ’50, metodi
simili venivano già usati dagli ipnoanalisti e, probabilmente, sin dall’inizio del XX
secolo.
Nel XXI secolo, l’utilizzo dell’imagery si caratterizza per una maggior trasmissibilità - che ne determina una più ampia diffusione e accessibilità rispetto al
passato, quando era prerogativa di una cerchia ristretta di psicoterapeuti - e per il
proliferare della ricerca evidence-based a riguardo, che permette di veriÞcare la validità delle tecniche immaginative non limitandosi all’analisi di singoli casi clinici.
Un’ingente letteratura scientiÞca, comprendente ricerche sperimentali, osservazioni cliniche sistematiche e trial controllati, conferma l’importanza dei metodi
immaginativi negli interventi clinici (Salkovskis, 2002). Questo volume si propone
di chiarire come essi, già da tempo bagaglio delle tradizioni psicoterapeutiche,
siano utilizzati correntemente negli approcci evidence-based per affrontare diversi
problemi psicologici.
DESCRIZIONE DI UN CASO
Ritrovare il bambino spaventato in un paziente adulto affetto
da Disturbo di Panico
David Edwards, Rhodes University, Grahamstown,
Sud Africa.
Tariq aveva cominciato ad accusare i primi attacchi di panico dopo che sua
sorella era stata ricoverata per Schizofrenia. Era terrorizzato dall’idea di diventare
pazzo, timore che la terapia cognitiva classica (che pure lo aveva fatto stare meglio) non aveva dissolto minimamente.
L’ho fatto rilassare e gli ho suggerito di visualizzare quella parte di sé che desiderava mantenere in vita la paura, ed egli mi ha riferito di scorgere un piccolo
demonio che si divertiva a preoccuparlo. Gli ho chiesto se quest’ultimo desiderasse che prendessimo in considerazione qualcosa in particolare e, a quel punto,
mi ha raccontato alcuni episodi accadutigli all’età di 6 o 7 anni: di come si recasse
di soppiatto nella camera dei propri genitori per dire loro che gli faceva male lo
stomaco (cosa in realtà non vera, ma non gli avrebbero dato ascolto se avesse
detto di essere solo spaventato); di come, lasciato solo in macchina, temesse di
essere aggredito e rapito; di come, trovandosi in casa da solo con sua sorella,
si sentisse responsabile dell’incolumità di quest’ultima; di come, inÞne, i propri
genitori lo intimorissero deliberatamente, con lo scopo di educarlo e di imporgli
la disciplina. Tariq, tra le altre cose, aveva anche assistito a delle irruzioni della
polizia in casa propria.
Queste informazioni mi hanno portato a rivedere la formulazione del caso: da
bambino, per compensare il timore e la vergogna, Tariq aveva sviluppato un sé
monolitico e imperturbabile con cui affrontare il mondo. L’ospedalizzazione della
sorella, tuttavia, aveva fatto riemergere il bambino spaventato. Dopo due sessioni
di imagery guidata, nel corso delle quali l’ho fatto lavorare sul proprio bambino
interiore tramite il rescripting, Tariq ha lasciato il proprio paese. Egli mi ha riferito
come le ultime tre sedute siano state la parte più signiÞcativa della terapia.
PARTE I
LA CONTESTUALIZZAZIONE
DELL’IMAGERY
1
L’IMAGERY NELLA
TRADIZIONE DELLA TERAPIA
COGNITIVA DI BECK
«L’immaginazione è più importante della conoscenza»
Albert Einstein, Saturday Evening Post, 26 Ottobre 1929.
Le immagini sono uno dei modi in cui i pensieri si manifestano alla coscienza
e l’imagery racchiude in sé diverse rappresentazioni mentali dotate di caratteristiche sensoriali. Aaron T. Beck, Þn dalla nascita della terapia cognitiva (TC), ha
sempre ritenuto che l’imagery rivestisse un ruolo fondamentale (Beck, 1970; Beck,
1971; Beck et al., 1985) nella comprensione del disagio emotivo. I signiÞcati (valutazioni) che diamo all’esperienza rappresentano il focus principale della terapia
cognitiva, e Beck (1971) ha suggerito che le immagini, le fantasie, i ricordi e i
sogni fossero i mezzi principali per accedere ad essi.
