Camera di Commercio di Udine Friuli Future Forum BE NEW ESSERE NUOVI ISTRUZIONI PER L’USO dal Future Forum 2013 FORUM ESSERE NUOVI / BE NEW Istruzioni per l’uso, dal Future Forum 2013 Stampato su Arcoset w.w. carta realizzata con cellulose derivate da legni provenienti da foreste gestite in modo sostenibile © Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Udine Via Morpurgo, 4 - 33100 Udine Tel. 0432 273111 www.ud.camcom.it FORUM 2014 Editrice Universitaria Udinese srl Via Palladio, 8 - 33100 Udine Tel. 0432 26001 / Fax 0432 296756 www.forumeditrice.it Progetto di copertina cdm/associati, Udine Impaginazione e stampa Cooperativa Tipografica degli Operai - Vicenza ISBN 978-88-8420-853-8 Camera di Commercio di Udine Friuli Future Forum ESSERE NUOVI / BE NEW Istruzioni per l’uso, dal Future Forum 2013 a cura di Renato Quaglia FORUM 4 Essere nuovi = Be new: istruzioni per l’uso dal Future Forum 2013 / a cura di Renato Quaglia. Udine: Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Udine; Forum, 2014. Atti della prima edizione del Friuli Future Forum, Udine 14-29 ottobre 2013. - In testa al frontespizio: Camera di Commercio di Udine, Friuli Future Forum ISBN 978-88-8420-853-8 1. Economia [e] Tecnologie-Previsioni-Congressi I. Quaglia, Renato II. Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Udine III. Friuli Future Forum 330.900112 (ed. 22) - SITUAZIONI E CONDIZIONI ECONOMICHE. Previsioni Scheda catalografica a cura del Sistema bibliotecario dell’Università degli studi di Udine Essere nuovi Be new 5 La prima edizione del Future Forum si è svolta a Udine dal 14 ottobre al 29 novembre 2013, promossa dalla Camera di Commercio di Udine, in collaborazione con OCSE, Institute for the Future di Palo Alto e Copenhagen Institute for Future Studies, insieme alle Associazioni di categoria del territorio, l’Università di Udine, l’Associazione vicino/lontano e gli attori del sistema produttivo, dell’educazione, dell’impresa e della ricerca. Incontri, conferenze e workshop si sono tenuti in diverse sedi della città e hanno proposto, nel corso di più settimane, visioni e riflessioni sul futuro e su come cambieranno modi, stili, sistemi e regole nei prossimi quindici-venti anni. Esperti delle maggiori organizzazioni internazionali insieme a studiosi e ricercatori italiani sono stati chiamati a confrontarsi attorno agli scenari futuri che modificheranno la nostra società, rispondendo a cinque domande chiave: come cambierà l’industria, le piccole e medie imprese, il welfare? come cambierà l’artigianato, il turismo, il green growth? come cambierà la trasmissione dei saperi, la scuola, la formazione, i nuovi media? come cambieranno le città, i centri storici, con il riuso, con le forme di autogoverno? come cambierà la natura, l’alimentazione, la nutrizione, l’energia? Una settimana per ciascun tema, affrontato con dibattiti, seminari, case history, per dimostrare che non basta sperare in un domani migliore, ma bisogna essere capaci di costruirlo giorno dopo giorno, idea dopo idea, rischio dopo rischio. A fianco dei consueti strumenti di sostegno alle imprese la Camera di Commercio ha voluto sperimentare un progetto speciale per promuovere una maggiore cultura dell’innovazione nel sistema produttivo, offrendo agli imprenditori, come alla società civile, occasioni di confronto con chi nel mondo, costruendo futuro, sta superando la crisi. 6 7 Essere nuovi Be new INDICE Giovanni Da Pozzo Prefazione Omar Monestier Editoriale pag. 13 »15 ESSERE NUOVI / BE NEW. Istruzioni per l’uso dalla prima edizione del Future Forum di Udine Renato Quaglia e Armando Massarenti Introduzione » 19 Daniele Pitteri Envisioning be new. Tendenze e previsioni per il futuro prossimo » 26 Sergio Arzeni Considerazioni sul futuro prossimo dell’Italia » 34 Claus Kjeldsen Gli scenari che si preparano per il 2030 » 41 Alberto Felice De Toni Il futuro appartiene a chi sa immaginarlo » 55 Alessandro Verona La città globale » 59 Michele Morgante Nutrire il pianeta: è possibile andare avanti tornando indietro? » 68 Viktor Mayer-Schönberger Grandi innovazioni attraverso i Big Data » 75 Alberto Abruzzese Crisi della formazione e crisi delle classi dirigenti » 82 8 Indice Derrick De Kerckhove Il mercato intelligente pag. 87 Paolo Palamiti La scuola del futuro » 91 Nicola Baldo Il futuro delle infrastrutture stradali. Sostenibilità e riutilizzo dei materiali marginali » 97 Alberto Capatti Il pensiero alimentare e la sua stagnazione » 101 Rossano Ercolini Le buone azioni di Rifiuti Zero » 104 Luca Capra Supportare l’innovazione nelle aree montane. Il modello trentino » 109 Christina Conti L’accessibilità e la valorizzazione dei beni, degli spazi e dei servizi. Dall’abbattimento delle barriere architettoniche alla progettazione inclusiva » 113 Bernhard Deutsch Lo sviluppo delle energie rinnovabili a Güssing e le sue ramificazioni » 117 Alberto Di Gioia Nuovi processi e attrattività dei territori alpini contemporanei » 125 Erwin Durbiano I nuovi abitanti delle Alpi » 129 Fabio Feruglio Ma il futuro quando arriva? » 133 Franco Iseppi Il futuro ci è già addosso » 139 Essere nuovi Be new Bruno Lamborghini Lavoro del futuro e futuro del lavoro. Da Adriano Olivetti alla Società della Conoscenza condivisa 9 pag.143 Norman Longworth Udine/Friuli - a learning City/Region? »154 Andrea Pollarini Le nuove frontiere del turismo e lo sviluppo di imprese e territori » 161 Raffaella Ida Rumiati, Francesco Foroni Il cibo visto con la lente delle neuroscienze » 166 Annalisa Saccardo Il futuro dell’alimentazione » 170 Attilio Scienza I nuovi vitigni resistenti alle malattie. Una minaccia o una opportunità per la viticoltura italiana? » 176 Bruce Sterling Robots »180 Antonio Vanuzzo Sul reddito di cittadinanza » 183 INTERVISTE di Giada Marangone per «Udine Economia» Ivanhoe Lo Bello L’emergenza educativa » 189 Bertram Maria Niessen Fare rete nell’innovazione sociale » 191 INTERVISTE di Alessandro Cesare per «Messaggero Veneto» Brinda Dalal Migliore qualità della vita con le nuove tecnologie » 195 10 Indice Roberto Siagri Città intelligenti per il successo economico pag.197 Bernardo Secchi Persone e ambiente perno della città del domani » 199 Bruno Manfellotto I giornali alla sfida digitale, ma il cartaceo resisterà » 201 Tiziano Treu Le sfide della flessibilità del welfare aziendale e del sistema pensioni » 204 Alberto Cottica La democrazia e la politica 2.0 nell’era della rete » 206 Agostino Quadrino Nelle scuole il processo digitale non si può fermare » 208 Massimo Paniccia PMI più forti e razionalizzazione degli enti associativi » 210 Sergio Campo Dall’Orto Trasferire tecnologie per costruire futuro » 213 Antonio Piva 100 milioni risparmiati se tutti utilizzassero il pc » 216 Enzo Rullani Reti di impresa e business diversificati per superare la crisi » 218 Roberto Calugi Sfida alla crisi puntando sulla Borsa » 220 Essere nuovi Be new 11 Dall’altra parte c’era il futuro e lei, rumorosamente, è fuggito in direzione opposta. Leo Longanesi 12 Essere nuovi Be new 13 Prefazione Un territorio, un’economia, che nel momento più duro della crisi non si arrendono né si compiangono, ma guardano al futuro. Al futuro non solo tecnologico, ma inteso come innovazione a 360 gradi, un processo culturale che investe ogni campo, produttivo e concettuale. È questo lo spirito e sono queste le fondamenta su cui si è poggiata un’iniziativa unica, il Future Forum, rassegna che, dal 14 ottobre e fino al 29 novembre 2013, la Camera di Commercio di Udine ha ideato e promosso in sinergia con i principali attori istituzionali e associativi del territorio. Si è cominciato concretamente a riportare Udine e il Friuli al centro di una riflessione internazionale sul futuro e ciò è stato possibile innanzitutto grazie a un intenso e convinto lavoro di costruzione di reti, di relazioni, di network a livello locale che hanno permesso a una terra intera di porsi unita di fronte alle sfide del futuro, di respirare all’unisono una voglia di futuro che sempre più ha bisogno di essere immaginato, fabbricato, progettato oggi. Future Forum, estrinsecazione del Friuli Future Forum, progetto d’innovazione che la CCIAA udinese ha avviato dal 2010, per oltre un mese ha portato in Friuli alcuni dei massimi ‘esperti di futuro’ a livello internazionale. Reti locali, dunque, ma apertura alla creazione di nuove reti in tutto il mondo. OCSE, Institute for the future di Palo Alto, Copenhagen Institute for Future Studies sono stati i partner internazionali della manifestazione e hanno partecipato sia alla stesura del programma sia, direttamente, inviando in Friuli i loro esperti – scienziati, economisti, ricercatori, analisti di futuro – per un confronto continuo e proficuo con la realtà produttiva e istituzionale friulana. La formula ha consentito la partecipazione di imprenditori, studenti, cittadini e il format, molto variegato e flessibile, con tantissimi appuntamenti quotidiani per oltre un mese, ha permesso di sviscerare temi fondamentali: il futuro dell’impresa, dei distretti, delle aggregazioni, della finanza e del credito, il futuro della formazione e dei saperi, il futuro delle città e della scienza, dell’alimentazione e della ricerca. Si è consentito così ai partecipanti di dialogare con chi nel mondo è specializzato nella fabbricazione quotidiana del futuro (e dei futuri possibili): una sorta di ‘master in futuro’ con suggerimenti, 14 Giovanni Da Pozzo spunti, idee, progetti nuovi e utili per essere tradotti in pratica e realizzati anche dalla società e dall’economia friulane. ‘Essere nuovi’ è stato il riuscito claim che ha contraddistinto la manifestazione. Ed è stato anche un vero sprone. Per ‘essere nuovi’, infatti, bisogna esserlo ora, perché è indispensabile, perché è questo lo spirito con cui dobbiamo affrontare probabilmente il più difficile periodo della nostra storia repubblicana. La crisi che per molti aspetti stiamo ancora vivendo, e che al Friuli Venezia Giulia sta lasciando quella che speriamo essere ormai una coda, seppur molto lunga e pesante, ci pone irrimediabilmente di fronte a una grande occasione di cambiamento. I paradigmi di spazio e tempo si sono completamente trasformati: il tempo si è ridotto all’istantaneità, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, e invece lo spazio d’azione, con la globalizzazione, si è dilatato a tutto il mondo. Sono questi i parametri entro cui anche i cittadini e il sistema economico della nostra regione si trovano oggi a muoversi. La rapidità e la violenza di questa crisi dell’economia sono state destabilizzanti, lasciandoci attoniti e in molti, troppi casi, a terra, a causa anche di un sistema istituzionale italiano che non ha saputo reagire allo scossone. Imprese e lavoratori, invece, vogliono reagire e lo stanno facendo, pur entro un sistema che non è ancora riuscito a risolvere problemi strutturali atavici, e che invece dovrebbe accompagnare la rinascita dell’economia. Molti, nel sistema produttivo, hanno già capito che nulla è come prima, che il cambiamento richiede un nuovo sguardo sulla realtà. Molti lo stanno intuendo. Molti hanno ancora la necessità di essere aiutati ad abbandonare un pericoloso attaccamento al passato. Consapevoli che non si può chiedere il cambiamento se non lo si pratica in prima persona, come Camera di Commercio di Udine, ci siamo messi all’opera, cominciando a dare un nostro contributo a questa richiesta di futuro, senza la pretesa di essere risolutivi, ma con il desiderio forte, sincero di essere utili. Un impegno grande e corale, il respiro di un territorio intero che anela futuro, perché crediamo che per guardare avanti sia necessario un nuovo approccio, sia necessario essere aperti. Sì, ‘essere nuovi’. Perché per ‘essere nuovi’ davvero, dobbiamo essere convinti tutti. E dobbiamo esserlo tutti insieme. Giovanni Da Pozzo Presidente della Camera di Commercio di Udine Essere nuovi Be new 15 Editoriale Nei giorni, drammatici, nei quali una grande multinazionale indica il limite del sistema manifatturiero tradizionale del Friuli, s’odono molte proteste, mille accorgimenti e perfino qualche progetto bislacco di tagli alle buste paga per recuperare competitività. La competitività è un elemento assai importante, ma non può essere l’unico. Senza la competenza e la creatività che cosa ce ne possiamo fare? La competitività è un elemento dell’oggi e di ieri. Sarà fondamentale per il futuro, ma non è su quello che possiamo sperare di rigenerare il nostro sistema. Il Friuli ha concluso la fase dell’esplosione produttiva, della quantità (unita alla qualità) dei beni di largo consumo. Oggi vive e ricrea valore nei comparti che guardano all’export, affrontando nuovi mercati ma non con prodotti tradizionali. Il Friuli torna a essere, perfino suo malgrado, un luogo dove si vince se si torna sulla via pioneristica della sperimentazione, dell’innovazione, dell’assistenza al consumatore. È necessario recuperare lo spirito che fu di Rino Snaidero e di Lino Zanussi, pur in un mercato interno che va in una direzione opposta a quella che offrì loro, invece, una grande opportunità. Quel mondo è finito. L’Italia resta, per le imprese friulane, una tappa intermedia del loro sviluppo. Il traguardo è altrove. Piccoli esempi positivi di riflessione e di stimolo devono provenire anche dalle associazioni di categoria, posto che non è pensabile che un qualche tipo di contributo risolutivo venga dalla classe politica, avvitata in un processo introspettivo senza fine. È necessario provocare, bucare l’insidioso velo del pessimismo e dell’attendismo. Reagire, combattere, ripartire. Ho sostenuto e partecipato con grande sollievo all’iniziativa ideata e portata avanti dalla Camera di Commercio di Udine, mentre tutt’intorno la politica osservava col sussiego di coloro che rilasciano dichiarazioni roboanti a proposito della crisi, al solo fine di occupare uno spazio, ma non hanno una idea, una qualunque, sul da farsi. Perché bisogna avere il coraggio di dirlo, a costo di sembrare sgarbati. Il dibattito è ormai un rumore di fondo, mentre le aziende chiudono, i la- 16 Omar Monestier voratori si disperano e la spesa pubblica continua a essere esorbitante e sprecata. Future Forum è stata dunque una luce, vivida, pulsante, intensa. A volte destinata a un pubblico che non c’è ancora, che non ha tempo per ascoltare, che teme l’ennesima esibizione di visioni accademiche. Belle, ma lontane. Future Forum è andato avanti per moto proprio, sapendo di essere una scheggia impazzita in un sistema che pensa altrimenti. È andata bene anche quando la sala non era gremita, è andata meglio quando il pubblico ne è uscito sconvolto dalle informazioni ricevute. I grandi nomi che animano i dibattiti sulle prospettive di crescita mondiale sono passati per Udine. Sono stati accolti con curiosità dalle imprese, dai professionisti, dalle scuole, dall’università. Ed è costato così poco che bisognerebbe dirlo senza vergogna. Adesso, la seconda edizione. Omar Monestier Direttore del «Messaggero Veneto» Essere nuovi Be new ESSERE NUOVI / BE NEW Istruzioni per l’uso dalla prima edizione del Future Forum di Udine 17 18 Essere nuovi Be new 19 INTRODUZIONE Renato Quaglia e Armando Massarenti Pochi anni fa (eravamo all’inizio e i più erano impegnati a rassicurare e ridimensionare le preoccupazioni) credevamo che la crisi fosse finanziaria, gli indicatori di riferimento erano i PIL europei e la rappresentazione che si dava di quel ciclo era una V (un rapido crollo e una altrettanto rapida risalita ai livelli pre-crisi). L’estensione delle criticità ci ha fatto comprendere che la crisi era economica: la sua rappresentazione diventava una U, con una caduta, una fase non breve di stagnazione, poi la risalita. Ma se non prendiamo il PIL come indicatore unico della crisi, e consideriamo invece l’occupazione come elemento su cui misurare il fenomeno, allora la sua rappresentazione può essere quella della L, dove al crollo segue una nuova diversa fase, da cui non si guarisce, ma di cui occorre prendere definitivamente atto. In questa nuova dimensione, il procedere verso un tempo prossimo mantiene intatta la sua carica di aspettative e responsabilità, perché il futuro non è un tempo che accadrà imprevisto, a un certo momento, in un tempo distante e distinto dal nostro oggi. Non si presenterà un giorno bussando inatteso alla porta, presentandoci come un piazzista tutto il nuovo che porterà con sé. Il futuro si sta determinando già oggi, appartiene e sarà conseguenza delle nostre azioni (o inazioni) odierne. È già iniziato e sappiamo sin d’ora che nulla sarà come prima, che le regole del gioco stanno già ora cambiando profondamente. Quella in corso, sostengono molti analisti, non è una crisi o, per lo meno, quello che sta accadendo non è solo una profonda crisi economica: è in atto un profondo cambiamento di sistema, che sta coinvolgendo larghe parti del pianeta (in greco krisìs significa mutamento). Nelle negoziazioni più difficili, nella politica come nella vita quotidiana, tendiamo a spostare ‘al futuro’ quello che non riusciamo a risolvere oggi. Le scelte per cui non si trova accordo, le decisioni che sarebbe impopolare prendere oggi, vengono posticipate a un tempo futuro, a cui stiamo delegando il coraggio di fare tutto quello che avremmo dovuto decidere oggi (o ieri) e speriamo qualcuno risolverà per noi dopo. 20 Renato Quaglia e Armando Massarenti Ma il futuro non è un tempo che si determina altrove e lontano da noi. È l’esito delle nostre decisioni e l’espressione delle nostre potenzialità. Non sarà lo stesso per tutti («il futuro arriva come gli autobus di Londra – chiosa Angela Wilkinson, dell’OCSE –, non arrivano uno alla volta, ma due o tre contemporaneamente, e mai quando li si attende») e riguarderà sempre meno lo Stato o le Regioni, e sempre di più le singole città. Da tempo ogni città è un soggetto autonomo dal contesto nazionale a cui appartiene: sviluppa proprie politiche di attrattività e di sviluppo, si dota di identità nuove o coltiva quelle originarie, costruisce reti relazionali che producono politiche internazionali e standard di vita tipici per i suoi abitanti. In diverse città o territori del mondo sono in corso processi per la definizione dei futuri possibili. Si chiamano ‘produzione di scenari’. Le città si ascoltano: analizzano le idee di futuro che esprimono al loro interno i diversi gruppi che le compongono, parallelamente studiano il DNA delle loro comunità, ovvero le caratteristiche che permettono a quella città alcuni sviluppi e ne inibiscono invece altri, consentirebbero certi risultati e non altri. Poi, sul risultato del confronto e della partecipazione di tutti gli attori sociali, economici, della formazione, delle professioni, culturali, pubblici, privati della città, costruiscono i loro scenari futuri, la città che vorranno e potranno essere. Su questi obbiettivi condivisi vengono convogliate le energie dell’intero sistema cittadino o territoriale, pubblico e privato. Si indirizzano congiuntamente tutti i gruppi che costituiscono e rappresentano la complessa struttura civile, sociale, culturale e produttiva che chiamiamo città. È un’azione coordinata e organizzata di tutte le sue principali componenti, quella che potrà avere più chance per raggiungere quella visione e farla diventare il prossimo presente della sua comunità (migliore, più felice di quella che si è lasciata alle spalle). Prima della crisi, alcune città avevano già avviato strategie di sviluppo per una propria nuova identità, proiettata verso le nuove possibilità che per tempo avevano scelto di perseguire. La crisi (il grande cambiamento in atto) ha colto queste città in una posizione avvantaggiata rispetto a quelle che non avevano intrapreso dei piani di aggiornamento. Ora la recessione e la ridotta disponibilità della spesa pubblica rendono necessario un ripensamento delle modalità di crescita e di innovazione. Se qualsiasi strategia di sviluppo non può che essere sistemica, la rete è la migliore immagine delle connessioni, della collaboratività, Essere nuovi Be new 21 della complementarietà e della polidisciplinarietà, che a ogni scala devono prendere il posto del solipsismo, dell’autosufficienza e dell’iperspecializzazione che hanno segnato il fordismo e il secolo scorso. Ogni comunità deve essere capace di valorizzare le proprie migliori energie: sostenere i propri talenti, attrarne da altre città e Paesi, investire sulla cultura, sulla formazione, sull’apprendimento permanente. Superare la frammentazione politico-decisionale (come nei progetti pilota di Oslo, Brisbane, Amburgo), sperimentare nuovi modelli di partecipazione del settore privato alle strategie pubbliche (come a Manchester, Barcellona, Cape Town), integrare i livelli cittadini e regionali (come a Zurigo e Lione). Ogni futuro, ci avvertono tutti gli studi dei maggiori istituti internazionali, sarà fondamentalmente metropolitano, perché