Viaggio in Indonesia

Una delle tante conseguenze portate dalla devastazione dello tsunami del 2004, è stata
un'impennata del traffico dei minori. Ma dalla disperazione qualcuno ha trovato la forza di
sorridere.
di Raethia Corsini
Giornalista, inviata di “Vanity Fair”
Isole da sogno, palme, manghi, hotel per vacanze
relax, un popolo sorridente che offre corone di
fiori, cortese mentre serve il tè e dispensa trattamenti benessere a cinque stelle. Questa è
l’Indonesia. Ma certi “rispettabili turisti” occidentali, asiatici, russi, qui cercano altro. E con identica
premura gli indonesiani glielo offrono: vergini
minorenni, maschi e femmine. Così ogni anno 100
mila bimbi conoscono l’inferno e difficilmente lo
dimenticano. In un paese di 250 milioni di abitanti
(85% musulmani) in fase di transizione verso la
democrazia e con un’economia in rapida ascesa,
gli aspetti positivi dello sviluppo si pagano anche
«con l’incremento delle disegualianze, che
aumentano occasioni di criminalità», fa notare il
capo dell’anticrimine a Giacarta, Badrodin Haiti.
In più, nel 2004 lo tsunami ha devastato parte
del paese, epicentro del cataclisma, lasciando tra
le macerie migliaia di orfani, potenziali vittime di
abusi. Il fenomeno è cresciuto del 10% l’anno e,
dal 2006, il traffico di minori ha avuto un’impenna-
ta. Perché per un bambino sorpreso dalla tragedia,
c’è troppo spesso un adulto pronto a speculare.
Lo scorso novembre, per la redazione di Vanity
Fair con cui collaboro da tempo, ho seguito
l’UNICEF in Indonesia con il fotografo Maki
Galimberti. Con noi c’erano Vincenzo Spadafora,
presidente dell’UNICEF Italia, Alessio Boni,
ambasciatore di buona volontà dell’UNICEF Italia
(insieme nella foto a fianco), e Maria Grazia
Giommi, vice questore aggiunto della Polizia italiana, impegnata nella raccolta fondi per l’UNCEF.
Siamo andati a Matarm, sull’isola di Lombok
dove l’UNICEF finanzia un programma di prevenzione interdisciplinare per la protezione dei bambini: una rete tra scuole, pubblica sicurezza, centri
sanitari e spazi di prima accoglienza. Un piano triennale, per un budget di 500 mila euro.
Lombok è una piccola isola a est di Bali e a
ovest di Sumbawa. In questo paesaggio dolce di
palme e spiagge, inasprito solo dal vulcano Rinjani,
passa lo smistamento di traffico sessuale e
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©MAKY GALIMBERTI
ı il MONDODOMANI 06.08 - abusi nel silenzio
Un bambino
dorme sui gradini
della stazione
Mangga Besar,
a Giacarta,
la capitale
si studiano azioni di prevenzione. Ora stiamo lavorando a quelle su internet, perché è incrementato
l’utilizzo sia tra le vittime sia tra i criminali», precisa
Sri Wahyningsiti, che coordina il reparto antiviolenza. «L’interazione con governi e istituzioni locali è
basilare per realizzare ogni piano. È un lavoro di
advocacy, che l’UNICEF svolge sempre e qui sta
funzionando bene», commenta il presidente
Vincenzo Spadafora. E questo programma ha
anche effetti collaterali: l’alto impiego di donne in
polizia. Non scontato in un Paese a maggioranza
musulmana. «Negoziano meglio degli uomini,
gestiscono bene le masse e i casi con risvolti psicologici», ci dice Badrodin Haiti a Giacarta, informandoci che l’anno prossimo ne assumeranno
altre 600. A lui e ai colleghi di Mataram, Maria
Grazia Giommi, offre uno scambio di formazione
sui temi della violenza. Accettano lusingati. Prima
di ripartire incontriamo un gruppo di ragazzi delle
superiori. Hanno costituito il Children’s Council,
iniziativa appoggiata dall’UNICEF perché «il modo
più efficace per sensibilizzare i giovani è farli parlare con i coetanei», spiega Jasmina. Il Children’s
Council parla ai ragazzi di violazione dei diritti, cerca
adepti e prova, con il linguaggio dei teen-ager, a
dare strumenti a chi vive un disagio. «Avevo abbandonato la scuola, ero a rischio sfruttatori. Ora studio e faccio parte del forum», racconta Mahsan, 14
anni convinto che vale la pena investire
nell’istruzione «perché rende liberi». Vale la pena
anche metterci la faccia, secondo Alessio Boni:
«Un signore in Italia mi ha detto: “io non ci credevo, però ho sentito quello che racconti e 50 euro li
ho tirati fuori per l’UNICEF”. Ne basterebbero 3 al
mese dati con costanza, ma quella frase e i progetti che vedo realizzati qui, mi confermano che
questa è la strada ». Non si salveranno tutti i bambini,
ma di certo si aiuterà qualcuno a uscire dall’inferno.