In questo capitolo dimostreremo come la ÞlosoÞa e le osservazioni cliniche
di Beck permettano di inserire il lavoro sull’imagery all’interno della terapia cognitiva. Beck ha adottato l’approccio dello scienziato e dello sperimentatore: si è
occupato del metodo più che della teoria, ha raccolto sistematicamente i dati, ha
sperimentato un approccio integrato alla psicoterapia, ha mantenuto un atteggiamento pragmatico e interessato dinanzi all’ampio spettro fenomenologico della
psicopatologia, e ha sviluppato delle strategie efÞcaci per trattare i pazienti.
LE PRIME RICERCHE DI BECK
Beck ha compiuto le sue prime ricerche sui sogni, ereditando da Leon Saul
(che, a sua volta, si era ispirato a Franz Alexander) un approccio proto-sperimentale (si veda Rosner, 2002)1. Utilizzando la metodologia delle scienze sociali,
egli ha testato le ipotesi psicanalitiche sul signiÞcato dei sogni nella depressione,
1
Siamo debitori all’articolo di Rosner per le informazioni biograÞche sulla carriera di Beck.
26
Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
raccogliendo prove che sembravano avvalorare l’idea che quest’ultima fosse caratterizzata dal desiderio masochistico di soffrire. L’epistemologia della scienza
sperimentale, tuttavia, lo ha spinto a interessarsi ai dati più che alla teoria e a
concludere che, benché i sogni dei soggetti depressi fossero caratterizzati da tematiche di sofferenza, perdita e fallimento, non esistessero prove a sostegno della
tesi suddetta (Beck & Hurvich, 1959; Beck & Ward, 1961). Egli ha anche notato
come, nei soggetti depressi, i contenuti onirici fossero simili ai contenuti dei pensieri automatici negativi tipici dello stato di veglia.
Nel 1971, inÞne, in un articolo sui pattern cognitivi caratteristici dell’attività
onirica e dei sogni ad occhi aperti involontari, ha evidenziato come, in pazienti diversi, si manifestassero le medesime tematiche cognitive (Beck, 1971, ristampato
in Special Issue on Cognitive Therapy and Dreams; Rosner et al., 2002).
UN APPROCCIO INTEGRATO
Durante il suo periodo di formazione, Beck ha presentato le proprie scoperte
nei circoli psicanalitici, seguendo le orme di clinici neo-freudiani come Karen Horney e Alfred Adler. Quest’ultimo, in particolare, lavorava sui ricordi precoci e sulle
metafore attraverso tecniche che - come descriveremo in seguito - non si discostavano molto da quelle usate dai terapeuti cognitivo-comportamentali. L’approccio
di Beck ha goduto di particolare considerazione nel contesto psicanalitico, ma ne
ha avuta ancora di più nella “comunità dei terapeuti comportamentali”, dove ha
rivestito un ruolo decisivo per lo sviluppo della terapia cognitivo-comportamentale
(TCC). Beck mirava a promuovere un approccio integrato, nel quale la terapia comprendesse diverse tecniche derivate da differenti scuole (Beck, 1991).
Beck ha stretto rapporti signiÞcativi con Arnold Lazarus e Joseph Wolpe
(insigni terapeuti comportamentali; si veda Rosner, 2002), criticando l’utilizzo
dell’imagery nella desensibilizzazione di Wolpe (ritenuto troppo restrittivo) e interessandosi maggiormente alle tecniche di modiÞcazione dell’imagery di Lazarus
(come la “proiezione nel tempo con rinforzo”), nelle quali il paziente depresso
veniva incoraggiato a creare delle immagini positive sul futuro, che avrebbero
inciso positivamente sulla sua motivazione e sul suo comportamento (Lazarus,
1968). Beck ha anche scritto un interessante articolo sulle “fantasie”, suggerendo
che «si possa spiegare la continuità tra i fenomeni ideativi assumendo che gli stessi
derivino dal medesimo pattern cognitivo iperattivo» (Beck, 1970, p. 13). Nello stesso articolo ha riferito come vi siano evidenze cliniche che «le immagini pittoriche
irrealistiche esercitino un’inßuenza signiÞcativa sul comportamento manifesto
del paziente, oltreché sulle emozioni e sulla motivazione» (Beck, 1970, p. 15). Al
contempo, ha continuato a raccogliere dati sui contenuti cognitivi presenti nei
vari disturbi, servendosi di materiale proveniente dai pensieri automatici negativi,
dalle fantasie, dai “sogni ad occhi aperti” e dall’attività onirica dei pazienti.