da tempo si sono sgretolati i confini daziarii delle città che abbiamo conosciuto, e si sono materializzate foreste urbane, senza più distanza tra centro e periferia, tra città e territorio, tra fuori e dentro. Non ci sono più confini definiti (né sui territori, né nei settori e tra le discipline). Sarà un futuro migliore se sapremo determinarlo attraverso modelli partecipativi il più ampi possibili. Esperienze come quelle del Foro di Vauban (l’eco-sobborgo di Friburgo che si è dato forme di autogoverno che hanno inciso sul suo sviluppo e su comportamenti che sono diventati stili di vita condivisi da migliaia di persone, che hanno modificato abitudini e costi quotidiani in una specie di comunità indipendente molto efficiente e rispettosa dei suoi cittadini – e dei bambini innanzitutto) o anche della Federazione dei Comuni veneti del Camposampierese (governati da giunte di sinistra e di destra) i cui consigli comunali hanno messo da parte i concetti novecenteschi dell’autosufficienza, per condividere alcuni servizi, normalmente considerati invece prerogativa municipale (la sicurezza, la nettezza urbana, i trasporti locali, la polizia locale) ottenendo enormi economie di scala, che hanno liberato risorse per nuovi servizi al cittadino, sono solo esempi che potrebbero essere verificati direttamente, con poche ore di viaggio, dagli amministratori pubblici ancora ingabbiati nelle logiche del secolo trascorso. Non ci si attardi con atteggiamenti rinunciatari, lamentando la perifericità delle nostre città e territori, come ragione che renderebbe inutile una progettualità su temi e traiettorie di futuro globale. Il concetto di periferia è stato già ampiamente superato proprio dalla globalizzazione: nella dimensione planetaria ogni città è diventata periferia, ogni territorio è 22 Renato Quaglia e Armando Massarenti marginale rispetto a qualcosa. Il centro non esiste più. Saskia Sassen ne offriva un’interessante definizione: «possiamo definire centro l’incontro di due periferie». Cambierà il lavoro. In questi ultimi decenni abbiamo assistito al passaggio dalla certezza del posto fisso, alla precarizzazione dell’impiego. Accompagnata dalla recessione dei diritti, dall’esclusione generazionale, la riduzione del welfare e la crisi dei modelli novecenteschi, ma acquisiti, della previdenza pubblica, si imporranno nuove forme del lavoro. Adam Smith, alla fine del Settecento, aveva compreso che il grande sviluppo a cui stava assistendo il mondo era frutto della rivoluzionaria divisione del lavoro. Per due secoli abbiamo seguito queste linee: divisione del lavoro e specializzazione professionale dell’individuo. Già oggi, e sempre più in futuro, la richiesta del mercato sarà invece di competenze pluridisciplinari (e di flessibilità). La persona si formerà lungo percorsi e cercherà esperienze non unidirezionate, né esclusive: coltiveremo due o tre carriere professionali contemporaneamente, dovremo essere capaci di relazionarci ad altrettanti ambienti sociali, forse linguistici; il viaggio sarà una componente implicita alla professione, anzi: alle diverse professioni che svolgeremo in diverse città. Ci troveremo metaforicamente in piedi, in equilibrio precario, su una zattera, condotti dalle correnti di un torrente in piena, con la possibilità di passare con un salto su altre zattere, che corrono a fianco più veloci, portate dalla forza della corrente. Saltiamo da una zattera all’altra, restandoci finché l’equilibrio lo consente, pronti a passare su un’altra e un’altra ancora, sempre incerti e instabili. Su scala planetaria si stanno registrando fenomeni di emergenza e inabissamento di economie e modelli culturali dei cui molti segnali anticipatori non ci eravamo accorti. Non è in atto un processo di delocalizzazione, ma una grande redistribuzione sul pianeta della produzione, del lavoro e del consumo di beni e servizi. A pensarci, era quello che auspicavamo negli anni ’60 e ’70: che il cosiddetto terzo mondo e i Paesi emergenti aumentassero l’industrializzazione, crescessero fino a raggiungere il benessere di cui noi già godevamo, convinti della possibilità di una crescita infinita e progressiva. Ma non potevamo immaginare che questo sviluppo sarebbe avvenuto attraverso una redistribuzione, che le produzioni del nuovo mondo facessero (faranno) venir meno quelle del vecchio mondo, ricollocandole in altre parti Essere nuovi Be new 23 del mondo. Anche la popolazione si riposiziona (si muove, si mescola, si scompone). E determina nuovi stili di vita, nuovi bisogni, nuove opportunità. La popolazione di pelle bianca è il 12% della popolazione del pianeta, come possiamo pensare che il modello di vita dominante per quella percentuale di popolazione possa condizionare i modelli di vita degli altri gruppi e dell’intero pianeta? La popolazione europea produce il 9% del PIL mondiale e spende il 55% dei valori di previdenza sociale e sanitaria mondiali. La sproporzione è evidente e il suo peso insostenibile, anche se la risposta non deve essere la più semplice e feroce. Il welfare va ripensato, ma in maniera tale da non far aumentare, ma semmai ridurre, le sempre più evidenti diseguaglianze. È invece il loro progressivo annullamento che dovrebbe rientrare nelle agende politiche internazionali. A partire dalla fine del XIX secolo le diseguaglianze sociali erano progressivamente diminuite, e avevano continuato a farlo fino agli anni ’70 del secolo scorso, ma dal decennio seguente hanno inaspettatamente ricominciato ad aumentare e creano oggi fenomeni sempre più diffusi e complessi. Essere povero oggi è più drammatico di pochi decenni fa, le spese per la casa, la salute, la mobilità, ad esempio, incidono percentualmente sul reddito in proporzioni più importanti sulle disponibilità effettive dei poveri, di quanto incidano sulle possibilità effettive dei ricchi. La ricchezza non è più misurabile solo unidimensionalmente sui valori di potere d’acquisto. Bernardo Secchi ha descritto al Future Forum con grande lucidità i tratti delle nuove diseguaglianze da possesso di capitale: ricchezza non è più solo poter disporre di grande capitale economico, esiste anche il capitale intellettuale (il grande medico, il grande artista…); il capitale sociale (avere buone e diffuse relazioni con il potere) e anche il capitale spaziale (dove vivi). L’abitare è un indicatore e un fattore che incide in maniera non irrilevante nel destino delle persone. Nei territori regionali o nazionali la distanza dei luoghi di residenza dai centri dove si producono processi decisionali, determina una difficoltà di accesso a quei processi direttamente proporzionale alla distanza da cui si parte. Nelle città si stigmatizzano alcune zone urbane, che connotano inevitabilmente l’individuo e la sua identità percepita. L’immaginario collettivo legato a un quartiere degradato, ad esempio, determina fenomeni di lunga durata e prescinde dalle eventuali mutazioni intervenute nel tempo in quel quartiere, per trasmettere 24 Renato Quaglia e Armando Massarenti quel (vecchio) giudizio sociale, generalizzando senza distinguo, anche sui suoi residenti attuali e prossimi, etichettati in relazione alla residenza, prima che all’individualità personale. Chi a Parigi è andato a risiedere nei quartieri di nord-est è percepito come un povero, come l’etichetta attribuita da anni a quell’area urbana; il sud-est è invece da sempre zona da ricchi. L’abitare, da risultato di convenienze e casualità, è diventata una scelta di collocazione sociale, dalle conseguenze imprevedibili. Quando parliamo di politiche di sviluppo o anche solo di nuovo welfare, avverte Secchi, dobbiamo sapere che il tema non è solo di natura economica: occorre incidere anche sull’immaginario collettivo, sul capitale intellettuale, su quello sociale. Con la cultura è sempre più difficile mangiare (in conseguenza delle politiche pubbliche miopi e incompetenti degli ultimi decenni e anche attuali); ma senza cultura non si mangia, non si beve, non si dorme, non si dialoga: non si vive. Un serio o anche solo appena sufficiente investimento sulla cultura, la formazione e la ricerca determinerebbe un indotto straordinario: il cambiamento. Che è anche uno dei fattorichiave dello sviluppo anche economico. La scuola è parametrata sul modello fordista novecentesco, i percorsi didattici sono gli stessi delle generazioni passate, da 50/60 anni a questa parte. Siamo prigionieri di un modello didattico e organizzativo passato. «Se oggi insegniamo solo quello che sapevamo nel passato, rubiamo il futuro ai nostri figli» avverte Peter Bishop. Come ricordava Ivan Lo Bello, l’annuncio dei primi dati PISA (i dati comparati dall’OCSE sulla formazione europea) fu uno shock formidabile per molti Paesi europei. Sarebbe dovuto esserlo anche per l’Italia: la qualità del modello formativo nazionale risultava infatti agli ultimi posti della classifica europea. La reazione italiana purtroppo fu invece tipica: invece che riflettere sulla critica, si delegittimò, come sempre, il criticante, mettendo in discussione l’autorevolezza di chi aveva fatto le valutazioni, il metodo che si era scelto, i parametri che erano stati messi a confronto. La Germania ebbe riguardo il proprio sistema formativo esiti valutativi analoghi ai nostri, ma non reagì come noi: i tedeschi iniziarono una profonda autocritica delle proprie scelte educative, ridiscussero e tuttora discutono su programmi, modalità di trasmissione dei saperi, obbiettivi, qualità del personale docente: il loro sistema iniziò a cambiare rapidamente e i risultati, da negativi, Essere nuovi Be new 25 divennero nel tempo tra i migliori in Europa. Dall’indagine PIACC 2013 dell’OCSE, su 24 Paesi l’Italia è agli ultimi della graduatoria per quanto riguarda le competenze alfabetiche e penultima per quelle matematiche, senza che questi sconfortanti dati determinino l’allarme che invece desterebbero e destano in ogni altro sistema nazionale che si trovi in questa situazione. Nel campo del sapere e delle conoscenze le nuove tecnologie assumeranno un peso sempre più rilevante, si svilupperanno modelli open collaborative e di reti connettive. Cambieranno le dinamiche di trasmissione del sapere determinando una progressiva perdita della funzione di mediazione degli istituti formativi tradizionali (e quindi anche delle forme associative che non riusciranno a trasformarsi). Si affermeranno modelli di post-umanesimo. La trasformazione in atto è molto più radicale di quanto ci viene descritto. Non ci è consentito in questi anni di fare semplice manutenzione del presente. È quanto mai valida, in questa epoca di cambiamento, la metafora del ponte che crolla e del treno che corre. La situazione prevede tre possibilità: il treno precipita (questa è la fine); il treno ce la fa e il ponte crolla dopo (vi è una cesura con il passato); il treno resta sul ponte che perde l’inizio e la fine (è la condizione della soglia: l’incertezza, il ‘non ancora, ma non più’). Dove è ora il treno che rappresenta questo Paese? Renato Quaglia Project manager, direttore artistico e organizzativo, coordinatore di istituzioni e iniziative culturali, è docente di Storia dell’impresa culturale e di Economia della cultura. Presidente della Fondazione CRT di Milano; è stato direttore del Napoli Teatro Festival e direttore generale della Fondazione Campania dei Festival dal 2007 al 2011; direttore organizzativo della Biennale di Venezia dal 1998 al 2007; consulente per progetti di sviluppo nelle Regioni Obbiettivo 1, ha collaborato con il DPS del Ministero dello Sviluppo Economico. Chevalier de l’Ordre des Art set des Lettres della Repubblica Francese. Armando Massarenti Giornalista e filosofo, è responsabile del supplemento culturale ‘Domenica’ del «Sole-24 Ore», dove si occupa di storia e filosofia della scienza, filosofia morale e politica, etica applicata, e dove tiene la rubrica ‘Filosofia minima’. È direttore della rivista «Etica ed economia» e autore di numerose pubblicazioni. Ha ricevuto per la sua attività giornalistica e pubblicistica diversi prestigiosi premi. 26 ENVISIONING BE NEW TENDENZE E PREVISIONI PER IL FUTURO PROSSIMO Daniele Pitteri Premessa Per quanto l’immaginazione del futuro sia una disposizione costitutiva e identitaria dell’uomo – che da sempre desidera, prospetta, progetta, proietta la propria esistenza in un tempo e in uno spazio di là da venire – in un mondo complesso e in rapida trasformazione come quello attuale non è facile individuare le prospettive entro le quali orientare una tale attività immaginativa. Le linee di tensione del presente sono spesso talmente contraddittorie da ingenerare confusione e smarrimento, perché non in grado di lasciare intravedere né la portata né gli effetti dei cambiamenti, tanto da atrofizzare la capacità immaginativa e da trasformarla in disorientamento e paura, in chiusura in un presente statico e perenne, antistorico e antievolutivo. Sin dal momento in cui si è iniziato a ragionare sul Future Forum è sembrato, dunque, necessario provare a dare corpo e dimensione al futuro, provare non solo a prospettarlo, ma anche a rappresentarlo, tentando così di renderlo palese nelle sue dinamiche, leggibile e interpretabile. Uno studio e una mappa Envisioning be new è appunto questo: uno studio che isola le principali macrotendenze in atto e che ipotizza scenari e previsioni in cinque settori prioritari della dimensione umana (il lavoro, i processi produttivi, la città, il sapere e la conoscenza, la scienza), a partire da un’analisi incrociata delle ricerche realizzate negli ultimi anni da alcuni fra i principali istituti internazionali di studi sul futuro; una mappa che organizza e descrive graficamente gli scenari e le previsioni emersi dallo studio, i cambiamenti che potrebbero prospettarsi in ciascuno dei cinque settori e le direzioni che potrebbero imboccare da qui al 2030. Essere nuovi Be new 27 Dallo studio si delinea uno scenario complessivo molto articolato e fluido, dunque sostanzialmente ricco ma incerto, per quanto altamente probabile, essendo basato su segnali e dinamiche attualmente in atto e di cui è possibile, allo stato delle cose, ipotizzare le trasformazioni future. Emergono in particolare 10 macrotendenze (i cosiddetti Megatrends), cambiamenti strutturali di lunghissimo periodo, i cui effetti, positivi e negativi, impattano sui processi economici, sociali e culturali, generando ulteriori ricadute a livello globale nei 5 settori presi in analisi, ciascuno dei quali si sviluppa lungo un percorso proprio in cui si individuano le tendenze in atto e presumibilmente perduranti per tutto il decennio in corso, e le previsioni, i potenziali cambiamenti che potrebbero determinarsi dopo il 2020. Graficamente la mappa si presenta come la piantina di una metropolitana. Ognuno dei cinque settori si trasforma in un percorso connotato da tappe (ciascuna delle quali corrisponde a una macrotendenza, a una tendenza o a una previsione), che si snoda, incrociandosi con gli altri, in uno ‘spazio temporale’ di circa 20 anni, suddiviso in due aree: una centrale (di colore più chiaro) che delimita l’arco temporale da qui al 2020 e in cui si collocano le ‘tappe’ che corrispondo alle ten- 28 Daniele Pitteri denze in atto; una periferica e di contorno (di colore più scuro) in cui si collocano invece le previsioni e che quindi definisce l’arco di tempo compreso fra il 2021 e il 2030. I punti di incrocio dei percorsi sono costituiti dalle macrotendenze, che pur investendo con la propria influenza tutti e 5 settori, non li impattano direttamente tutti. Le macrotendenze Esiste un’abitudine diffusa a stimare le conseguenze delle macrotendenze solo nel breve periodo, sottostimandole nel lungo. È bene sottolineare invece che essendo frutto di un processo lungo che ha coinvolto e interessato la società in generale, non solo le macrotendenze ‘debbono’ essere prese in considerazione perché non le si può nascondere né ci si può opporre ad esse, ma manifestano i propri effetti in particolar modo nel lungo periodo, anche perché sono contraddistinte da altre caratteristiche basilari: • hanno una durata di almeno 10-15 anni; • sono dinamiche e non statiche, ossia pur persistendo a lungo modificano il proprio percorso e la propria conformazione nel corso del tempo; • sono globali, ma i loro effetti possono variare localmente; • sono ‘percorsi’ di sviluppo previsto, ma non è detto che ciò che prospettano debba verificarsi in maniera lineare; • sono interconnesse e quindi si determinano possibilità e opportunità di sinergia tra di loro. Come si è detto lo studio ha isolato 10 macrotendenze, che tuttavia non sono le uniche emerse incrociando le ricerche sviluppate a livello internazionale, ma sono quelle che in generale risultano essere più determinanti nella definizione degli indirizzi futuri in questo particolare momento storico e che in particolare hanno maggiore influenza e ricadute nei 5 settori su cui si è concentrata l’analisi. Ecco una veloce descrizione delle 10 macrotendenze. 1. Debito Lo scotto economico che gli Stati, in particolare quelli occidentali, stanno pagando per effetto di un mix di elementi: corruzione e malapolitica, applicazione del welfare state, mancata applicazione di principi di corretta gestione negli organismi pubblici, approvvigionamenti energetici, ecc. Essere nuovi Be new 29 2. Digitalizzazione Indica il passaggio da una cultura analogica a una digitale e investe sia i processi tecnologici e produttivi che i processi di generazione del pensiero. Per cultura digitale si intendono soprattutto processi creativi, cognitivi, formativi basati su logiche sostanzialmente conformate sulla struttura di internet e del web 2.0 e basate su una dilatazione della dimensione spaziale a scapito della conseguenzialità temporale e sulla convergenza di forme ricettive ed espressive differenti. 3. Disorientamento Più correttamente ‘ansietà’, ossia una condizione emotiva e cognitiva individuale, politica e sociale a partire dalla quale si tendono ad affrontare i cambiamenti (del presente, ma anche quelli prospettici e futuri) accompagnati da incertezza, trepidazione e apprensione. 4. Globalizzazione Il mega trend che con denominazioni ed evoluzioni diverse ha caratterizzato buona parte del XX secolo e questo primo scorcio del XXI secolo. Si tratta di un processo, con effetti positivi e negativi, di interdipendenze economiche, culturali, politiche e tecnologiche che tende a far convergere verso un’unica ‘cultura’ tutte le culture particolari. Effetti principali: velocità delle comunicazioni e delle informazioni; opportunità di crescita per Paesi a lungo rimasti ai margini dell’economia; la contrazione della distanza spazio-temporale; la riduzione dei costi per l’utente finale; degrado ambientale; rischio dell’aumento delle disparità sociali; indebolimento delle identità locali; riduzione della sovranità nazionale e dell’autonomia delle economie locali; diminuzione della privacy. 5. Individualismo Al valore morale dell’individuo si è sommato quello delle comunità, dei territori o dei gruppi di rappresentanza di interessi. È l’esercizio, con ricadute positive e/o negative, del raggiungimento di alcuni obiettivi quali l’indipendenza e l’autonomia e al tempo stesso la più strenua resistenza verso ogni intralcio esterno sugli interessi personali, sia per la società che per qualsiasi altro gruppo o istituzione. 30 Daniele Pitteri 6. Invecchiamento L’allungamento della vita (e quindi l’abbassamento della mortalità) è uno dei principali effetti degli sviluppi novecenteschi in campo economico, scientifico e industriale che ha consentito il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione mano a mano che aumentava il livello di benessere socio-economico delle stesse. Il fenomeno è più evidente nel mondo occidentale, dove si sta iniziando a verificare uno squilibrio fra percentuali di popolazione anziana (a favore di questi) e popolazione giovane. 7. Localismo In senso ampio si tratta di una forma mentis o di un’impostazione culturale che tende a trattare temi e problemi locali come se fossero generali e, viceversa, quelli generali con un’ottica principalmente locale. In senso più stretto significa una focalizzazione sul territorio, sui suoi equilibri, sulle sue culture, sulle comunità che lo abitano, sulle economie che vi si sviluppano, sui rapporti con le comunità e con i territori limitrofi e di prossimità. In parte rientrano in questa macrotendenza i processi di urbanizzazione sostenibile. 8. Personalizzazione È il processo attraverso cui gli individui tendono a customizzare su se stessi o a profilare a partire da se stessi qualunque attività lavorativa, economica, politica, ludica, formativa. Ma è anche il processo attraverso cui i fornitori di servizi e/o prodotti di qualunque natura tendono a favorire profilature e/o customizzazioni ‘personali’, basata sulle esigenze/necessità/bisogni dei singoli. Le nuove tecnologie e i nuovi media hanno accelerato questo processo, tuttavia in atto da diversi decenni. 