Nuccio D Melkisedek

POLITICAMENTE ANNO IX, N. 94 – luglio/agosto 2014
NUCCIO D’ANNA, MELKITSEDEK. IL MISTERO DI UNA
FIGURA BIBLICA, IL LEONE VERDE, TORINO 2014, €
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Presentazione
La figura di Melkitsedek si trova menzionata nell’Antico Testamento solamente nel Genesi (14, 1820) e nel Salmo CX (v. 4). Nel canone neotestamentario, indirizzando ad una comunità cristiana la
sua Epistola agli Ebrei (7, 1-18), anche San Paolo si sofferma sul significato ontologico di questo
straordinario personaggio con un’ampia esegesi che sembra persino rimodulare formule
midrashiche. Melkitsedek ritorna ancora con mansioni particolari in un paio di rotoli scoperti a
Qumrân, affiora in alcuni aspetti del simbolismo e delle speculazioni rabbiniche (Targum di
Gerusalemme, Talmud di Babilonia, Targum della Biblioteca Vaticana, Midrash Rabba,
ecc.), infine lo ritroviamo in vari scritti gnostici e in qualche opera dei primi Padri cristiani.
Tuttavia, rispetto ai testi biblici tutte queste speculazioni presentano importanti variazioni che
spesso ne cambiano la funzione, i riferimenti simbolici, il radicamento dottrinale e la stessa
prospettiva complessiva.
Gli elementi essenziali del sostrato spirituale che è stato sempre saldamente connesso con
Melkitsedek vanno ricercati nello speciale radicamento dottrinale che ha alimentato la sua
apparizione biblica e ne ha fatto senza alcuna incertezza “il re di Salem” e “il sacerdote
dell’Altissimo”. C’è una continuità profonda che lega il Melkitsedek “re e sacerdote” del Genesi,
la sua fugace menzione nel Salmo CX (il più ricco di princìpi e dottrine messianico-regali) e
l’articolata esegesi sul “sacerdozio eterno” fatta da San Paolo nella sua Epistola agli Ebrei. Né si
può ritenere frutto di una pura casualità il fatto che la prima apparizione biblica di Melkitsedek ha
comportato la missione tutta particolare di Abramo quale artefice del “Patto di Alleanza” con Dio;
la seconda menzione ha toccato la funzione “assiale” della regalità di Davide, l’”Unto del
Signore” che avrà il compito di edificare Gerusalemme, la “Città Santa”; e infine l’esegesi paolina
ha indirizzato l’intero sostrato messianico emerso attraverso le precedenti apparizioni anticotestamentarie verso la figura di Gesù Cristo, il “Sacerdote Universale”. D’altronde, la presenza di
Melkitsedek nella storia della spiritualità cristiana non è stata certo episodica e può farsi rientrare
nell’ambito di quegli eccezionali personaggi che il p. Jean Daniélou ha definito non senza acume
storiografico “santi pagani dell’Antico Testamento”. La sua importanza nella vita ecclesiale è
testimoniata persino dall’elevazione agli onori degli altari di un San Melkitsedek celebrato il 26
luglio nel calendario liturgico armeno, il 26 agosto in quello della Chiesa Cattolica e l’8 settembre
in quello etiope.