L’imagery nella tradizione della terapia cognitiva di Beck
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UN DOPPIO SISTEMA DI CREDENZE
Nel 1985, Beck e colleghi hanno scritto il primo manuale di terapia cognitiva
per il trattamento dei disturbi d’ansia (Anxiety Disorders and Phobias: A Cognitive Perspective; Beck et al., 1985), dove hanno introdotto il concetto del “doppio sistema
di credenze”. Gli autori hanno evidenziato come, dinanzi a una potenziale fonte
di pericolo, il soggetto ritenga più o meno elevata la possibilità che si veriÞchi una
catastrofe a seconda dell’effettiva prossimità allo stimolo. Questa distinzione - basata sull’allontanamento dalla minaccia o sull’avvicinamento alla stessa - ha dato
vita alla nozione di “doppio sistema di credenze”.
Beck ha anche notato come le persone, quando sono esposte a stimoli sensoriali reali (ad esempio il rumore di una macchina che accelera o l’aumento della
frequenza cardiaca), comincino a percepire immagini inquietanti, che segnalano
l’effettiva presenza di una minaccia (come un incidente automobilistico o un infarto incombente). In questi casi, l’emozione e la valutazione del rischio possono intensiÞcarsi. Queste osservazioni precorrono l’enfasi che attualmente viene
posta sull’individuazione e sull’analisi degli stimoli che generano disagio emotivo
(siano essi reali o immaginari) al Þne di comprendere meglio le valutazioni e le
credenze negative. Gli stimoli scatenanti permettono infatti di accedere rapidamente alle cognizioni “calde” (ad alto contenuto emozionale), che si presentano
sotto forma di imagery negativa.
Beck ha condiviso l’idea, trasversale alle varie psicoterapie, che esistano due sistemi di elaborazione dell’informazione - uno razionale, l’altro primitivo e immediato. In ambito psicopatologico (Beck, 1971), quello primitivo si attiva piuttosto facilmente, determinando una gamma di risposte cognitive che formano un continuum
dal canale verbale a quello visivo: dai pensieri automatici ai sogni a occhi aperti, dalle
allucinazioni indotte dalle droghe ai sogni (potremmo includere anche i ßashback e
le allucinazioni psicotiche). Beck riteneva che i sogni permettessero di osservare
meglio le valutazioni distorte del paziente, liberandole dalla “morsa della realtà”.
Rachman (1980, 2001) ha approfondito le considerazioni di Beck sull’elaborazione delle informazioni in due inßuenti articoli, nei quali ha evidenziato l’importanza dei pensieri automatici negativi, delle immagini, dei ricordi, dei sogni
e degli incubi, descrivendo gli stessi come indicatori di una elaborazione emozionale insufÞciente (Rachman, 1980; Rachman, 2001). Ha anche sottolineato la
necessità di strumenti di misura obiettivi per quantiÞcare i progressi terapeutici
(uno di questi è la riduzione o la scomparsa dei fenomeni intrusivi sopraddetti).
InÞne, nel suo secondo articolo sull’elaborazione emozionale (scritto nel 2001,
a 21 anni di distanza dal primo) ha celebrato i progressi che la psicoterapia ha
compiuto grazie alla terapia comportamentale e alla “rivoluzione cognitiva”, in
particolar modo quelli ottenuti nel trattamento del Disturbo Post-Traumatico da
Stress (DPTS), focalizzato sulle immagini dei ricordi intrusivi.
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Le tecniche immaginative in terapia cognitiva
L’APPROCCIO SCIENTIFICO
David H. Barlow e colleghi (1984) hanno descritto Beck come uno “scienziatosperimentatore”, dato che questi, come George Kelly (1955), si atteneva sempre
alla veriÞca delle ipotesi. Beck riteneva che ricercatori, terapeuti e pazienti fossero
coinvolti negli stessi processi di cui si occupano gli scienziati - ovvero l’osservazione, la rißessione, la veriÞca delle ipotesi, la proposta di nuove teorie. Ciò implicava,
dal suo punto di vista, che i pazienti fossero in grado di osservare dettagliatamente
le proprie cognizioni, le proprie emozioni e i propri comportamenti, rißettendo
sulle proprie peculiari valutazioni (testandole e mettendole in discussione in base
ai dati di realtà) e lavorando assieme al terapeuta in uno spirito di empirismo collaborativo. Questi processi vanno a formare il cosiddetto “circolo di apprendimento
esperienziale” (Kolb, 1984), cornice teorica utilizzata per descrivere il processo terapeutico degli esperimenti comportamentali nella terapia cognitiva (Bennett-Levy
et al., 2004) e costrutto chiave all’interno di quest’opera.