9. Spostamento del potere a Est Mix di processi di globalizzazione, e di processi demografici, che hanno determinato uno scivolamento progressivo e continuo del baricentro economico e politico da ovest (Stati Uniti, Canada, Europa) a est (Russia, Cina, India, Giappone, Corea). Ultimamente si assiste a un ulteriore spostamento da nord a sud, con l’aumento dell’influenza economica e politica di Brasile, Sud Africa, Australia. Essere nuovi Be new 31 10. Sostenibilità Al contempo: un’idea, uno stile di vita, un modo di produrre. Anche se la definizione di sviluppo sostenibile non è univoca, in generale indica la capacità di un ecosistema di mantenere processi ecologici, biodiversità e produttività nel futuro. Perché un processo sia sostenibile esso deve utilizzare le risorse naturali a un ritmo tale che esse possano essere rigenerate naturalmente. Naturalmente tutte queste macrotendenze non sono autonome l’una dall’altra, ma sono interconnesse e determinano sinergie a più livelli, che nel nostro studio si concretizzano nei punti in cui sulla mappa si incrociano i vari percorsi. I 5 percorsi del futuro Se le macrotendenze ci offrono una visione chiara di quali sono le forze che determinano i vari processi di cambiamento, è l’insieme delle tendenze in atto e delle previsioni possibili, che può offrirci una visione abbastanza chiara, anche se talvolta contraddittoria, degli scenari che si prospettano nei 5 settori su cui si è concentrata l’analisi. Pur senza analizzare punto per punto i singoli settori e le dinamiche in atto e possibili così come emergono dai segnali attuali, vediamo nel dettaglio che cosa emerge in ciascuno dei 5 settori. 1. Nel lavoro, inteso come campo ampio delle dinamiche produttive e dei rapporti fra i soggetti partecipi ai processi, peseranno sempre più la capacità di collaborazione, il lavoro a distanza, le competenze cross culturali e cambieranno le dinamiche e i modelli organizzativi delle imprese. Inoltre, l’invecchiamento dell’occidente sposterà il baricentro economico a est con possibile rischio di conflitti generazionali a ovest. 2. Nell’industria e nei mercati convivranno processi di globalizzazione, collaborazione sud-sud e sviluppo di micro economie locali; prenderanno corpo nuove modalità di accesso al credito con un peso crescente della finanza islamica; si affermeranno modelli di welfare aziendale e aumenterà il peso e il valore delle tecnologie green anche in ambito artigianale. Ma aumenteranno anche il debito e lo spostamento del baricentro economico a est. 3. Nel campo del sapere e delle conoscenze le nuove tecnologie assumeranno un peso sempre più rilevante e si svilupperanno mo- 32 Daniele Pitteri delli open collaborative e di reti connettive. Sul versante formativo, cambieranno le dinamiche di trasmissione del sapere con una perdita di mediazione pressoché totale degli istituti formativi tradizionali e, allo stesso tempo, si assisterà all’affermazione di modelli di post-umanesimo. La grande incognita è costituita dal rischio di usi impropri dei Big Data con conseguenze sulla privacy e sulla sicurezza. 4. Le città e i territori si svilupperanno secondo modelli diversi ma convergenti: megalopoli e smart city saranno entrambe strutturate su reti energetiche intelligenti e su processi di sviluppo green. Sul versante della governance e della produzione si prevedono l’affermarsi di modelli partecipativi, la crescita degli spazi urbani condivisi, un aumento sostenuto delle produzioni a km zero e il ricorso diffuso alla pratica del riuso. D’altra parte il forte cambiamento del tessuto sociale (aumento della popolazione anziana, delle famiglie mononucleari e dei turisti/residenti temporanei) ingloba il duplice rischio di crescita del debito delle città e delle diseguaglianze. 5. Nel campo della scienza e della ricerca emergono alcuni temi caldi: la salute, la cura delle patologie; le modalità di produzione di nuova energia, di trasmissione e di stoccaggio della stessa; la produzione di nuovi cibi e alimenti sufficienti al fabbisogno crescente. Al contempo cresce l’ansietà per alcune direzioni intraprese dalla ricerca, in particolare per gli studi sul DNA e sul genoma e sul legame sempre più stretto con l’industria e con le multinazionali. Da questa veloce ricognizione emerge con chiarezza non solo l’influenza delle 10 macrotendenze su ciascuno dei settori, ma anche e soprattutto le interconnessioni che esistono fra di essi. La città, ad esempio si configura come il vero nucleo di costruzione del futuro entro il quale dovranno svilupparsi tutti i principali processi di trasformazione e si concretizzeranno alcune dinamiche operative portanti, come ad esempio la costruzione dei network collaborativi fra individui e organizzazioni o di reti tecnologiche. D’altra parte, risulta chiaro che alcune di quelle che oggi sono considerate delle previsioni con altissima probabilità potrebbero attuarsi in tempi più rapidi di quanto previsto, ma potrebbero anche non concretizzarsi Essere nuovi Be new 33 del tutto se dovesse modificarsi in maniera sostanziale l’equilibrio fra le varie macrotendenze attuali e alcune, in particolare quelle a più alto potenziale di effetto negativo, dovessero aumentare la propria forza e intensità. Daniele Pitteri Docente di Sociologia dei processi sostenibili allo IULM di Milano, si occupa di comunicazione, consumi, industrie e processi culturali. Consulente di enti e aziende pubbliche e private, ideatore e curatore di eventi culturali, è autore di numerose pubblicazioni, fra cui: La pubblicità in Italia (Laterza, 2002); L’intensità e la distrazione (Franco Angeli, 2006); Democrazia elettronica (Laterza, 2007); AdverMarketing (Carocci, 2010). 34 CONSIDERAZIONI SUL FUTURO PROSSIMO DELL’ITALIA Sergio Arzeni Il Future Forum è un’iniziativa originale e importante perché vuole porre i problemi di oggi in una prospettiva, in un orizzonte, che non è secolare, ma è quello del mondo che ragionevolmente vedremo nei prossimi 15-20 anni, e soprattutto non è quello del dibattito politico quotidiano, che vive solo di emergenze, per tappare la falla del giorno in una barca che prende acqua da tutte le parti, una barca che affonda e ha perso la rotta, il cui solo obiettivo è tirare avanti un altro giorno, un’altra settimana. Cominciamo con l’Europa, nel cui quadro politico, istituzionale ed economico ci troviamo, che è in panne perché, mentre negli ultimi 15-20 anni 800 milioni di persone del mondo ex-comunista e del terzo mondo sono uscite dalla povertà, da noi la crescita è stata lenta, ridotta e quel poco di crescita che abbiamo avuto ha aumentato le disuguaglianze fra i Paesi, fra i territori, fra le classi sociali e le persone. Intanto non si può più parlare di Europa come fosse un soggetto unico e omogeneo quando si parla per esempio della disoccupazione, quando si affronta il tema del lavoro che è il fattore principale di inclusione sociale. Perché c’è un’Europa che soffre della disoccupazione e soprattutto dove la disoccupazione giovanile è due, tre, volte superiore alla disoccupazione degli adulti (Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia) e c’è un’Europa in cui la disoccupazione è bassa e soprattutto dove non c’è lo scandalo della disoccupazione giovanile, dove la disoccupazione giovanile è pari o inferiore a quella degli adulti, e quell’Europa comincia alle porte del Friuli, dall’Austria fino alla Danimarca, passando per Svizzera, Germania, Olanda fino alla regione del Nord Baltico. Purtroppo quell’Europa a due velocità preconizzata circa quarant’anni fa dall’allora Primo Ministro belga Leo Tindemans e che tanti soprattutto in Italia rifiutarono, non solo si è affermata, ma si è addirittura consolidata negli ultimi anni di crisi mettendo in discussione Essere nuovi Be new 35 anche la tenuta dell’Euro, la più grande realizzazione dell’Europa degli ultimi venti anni. Ma soprattutto è entrato in panne il motore dell’Europa, l’asse franco-tedesco. Da dieci anni a questa parte Parigi e Berlino, invece di convergere, divergono, e ricordiamo che tutta l’idea della costruzione economica dell’Europa è basata sul principio di convergenza. La Francia da dieci anni non fa che accumulare deficit crescenti della bilancia commerciale, mentre la Germania non fa che accumulare enormi surplus. Soltanto fra il 2009 e il 2013, in quattro anni, la Francia ha avuto mediamente un deficit commerciale di 70 miliardi l’anno, la Germania invece un surplus di 180 miliardi. Un gap di 250 miliardi l’anno, 1.000 miliardi di euro in quattro anni. E questo trend non accenna a diminuire. Domandiamoci: può continuare questo trend per i prossimi 15-20 anni? Andando avanti cosi, sul piano inclinato della divergenza, finisce l’Europa. Fra 15-20 anni non ci sarà più. Per questo sono importanti delle riforme strutturali per rimettere l’Europa in piedi, perché l’Europa e l’Euro facciano ancora parte del nostro futuro. Per questo sono così importanti le prossime elezioni europee, che per la prima volta nella storia consentiranno di eleggere il presidente del governo d’Europa direttamente dal Parlamento europeo e non più con accordi fra governi che hanno puntato, da venti anni a questa parte, a eleggere delle personalità poco incisive alla testa della Commissione europea. Oggi il leader europeo riconosciuto dal mondo è il Cancelliere tedesco Angela Merkel: se fosse eletta lei prossimo presidente della Commissione, se decidesse di lasciare Berlino per Bruxelles, non v’è dubbio che questo darebbe un colpo d’ala all’Europa, farebbe coincidere leadership formale con leadership reale. Perché l’Europa ha la necessità di essere più politica e meno teocratica per sopravvivere e per rappresentare il nuovo e la speranza degli Europei di fronte alle sfide nazionaliste, razziste e anti europee che stanno emergendo: vedi i sondaggi che danno Marine Le Pen e il Front National 1° partito di Francia. E perché l’Europa come l’Italia ha bisogno di riforme strutturali per diventare competitiva, o tornare competitiva, sui mercati mondiali. La rivoluzione tecnologica del gas e del petrolio da scisti interrompe un trend che è andato aggravandosi negli ultimi 20 anni e che finirà fra un paio d’anni, quando gli Stati Uniti da importatore netto di petrolio diventerà esportatore. In questo modo, grazie alla innovazione 36 Sergio Arzeni tecnologica, Obama avrà mantenuto la sua promessa elettorale, che era quella di rompere quel ciclo vizioso per cui ogni anno gli USA prendevano a prestito 700 miliardi di dollari della Cina per darli all’Arabia Saudita. Il costo dell’energia negli USA è già del 30% più basso che in Europa e questo porrà un grosso problema di competitività al vecchio continente. Ma nell’economia della conoscenza il fattore primo della competitività delle imprese è dato dal capitale umano, dalle competenze, dalle intelligenze, dai talenti, dai saperi, e dalla velocità di reazione alle nuove sfide. Ora sul piano delle competenze e della velocità di reazione l’Europa e l’Italia fanno acqua da tutte le parti. Non possono competere sul piano dell’innovazione con una gestione della ricerca lenta e burocratica. Il risultato è che oggi ci sono più società High-Tech israeliane nella borsa tecnologica di New York che in tutta Europa, più imprese da un Paese di 7 milioni di abitanti che da un continente di 500 milioni. E tutto questo è avvenuto negli ultimi 20 anni! Nel 2013 l’OCSE ha pubblicato il rapporto PIAAC (Programme per the International Assessment of Adust Competencies). Risultato: su 24 Paesi gli italiani sono gli ultimi nella graduatoria delle competenze alfabetiche (literacy) e penultimi nelle competenze matematiche (numeracy), fondamentali per la crescita individuale, la partecipazione economica e l’inclusione. Le statistiche e i dati ricavati dalle molte ricerche sul saper «leggere, scrivere e fare di conto» analizzano il livello delle competenze fondamentali della popolazione adulta fra i 15 e i 65 anni. Un adulto su cinque in Italia e in Spagna legge peggio di un bambino di 10 anni, mentre solo uno su tre sa far di conto in modo decente. Negli ultimi decenni l’attenzione è stata concentrata sull’istruzione di massa, molto meno, invece, sulla qualità dell’istruzione. La diffusione dei MOOCs (Massive Open Online Courses), ovvero di massicci corsi on line a livello universitario, sta trasformando le dimensioni e la geografia dell’istruzione universitaria su scala planetaria. In molti Paesi europei la funzione principale dell’università è quella di fungere da ascensore sociale, anche se da tempo apre solo le porte alla disoccupazione diplomata. Sul fronte dell’istruzione occorre intervenire, certo, ma è urgente rendere funzionante soprattutto la formazione professionale. È un fallimento della politica il fatto che tante persone non trovino un lavoro e che tanti imprenditori non trovino le Essere nuovi Be new 37 competenze di cui hanno bisogno. Occorre una vera rivoluzione nel campo delle competenze, a cominciare dall’uso inefficiente del Fondo Sociale Europeo. L’apprendistato e la formazione in azienda hanno dimostrato di aprire le porte dell’occupazione, della produttività e della competitività. L’Italia negli ultimi 15-20 anni ha sprecato le risorse e le opportunità offerte dall’Europa. Soprattutto ha dato di più di quello che ha ricevuto e tutto questo, come dichiarato da autorevoli ministri italiani, per incapacità. È per incapacità che si sono persi soldi del Fondo di sviluppo regionale al ritmo di 800 milioni l’anno e i soldi del Programma Quadro per la ricerca al ritmo di 500 milioni l’anno. L’Italia potrà ancora continuare a sprecare risorse al ritmo di migliaia di miliardi l’anno per i prossimi 15-20 anni? A quel punto non ci saranno più né l’Europa, né l’Italia. I tre quarti dell’occupazione in Europa è nelle PMI, in Italia l’80%. Però la politica europea e quella italiana sono tutte focalizzate sulle grandi imprese. Al Summit G20 di San Pietroburgo, l’OCSE ha presentato un rapporto (BEPS: Base Erosion and Profit Shifting) che documenta come in media le grandi imprese paghino il 5% di tasse, mentre le PMI pagano il 30%, 6 volte di più. Di fatto le PMI, spina dorsale dell’economia, sono svantaggiate nei confronti del fisco, del credito, delle commesse pubbliche, nei pagamenti sempre tardivi, nel finanziamento della ricerca e dell’innovazione come pure nel sostegno all’export. La politica industriale o dell’impresa finisce sempre con l’essere la politica della grande impresa. Questo è particolarmente grave per l’Italia dove le PMI fanno quasi il 60% dell’export italiano, una proporzione maggiore che in Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti. Italia dove quasi il 30% dell’export è fatto dalle imprese medie, che rappresentano solo 0.5% del totale delle imprese. Un rapporto sulle PMI in Italia, che discuteremo la prossima settimana a Parigi, indica come l’impresa manifatturiera media italiana fra i 50 e i 250 addetti sia più produttiva di analoghe imprese francesi, inglesi e anche tedesche. Sono queste imprese che ci tengono a galla, che ci consentono ancora di avere un surplus della bilancia commerciale. Il rapporto fa anche l’elogio dei Confidi guidati da Da Pozzo e del Fondo Centrale di garanzia che in anni di crisi hanno tenuto aperte le linee di credito di tante piccole imprese che altrimenti non 38 Sergio Arzeni sarebbero sopravvissute. Giavazzi e Alesina sul «Corriere della Sera» si domandavano giustamente: «come può nascere una classe di veri imprenditori se ogni volta che si dimostrano incapaci lo Stato li salva, o meglio, li salva se sono grandi, li lascia fallire, magari non pagando i propri debiti, se sono piccoli?». Ma vediamo anche che l’Italia è fanalino di coda nell’attrarre gli investimenti esteri, nel trattenere e attrarre talenti. Vediamo che il malfunzionamento della giustizia civile costa agli italiani, secondo la Banca d’Italia, l’1% del PIL, rallentando così la crescita del sistema imprenditoriale e ostacolando l’attrazione degli investimenti. Nella logistica e nel trasporto su rotaia il forte ritardo danneggia la competitività del Paese. Le autorità locali, a cominciare dalle Regioni, hanno un ruolo fondamentale da giocare per invertire la rotta: riformando il sistema sanitario che assorbe la grande parte del proprio budget, ripensando il modo di funzionare della formazione professionale, favorendo l’innovazione, lo sviluppo delle competenze delle PMI attraverso reti di imprese e l’associazionismo – come quello delle Camere di Commercio –, favorendo la trasmissione d’impresa e la creazione di una nuova generazione di imprenditori. Solo così, partendo dal basso, dai territori, si può costruire un futuro che ridia speranza ai giovani, all’Italia e all’Europa. Ecco le nuove sfide per le PMI friulane Intervista di Giada Marangone a Sergio Arzeni Qual è lo stato dell’arte ora per quanto riguarda le PMI e le micro imprese nei Paesi dell’UE e, in particolar modo, in Italia? Le politiche pubbliche rivolte alle PMI sono state, a mio avviso, sempre residuali non solo in Italia, ma in tutti i Paesi. La politica sembra interessarsi quasi esclusivamente in campagna elettorale del tessuto imprenditoriale delle micro e delle piccole e medie imprese, privilegiando poi politiche mirate a sostenere solo quelle grandi. Le micro e le piccole e medie imprese sono oggi soffocate dal peso della burocrazia, dagli adempimenti amministrativi, dal costo del lavoro e dell’energia, dalla difficoltà di accesso al credito, dal ritardo dei pagamenti (specie dalle PA) e dalla mancanza di una flessibilità reale. Essere nuovi Be new 39 Cosa significa per lei ‘innovazione’? Per me innovazione non significa solo tecnologia. L’innovazione riguarda anche i servizi. Si innova nel sociale, nel commercio e in tutte le attività economiche. Anche un ospedale o un’università possono essere gestiti in maniera innovativa o meramente burocratica. La tecnologia è uno degli strumenti a disposizione, ma bisogna anche saperla usare. Le imprese devono, perciò, essere capaci di assorbire la tecnologia in modo veloce, per essere competitive e restare sul mercato. Diviene primario, inoltre, che le nostre imprese siano in grado rapidamente di acquisire conoscenza (che diviene subito obsoleta) ed essere dinamiche e flessibili per cogliere le trasformazioni. Quale potrebbe essere la chiave di volta per le nostre imprese? Ce ne sono molte. Innanzitutto è necessaria una riforma, a più livelli, della scuola. La formazione, specie quella professionale, dovrebbe essere fatta soprattutto in azienda più che negli istituti professionali. A mio avviso, ora non esiste più il tempo dello studio e il tempo del lavoro. Devono necessariamente viaggiare sullo stesso binario. È indispensabile pertanto costruire e creare dei meccanismi tali per cui i percorsi professionali o le necessità di formazione delle imprese siano costruite ‘a misura d’azienda’. Formare i giovani all’etica del lavoro è di importanza cruciale. Bisogna inoltre creare sinergie tra il mondo delle imprese e quello della ricerca. In quest’ottica un ruolo fondamentale lo hanno le Camere di Commercio e le Associazioni imprenditoriali e il rapporto che riescono a instaurare con le università e/o gli istituti professionali e le imprese. È essenziale, inoltre, attuare politiche economiche mirate all’abbattimento del costo del lavoro. Negli ultimi 10 anni sono stati spesi 80 miliardi di euro per la cassa integrazione. Le nuove sfide saranno il cambiamento di rotta e l’inversione di tendenza tra quelle che sono le politiche passive e quelle attive del lavoro. Bisognerà attrarre capitale e investitori stranieri in Italia e attuare politiche di incentivi volte allo sviluppo di quello che è il tessuto economico locale. Quali sono le potenzialità del Friuli Venezia Giulia? In Friuli Venezia Giulia esistono ‘perle’ come la Danieli, uno dei leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici, che ha investito 40 Sergio Arzeni in modo trasversale in innovazione, internazionalizzazione, formazione, ricerca e sviluppo. Ci sono numerose altre eccellenze e realtà interessanti. È pertanto necessario che ci sia la volontà di tutti gli attori coinvolti ad attuare politiche mirate allo sviluppo e alla competitività di questo territorio. Sergio Arzeni Direttore del Dipartimento per l’imprenditorialità, le PMI e lo sviluppo locale dell’OCSE. È esperto in materia di imprenditorialità e innovazione, creazione di nuovi posti di lavoro, sviluppo locale, finanziamento e internazionalizzazione delle PMI. Economista, da vent’anni all’OCSE, ha condotto e diretto numerosi studi nelle aree di sua competenza. Ha svolto incarichi per la Commissione europea, il Parlamento italiano e le organizzazioni sindacali italiane. Tiene corsi e seminari di Economia internazionale