ı abusi nel silenzio - 06-08
Viaggio in Indonesia
migrazioni illecite. Ce ne accorgiamo al Panti
Werdha Crisis Centre (centro per l’accoglienza di
vittime di violenza e traffico), uno dei tre anelli del
programma di prevenzione e protezione dei bambini: undici ragazze tra gli 11 e i 16 anni ci accolgono
in lacrime. Reagiamo confusi: che fare? L’unica
cosa è ascoltare le loro esperienze. Alessio Boni
per primo siede tra loro, e con un sorriso le incoraggia a raccontare. La storia è uguale per tutte.
Dopo una promessa di lavoro diventano prigioniere
involontarie di criminali che, prima dell’espatrio nei
paradisi del turismo sessuale, cambiano sui documenti i loro nomi e l’età (diventano maggiorenni).
Per contraffarli occorre tempo e in quel periodo
le ragazze restano prigioniere del “boss” che spesso le “introduce alla pratica”. Le ragazze incontrate
al Panti Werdha Crisis Centre sono riuscite a liberarsi e i loro aguzzini sono stati arrestati. Fortunate,
penso, ma una di loro mi spiazza: «Sebbene sia
ancora viva, in realtà sono morta dentro». Barcollo
e lascio che parli il silenzio. Lo faccio anche quando
incontro Fiki, 7 anni, e sua madre, 28 anni. La piccola è stata abusata dal cugino di 13 anni. Sua
mamma si è rivolta al centro perché «qui siamo
protette e trovo la forza per salvare mia figlia».
Il Panti Werdha Crisis Centre accoglie anche
questi casi, molto numerosi, ma più difficili da
stanare. «Le leggi in tema di abuso e violenza ci
sono», spiega Jasmina, «ma è difficile applicarle
perché soprusi e stupri sono considerati un affare
privato». L’ 80% delle volte sono le famiglie ad
esercitare violenze, anche perché il 60% dei bambini anagraficamente non esiste. Fino al 2006,
infatti, non si registravano le nascite e oggi si fa
solo nel 40% dei casi. «Sensibilizzare ragazzi,
famiglie e insegnanti serve a modificare certi
retaggi culturali», precisa Jasmina mentre ci spostiamo a visitare la scuola elementare Batu
Kumbung, coinvolta nel programma di prevenzione. «La conoscenza, la consapevolezza e l’apprendimento sono strumenti straordinari per uscire
dall’inferno», sottolinea Jasmina. Alla scuola Batu
Kumbung, le maestre insegnano i diritti, danno agli
allievi il supporto per denunciare il loro stato di vittime. Qualcuno ci riesce, con la garanzia dell’anonimato o con un disegno. Lungo i corridoi ce ne
sono molti: violenza domestica, punizioni corporali
a scuola (una pratica molto diffusa) e in casa.
Sui muri compare anche la campagna di prevenzione della Polizia Indonesiana. «La collaborazione
con la pubblica sicurezza è fondamentale per segnalare e soccorrere e per sensibilizzare. Infatti è
divulgata anche negli ospedali e i siti web», spiega
Jasmina. Visitiamo la stazione di Polizia locale e
vediamo la stanza-camera dove le vittime trovano
un primo rifugio lontano dal pericolo. Entriamo
negli uffici dell’ospedale militare e incontriamo
medici, uomini e donne, alle prese con madri e figli
che si nascondono. «Qui si monitorizza la realtà e
©MAKY GALIMBERTI
reportage
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