E tuttavia, nonostante le continue menzioni Melkitsedek resta una figura enigmatica con una sua
particolare storia che ha toccato ambienti culturali e spirituali diversissimi. Alois Dempf e Ernst
Hartwig Kantorowicz hanno potuto documentare l’esistenza di una vera e propria “religione
regale” che durante tutto il Medioevo si è richiamata costantemente a Melkitsedek, alle radici
spirituali che ne hanno sostanziato l’importanza e al ruolo dottrinale sotteso dalla sua presenza
nel SalmoCX. I loro studi li convincevano che il richiamo a Melkitsedek da parte di molti dottori e
scrittori di “teologia politica” indicava una sorta di riferimento “esemplare” inteso a realizzare
una organizzazione della società medievale fondata sulla centralità spirituale del sovrano e sulla
sacralità della sua persona. Persino Dante fa fuggevolmente menzione di Melkitsedek e
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nel Paradiso (VIII, 125) lo raffigura come l’esempio tipico di colui che ha corrisposto felicemente
agli “influssi celesti” che ne hanno indirizzato la specialissima vocazione sacerdotale. La
“sostanza” umana è stata plasmata totalmente dall’”essenza” divina e perciò nella sua persona si
è realizzata in pienezza la Volontà del Creatore. Ma il Medioevo ha visto anche la circolazione
del De tribus impostoribus, uno strano libello attribuito dal papa Gregorio IX agli intrighi politici e
alle mene anti-ecclesiali dell’imperatore Federico II e del suo cancelliere Pier delle Vigne. In
realtà, gli elementi essenziali di questo racconto erano affiorati per la prima volta nel mondo
culturale degli Ebrei di Spagna (poi nel XV secolo verranno trascritti nello Schévet Jehudà di
Salomon ben Verga), ma li ritroviamo anche nel Li dis dou vrai aniel, neiGesta Romanorum (cap.
89), nel Novellino (LXXIII), nell’Avventuroso Ciciliano (III, 5) di Bosone da Gubbio e con più
dottrina, completezza e perizia narrativa nella celebre terza novella del Decameron di Giovanni
Boccaccio. Dietro il velo di una divertente, ma feroce satira contro i “falsi profeti” Mosè, il Cristo
e Maometto, veniva orgogliosamente rivendicato non uno sconsolato scetticismo, ma l’esistenza di
un’unica tradizione spirituale rimasta sempre nascosta dietro queste forme esteriori rispetto alla
quale le tre religioni di origine abramica si sarebbero configurate come semplici anelli di un’unica
catena. E l’autore di questa straordinaria favola raccontata certo non casualmente al
sultano Salah-ed-din (considerato dagli scrittori cristiani del tempo un autorevole rappresentante
di quella “cavalleria spirituale” che attraversava senza distinzione alcuna il Cristianesimo e
l’Islam), era un “savio giudeo” di nome Melkitsedek…
L’intento del presente studio non è solamente quello di delineare i tratti di un interessante
personaggio che, pur presente autorevolmente in alcuni momenti del canone liturgico, per tanti
aspetti sembrerebbe essere rimasto comunque impenetrabile, ma essenzialmente quello di fare
emergere l’ambientazione religiosa e la dimensione ontologica dalla quale è fuoruscito
Melkitsedek, i suoi legami con la storia spirituale israelitica, il ruolo “esemplare” che ha avuto
nella fondazione della monarchia sacra davidica e la portata universale delle sue apparizioni nei
momenti “epocali” delle vicende di questo popolo. Solo dopo aver delineato il valore universale
della sua presenza nell’Antico Testamento si potrà capire perché San Paolo si sia premurato di
soffermarsi con inusuale ampiezza esegetica sul significato spirituale di un personaggio così
enigmaticamente poco presente nella Bibbia tratteggiandolo come il Typus del “sacerdote eterno”
che il Cristo incarnerà nella Sua stessa persona e proclamando senza dubbio alcuno la sua
“uguaglianza” (aphōmoiōmenos) reale ed effettiva con il Figlio di Dio.
Infine, in un capitolo specifico del libro si avrà cura di esaminare la portata teologica del
personaggio di Melkitsedek quale appare in alcuni rotoli di Qumrân, nelle sette eterodosse, nelle
correnti gnostiche e nel folklore. Si tratta di una variegata quantità di narrazioni che a volte
mostrano rilevanti aperture dottrinali, ma che in massima parte fluiscono da una forma di cultura
crepuscolare ormai definitivamente staccata dal radicamento rituale che l’aveva animata e spesso
si presentano come pure sopravvivenze di cicli spirituali ormai spenti.
Nuccio D’Anna