e di Imprenditorialità e innovazione in università italiane e straniere. Autore di saggi, collabora con numerose e autorevoli testate. Essere nuovi Be new 41 GLI SCENARI CHE SI PREPARANO PER IL 2030 Claus Kjeldsen 2030 - Corpo e salute. Da umano a sovrumano Nel 2004 è stata pubblicata una sequenza quasi completa di DNA del genoma umano. Oggi è quindi possibile mappare la struttura biologica di ciascuno e comprendere le variazioni genetiche tra individui. «Soffrirò anche io di tumore al seno come mia madre o di cataratta come mio padre?»: da quel punto in poi è stato tecnicamente possibile rispondere a tali domande. Nel 2030 gli scienziati avranno lavorato oltre 30 anni per comprendere il genoma umano e adattare le terapie ai singoli, sostiene il futurista del Copenhagen Institute for Futures Studies (CIFS), Rolf Ask Clausen. «La promessa consiste nella possibilità di curare anche le malattie più gravi», prevede. L’ipotesi si basa sul fatto che il costo della mappatura completa del genoma di un individuo avrà un costo così basso nel 2030 che non sarà più solo appannaggio di pochi. Da qui la possibilità di una democratizzazione di massa delle informazioni relative a genetica e salute personali. Di conseguenza, si attuerà appieno la tendenza all’‘auto-monitoraggio’ con cui si può, ad esempio, monitorare modelli di sonno, esercizio, sesso, produttività o zuccheri nel sangue. Søren Riis, professore associato con un dottorato in filosofia, ritiene che in futuro utilizzeremo l’auto-monitoraggio in misura tale da «registrare ogni cosa che vediamo e sentiamo, e condurre quindi una specie di doppia vita che potremo poi percorrere avanti e indietro». Entro il 2030 anche le terapie compiranno enormi progressi. Inoltre, potremo vivere più a lungo e, in futuro, diventare una sorta di superuomini. Molti ricercatori sostengono che ci stiamo muovendo verso un’era trans-umana e post-umana. Secondo il futurista statunitense Ray Kurzweil, con i progressi tecnologici di oggi, nel giro di alcuni decenni saremo in grado di svilup- 42 Claus Kjeldsen pare un’intelligenza artificiale che sia complessa come quella umana e superi ogni nostra competenza. Uomo e macchina si fonderanno, e la conoscenza contenuta nel nostro cervello si espanderà grazie a maggiore velocità e memoria delle macchine. Questo inaugurerà una nuova era: la Singolarità. Se raggiungeremo o meno tale traguardo entro il 2030, il corpo umano sarà comunque ottimizzato. Perfino oggi si possono produrre protesi umane che sembrano macchine. Un esempio è quello della sedicenne inglese Chloe Holmes che a 3 anni perse le dita di entrambe le mani: recentemente le è stato dato un guanto con dita robotiche dotato di sensori che leggono gli impulsi nervosi del braccio, consentendole di muovere le dita semplicemente con il pensiero. Questa fusione di tecnologia robotica e anatomia umana si definisce bionica. Chloe è solo un esempio di persona disabile che grazie alla tecnologia moderna può condurre una vita normale, e gli esempi saranno molto più numerosi e avanzati fino al 2030. Le protesi intelligenti collegate al nostro sistema nervoso saranno allora perfezionate e non è irragionevole pensare che i non vedenti possano in futuro avere una visione artificiale accettabile. «Il costo delle protesi bioniche è ancora molto alto, ma in base alla tendenza dei prezzi di altri dispositivi elettronici, questo potrebbe presto scendere. Se il costo di una classica protesi scende fino a un quinto nel giro di dieci anni, come ad esempio per i computer portatili, nel giro di 20 anni il costo scenderà del solo 4%», dichiara Klaus Æ. Mogensen del CIFS. Anche il campo della parafarmaceutica compirà enormi passi avanti per il 2030, grazie pure a una base di bio e nanotecnologie. La scrittrice e filosofa Lene Andersen ha formulato una serie di previsioni concrete: «Con le nanotecnologie sarà possibile costruire robot di dimensioni molecolari. Questi nanobot potranno essere programmati per trovare particolari tipi di cellule all’interno del nostro organismo e somministrare farmaci solo ed esclusivamente a quelle cellule», prevede. La biotecnologia, in particolare, può essere utilizzata per produrre medicine personalizzate e costruire nuovi organi sulla base del DNA individuale. «Questo renderà i farmaci molto più efficaci e non si utilizzeranno più gli organi di donatori. Le analisi genetiche sono largamente utilizzate Essere nuovi Be new 43 anche per scartare feti che presentano un elevato rischio di malattie, deficit intellettivi o disturbi mentali», spiega. Questo promuove anche la possibilità di futuri superuomini. Secondo Klaus Æ. Mogensen ciò significherà se non altro un futuro senza persone disabili: «In futuro sarà possibile curare i disturbi genetici prima della nascita mediante una terapia genetica in utero in cui si effettuano modifiche del patrimonio genetico all’interno dell’utero. Questo escluderà la difficile scelta tra abortire e dare vita a un figlio disabile. Da qui il passo è breve per genitori che vogliano aggiungere determinati geni». 2030 - Famiglia e svago. Flessibilità, flusso e incredibili possibilità di svago La famiglia nucleare come la conosciamo oggi non è più incontestata. La libertà degli stili di vita dei single e le strutture di famiglie alternative quali i LAT, Living Apart Together (Vivere insieme separatamente), in cui non si divide l’abitazione con il proprio partner e, quindi, non necessariamente tutto il tempo con i figli, ben si adattano allo stile di vita urbano individualistico e alla transitorietà e flessibilità delle città nel 2030. Anne Skare Nielsen, futurista e direttore di Future Navigator, individua tre nuove forti tendenze relative alla vita familiare futura: «Primo: la famiglia diventerà più importante della carriera; secondo: gli amici diventano la famiglia; terzo: cercheremo l’appartenenza alle comunità locali». Nelle aree rurali (ormai molto ridotte) di tutto il mondo, e non da meno nelle regioni più povere, è vero il contrario: qui la famiglia nucleare continua a essere la famiglia più importante, semplicemente perché non è stata depauperata delle sue funzioni, come invece avviene nelle zone del mondo più benestanti. Assisteremo, quindi, a una polarizzazione in cui i valori della famiglia tradizionale e i ruoli di genere prosperano laddove continua a sussistere una ragione (tipicamente economica), mentre pari opportunità e valori di famiglie più moderne prevarranno altrove. Questa è la tendenza principale, ma come sottolinea Thomas Geuken, psicologo e futurista del CIFS, molti si aggrapperanno ancora al modello tradizionale: «Non tutti si sentono a proprio agio nei confronti 44 Claus Kjeldsen della liberazione sessuale globale, e una porzione crescente sta tornando agli stereotipi dei ruoli di genere e della struttura familiare, per dare stabilità e maggior semplicità a un’altrimenti caotica vita globalizzata». Le comunità di scelta prospereranno laddove i cittadini potranno permetterselo e avere un surplus che consenta loro di vivere a quel modo, e nel 2030 i confini tra famiglia, lavoro e svago saranno molto più fluidi per questa classe globale medio-alta. Flessibilità e reti sono parole chiave importanti. «L’automazione ci offre molte più libertà e possibilità di spendere i soldi che guadagniamo. Poiché si lavora molto di più con oggetti immateriali quali intrattenimento ed esperienze, lavoro e svago si mescoleranno in vari modi. I nostri hobby diventeranno lavori secondari da cui potremo trarre guadagno», sostiene il futurista Klaus Æ. Mogensen del CIFS, in riferimento alla experience economy, economia orientata all’esperienza, che si affermerà definitivamente entro il 2030. L’experience economy si basa sulle esperienze nelle attività economiche e sul posto di lavoro, ma soprattutto sullo svago, in cui esistono infinite e inimmaginabili possibilità. Con la supernet, super-rete, tutti i dispositivi elettronici saranno connessi, e ciò vale anche per la gran parte di manufatti. L’idea di un internet delle cose diverrà quindi realtà e, nel 2030, diversi formati elettronici, altrimenti distinti, convergeranno in concetti di intrattenimento transmediali. Nel 2030 il gioco avrà raggiunto un livello in cui sarà difficile distinguere tra il mondo reale e quello virtuale. Assisteremo al neurogaming in cui gli input psico-emotivi si integreranno all’interazione delle macchine. Si potranno misurare battito cardiaco, voce, movimenti del volto, dilatazione delle pupille, attività cerebrale e umore, e quindi l’individuo stesso a un livello di intimità senza precedenti. Le consolle di gioco acquisiranno forme nuove, più piccole e mobili, e nel 2030 sarà possibile camminare con una consolle o un computer sulla testa, a casa, al lavoro e a scuola. Tuttavia, forse non lo considereremo divertimento e gioco. Come ha dichiarato il game designer Noah Feldstein alla rivista «Forbes», in futuro i giochi potranno renderci migliori come esseri umani in ogni campo: «Gli operatori sanitari col- Essere nuovi Be new 45 laborano in maniera sempre più stretta con i game designer per creare neurogame, neurogiochi, per curare DPTS, ADHA e altri disturbi comportamentali ed emotivi. Già oggi alcune aziende che producono interfacce controllate dal cervello, come la InterAxon, offrono applicazioni di assistenza alla meditazione. Numerosi esperti parlavano di un giorno in cui sarebbero stati prescritti giochi al posto dei farmaci di oggi per disturbi quali depressione e ansia». David Bue Pedersen, PhD e postdottorato al Politecnico della Danimarca (DTU), individua un altro ambito in cui le opportunità virtuali si fondono con il mondo reale nei cosiddetti hacker space, dove si incontrano persone con interessi comuni in campo elettronico e tecnologico. Perfino oggi questi forum sviluppano qualsiasi cosa: da droni, telefoni cellulari e stampanti 3D, fino a interfacce per utenti di pc. «Se si può realizzare a livello industriale, viene creato anche negli hacker space», dichiara, e prevede che per il 2030 assisteremo all’impiego dell’alta tecnologia a livello di hobby in una misura che non possiamo neppure immaginare: «I sistemi hardware liberi hanno democratizzato i droni. Le stampanti 3D da casa stanno democratizzando la produzione. Le prossime a essere democratizzate saranno le biotecnologie. Allora saremo in grado di condurre la nostra ricerca genetica nella cucina di casa. Questo sta già succedendo», aggiunge. Ciononostante, non tutto sarà prodotto dalla tecnologia per il 2030, anche se molto verrà promosso e migliorato dalla tecnologia. Avremo ancora bisogno dei rapporti sociali, di sport ed esercizio, e le città saranno sempre più organizzate per consentire ciò. 2030 - Cibo, energie e acqua. OGM, insetti, carne artificiale e polarizzazione Il mondo dovrà poter produrre nei prossimi 40 anni frumento e granturco per una quantità pari a quella prodotta nei precedenti 500 anni. Questa sfida all’approvvigionamento di cibo, insieme a questioni relative a energie e risorse idriche, si considera la sfida principale per il mondo verso il 2030. Le ragioni sono incremento demografico, urbanizzazione, aumento della ricchezza e industrializzazione. Perciò, nei prossimi 20 anni si registrerà una forte crescita nella domanda di materie prime e soluzioni efficienti per garantire la produzione di cibo. 46 Claus Kjeldsen «La nostra sfida sarà trovare il modo di nutrire la popolazione mondiale», dice il futurista Martin Kruse (CIFS). Anche l’acqua dolce rappresenta una delle aree critiche principali per il 2030. Analisi condotte da diverse fonti indicano che rischiamo di attraversare una crisi idrica, o almeno una situazione con serie carenze idriche in futuro. Oltre alla carenza di acqua potabile, si corre il rischio di innalzare la pressione dei prezzi su cibo, energia, metalli e minerali, i quali richiedono molta acqua per crescere o essere estratti. A sua volta questo può limitare la crescita globale, dal momento che soprattutto i Paesi in via di sviluppo dipendono da un accesso relativamente economico alle materie prime, e in alcuni Paesi e regioni si potrebbe arrivare a disordini. «D’altro canto, abbiamo dinanzi a noi straordinarie opportunità tecnologiche», dice Martin Kruse, che sottolinea la necessità di una spinta simile a quella degli anni ’50 e ’60 promossa dalla ricerca del professor Norman Borlaug, il quale generò colture che potevano crescere più vicine tra loro ed essere raccolte con maggior frequenza, con un’importanza enorme per i Paesi in cui fame e carestia costituiscono una seria minaccia. Borlaug ricevette il Premio Nobel per la Pace nel 1970 e si stima che la sua ricerca abbia consentito la sopravvivenza di oltre un miliardo di persone. Kruse prevede che uno dei prossimi progressi sarà legato ai tanto discussi organismi geneticamente modificati (OGM), che saranno più diffusi nel 2030: «Gli OGM saranno probabilmente uno dei metodi più semplici per prevenire disordini e al tempo stesso evitare che si muoia di fame». Diverse colture geneticamente modificate sono state sviluppate per essere resistenti a insetti nocivi e pesticidi, incrementando molto produttività e sicurezza dei raccolti. Tuttavia, gli OMG sono molto contrastati in diversi Paesi, soprattutto per la ricerca secondo cui gli alimenti geneticamente modificati possono essere dannosi per gli esseri umani e per le piante stesse. Oltre agli OGM, il 2030 vedrà una polarizzazione tra discount e lusso. Per garantire la sicurezza alimentare assisteremo a una transizione da metodi agricoli a metodi industriali, ad esempio nella produzione di carne, mentre d’altro lato si registrerà una crescita di prodotti biologici e locali di alta qualità e con una storia (esempi di oggi includono champagne e prosciutto Patanegra). Essere nuovi Be new 47 I locavori (chi si nutre di cibi locali prodotti a pochi chilometri di distanza) aumenteranno, mentre mangeremo anche più cibi economici d’importazione. Questa tendenza si registra già oggi, ma nel 2030 raggiungerà livelli estremi. Secondo Martin Kruse, assisteremo anche a un boom di alimenti funzionali promossi dal progresso tecnologico. Brain food, beauty food and mood food, ovvero cibo per il cervello, cibo per la bellezza e cibo per l’umore, alimenti geneticamente modificati o contenenti additivi artificiali con effetti positivi su conoscenza, aspetto e umore, saranno più diffusi. E poi il grande classico sul cibo del futuro: l’idea che mangeremo più insetti. E questi contengono acqua, dice Kruse: «È semplicemente più ecologico mangiare grilli e vermi anziché manzo, e in tutto il mondo si usano già oltre 1.400 specie di insetti come alimento. Perché in Occidente non dovremmo aprirci a questo?», aggiunge, e sottolinea che il ristorante più famoso al mondo, il ‘Noma’ di Copenhagen, già oggi serve formiche. Kruse indica anche la carne in vitro come possibile alternativa all’attuale produzione di cibo: «In parole povere, si tratta di carne cresciuta in una capsula di Petri, ovvero cellule animali coltivate al di fuori di un organismo vivente, e perfino oggi potremmo già produrre una bistecca grande quanto un’unghia. Nel 2030 la tecnologia avrà fatto progressi tali per cui potremo comprare il primo hamburger che non abbia mai neanche visto una mucca». Infine, la futurista indipendente Birthe Linddal prevede che nel 2030 il settore alimentare sarà influenzato anche dall’automisurazione: «Nel 2030 conosceremo molto meglio gli effetti del cibo che mangiamo sul nostro organismo e la nostra salute. Allora, quindi, mangeremo cibo più orientato alle esigenze personali, e molti monitoreranno l’apporto calorico giornaliero». Prevede inoltre che la vendita al dettaglio sarà molto diversa da oggi. «Oltre la metà dello shopping verrà fatto su internet, pertanto con una struttura di acquisto molto diversa da quella di oggi. Molti negozi tradizionali scompariranno, soprattutto nelle aree rurali». D’altro canto, secondo lei, si registrerà una crescita di negozi specializzati nelle aree più densamente popolate: un’evoluzione che concorda con la polarizzazione paventata da Martin Kruse. 48 Claus Kjeldsen 2030 - Produzione e consumo. Supernet, stampa 3D e prosumer Numerosi ricercatori e scrittori indicano in modo unanime come produzione e consumi nel 2030 saranno anzitutto caratterizzati da una rete onnipresente e onnicomprensiva, una specie di super-internet. «Oggi i nostri consumi digitali sono limitati dalla nostra possibilità di accesso a internet, dalla larghezza di banda, dal nostro potere, dalla potenzialità dei nostri dispositivi digitali di comunicare e trasmettere dati. Nel 2030 compatibilità e infrastrutture, inclusi accesso e potere di internet, non saranno più qualcosa di cui preoccuparsi, saranno invece ubiqui, integrati e liberi ovunque andremo. Le unità si ricaricheranno da sole o senza filo, senza doverci pensare noi. L’accesso a internet sarà naturale come l’elettricità, anche all’estero, e cosa ancora più importante: sarà senza limiti», sostiene Natasha Friis Saxberg, esperto digitale e autore del libro Det digitale menneske (L’umano digitale, 2013). Anders Sandberg, PhD all’Università di Oxford, concorda: «Nel 2030 utilizzeremo appieno internet, i social media e numerose altre forme di media che non sono ancora state inventate. Saranno presenti ovunque, letteralmente in ogni oggetto smart, per documentare e argomentare la nostra vita quotidiana. Fino ad allora avremo di certo attraversato diverse mode, cicli di hype ed eccessi, e avremo finalmente imparato a creare interfacce utenti discrete ed efficaci – forse ultra personalizzate per ciascun utente, o forse solo generiche, ma così efficaci che tutti le vorranno». Il supernet globale implicherà una continuazione e un miglioramento della produzione e dello sviluppo orientati alla rete, cui già oggi assistiamo. Le parole chiave sono decentramento, peer-to-peer, lavoro collaborativo e conferimento di potere ai cittadini, che in parte contribuiranno essi stessi alla creazione dei prodotti di consumo. «Componenti elettronici e software a basso costo o gratuiti con enormi capacità e flessibilità, insieme a un accesso facile e libero alla rete globale, consentono al singolo un facile accesso a tutta la conoscenza, il sapere e la cultura del mondo nonché a mezzi di comunicazione, produzione e distribuzione globali che erano finora ad appannaggio di una ristretta élite economica globale. Ciò costituirà una spinta in particolare per le popolazioni più povere», sostiene Klaus Æ. Mogensen, CIFS. Egli fa notare come la rete sia in grado di rendere il Essere nuovi Be new 49 mercato più trasparente ed efficace, dal momento che non sono più molti gli intermediari che hanno bisogno della propria percentuale di valore e lavoro. Nel 2030 le stampanti 3D saranno molto più diffuse di oggi e saranno realmente un fattore decisivo nella produzione di oggetti materiali. «Nel 2030 saremo in grado di produrre molti oggetti a casa nostra e stampare il bene o l’oggetto che vogliamo», dice Natasha Friis Saxberg: «Si possono stampare organi, così come un paio di Manolo Blahnik e la vostra nuova bici. È la nostra immaginazione a porre dei limiti, e come consumatori potrete mettere il vostro marchio su quello che consumate adattandolo al 100% alle vostre esigenze e alla vostra configurazione fisica», aggiunge. Nel 2030 le stampanti 3D saranno nella maggior parte se non in tutte le case, e non solo in occidente, poiché la tecnologia si adatta perfettamente ai Paesi che oggi definiamo in via di sviluppo. Nelle nostre case avremo principalmente stampanti 3D per oggetti di piccole dimensioni, mentre i modelli più grandi saranno disponibili nelle stamperie – proprio come la stampa su carta oggi, secondo Klaus Æ. Mogensen. Egli sottolinea, inoltre, un aspetto più essenziale che annullerà la distinzione tra produttore e consumatore: «L’idea del prosumer diverrà allora una realtà, dal momento che tutti potranno stampare i propri prodotti, di cui si sarà comprato il design o di propria progettazione», dichiara. Tuttavia, il professore e PhD in filosofia, Søren Riis, dell’Università di Roskilde, indica l’esistenza di una tendenza alla centralizzazione, in parallelo alla tendenza alla decentralizzazione di produzione e consumi nel 2030. Questi definisce tale tendenza «la vita facile, sicura, controllata e automatizzata», e anch’essa affonda le proprie radici nell’onnipresente supernet e nella nostra impronta digitale. «Autorità e cittadini registrano qualunque avvenimento. Questo ci piace perché rende la nostra vita più semplice e sicura. La sorveglianza verrà considerata anzitutto un vantaggio per i cittadini. Con essa sostanzialmente non dovremo preoccuparci di cosa acquistiamo, dal momento che la registrazione dei consumi passati nostri e dei nostri amici fornisce indicazioni sicure. Possiamo fare shopping senza aspettare in fila alla cassa – i nostri acquisti saranno registrati automatica- 50 Claus Kjeldsen mente a nostro nome. Tutti i consumatori porteranno con sé ovunque computer smart senza i quali non potranno fare acquisti, dal momento che per allora i contanti saranno banditi, e potremo usare in tutta sicurezza trasporti pubblici e frequentare negozi e spazi pubblici di notte. Qualora si registri un episodio di violenza, questo si risolverà facilmente poiché tempo, luogo e persone coinvolte potranno essere determinati rapidamente». 