I medesimi principi sono applicabili all’uso dell’imagery nella terapia cognitiva:
il paziente viene incoraggiato a osservare l’immagine che ha formato - a partire
da spunti reali o immaginari - e a rißettere sui relativi contenuti, sui signiÞcati correlati e sulle valutazioni metacognitive associate. La validità dei signiÞcati e delle
valutazioni viene nuovamente veriÞcata in base ai dati di realtà, rivalutando le credenze del paziente (per un’esposizione più completa di questo concetto, si veda il
capitolo 4). Le misurazioni vengono fatte in base ai risultati, tenendo conto delle
caratteristiche dell’immagine (la sua nitidezza, la sua frequenza, il disagio ad essa
associato, la valutazione delle credenze, ecc.) e di altre misure sintomatologiche.
A partire dalle basi gettate da Beck, numerosi terapeuti e ricercatori hanno
analizzato la fenomenologia dell’imagery nei vari disturbi, osservando l’efÞcacia
- diretta o indiretta - delle tecniche immaginative nel modiÞcare cognizioni ed
emozioni, ed esaminando le connessioni sussistenti tra queste ultime, i ricordi e
le immagini intrusive.
CONCLUSIONI
L’utilizzo delle tecniche immaginative nella terapia cognitiva si inserisce perfettamente nella cornice terapeutica concepita da Beck. Disponiamo di numerosi
studi sulla fenomenologia dell’imagery nei diversi disturbi (si veda il capitolo 2) e
di una serie di dati sperimentali relativi al rapporto tra quest’ultima e altri processi
cognitivi (si veda il capitolo 3). Conosciamo alcuni elementi utili per affrontare
l’imagery angosciante (si veda il capitolo 4) e numerose tecniche basate su questi.
Abbiamo anche iniziato a esaminare scientiÞcamente l’efÞcacia dei trattamenti
basati sull’imagery (si vedano i capitoli 5-14). È di questi temi che ci occuperemo
nel resto del volume.
DESCRIZIONE DI UN CASO
Creare un’immagine realistica del futuro (per alleviare l’ansia)
Judith Beck, Beck Institute for Cognitive Therapy and Research e
Università della Pennsylvania, Philadelphia, Pennsylvania,
USA.
Beth, una madre single, stava diventando sempre più ansiosa, perché assalita da
immagini intrusive ritraenti sua Þglia Emily (che aveva 8 anni ed era affetta da un
lieve ritardo mentale) adulta, piangente e sola in una stanza buia. Con l’aiuto della
propria terapeuta, ha provato a immaginare uno scenario più realistico, stabilendo
le azioni concrete da intraprendere e le risorse su cui fare afÞdamento. La sua
ansia in tal modo è diminuita, e Beth ha compreso come il futuro di Emily non
gravasse unicamente sulle proprie spalle: avrebbe potuto chiedere aiuto ai propri
familiari e amici, ai genitori dei compagni di classe di Emily, al personale scolastico, al medico e - addirittura - a persone che ancora non conosceva.
Nella seduta successiva, la terapeuta l’ha aiutata a creare un’immagine precisa
di Emily nel futuro e a visualizzare nei dettagli una tipica giornata di quest’ultima
da adulta, da quando si svegliava al mattino a quando si addormentava la sera.
Beth ha visto la Þglia alzarsi nella propria camera ben arredata (situata in una
casa-famiglia), vestirsi, fare colazione, interagire con il personale e con gli altri
ospiti, prendere l’autobus in compagnia di un altro ospite della casa-famiglia per
recarsi alla casa di riposo dove lavorava come cameriera e, inÞne, coricarsi la sera
soddisfatta di sé.
Beth ha ripetuto la visualizzazione per alcune settimane, arricchendola di dettagli e descrivendola ai propri familiari e amici, che le hanno offerto preziosi
suggerimenti per migliorarla. Nel suo caso, questo ha attenuato l’ansia ancora di
più che immaginare uno scenario realistico.