2030 - Trasporti. Biciclette da stampanti 3D, automobili senza conducente e dirigibili Nel corso dei decenni abbiamo immaginato che automobili volanti ed elicotteri personali avrebbero in futuro sostituito le nostre auto. Invece, i principali mezzi di trasporto privato nel 2030 saranno ancora l’automobile con quattro ruote e la buona vecchia bicicletta. La bicicletta resiste perché si adatta perfettamente alla domanda di oggi (e di domani) di trasporto ecologico e salutare, e oltretutto consente un trasporto veloce e flessibile su brevi distanze come nelle città, che si ingrandiranno in termini di dimensioni e di popolazione. «La massiccia tendenza all’urbanizzazione alimenta la necessità di mezzi di trasposto compatti e flessibili», secondo il futurista Klaus Æ. Mogensen. E aggiunge che anche oggi si fanno esperimenti di biciclette prodotte con stampanti 3D e con nuovi e migliori materiali quali polimeri e nanotubi di carbonio. «Oggi il costo di queste soluzioni costituisce un ostacolo alla loro fattibilità, ma per il 2030 diverranno molto più economiche e, quindi, realtà. Nel 2030 andremo in un negozio di biciclette e avremo la nostra bicicletta prodotta su misura con stampanti 3D mentre aspettiamo», dichiara. Le automobili non cambieranno il loro aspetto nei prossimi 17 anni, ma la grande differenza sta nel fatto che l’autista si estinguerà come il dodo, perché gli interni saranno automatizzati e intelligenti. Nel 2030 l’automobile robotizzata sarà una realtà. Le auto saranno in grado di guidare da sole, e il 50% di tutte le auto in Europa non avrà conducente. Questa automazione non solo sarà importante per l’industria dei trasporti, ma permetterà di risparmiare enormi quantità di tempo e denaro, eliminando il traffico in autostrada e sui principali incroci; avrà conseguenze profonde anche su tutta la società. Essere nuovi Be new 51 «Le automobili senza conducente influenzeranno molto la scelta dei luoghi in cui vivere, amplieranno i confini delle città e promuoveranno la tendenza alle megalopoli», spiega Klaus Æ. Mogensen. Il futurista Martin Kruse, CIFS, concorda, ma offre sfumature diverse. Egli è infatti convinto che le auto robotizzate costituiranno un beneficio anche per le regioni periferiche: «Sappiamo che la gente è disposta a fare il pendolare un’ora al giorno per andare e tornare dal lavoro, ma con le auto senza conducente questa distanza può essere abbondantemente superata. Il tempo che trascorriamo oggi per spostarci verrà tramutato in ore di lavoro, tempo per rilassarsi e per programmazione e intrattenimento personale. Questo costituirà un beneficio per le regioni periferiche, che aumenteranno così la loro attrattività, contrastando la tendenza diffusa all’urbanizzazione». Il fatto di non dover più guidare la nostra automobile apre alla possibilità che altri possano noleggiare la nostra auto mentre siamo al lavoro. L’auto fungerà quindi da taxi, e non ci sarà più il problema di trovare parcheggio in città. Entro il 2030, inoltre, avremo scoperto combustibili più verdi, secondo Klaus Æ. Mogensen, che daranno impulso alla produzione di auto elettriche alimentate a energia eolica e solare. Il traffico intelligente dominerà il futuro urbano. Nel 2030 saremo molto più capaci di utilizzare e combinare dati di GPS di taxi, sensori di traffico e misurazioni effettuate da stazioni stradali e rilevatori di inquinamento, per fornire migliori dati sul traffico in tempo reale, che a sua volta consentiranno a veicoli automatizzati di scegliere subito il percorso più veloce in città. Inoltre, mezzi pubblici intelligenti (senza conducente) saranno più evoluti e integrati sin dall’inizio nelle nuove città e nei nuovi quartieri. La metropolitana è un esempio attuale (e passato) di un’idea ancora viva. I trasporti a lungo raggio saranno ancora a bordo di treni e aerei, e i treni ad alta velocità saranno molto più diffusi nel 2030. La Cina, ad esempio, ha in cantiere il progetto di costruire binari che la colleghino all’Europa, con la possibilità di viaggiare da Pechino a Londra in due giorni. Fra 17 anni il trasporto aereo soffrirà un serio problema di immagine a causa dell’elevato consumo di carburante e non sarà necessariamente economico come oggi. Tuttavia, il progresso tecnologico è imprevedibile e potrebbe ridurre il consumo di carburante. La European Aeronautic Defence and Space Company (EADS), ad esempio, 52 Claus Kjeldsen lavora con Rolls Royce al concetto di un futuro aereo passeggeri per trasporto regionale, che funzioni parzialmente a batteria e offra una resistenza aerodinamica nettamente inferiore. Allora forse ci muoveremo verso un futuro passato per il trasporto merci. Klaus Æ. Mogensen ritiene che i vecchi dirigibili, che ebbero il loro periodo d’oro negli anni ’20 e ’30, potrebbero vedere una rinascita: «Con la tecnologia moderna, i dirigibili possono essere utilizzati per il trasporto merci. Sono pratici, dal momento che saranno più veloci di ogni altra forma di trasporto pesante e in grado di volare ovunque senza dover atterrare. Questo offre preziose opportunità per la consegna di merci in aree difficili da raggiungere». I dirigibili sono anche più ecologici in quanto consentono una riduzione del consumo energetico del 70% e di emissioni di CO2 almeno del 66% rispetto al trasporto merci di oggi. 2030 - Istruzione e lavoro. Addio a lavoratori dipendenti e aule Molti elementi suggeriscono che nel 2030 la supremazia dell’occidente sarà scomparsa o almeno molto diminuita. Si sente spesso parlare di uno spostamento del potere globale da nord-est a sud-est con il ruolo predominante della Cina, che nel 2030 sarà la maggiore economia mondiale, secondo previsioni indipendenti. Tuttavia, come ha recentemente dichiarato Charles Kupchan, professore di politica internazionale alla Georgetown University di Washington, «il XXI secolo non sarà quello di America, Cina, Asia, o di chiunque altro; non apparterrà a nessuno». Nessuna delle aspiranti potenze possiede la combinazione di forza materiale e ideologica necessaria per esercitare il dominio globale. «Nel 2030 il mercato del lavoro sarà globale e la lingua di lavoro sarà solo l’inglese», secondo la scrittrice e filosofa Lene Andersen, autrice di numerosi libri sulla società del futuro. E sottolinea come la fuga dei cervelli sarà allora diretta verso le grandi città. Numerosi esperti parlano nel 2030 di un mercato del lavoro caratterizzato da flessibilità, volatilità e agenti liberi. Il futurista Johan Peter Paludan, Copenhagen Institute for Futures Studies (CIFS), ritiene che già oggi assistiamo a uno smantellamento del concetto di lavoratore dipendente e allo sviluppo di una società di liberi professionisti, e Essere nuovi Be new 53 dà credito all’ex Segretario Generale OCSE (e fondatore del Copenhagen Institute for Futures Studies), Thorkil Kristensen, che già negli anni ’80 aveva previsto che il XX secolo sarebbe stato considerato a posteriori l’‘era dei lavoratori dipendenti’. Quest’era si sarà abbondantemente conclusa per il 2030. Il futurista del CIFS, Rolf Ask Clausen concorda: «Mansioni e posti di lavoro saranno in continuo cambiamento. Nuove mansioni, nuove organizzazioni, nuovi clienti. Questo porterà a forme di impiego a breve termine, a contratti specialistici e all’aumento dei liberi professionisti, e metterà sotto pressione i classici contratti collettivi. D’altronde, ci si adatterà perfettamente alle necessità degli ottantenni attivi, che saranno selettivi ed esigenti nella scelta di un lavoro interessante». Egli fa qui riferimento alle previsioni secondo cui la popolazione anziana nel 2030 lavorerà di più e più a lungo di oggi, e prevede lo spostamento dell’età pensionabile a 78 anni. «L’aspettativa di vita è aumentata e nel 2030 molti di noi vivranno fino a 100 anni. Pertanto, per molti ottantenni non avrà senso smettere di lavorare», aggiunge. Le mansioni lavorative saranno mutate, e robot e computer assumeranno anche i compiti più complessi. «Nel 2030 la maggior parte di autisti, medici, chirurghi, speculatori, editori, giornalisti, traduttori, guide turistiche e insegnanti – per non citare lavoratori nell’industria e nei servizi – saranno completamente o parzialmente resi obsoleti da robot, computer e smartphone», sostiene Klaus Æ. Mogensen, CIFS. «Questo porterà a una polarizzazione del mercato del lavoro, per cui sempre più persone si ritireranno o dovranno accettare di lavorare per una miseria, mentre coloro il cui lavoro non sarà facilmente automatizzato guadagneranno sempre di più. Le professioni che restano sono quelle di natura creativa quali intrattenimento, invenzione o racconto di storie, design, ricerca e servizi in cui si vuole il contatto personale». Anders Sandberg, PhD e ricercatore presso The Future of Humanity Institute, Università di Oxford, suggerisce che a un certo punto l’intelligenza artificiale trasformerà molte mansioni lavorative. Egli non è certo che questo accada entro il 2030, ma dice che per allora ci saranno almeno «abbastanza software intelligenti da compiere la maggior parte delle mansioni che per noi oggi costituiscono un lavoro». Secon- 54 Claus Kjeldsen do lui, professioni relativamente sicure saranno quelle che implicano intelligenza creativa e sociale, e forse percezione umana e destrezza. Nel 2030 anche la scuola e l’istruzione cambieranno di pari passo con il mercato del lavoro. In generale ci si concentrerà meno sull’accumulo di sapere – che comunque diventa subito obsoleto – e più su strumenti e competenze che consentano di acquisire rapidamente le informazioni necessarie. Lene Andersen prevede che la formazione accademica diverrà presto obsoleta e «richiederà un aggiornamento almeno ogni cinque anni». Klaus Æ. Mogensen ritiene che le barriere linguistiche si sgretoleranno, anche perché il materiale di studio verrà tradotto elettronicamente nella propria lingua (dando slancio anche al Terzo Mondo), mentre Lene Andersen prevede che per il 2030 ‘metà delle classi’ alle scuole elementari in Danimarca, si terranno in lingua inglese. Entrambi concordano sul fatto che l’insegnamento d’aula tradizionale scomparirà del tutto o in parte, in favore dell’insegnamento elettronico a distanza e/o di maggior responsabilità personale nell’apprendimento. Secondo Lene Andersen: «I libri di scuola non esisteranno più, e invece assisteremo al diffondersi su internet di brevi video per l’insegnamento». Il futurista Anders Bjerre, CIFS, aggiunge: «Nel 2030, il lavoro a distanza o ‘telelavoro’ sarà diffuso in molte situazioni. Avremo comunque bisogno di incontrarci fisicamente di tanto in tanto, anche per lavoro, e comunque non avremo proprio la medesima larghezza di banda come se fossimo nella stessa stanza. Tuttavia, la differenza non sarà enorme e avrà ancora senso incontrarsi per mansioni di routine. Ci si dovrà recare sul posto di lavoro o nel laboratorio di ricerca forse una volta a settimana». Claus Kjeldsen Amministratore delegato del Copenhagen Institute for Future Studies, think tank con sede in Danimarca e centro di ricerca internazionale tra i più autorevoli. Esperto di strategia, innovazione, marketing e consumer trends, tiene conferenze in tutto il mondo. Ha collaborato con istituzioni governative, organizzazioni internazionali, istituti finanziari e aziende private su progetti strategici di larga scala. È stato amministratore delegato e consulente in numerose start-up. Essere nuovi Be new 55 IL FUTURO APPARTIENE A CHI SA IMMAGINARLO Alberto Felice De Toni Il cambiamento – e non la stasi – è la nostra condizione abituale, la costante della nostra vita. Il verbo cambiare deriva dal greco kàmbein o kàmptein, che significa curvare, piegare, girare attorno a qualcosa. Figurativamente, sembra indicare una strada, un percorso che, se fino a un dato momento ci appariva lineare, si apre d’un tratto alla possibilità di una svolta. Rispetto al cambiamento possiamo decidere se resistervi (inutilmente), adattarvisi di volta in volta (reagendo) o giocare d’anticipo (in modo proattivo). Per anticipare il futuro sono necessari approcci avanzati che vadano oltre i tradizionali modelli di previsione basati sulla proiezione in avanti delle esperienze passate. Questi metodi, cosiddetti di anticipazione, costruiscono scenari possibili considerando: la molteplicità dei presenti in essere, i segnali deboli, i trend emergenti e percorsi diversi di evoluzione. Il tutto per rispondere a un cambiamento che è sempre più accelerato, interconnesso e discontinuo. Solo in questo modo è possibile affrontare la complessità del reale e il suo perenne cambiamento. La velocità del cambiamento è diventata così elevata che oggi non riusciamo a dare tutte le risposte in tempo utile. Viviamo in tempi esponenziali. Nel 1970 nella terra vivevano circa 3,5 miliardi di persone, oggi superiamo i 7 miliardi. Il primo sms fu spedito nel dicembre del 1992, oggi il numero degli sms spediti e ricevuti ogni giorno è maggiore del totale degli abitanti del pianeta. Per raggiungere un pubblico di 50 milioni di persone la radio impiegò 38 anni, la televisione 13, internet 4, l’iPod 3, facebook 2. Gli utenti collegati a internet nel 1984 erano mille, nel 1992 un milione, nel 2013 oltre due miliardi. Il vivere in tempi esponenziali comporta un presente sfuggente, compreso quando già sta scomparendo, e un futuro sempre più vicino. Come diceva l’amico e compianto Ernesto Illy: «Quando la vita scorreva lenta come un pigro fiume, la complessità esisteva, ma non veniva 56 Alberto Felice De Toni percepita. Oggi tutti se la sentono addosso, perché il ritmo si è fatto serrato come un torrente vorticoso». Il vivere in sistemi sempre più interdipendenti evidenzia che i presenti sono molteplici; ciascuno di noi appartiene simultaneamente a diverse reti culturali, sociali ed economiche. Viviamo molti presenti che si intersecano tra di loro a livello individuale e di gruppo, sul piano economico e sociale. Dei molteplici presenti non riusciamo a capire quale di questi prevarrà sugli altri. Per questo motivo il futuro è sempre più imprevedibile, inaspettato. Il vivere in ambienti con risposte sempre più amplificate (si pensi alle conseguenze che oggi una crisi finanziaria di un Paese provoca sull’intero sistema) rende il presente sempre più instabile, soggetto a grandi cambiamenti generati da piccole cause, nella logica dell’effetto farfalla. La discontinuità del cambiamento, la non linearità della risposta, annuncia un futuro dirompente. Il mondo cambia come i disegni in un caleidoscopio: le tendenze si espandono, si contraggono, si disgregano, si fondono, si disintegrano e svaniscono, mentre altre si formano. Nulla resta costante. I trend più importanti non conoscono confine e condizionano ogni aspetto della società: hanno il potenziale di cambiare profondamente il modo in cui il mondo funzionerà domani, e possono impattare più velocemente di quanto si possa pensare. Il futuro ci arriva addosso in modo sempre più accelerato, interconnesso e discontinuo. Ma non solo. Il futuro arriva come un gatto. Il gatto, come tutti i felini, si avvicina a passi felpati. I rumori sono lievi: sono i cosiddetti segnali deboli. Poi i segnali addirittura cessano: è il momento dell’agguato. Infine c’è il balzo finale e il futuro ci arriva addosso senza nemmeno che ce ne accorgiamo. Dobbiamo saper cogliere i segnali deboli. Ogni adulto sa che un mago non può produrre un coniglio senza che esso sia già nascosto nel suo cappello; allo stesso modo, le sorprese quasi mai emergono senza un segnale d’allerta. Tali segnali di allerta sono i segnali deboli. Essi sono deboli nel senso di difficili da individuare, ma non nel loro impatto potenziale che può essere molto rilevante. Come il coniglio di un mago è già nel cilindro prima che noi lo vediamo, così il futuro è già qui anche se non lo vediamo ancora in modo chiaro. E non lo vediamo perché all’inizio si manifesta solo con segnali deboli. Essere nuovi Be new 57 La creazione del futuro tramite nuove idee, la sfida alle idee dominanti, le innovazioni presuppongono una certa dose di disobbedienza ai canoni precedenti; ma possono dirsi realmente innovazioni solo se vanno a buon fine. Altrimenti rimangono solo tentativi, disobbedienze che non portano a vantaggi reali. I veri innovatori sono quelli che non solo rompono schemi mentali consolidati, fino ad allora condivisi – aprendo con nuovi occhi a nuove prospettive – ma che sono anche capaci di trarre frutto da queste discontinuità. In altre parole l’innovazione è una disobbedienza andata a buon fine. Ma non solo: l’innovazione nasce in periferia, lontano dal dominant design che occupa sistematicamente il centro. Sogno, visione e mito sono i reali motori del cambiamento in quanto sono l’immaginario rispettivamente del singolo, del gruppo e del sociale. Motori alimentati dal potere dell’immaginazione. Leopardi spiega cosa ci dona l’immaginazione: «L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana». Einstein ci ha insegnato invece dove ci porta l’immaginazione: «La logica ti porta da A a B. L’immaginazione ti porta ovunque». Per Kant l’immaginazione è uno strumento fondamentale per la percezione del presente; grazie all’immaginazione è possibile trasformare l’esperienza, il mondo del reale, votata alla sua mutevolezza, al suo cambiamento. Lo scrittore americano Carl Sandburg ci rammenta che: «Nothing happens unless first a dream». Mentre Martin Luther King rivolgendosi agli afroamericani disse «I have a dream» e non invece «Ho un piano quinquennale»! Dal mito antico della terra promessa fino al mito più recente della frontiera americana, i miti guidano e accompagnano da sempre i grandi cambiamenti sociali. E le visioni guidano, su una scala minore, i cambiamenti delle organizzazioni. Nell’impetuoso fiume del cambiamento, se pensiamo di essere in un grande battello a vapore e di poter risalire il corso dell’acqua ci inganniamo. Siamo piuttosto in una piccola canoa che discende la corrente tumultuosa. Se osserviamo attentamente il flusso dell’acqua, con la sensazione di farne parte, sapendo che varia di continuo e che conduce sempre a nuove complessità, ogni tanto possiamo affondare un remo nell’acqua e spingerci da un vortice all’altro. Convivere con il cambiamento ci regala in ogni modo un orizzonte infinito; come ci ricorda Schopenhauer: «Solo il cambiamento è eterno, 58 Alberto Felice De Toni perpetuo, immortale». La sfida odierna è quella di essere alla Charles Snow: «Uomini che hanno il futuro nel sangue». Come affermava John F. Kennedy: «Abbiamo bisogno di uomini che possano sognare cose che non sono mai esistite». In altri termini: il futuro appartiene a chi sa immaginarlo. Alberto Felice De Toni Rettore dell’Università di Udine, è stato preside della Facoltà di Ingegneria, dove insegna Organizzazione della produzione e Gestione dei sistemi complessi. È stato presidente della Commissione nazionale del MIUR per la riorganizzazione dell’istruzione tecnica e professionale. Si occupa di organizzazione della produzione, gestione dell’innovazione e della complessità. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche. Tra i suoi saggi: Prede o ragni (con F. Comello, Utet, 2005); Viaggio nella complessità (Marsilio, 2007); Il pianeta degli agenti (con Erika Bernardi, Utet, 2009); Auto-organizzazioni. Il mistero dell’emergenza nei sistemi fisici, biologici e sociali (Marsilio, 2011). Essere nuovi Be new 59 LA CITTÀ GLOBALE Alessandro Verona Negli ultimi 15-20 anni la città si è trovata al centro di una rinnovata attenzione per le nuove dinamiche che la hanno interessata: i processi di inurbamento, determinati da flussi migratori globali e costanti, hanno favorito la nascita e lo sviluppo continuo di nuove megalopoli, anche in conseguenza a processi di concentramento di capitali che ne hanno determinato lo sviluppo e il successo. Assistiamo a una competizione globale tra città-territorio che si contendono il primato nel mercato globale. Quando sarà completato, nel 2015, il Dubai World Central-Al Maktoum International diventerà il più grande aeroporto del mondo con 6 piste, 4 terminal e una capacità annua di 160 milioni di passeggeri e 12 milioni di tonnellate di merci. Nasce così da una idea precisa di conquista della leadership mondiale, lo sviluppo, a partire dal 1992, di questa città, che viene concepita e pianificata utilizzando principi urbanistici ‘internazionali’: oggi, la lingua parlata prevalente è l’inglese in quanto solo il venti percento della popolazione è locale. Dopo aver attirato EMC Corporation, Oracle Corporation, Microsoft e IBM, il Dubai knowledge village punta a diventare uno degli hub della conoscenza principali al mondo. A Dubai la connessione permanente dei sistemi permette agli amministratori pubblici, alle imprese, alle forze dell’ordine e ai gestori di prendere le migliori decisioni sui vari asset quali trasporti e mobilità, sicurezza e sorveglianza, medicina e pronto intervento, logistica e grandi eventi ed energia e utility secondo la visione e la strategia. A proposito di città intelligenti (smart city), tutti gli edifici sono connessi a una rete dati di controllo che misura costantemente la CO2 prodotta dalla città. L’Europa e le città europee, in un contesto storicamente antropizzato, guardano questa esperienza ricca di luci, ma anche di ombre, con impotenza, tranne per un aspetto che caratterizza lo scenario a noi più vicino. Il tessuto urbano storico e il paesaggio europeo, a confronto del consumo di suolo cinese, coreano o africano agiscono secondo 60 Alessandro Verona una naturale vocazione ad arricchire ciò che la storia ci ha consegnato e cioè la stratificazione dei nostri centri urbani. Essa, determinata dalla sovrapposizione nelle varie epoche di fatti urbanistici, infrastrutturali, architettonici e paesaggistici, mostra oggi la sua capacità di generare edifici-landmark, sui quali costruire nuove strategie, a volte tra l’esotico e lo stravagante, di marketing territoriale. Era il 1997 quando venne inaugurata a Bilbao la nuova sede museale della Guggenheim Foundation che avviò la rincorsa alle archistar per firmare le nuove icone delle città emergenti. Tale approccio rappresenta un processo di costruzione di leadership secondo una nuova etica del pragmatismo. Ma in realtà, secondo le analisi OCSE, questo aspetto – che è il più superficiale in quanto è quello anche a volte più glamour – è il prodotto di un processo più complesso, che risulta ineluttabile e necessario. Oggi più che mai ogni città deve capire quale è il proprio DNA per costruire strategie che non siano frutto solo del desiderio. È proprio questa capacità di porre in discussione la propria identità e quella futura che può determinare, secondo Debra Mountford, il successo di una città. Le analisi OCSE comparative tra 12 medie città (Amsterdam, Barcellona, Boston, Brisbane, Cape Town, Amburgo, Manchester, Lione, Nanchino, Oslo, Shenzhen, Zurigo) mostrano come ciascuna stia sviluppando una propria vocazione generando nuove relazioni tra città affini, a partire dal nuovo contesto economico. Per questo motivo oggi è necessario riorientare le politiche del territorio, a partire da nuove connessioni utili a interpretare i nuovi trends, quali lo sviluppo tecnologico, il commercio e la capacità di attrarre talenti per conquistare la leadership. Se saprà farlo la città metterà al centro delle politiche del futuro l’integrazione tra trasporti, le vocazioni del territorio, del paesaggio, degli investimenti, delle arti e della scienza e dei servizi integrati. Per questo motivo sarà necessario reinterpretare anche il sistema città-regione consapevoli che il cluster (concentrazioni settoriali e geografiche di imprese interconnesse) è un modello che, superando i distretti industriali, è già utilizzato. Per questo motivo le città che si dimostreranno inclusive, multiculturali e aperte al cambiamento e che svilupperanno la capacità di costru- Essere nuovi Be new 61 ire relazioni multidisciplinari extraterritoriali si potranno ricavare una posizione nella competizione globale. Nel rapporto di competitività regionale redatto da Paola Annoni dell’Unità di econometria della Commissione europea, nel 2013 Utrecht e la sua regione sono al primo posto, confermando la tendenza che la competizione oggi non si gioca più tra Stati, nemmeno tra città ma tra sistemi città-territorio/città-regione. I parametri di valutazione che vengono utilizzati sono raggruppati in tre categorie: un primo ambito di base (istituzioni, stabilità macroeconomica, infrastrutture, salute, educazione di base), un secondo legato all’efficienza (alta formazione e lifelong learning, efficienza del mercato del lavoro, dimensione del business) e infine un terzo ambito legato all’innovazione (adeguatezza tecnologica, livello di sofisticazione del business, innovazione). Una delle componenti di successo di Utrecht e della sua regione è l’alto grado di accessibilità, anche per le caratteristiche infrastrutturali che la pongono al centro di intersezioni ferroviarie europee. Paradossalmente nell’era digitale, al centro delle politiche strategiche nel futuro, il sistema infrastrutturale, sul quale l’Italia sconta un ritardo storico, sarà un elemento di successo di un territorio: nel nostro caso, la rete e i collegamenti ferroviari possono, offrendo sempre più mobilità ai city users, restituire centralità al Friuli Venezia Giulia rispetto agli assi nord/sud e est/ovest dell’Europa allargata. In particolare le politiche della mobilità saranno utili ad affermare il principio dell’accessibilità ai servizi e utile contrapposizione all’avanzare delle disuguaglianze. La città che verrà Il Future Forum ha messo, per la prima volta, al centro dell’attenzione la città e la nuova questione urbana che essa pone. Né nelle politiche europee, né tantomeno in quelle nazionali il tema viene affrontato. Dentro la crisi, che abbiamo compreso essere non solo economica e finanziaria, ma anche sociale e istituzionale, vengono messi in discussione i principi della democrazia. Dentro la crisi, attendendo che la fine della caduta libera del PIL desse luogo alla ripresa, ci siamo accorti che l’occupazione non cresce più e la produzione di beni e servizi si sta ridistribuendo. Questa ridistribuzione caratterizza anche l’andamento demografico, 62 Alessandro Verona con i flussi migratori che determinano nuovi equilibri delle popolazioni in rapporto ai territori. In questo scenario, quali saranno i problemi principali che in futuro le città dovranno affrontare? Volendo dare una visione generale potremmo dire che cambiamenti climatici e ambientali, disuguaglianze e mobilità sono gli elementi attorno ai quali si dovrà costruire il futuro della città. Ma se sui cambiamenti climatici e ambientali da anni assistiamo alla crisi del modello di governo del territorio adottato, esito di una cultura ‘neopositivista’ novecentesca e in particolare del dopoguerra, l’aspetto nuovo che secondo Bernardo Secchi si manifesta e che offre l’occasione di pensare a nuove relazioni attraverso le quali reinterpretare l’idea di città, è costituito dal tema delle disuguaglianze e dal loro modo di manifestarsi: le disuguaglianze sociali si sono trasformate, complice un approccio urbanistico deterministico e quantitativo, in disuguaglianze spaziali, generando così ingiustizie spaziali. Per questo motivo, dopo il capitale economico, oltre che sul capitale intellettuale e sul capitale sociale dovremo investire anche sul capitale spaziale che vede, tra l’altro, nella dispersione e nella frammentazione una delle caratteristiche specifiche europee. Il cambio di paradigma nel governo delle città presenta per il futuro una agenda che, a partire dal consumo zero di territorio (negli ultimi cinquant’anni in Italia abbiamo consumato 8 mq al secondo), sia in grado di immaginare la città policentrica, restituendo qualità spaziale e quindi sociale alle periferie che, interessate dagli interventi, acquisteranno nuova centralità. Ma è lo stesso concetto di periferia che è mutato negli ultimi decenni, in quanto parti di città interne (come aree dismesse, caserme dismesse o i quartieri residenziali di casette degli anni ’50 e ’60) si offrono come vuoti urbani in attesa di nuove identità. La necessità di costruire sul costruito, l’incremento del verde pubblico, il potenziamento del sistema del trasporto pubblico non devono essere frutto di una posizione ideologica che fa riferimento alla decrescita, ma il frutto di una volontà di ridare senso e autonomia alle parti che compongono il tessuto urbano nel quale il sistema degli spazi aperti ritornerà a essere il luogo delle relazioni, così come nei centri storici l’Italia dei millecinquecento festival ha dimostrato di riutilizzare, restituendo senso e nuova vita culturale e sociale al Paese. Essere nuovi Be new 63 Bisogna saper guardare anche a esperienze come quella di Don Antonio Loffredo, che in una periferia interna di Napoli come il Rione Sanità, attraverso la valorizzazione storica e artistica delle catacombe abbandonate e il coinvolgimento dei giovani del quartiere, sta costruendo una nuova identità e un nuovo futuro a quella parte di città, sottraendola alla criminalità. Il territorio urbano si presenta così in una forma nuova da esplorare, ‘foresta urbana’ nella quale tracciare nuovi sentieri semantici e metodologici che superino le categorie utilizzate fino a oggi per il suo governo. Il centro storico si rimetterà in gioco se saprà integrare le politiche di valorizzazione culturale nelle sue diverse forme con l’offerta formativa e quella turistica, se saprà favorire l’insediarsi dei nuovi mestieri creativi legati anche all’artigianato 2.0 e alla nuova manifattura, se sarà capace di integrare le diverse comunità favorendo anche i servizi per i residenti non esclusi in futuro da nuove forme di pedonalizzazione ‘permeabile’. Tuttavia risulta necessario governare la frammentazione per affrontare minori risorse, mettendo a rete alcuni servizi come alcune municipalità stanno iniziando a fare. Si presenta così anche l’occasione per stabilire nuove forme di relazione tra amministrazioni diverse e comunità che si avvicinano favorendo economie di scala. Oggi, tuttavia, è necessario avere anche la capacità si superare la dicotomia urban vs. rural. L’evidenza empirica dimostra che le città non sono ‘punti’ nello spazio: esse esistono e hanno interazioni complesse all’interno dei territori in quanto vi sono aree funzionali multidimensionali nelle quali la dimensione delle aree funzionali cambia a seconda della funzione che si considera. Il rapporto OCSE esposto da Raffaele Trapasso, dimostra che territori integrati hanno le migliori perfomance in termini di well-being. In una dimensione territoriale più ampia dovremmo pensare anche che il sistema città-regione policentrica sia costituito su un partenariato che copra un territorio che si estende ben al di là dei sistemi locali del lavoro. Ci sono complementarietà economiche nella gestione del territorio (pianificazione e produzione), innovazione, trasporto pubblico, e identità territoriali comuni. 64 Alessandro Verona Per questo motivo è necessario promuovere una migliore comprensione delle condizioni socio-economiche nelle città e nelle aree rurali e della loro integrazione, affrontando le sfide territoriali a una scala che tenga in conto i legami funzionali tra città e aree rurali, incoraggiando l’integrazione delle policy urbane e rurali, lavorando per una comune agenda nazionale. Chiarendo gli obiettivi del partenariato e le misure connesse per aumentare l’effetto learning e la partecipazione di attori chiave, sia dalle città sia dalle aree rurali. Futuro quotidiano Già oggi alcune esperienze ci informano che il futuro si costruisce fissando obbiettivi anche ambiziosi, raggiungibili con metodo, con spostamenti per approssimazioni successive quotidiane applicate alle pratiche. Questo approccio, che vede nella dimensione del tempo un partner strategico, è in grado di operare differenze significative negli obbiettivi e nel metodo che si intende costruire e adottare. Possiamo affermare che, oltre alle questioni legate allo spazio fisico della città nelle sue varie dimensioni e relazioni, si afferma un approccio nuovo nelle questioni legate anche alla gestione della città nelle sue varie articolazioni. Senza una ricerca costante nell’individuare criticità e superamento delle stesse non è possibile costruire, nella complessità, il nuovo metodo. L’aspetto della formazione ancora una volta ritorna per la sua capacità di produrre crescita culturale della comunità che genera, in questo modo, comportamenti virtuosi. Il rapporto tra formazione, lavoro e città è quello che determina la prospettiva della Learning City, che offre un nuovo modello di apprendimento costante nell’arco della vita delle persone che si allunga, e della comunità in continua evoluzione. Queste sono, per Norman Longworth, le ‘città che imparano’, che vogliono diventare luoghi di apprendimento. Nell’era digitale, l’accesso ai dati mette le persone nelle condizioni di attivare processi di conoscenza e di gemmazione di nuove identità professionali, se accompagnati e sostenuti da sistemi e istituti formativi finalizzati alla riconversione dei profili professionali, in un mondo che vede nascere nuovi lavori. La conoscenza quindi al centro di un processo di rigenerazione delle città e del tessuto sociale che la compone e la vive. Abbiamo assistito negli ultimi quindici anni in Italia alla rivitalizzazione delle piazze e degli spazi che determinano la straordi- Essere nuovi Be new 65 naria qualità delle città italiane grazie alla proliferazione dei festivals che hanno riportato le persone nei luoghi della comunità, dove si produce scambio e crescita culturale. Questo processo di riattivazione dei luoghi ha moltiplicato le occasioni per ristabilire la coesione sociale, così necessaria in questi tempi difficili da comprendere e affrontare. Come una sorta di rito collettivo attorno al quale la comunity sta costruendo una nuova identità attraverso un processo formativo partecipato, 107 città italiane hanno aderito nel 2013 al programma Zero Waste promosso da Rossano Ercolini, un maestro elementare e sindaco del Comune di Capannori in provincia di Lucca, che ha ricevuto da Obama il Golden Environmental Prize per l’ambiente, per essere stato il primo a essersi dato un obbiettivo ambizioso: Rifiuti Zero per il Comune di Capannori, 16.000 abitanti per il 2020. Raggiunto oggi all’80%, questo obbiettivo è maturato nel tempo, dopo che nel 1984 Ercolini aveva iniziato la sua sfida (vinta) contro la realizzazione di un inceneritore. Ecco cosa succede se a scuola vengono proposti in modo efficace modelli intelligenti. Per questo motivo anche il rapporto tra formazione e città offre l’occasione di una riflessione. L’università, ad esempio, porta ricchezza alla città, e non tanto in termini materiali (l’ampio indotto di affitti, bar, ristoranti e discoteche, negozi specializzati), ma perché costruisce capacità, competenze, un clima culturale, reputazione. Ma come sempre succede nella città, la presenza di popolazioni diverse porta conflitti di vario tipo: economico, culturale, di uso degli spazi, fiscali, per l’accesso a beni e servizi. E come sempre succede non tutti godono dei vantaggi. In molti casi l’università interviene sul patrimonio immobiliare, recuperandolo per fini istituzionali e didattici e riqualificando parti di città. In particolare, questi edifici destinati alla conoscenza vengono continuamente vissuti per le attività che generano. Diverso è il caso dei Campus chiusi in se stessi, separati dal resto e talvolta anche isolati, o dei centri di ricerca che anziché ‘contaminare’ la città che li ospita, vivono di vita propria. La presenza di un gruppo consistente di intellettuali e la costruzione di un ambiente più aperto e internazionale che anche i festivals e il comparto culturale contribuiscono a generare, unito alla presenza del- 66 Alessandro Verona la popolazione studentesca, a volte anche trasgressiva, fanno bene alla città, in quanto l’insieme di queste attività innesca processi virtuosi, se si è in grado di costruire una condizione e uno stile di vita attrattivi, al fine di evitare che sia gli studenti che i docenti vivano la dimensione del cosiddetto ‘mordi e fuggi’. Le università che esprimono un’idea di futuro, oltre a costruirsi una prospettiva e una reputazione, contribuiscono a rendere più attrattive le città che le ospitano. Per la cronaca, nella classifica mondiale i primi venti posti sono occupati da università americane e inglesi, Bologna è la prima italiana con il n. 188. La ridistribuzione del lavoro e delle risorse e la riduzione dello spreco e dell’impatto delle attività dell’uomo sull’ambiente hanno generato una nuova categoria che è comparsa nell’era post-consumistica: la sostenibilità ambientale. La memoria collettiva sembra essersi risvegliata a favore del bene comune, complice anche il dominio della iperproliferazione delle immagini e dei contenuti che nell’ambito della conoscenza, reinventata dalla tecnologia, non distingue più i produttori di conoscenza dai consumatori della stessa. La sostenibilità sta condizionando anche gli stili di vita. Ci siamo abituati all’idea che gli oggetti e anche le forme non debbano necessariamente essere nuove, ma possano esprimere oltre alla funzione anche un sentimento, che permette di stabilire rapporti nuovi, relazioni nuove con oggetti che hanno forme vecchie. È uno spostamento di senso che ha prodotto parole paradossalmente nuove come riuso, rigenerazione, riutilizzo. Una nuova cultura dello spazio pubblico esprime anche una nuova estetica che spesso opera per riduzioni e spostamenti di senso, nei quali il contributo dell’arte pubblica si fonde con l’arredo urbano e che, con una nuova sensibilità green-oriented, dimostra come la città sia in grado di accogliere le diverse forme ed essere inclusiva e condivisa. La transizione dall’economia industriale a quella postindustriale ha dato luogo alla gentrificazione, il fenomeno di rigenerazione e rinnovamento delle aree urbane sia dal punto di vista sociale che spaziale, tipica delle ‘città globali’ che non sono necessariamente megalopoli per la dimensione che raggiungono. Lo sono per la qualità delle relazioni che sanno costruire. Abbiamo analizzato nei vari aspetti la città e i nuovi territori che Essere nuovi Be new 67 ha generato e con i quali sta trasformando le relazioni. Il rapporto tra centro e periferia è oggetto di una continua mutazione. Siamo al definitivo congedo di un intero modello di organizzazione del territorio fondato sulla disposizione di grandi aree specializzate attorno alla città dei residenti e su un flusso alternato di pendolarismo tra la casa e i luoghi dell’industria. Lo spazio europeo si manifesta con una impetuosa estensione degli spazi abitati, ma contemporaneamente assistiamo alla ritrazione della presenza umana in alcune parti che compongono il nuovo corpo della città. Oggi la città non si sviluppa più in modo omogeneo, per parti, ma per singole costruzioni, ognuna diversa dall’altra, secondo logiche funzionali differenti. Viene delegato a questi nuovi fatti urbani (la costruzione di nuovi luoghi, territori e paesaggi) quello che la politica dovrebbe saper fare: costruire visioni future radicate nel quotidiano presente. Alessandro Verona Architetto, dopo l’esperienza presso la Gregotti Associati International dove ha lavorato a progetti in Italia, Francia e Germania, ha avviato l’attività di libero professionista a Udine. Ha svolto per il Comune di Udine diversi progetti di riqualificazione urbana, promuovendo la realizzazione di una Società di trasformazione urbana per la riconversione dell’area ex-Safau. Ha realizzato per la Gemona Manifatture la riconversione degli stabilimenti, uno dei primi centri commerciali di prossimità. È stato invitato a partecipare, in qualità di professionista esterno, al Design Camp Inside/Out presso la Fondazione Buziol di Venezia con Michele de Lucchi, Giorgio Camuffo e Marcello Chiarenza. È tra i fondatori dell’associazione culturale vicino/lontano, di cui è attualmente presidente. 68 NUTRIRE IL PIANETA: È POSSIBILE ANDARE AVANTI TORNANDO INDIETRO? Michele Morgante Secondo il rapporto ‘The environmental food crisis’ stilato dallo UNEP (United Nations Environment Programme), nel 2009 è previsto un aumento della popolazione di 2.7 miliardi di persone nel 2050. Ciò richiederà un aumento del 50% nella produzione di cibo e del 56% nella produzione di pesce globalmente. Dall’altro lato stiamo assistendo a un deterioramento ambientale che causa perdita di superfici coltivate per via di degradazione e urbanizzazione da un lato e dei cambiamenti climatici dall’altro. Ci aspettiamo quindi che l’effetto combinato di cambiamento climatico, degradazione del suolo, perdite di superfici coltivate, scarsezza di risorse idriche porterà a livelli produttivi che saranno dal 5 al 25% al di sotto della domanda globale nel 2050. Si stima che i prezzi mondiali del cibo aumenteranno negli anni a venire dal 30 al 50% e saranno soggetti a maggiore volatilità. A fronte di queste previsioni, da qui al 2050 cosa possiamo fare per approvvigionarci di cibo in maniera più sostenibile, apportando meno danni all’ambiente, aumentando la qualità dei cibi e al tempo stesso evitando gli aumenti di prezzi e la scarsità di derrate alimentari previsti? Quali investimenti e sviluppi tecnologici saranno richiesti? Possiamo fare a meno di nuove tecnologie e tornare indietro, al passato, oppure dobbiamo guardare avanti e pensare a nuovi cibi e/o a nuove maniere per produrre gli stessi cibi? Come possiamo garantire la sicurezza alimentare negli anni a venire senza scendere a compromessi con tutela ambientale e qualità? Questi sono i temi di cui Expo 2015, dedicato a ‘Nutrire il pianeta’ dovrebbe occuparsi, anche se quanto visto finora sugli organi di stampa lascia pensare che la discussione su questi argomenti non potrà essere affrontata in maniera completa ed esaustiva, come meriterebbe, a causa di un rifiuto aprioristico del progresso scientifico e un sentimento di fondo largamente antiscientista. Sono invece argomenti di cui c’è grande bisogno di discutere in un Pa- Essere nuovi Be new 69 ese come l’Italia, dove sembra spesso che della scienza e della ricerca non ve ne sia più bisogno, sia se guardiamo l’attenzione che la politica vi dedica (anche, se non soprattutto, dal punto di vista delle risorse che vi decide di investire), sia se guardiamo l’atteggiamento di larga parte dell’opinione pubblica. Sono anche problemi che in Europa, per un certo periodo di tempo, pensavamo di avere ormai risolto. Gli ultimi anni li hanno invece riproposti all’attenzione generale e li hanno rimessi al centro dell’agenda economica della Comunità Europea. Le soluzioni a questi pressanti problemi possono venire da un aumento della produzione, oppure da un’ottimizzazione dell’efficienza energetica della produzione di cibo. Fra i vari processi che portano alla produzione di cibo, uno dei meno energicamente efficienti e ambientalmente compatibili è la produzione di carne e in generale di tutti i prodotti derivati dagli animali. Sempre dal sopra citato rapporto UNEP: «È previsto che gli impatti dell’agricoltura sull’ambiente aumenteranno notevolmente a causa della crescita della popolazione, e del maggior consumo di prodotti di origine animale. A differenza dei combustibili fossili è difficile trovare alternative: la gente deve mangiare. Una riduzione sostanziale degli impatti potrebbe essere possibile solo con un cambiamento drastico nella dieta a livello mondiale, diminuendo il consumo dei prodotti animali». All’inizio del 2010 si stima che 27 miliardi di animali siano mantenuti in allevamento con un totale di 66 miliardi macellati ogni anno nel mondo (M. Schlatzer, Tierproduktion und Klimawandel, Wien, LIT Verlag, 2010). Questo numero eccede il numero di uomini sul pianeta di un ordine di grandezza. La produzione globale di carne è raddoppiata fra il 1980 e il 2007 da 136.7 a 285.7 milioni di tonnellate, la produzione di uova è cresciuta del 150 per cento da 27.4 a 67.8 milioni di tonnellate e la produzione di latte è aumentata da 465 a 671, 3 milioni di tonnellate (FAO, The state of food and agriculture - livestock in the balance, Rome, Food and Agriculture Organisation, 2009). Se non interverranno misure atte a diminuire i consumi di prodotti animali, si prevede un aumento della produzione di carne a 465 milioni di tonnellate nel 2050 e di latte a 1043 milioni di tonnellate (H. Steinfeld, P. Gerber et al., Livestock’s long shadow. Environmental issues and options, Rome, Food and Agriculture Organization of the United Nations, FAO, 2006) come conseguenza della crescita globale della 70 Michele Morgante popolazione e del previsto aumento del consumo pro capite di carne e latte. I cambiamenti nella nutrizione nei Paesi in via di sviluppo – e soprattutto nei mercati emergenti come la Cina – che portano verso un consumo molto più elevato di alimenti derivati da animali (B.M. Popkin, The Nutrition Transition: An overview of world patterns of change, «Nutrition Reviews», 62/7: 140-143, 2004) aggravano ancora di più i problemi globali legati all’aumento della domanda di prodotti ottenuti da animali di allevamento. Il Worldwatch Institute (2004) indica i problemi ambientali causati dall’allevamento animale: la deforestazione, la distruzione dei pascoli, l’uso di risorse idriche e in particolare di acqua dolce, lo smaltimento dei rifiuti cioè degli escrementi e il conseguente inquinamento delle acque, gli elevati consumi energetici, il riscaldamento globale e la perdita della biodiversità e minaccia di estinzione delle specie. L’impatto ambientale della produzione di cibi di origine animale è forse però meglio rappresentato dalla quantità di energia richiesta per produrre 1 kg di proteina in diversi alimenti. Da queste analisi risulta che serve 20 volte più energia per produrre 1 kg di proteina da carne bovina che dal mais. Ciò è dovuto principalmente all’allungamento della catena alimentare fra piante e uomini che, aggiungendo un altro anello, porta a una perdita di nutrienti per gli uomini dovuta all’uso di un’enorme parte del cibo per il metabolismo degli animali. In altri termini, l’animale è un convertitore di calorie molto inefficiente, in quanto una gran parte delle calorie contenute nei mangimi animali (che sono principalmente di origine vegetale) è convertita in escrementi, pelle, ossa, piume e simili e solo una parte piuttosto piccola in carne, latte o uova. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità (WHO) ha dimostrato che un ettaro di terra in un anno può nutrire 19 persone tramite riso, 22 tramite patate ma solo 2 persone tramite agnello e 1 persona tramite manzo (Availability and changes in consumpion of animal products, Geneva, World Health Organisation). A questi problemi vanno poi aggiunti anche quelli legati all’impatto sul clima della produzione di cibi animali. Secondo il rapporto FAO ‘Livestocks’s long shadow’ il settore degli allevamenti animali contribuisce per il 9% alla produzione globale di CO2, per il 65% alla produzione di ossido di diazoto (N2O) derivato da attività umane, e per il 37% alla produzione di tutto il gas metano prodotto dall’uomo. In Essere nuovi Be new 71 termini di contributo globale alla produzione di emissioni umane di gas serra, l’allevamento animale contribuisce al 18% di tali emissioni e a quasi l’80% di tutte le emissioni dovute al settore agricolo (H. Steinfeld, P. Gerber et al., Livestock’s long shadow. Environmental issues and options, Rome, Food and Agriculture Organization of the United Nations, FAO, 2006). In sintesi, nella grande maggioranza dei sistemi di allevamento animale gli animali rappresentano dei concorrenti per gli uomini per il cibo e portano a perdite di calorie lungo il percorso che va dalle piante agli uomini, a causa del metabolismo animale, che su scala globale sono enormi. Una delle idee che negli ultimi tempi sono state proposte per cercare di migliorare la situazione in questo campo è la produzione di carne attraverso metodiche rivoluzionarie, molto distanti dall’attuale allevamento animale. L’approccio di cui attualmente si parla di più per la produzione di carne artificiale è l’approccio in vitro, che consiste nella preparazione di prodotti della carne attraverso tecnologie di ingegneria tissutale. La carne coltivata o in vitro potrebbe avere vantaggi rispetto alla carne tradizionale dal punto di vista finanziario, della salute, del benessere animale e del rispetto e tutela ambientale. L’idea è di produrre carne animale, ma senza usare gli animali. Le cellule di partenza potrebbero essere prese da animali viventi o da embrioni animali e poi essere messe in un mezzo di coltura dove inizierebbero a proliferare e crescere. In linea teorica questo processo potrebbe essere sufficientemente efficiente per far fronte all’intera domanda globale di carne. Produrre carne in vitro per ottenere prodotti processati come salsicce, burgers e similari potrebbe risultare di più facile realizzazione, mentre produrre in vitro una bistecca in cui la carne coltivata dovrebbe essere molto più strutturata rappresenta una sfida molto più complessa, visto che non è sufficiente ottenere la riproduzione cellulare, ma è necessario riprodurre un complesso tessuto muscolare. Fra i numerosi problemi tecnici da risolvere per la produzione di carne in vitro sono da ricordare la scelta dei tipi cellulari a partire dai quali iniziare le colture cellulari e tissutali, la definizione dei mezzi di coltura per moltiplicare e differenziare le cellule, la scelta di uno scaffold commestibile sul quale far proliferare le cellule, la costruzione di grandi bioreattori e le tecnologie per il processamento delle cellule 72 Michele Morgante coltivate in alimenti che siano attrattivi per il consumatore. In termini economici e ambientali non sono al momento quantificabili gli esatti vantaggi o svantaggi della produzione di carne in vitro rispetto alla produzione tradizionale, visto che il processo per la produzione di carne in vitro non è ancora definito nei suoi dettagli tecnici. Ciò nonostante, un’analisi iniziale mostra che la produzione di carne in vitro potrebbe portare a un uso di energia inferiore del 35-60%, emissioni di gas serra più basse del 80-95% e utilizzo di superficie agricola diminuito del 98% (H.L. Tuomisto, M.J. Teixeira de Mattos, Life cycle assessment of cultured meat production, 7th International Conference on Life Cycle Assessment in the Agri-Food Sector, Bari, Italy, 2010). Nell’agosto 2013 il team di ricerca guidato da Mark Post, professore di Fisiologia e ingegneria tissutale presso l’Università di Maastricht in Olanda, ha presentato a Londra il primo hamburger di carne coltivata in vitro, che è stato cucinato dallo Chef Richard McGeown, del Couch’s Great House Restaurant in Cornwall e assaggiato da esperti. L’hamburger è stato ottenuto dalla coltivazione di 20.000 sottili strisce di tessuto muscolare coltivato, ottenute partendo da cellule staminali di bovino e si stima sia costato svariate decine di migliaia di euro. Siamo quindi ancora lontani da un’applicazione su larga scala e vi è bisogno ancora di molta ricerca per diminuire i costi e migliorare la qualità del prodotto. Dal punto di vista fondamentale dell’accettazione sociale, la Commissione europea ha condotto un Eurobarometro nel 2005 che ha incluso la domanda sulla accettabilità per i cittadini europei della carne ottenuta da colture cellulari come alternativa alla macellazione degli animali allevati. Questo sondaggio mostra che la carne in vitro incontrerebbe notevole scetticismo e resistenza in Europa, con il 54% degli europei che non la mangerebbero mai e il 12% solo in circostanze eccezionali. Quali altre opzioni abbiamo? È pensabile andare almeno nei Paesi più sviluppati verso diete interamente basate su prodotti vegetali? Benché manchino ancora dati empirici e prove scientifiche per una dieta siffatta, bisogna ricordare che la maggiore organizzazione statunitense di professionisti del cibo e della nutrizione, la American Dietetic Association (ADA) ha già dato la sua approvazione a una dieta vegana. Avvicinarsi a un tale tipo di dieta attraverso l’utilizzo di cibi alternativi e una marcata riduzione del consumo di prodotti animali potrebbe Essere nuovi Be new 73 consentire di abbandonare sistemi di allevamento animale di tipo intensivo e industriale. Una dieta vegana, per risultare in una nutrizione ottimale dal punto di vista della salute, dovrebbe prevedere la fortificazione degli alimenti, specifiche tecniche di fertilizzazione delle colture e miglioramento genetico delle varietà coltivate per perfezionarne le caratteristiche nutrizionali. Se adottata, la dieta vegana potrebbe portare a diminuire malattie causate da batteri negli alimenti, diminuire il colesterolo e gli acidi grassi saturi e aumentare la quantità di fibre, vitamina C ed E. Gli interventi di fortificazione, fertilizzazione e miglioramento genetico sono necessari per riuscire ad aumentare, in una dieta di questo tipo, i nutrienti essenziali che potrebbero essere carenti, quali le vitamine B12 e D, alcuni minerali, acidi grassi quali gli omega-3 (in particolare DHA e EPA) e aminoacidi essenziali quali la metionina. Per tutti questi elementi esistono sistemi di produzione che non prevedono l’uso di animali (ad esempio sintesi chimica, estrazione da proteine vegetali, fermentazione microbiologica). Va altresì ricordato che quando ci addentriamo nel campo delle diete e dei loro effetti sulla salute, i grandi assenti sono dati empirici e prove scientifiche, e quindi queste considerazioni vanno prese cum grano salis. Quali tipologie di allevamenti animali potrebbero essere difendibili in futuro? Sicuramente tutti quegli allevamenti che producono alimenti per la nutrizione umana in aree dove nessun altra produzione di cibo è possibile, come allevamenti di ruminanti al pascolo libero su pascoli che non possono essere usati per altre produzioni agricole. In casi come questo gli animali agiscono come ‘creatori di calorie’ e non competono con l’uomo per il cibo, diventando ‘distruttori di calorie’. Riportando la discussione al tema generale da cui siamo partiti, ossia come faremo a nutrire una popolazione crescente in numero e in esigenze alimentari a fronte delle emergenze ambientali esistenti, a parte l’ottimizzazione dell’efficienza energetica della produzione di cibo che potrebbe derivare da un minore utilizzo dei prodotti animali, è indubbio che un contributo importante dovrà venire dall’aumento delle produzioni agricole. È quindi veramente possibile pensare a un futuro del pianeta in cui riusciremo a nutrirci in maniera completa sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo aumentando le produzioni e diminuendo il loro impatto ambientale, senza ricorrere profondamente alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica? Potremo 74 Michele Morgante limitarci a tornare indietro a ciò che coltivavamo in passato, come molti soprattutto in Italia vagheggiano? Oppure: quali sono le innovazioni di cui abbiamo bisogno? Solo miglioramenti incrementali di ciò che già utilizziamo, oppure vere rivoluzioni nel modo di produrre gli alimenti? Sperare che nell’agricoltura italiana e anche in quella mondiale si possa andare avanti e guardare al futuro ritornando indietro e recuperando ciò che coltivavamo 100 anni fa, senza ulteriormente migliorarlo geneticamente, è una pura e semplice utopia, che non ha fondamento né scientifico né economico, visto il contributo decisivo che il miglioramento genetico ha dato nel corso della storia dell’uomo all’aumento delle produzioni agricole e al benessere della popolazione umana. Modificare geneticamente le piante di cui ci nutriamo è un’esigenza imprescindibile, a cui l’uomo ha dato risposta con tecnologie che si sono via via affinate nel tempo e hanno consentito progressi decisivi nell’agricoltura. Escludere in maniera preconcetta le nuove potenti tecnologie oggi a disposizione del miglioramento genetico vegetale, che ci consentono di modificare le piante in maniera più precisa ed efficace, non risponde ad alcuna logica, se non a quella di chi vuole portare avanti i propri interessi e non quelli del paese e dell’ambiente in cui vive. Michele Morgante Professore ordinario di Genetica presso l’Università di Udine. È direttore scientifico dell’Istituto di Genomica applicata, membro del consiglio scientifico del CNR e autore per prestigiose riviste scientifiche. Nel 2005 ha ricevuto la medaglia per le Scienze fisiche e naturali dell’Accademia delle Scienze detta dei XL ed è dal 2007 socio dell’Accademia nazionale dei Lincei, Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali. Essere nuovi Be new 75 GRANDI INNOVAZIONI ATTRAVERSO I BIG DATA Viktor Mayer-Schönberger Siamo agli albori di un’importante nuova era nella storia dell’umanità. Se la rivoluzione di Gutenberg è stata alimentata dalla parola stampata, dal contenuto intellettuale, questa rivoluzione, ormai imminente, lo sarà dai dati e migliorerà il modo in cui prendiamo le nostre decisioni, da quali prodotti acquistare (o produrre) a quali terapie sono efficaci, da come educare i nostri figli a come inventare un’autovettura senza conducente. Di conseguenza, nell’arco di un decennio, le nostre vite saranno molto diverse da oggi, sostanzialmente non perché disporremo di un nuovo strumento tecnico, bensì perché avremo una comprensione nettamente migliore della realtà. In quanto esseri umani, desideriamo e abbiamo bisogno di capire il mondo attorno a noi per sopravvivere e prosperare. Siamo partiti da superstizioni, pregiudizi e convinzioni. Successivamente abbiamo imparato a basare il nostro concetto della realtà su teorie corroborate da dati. Secoli fa, le università italiane hanno accolto le premesse dell’illuminismo. Nel XX secolo siamo giunti a verificare con rigore le nostre teorie utilizzando dati empirici, un approccio scientifico che ha iniziato a permeare il nostro processo decisionale, anche nel campo del commercio. È tuttavia sorto un ostacolo: poiché la raccolta, la memorizzazione e l’analisi dei dati si sono rivelate molto dispendiose in termini di tempo e risorse economiche, abbiamo escogitato ogni sorta di scorciatoia ed escamotage per utilizzare il minor numero di dati possibile al fine di convalidare (sempre che sia possibile) la nostra interpretazione del mondo. I sondaggisti politici chiedono a poco più di un migliaio di potenziali elettori di valutare l’opinione politica dell’intera popolazione; gli esperti di marketing utilizzano gruppi target e piccoli campioni per stimare la domanda di un nuovo prodotto; i direttori di stabilimento fanno testare campioni casuali di prodotti prelevati dalle linee di produzione per garantirne la qualità in generale. Oggi, pertanto, le 76 Viktor Mayer-Schönberger nostre decisioni si basano, nella maggior parte dei casi, su dati empirici, ma poiché ottenerli ha comportato un costo non indifferente, li utilizziamo come se fossero un prezioso vino d’annata, molto caro, da centellinare anziché bere avidamente per placare la nostra sete. Il risultato è che la nostra visione della realtà è distorta e offuscata, oltre che viziata da un ragionamento errato, basato su dati tutt’altro che imparziali. Peggio ancora: in un mondo siffatto, siamo solo capaci di esplorare interrogativi già posti, non di generarne di nuovi, sui quali non abbiamo ancora riflettuto. È un mondo in cui preferiamo intuire il ‘perché’, anziché sapere ‘cosa’. Più di 150 anni fa, l’ungherese Semmelweis si è occupato del fenomeno del decesso delle donne dopo il parto, suggerendo che i medici avrebbero dovuto lavarsi accuratamente le mani prima di visitare una nuova paziente e dimostrando che, con tale semplice precauzione, il numero di decessi poteva notevolmente diminuire. Tuttavia, poiché Semmelweis non è stato in grado di provare la reale causa della sua intuizione, i colleghi lo hanno deriso e, per decenni, i medici in Europa hanno ignorato il suo consiglio; di conseguenza, decine di migliaia di donne hanno continuato a perdere la vita. Semmelweis ha utilizzato dati per mostrare una correlazione, un nesso tra la pulizia delle mani e una drastica riduzione delle infezioni intraospedaliere, fornendoci in tal modo una chiave di lettura della realtà che non avevamo. Scoprire i nessi nascosti nei dati è esattamente l’obiettivo dei Big Data, ma a una velocità mozzafiato, grazie a potenti strumenti digitali e alla loro straordinaria capacità di raccogliere, memorizzare e analizzare dati. Con i Big Data siamo in grado di prevedere quando un componente della nostra autovettura potrebbe rompersi prima che ciò effettivamente avvenga. Le multinazionali della logistica come Fedex e UPS già li utilizzano per la manutenzione dei veicoli in servizio, in modo che non restino inaspettatamente in panne sul ciglio della strada, risparmiando, in tal modo, centinaia di milioni di dollari ogni anno. Sono in corso ricerche per ottenere lo stesso risultato sul corpo umano: individuare una patologia prima che i sintomi si manifestino e in una fase in cui è ancora possibile combatterla facilmente. La chiave sta nel fatto che siamo in grado di prevedere un ‘malfunzionamento’ analizzando enormi quantità di dati e ricercando modelli specifici di correlazione con il ‘disturbo’. Essere nuovi Be new 77 Ma non basta: con i Big Data possiamo non limitarci più a utilizzare i dati soltanto per convalidare un’ipotesi già formulata. Possiamo invece ‘lasciare che i dati parlino’ e ci indichino l’ipotesi più promettente. Negli anni ’90, Amazon lo ha sperimentato nel campo dei consigli per gli acquisti, definendo categorie per classificare i clienti in base a precedenti transazioni di acquisto, senza tuttavia grande successo. Dopodiché Amazon ha adottato un approccio radicalmente diverso: ha iniziato ad analizzare i libri che venivano acquistati assieme ad altri dai clienti e ha iniziato a formulare i propri consigli sulla base di tali informazioni. Il nuovo approccio ha permesso di ottenere risultati nettamente migliori, anche se Amazon non ha assolutamente idea del motivo per il quale due libri siano acquistati insieme dallo stesso cliente. Oggi, secondo quanto affermato, il sistema dei consigli per gli acquisti di Amazon rappresenta il 30% dei suoi proventi. Il pregio fondamentale dei Big Data consiste nel fatto che ci offrono nuove prospettive, mentre l’approccio empirico tradizionale si preoccupava soprattutto di convalidare ciò che già sapevamo, e questo rappresenta una nuova fonte di innovazione dalla quale saremo ispirati, non solo illuminati. Tale nuova fonte, tuttavia, ci obbligherà anche a prendere coscienza del fatto che l’unica costante nella vita è il cambiamento. Aggiungendo sempre nuove prospettive, scopriremo continuamente nuovi aspetti della realtà da esplorare, sempre più nuovi interrogativi da porci, il che potrebbe destare timore in alcuni elementi della nostra società abbarbicati alle loro posizioni di potere non in ragione della loro capacità o perspicacia, bensì del loro ostinato attaccamento alla gerarchia e allo status quo. Molti ritengono che i vincitori naturali dell’era dei Big Data saranno coloro che li possiedono, ma questa è solo una parte della verità. Parimenti importante è il concetto che, a differenza della rivoluzione di Gutenberg, non servono cospicui investimenti iniziali per intraprendere un’analisi dei Big Data. I dispositivi di memorizzazione e analisi dei dati possono essere noleggiati a poco prezzo e, pagando diritti relativamente modesti, è possibile accedere anche a serie di dati più ampie. Ciò che realmente conta è comprendere il potere dei dati e individuare modi innovativi per estrarne il valore latente. Le piccole e medie imprese, start-up comprese, possono 78 Viktor Mayer-Schönberger farlo altrettanto bene, se non addirittura meglio di alcuni dei principali colossi di internet. Nella Silicon Valley, come altrove negli Stati Uniti, già vediamo emergere un ecosistema di big dati estremamente dinamico, costituito da piccole start-up che, raggiunto il successo, vengono acquisite a prezzi stratosferici dai giganti soltanto allo scopo di fornire a questi imprenditori dei big dati ancora più denaro per creare la start-up successiva, che avrà ancora più successo. Possiamo tranquillamente ipotizzare che il prossimo Google o Facebook nascerà proprio da questo gruppo di imprenditori. Sinora l’Europa ha accusato un ritardo in questo settore, ma deve recuperarlo, e anche i governi a corto di liquidità possono dare il proprio apporto al riguardo. Se concedere sovvenzioni era il modo tradizionale (quantunque costoso) per agevolare l’imprenditoria innovativa, nell’era dei Big Data i governi potrebbero prendere in considerazione l’idea di aprire i loro caveau di dati per ‘sovvenzionare’ l’innovazione dei Big Data. Così facendo, non soltanto metterebbero a disposizione quella che è la materia prima dell’era dei Big Data, ma opererebbero anche una scelta molto più economica rispetto alle elargizioni monetarie. È possibile far molto per agevolare l’analisi dei Big Data. Tuttavia, ciò ci impone un cambiamento. Inoltre, non tutti i Big Data sono scevri da pericoli. Alcuni loro utilizzi sono sicuramente nocivi e vanno senza dubbio regolamentati, ma anche per questo occorre capirne e valutarne il potere. I Big Data modificheranno il modo in cui interpretiamo il mondo, per cui incideranno molto profondamente su tutti i settori della nostra economia e della nostra società, creando nuovo valore e nuove opportunità commerciali per quanti ne comprendono i pregi. Inoltre, a differenza di altre rivoluzioni tecniche della storia, anche le piccole e medie imprese possono usufruirne a un costo relativamente contenuto e persino i governi possono contribuirvi ‘sovvenzionando’ la rivoluzione con il loro patrimonio di informazioni. Se utilizzati in maniera corretta, limitandone le implicazioni pericolose, i Big Data saranno potenti e utili. Tuttavia, ciò che più conta è prendere coscienza del fatto che si tratta, di per sé, di una grande innovazione, perché trasforma il modo in cui interpretiamo il mondo. Essere nuovi Be new 79 Tecnologie e Big Data per comprendere meglio il futuro Intervista di Fabio Chiusi a Viktor Mayer-Schönberger Analizzare masse sterminate di dati per comprendere la realtà. O anticiparla, formulando ipotesi probabilistiche sul verificarsi di determinati eventi o comportamenti. È il cosiddetto ‘Big Data’, che il docente di Oxford, Viktor Mayer-Schönberger, descrive in un omonimo volume e in un incontro al Future Forum. Ma è anche la tecnologia e l’atteggiamento culturale che ha reso possibile lo scandalo della sorveglianza di massa della NSA (National Security Agency) statunitense: registrare e processare più dati possibili, su tutto e tutti. Professore, il caso NSA è il primo scandalo del Big Data? Sì, e ci sono due elementi interessanti. Uno è che ce lo aspettavamo, anche se non di questa portata. L’altro è che nel dibattito pubblico seguito alle rivelazioni di Edward Snowden si è parlato di sorveglianza, di George Orwell, ma nel mio libro mostro chiaramente come il vero pericolo di un abuso del Big Data è che l’NSA raccolga così tante informazioni non necessariamente per sorvegliare le persone, ma perché vuole predirne i comportamenti futuri per poterle mandare in prigione prima ancora che compiano un crimine. Come nel film Minority Report. Non è solo un problema di privacy, dunque, ma di libertà stessa dell’individuo. La questione della salvaguardia della libertà umana a mio avviso è perfino più importante di quella della privacy, perché se ci è negato il libero arbitrio, se siamo imprigionati dalle probabilità, siamo costretti a essere ritenuti responsabili per qualcosa che ancora non abbiamo fatto. Ed è la fine delle società libere. Senza contare che le predizioni dell’NSA non sembrano nemmeno buone, non abbastanza da provare che abbiano sventato attacchi terroristici. Ma se fossero buone, le mie preoccupazioni non farebbero che aumentare. Facciamo finta che lo siano. Allora si potrebbe dire: ‘perché non dovremmo prevedere comportamenti futuri per contrastare il ter- 80 Viktor Mayer-Schönberger rorismo?’ Si creerebbe una forte pressione a livello sociale per mettere in piedi un meccanismo che fondamentalmente distrugge il libero arbitrio. Quindi dobbiamo rallegrarci che siano inefficaci. Perché? Così possiamo dire: «non dovremmo fare previsioni, perché non sono buone abbastanza». Avere un’agenzia di intelligence efficace è più problematico che averne una inefficace: una vera minaccia per la democrazia. Ma l’NSA riesce davvero ad analizzare una massa così ingente di dati? Sì. A loro interessa soprattutto capire le proprietà delle reti sociali. Non sono interessati necessariamente a comprendere di cosa stiamo parlando, ma sono interessati a capire che stiamo parlando. Cercano correlazioni, invece che cause. Come scrive nel suo libro, l’essenza della ‘rivoluzione’ del Big Data. Esatto. Stanno costruendo una mappa delle relazioni sociali dell’intera società americana e del resto del mondo. Lei ha scritto il suo ultimo libro prima dello scoppio dello scandalo. Alla luce di quanto si è scoperto, pensa che il lato oscuro del Big Data sia già diventato preponderante? Non penso che l’equilibrio tra aspetti positivi e negativi si sia ancora spezzato. Penso che avrei scritto più o meno lo stesso libro. Nell’ultimo capitolo, per esempio, insieme a Kenneth Cukier scrivo molto chiaramente che senza umiltà e umanità le cose andranno esattamente nel verso sbagliato. Come se ne esce? Non sono i singoli individui a poter fronteggiare il Golia dell’NSA e fermare questa follia, ma il sovrano. E cioè, in democrazia, il demos, il popolo. Noi, come collettivo sociale, possiamo agire attraverso il Parlamento per ottenere trasparenza e controllo sui controllori. Il vero problema con l’NSA è che il controllo del Parlamento ha fallito completamente. Serve una istituzione indipendente deputata a farlo, con l’aiuto di una nuova figura professionale: gli ‘algoritmisti’ Essere nuovi Be new 81 di cui parlo nel libro, che aiutino i parlamentari a comprendere le implicazioni e i limiti delle operazioni dell’NSA e delle altre agenzie di intelligence. Viktor Mayer-Schönberger Professore di Internet Governance and Regulation all’Internet Institute dell’Università di Oxford. Già docente della School of Management all’Università di Harvard, si occupa di Internet governance e del ruolo dell’informazione in una economia di rete. È consulente del World Economic Forum e di numerose istituzioni e aziende, tra cui Microsoft, oltre che del governo austriaco per quanto concerne l’innovation policy. Tra i suoi saggi, è stato pubblicato anche in italiano il pluripremiato Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale (Egea, 2013). Le proposte avanzate nel libro si stanno traducendo in politiche effettive dell’Unione Europea. 82 CRISI DELLA FORMAZIONE E CRISI DELLE CLASSI DIRIGENTI Alberto Abruzzese Il vecchio adagio borghese sosteneva che la ‘proprietà obbliga’: la globalizzazione – ultima tappa della progressiva polverizzazione finanziaria della proprietà in senso originario così come della nazione in senso storico e sociale – ha vanificato, fatto svanire il sentimento dell’obbligo individuale del proprietario di beni materiali e immateriali nei confronti della sua comunità di appartenenza e con essa delle altre esistenze umane e infine del mondo intero, della sua stessa natura. Questa progressiva liberazione dal carico individuale di possedere per sé e per gli altri si sta traducendo in supremazia assoluta, imperiale, di un modo di immaginare e fare mondo che è soltanto occidentale in quanto è il ‘solo’ a essere stato inventato come ‘possibile’ dall’essere umano e dalla sua volontà di potenza. Questa nota si interroga sulla possibilità di creare contenuti in grado di obbligare la persona a sentirsi responsabile di se stessa e degli altri spingendosi al di là della dicotomia contemporanea tra proprietà e impero. Qui stanno le ragioni delle brevi e rapide analisi di questo documento. E da qui discende il suo campo di osservazione: l’università. La constatazione diretta del degrado in cui versa l’università – tanto i significati quanto le forme che la contraddistinguono – costituisce la traccia e lo stimolo iniziale per una teoria più generale. Chi sono dunque i destinatari? Non ci si rivolge ai differenti attori universitari, a contratto o di ruolo che siano, al fine di coinvolgerli in una proposta culturale militante, come vuole la tradizione di chi nella società si muove secondo un disegno e un obiettivo politico; tanto meno ci si rivolge a quelle professioni intermedie (manager, artista, intellettuale, giornalista e scrittore) che, della formazione universitaria, sono il territorio di riferimento, e che, nei giochi universitari, sono spesso coinvolte, non solo per dare loro qualche incarico o affidamento, ma assai più per fare immagine, creare contatti e clientele, disporre di mezzi e sponsorizzazioni. Fare scambio di saperi e favori. Essere nuovi Be new 83 Questo discorso non cerca interlocutori nell’immediato, vuole piuttosto sottrarsi a ogni urgente e cocente attualità, nella convinzione che tale prospettiva costituisca l’unico modo possibile di fare fronte all’agire. ‘Stare al passo’ con i bisogni e problemi del momento in realtà significa rinunciare a qualsiasi opportunità divergente, qualsiasi interruzione del passato (né un suo ripensamento, né l’accettazione del presente che lascia intravedere). L’obiettivo è arrivare a una prima riflessione sul lavoro intellettuale e sulla sua utilizzazione in campo formativo: mostrare la sua crisi complessiva, generale, non soltanto al centro (o periferia?) delle istituzioni accademiche ma anche alla deriva di tutte quelle forme di lavoro intellettuale non universitario che di tali istituzioni sembrano essere l’insidia e insieme la pretesa, solo in parte consapevole, di un ricambio epocale. In cosa consiste l’innovazione introdotta da ambiti così decisivi per la vita umana? Un giudizio sul valore degli studi letterari e filosofici, sociologici e mediologici, deve considerare il doppio piano attraverso cui il sapere umanistico ha inciso, dalle origini della società industriale fino all’attuale società delle reti: la sfera privata dei consumi e quella pubblica delle università. La comprensione del mondo, dei conflitti e delle abitudini dominanti, si è sviluppata secondo due direttrici parallele: da un lato un sapere esperienziale, perfettamente aderente ai flussi e ai capricci della vita quotidiana, dall’altro un sapere progressivamente distante dalla realtà, addirittura fiero di esserlo, interessato, per necessità o cecità, al proprio potere più che alla effettiva ricerca dei contenuti per il quale esercitarlo. Ai ritmi, ai vuoti e agli eccessi della prima modalità, la seconda ha risposto e ancora risponde creando campus e spazi chiusi, riviste e collane del tutto autoreferenziali. Qui si è andato elaborando un sistema di valori e interdizioni che – invece di superare i limiti del consumo, spingersi oltre ciò che già di per sé si fa illimitato, siderale, e quindi costruire a partire da questo salto politico-culturale l’esperienza di un territorio di vita attuale e significativo – moltiplica la forza e l’efficacia delle sue opposizioni e congiunzioni tra teoria e pratica, qualità e quantità, soggetto e oggetto, riflessione e vissuto, studio e professione. Pur nelle reciproche contaminazioni, fino all’epoca televisiva queste sfere – da un lato la produzione di sapere e dall’altro il consumo di esperienza, da un lato i linguaggi della scrittura e dall’altro i linguaggi 84 Alberto Abruzzese del corpo: da un lato la cultura dei colti e dall’altro la cultura popolare o meglio di massa – hanno funzionato come due universi autonomi, sicuri dei loro interlocutori come delle loro rispettive funzioni: occupare e disegnare il tempo professionale, divertire e intrattenere i momenti di pausa e svago. Oggi, nell’epoca delle reti, si assiste a una profonda riconfigurazione dell’esistente: a una messa in discussione delle precedenti distinzioni tra pubblico e privato, lavoro e loisir, interiorità ed esteriorità, si pone con drammatica urgenza la necessità di un ripensamento dei modi e dei luoghi predisposti alla ricerca e alla conseguente formazione professionale. Sono coinvolti, in questo dibattito, anche coloro che, pur non avendo mai vissuto il consumo e il sapere come due dimensioni inconciliabili, hanno da subito creduto in un percorso formativo centrato sulla ricchezza simbolica del mondo. Spinti dalla convinzione che i media e i loro immaginari potessero di per se stessi costituire un contenuto formativo, la base su cui erigere un pensiero instabile e provvisorio ma costantemente teso alla comprensione del vissuto, interessato alle trasformazioni dell’esperienza piuttosto che alle metamorfosi del potere e della proprietà. È stata ed è la posizione più contrastata dalle tradizioni istituzionali e politiche; persino dall’impresa, spinta – non molto diversamente dalla politica – dal suo servilismo nei confronti dei valori che più sono in grado di consentire facili consensi e connivenze. La risposta delle parti coinvolte in queste polemiche – in questo scontrarsi tra diverse (ma non troppo o non abbastanza) politiche, ovvero tra diverse forme di abitare il mondo – è stata frantumata dalle proprie inconciliabili contrapposizioni ideologiche. La mediologia più attenta alla sociologia dell’immaginario e dei consumi è andata almeno cercando un pensiero esperto nel superare la dialettica tra consumo e sapere, riconoscere il divario incolmabile che separa, da un lato, un umanesimo accademico sprofondato in miseria, confinato in una posizione marginale e insignificante, e dall’altro, un umanesimo di consumo divenuto straordinariamente potente, non solo ai vertici ma anche alla base della vita quotidiana. Tuttavia, è stata una miopia insistere così a lungo sullo scontro tra filosofie e estetiche del consumo e filosofie e estetiche delle istituzioni. Non poteva che essere una battaglia di retroguardia. Dunque non può più bastare (è mai bastato?) un pensiero che, pur senza incertezze e Essere nuovi Be new 85 ambiguità, ancora voglia porre questioni di fondo come queste, cruciali per molti intellettuali di buona volontà ma del tutto interne alla tradizione politica occidentale: quali obiettivi assumere e raggiungere nell’ambito del sapere umanistico? Quali luoghi e soggetti costruire in vista di una sua effettiva realizzazione? Quali pubblici o mercati immaginare per una sua reale ed efficace diffusione? È ormai evidente che si tratta di questioni in cui l’umanesimo stesso si limita a interrogarsi su se stesso, a mostrarsi perfettibile, a rivendicare la propria universalità e il proprio universalismo, ma anche a restaurare le sue capacità politiche; la sua ambizione a orientare ogni genere di conflitti. A conservare il proprio tempo, la sua Storia: le forme di vita di una sapere consustanziale al potere e in particolare al manto di valori sociali di cui veste la sua sovranità sulla vita. Se le domande sull’umanesimo restano dentro queste sue strategie di incantamento, c’è da chiedersi, prima di penderne le distanze, quali siano gli ambiti – gli abiti e le abitudini – in cui il lavoro intellettuale esercita la propria influenza sulle opinioni e sui processi formativi, senza riuscire a emanciparsi dalla corazza del proprio umanesimo e tuttavia perdendo terreno sul piano dei suoi stessi contenuti. L’indicatore che meglio di altri riassume la crisi dell’università e dei processi di civilizzazione a essa connessi, è la progressiva perdita di reputazione. Il prestigio di un docente, e per estensione di un libro o di un film, si rivela nell’attimo in cui la comunicazione realizzata da quel singolo intervento, avvento, evento appare talmente autorevole da imporsi all’opinione comune, talmente efficace da formare e disegnare il destinatario. Il principio teorico soggiacente all’intero sistema riflessivo di McLuhan – il medium è messaggio – sostiene che la qualità del medium sia in generale più forte di colui che prende voce in quello stesso dispositivo. Le singole comunicazioni godono di un grado di reputazione direttamente proporzionale al successo e al potere di cui dispone il medium in oggetto. Così, gli accademici del passato erano grandi perché grande era l’istituzione che essi stessi contribuivano a rendere tale; altrettanto circolare era ed è il prestigio tra testate della stampa e grandi giornalisti. La deriva che attraversa oggi l’istituzione universitaria è dovuta, in parte, a una esasperata burocratizzazione, in parte a una diffusa incapacità nel leggere e attribuire valore a una formazione anti-accademica, legata al consumo e ai suoi ambienti più 86 Alberto Abruzzese significativi. Si pensi in particolare a come la pubblicità e la fiction televisiva abbiano accelerato alcune trasformazioni essenziali: il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, dalla riproducibilità tecnica a quella digitale, dalle identità collettive alla persona. L’università, con i suoi protocolli di lavoro e comportamento, non sembra in grado di reggere i ritmi e la velocità delle reti. Lungo il corso della modernità, gli apparati predisposti alla formazione riuscivano, mediante una struttura verticale, a conservare reputazione, ad anticipare i contenuti necessari al proprio avanzamento. Nel tempo assai più rapido dell’eclissi dei soggetti e dei valori moderni, potrebbe invece servire un focolaio di sapere destinato a ‘mettere in forma’ contenuti in tutto anti-moderni, una radura di pensiero teso a elaborare quelle capacità che sfuggono agli attuali regimi di senso. Alberto Abruzzese Insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi allo IULM di Milano, dove è responsabile scientifico del Master in Management dei processi creativi. Esperto di comunicazione e new media, ha svolto attività di ricerca e consulenza per aziende private e pubbliche, per il CNR e per il Ministero dei Beni Culturali. È autore di saggi sulla comunicazione e sui nuovi media, tra i quali: L’intelligenza del mondo, fondamenti di storia e teoria dell’immaginario (Meltemi, 2001), L’occhio di Joker. Cinema e modernità (Carocci, 2006); Contro l’Occidente. Analfabeti di tutto il mondo uniamoci (Bevivino, 2010); Il crepuscolo dei barbari (Bevivino, 2011); Forme estetiche e società di massa (Marsilio, 2011). Essere nuovi Be new 87 IL MERCATO INTELLIGENTE Derrick De Kerckhove Spesso, nel mondo imprenditoriale, si citano le risorse umane, la tecnologia e i mercati come le tre fonti di qualunque economia. Tuttavia, la digitalizzazione le ha ridefinite tutte, ridistribuendo le risorse umane e diversificando infinitamente i mercati. L’odierna economia è contrassegnata da quella che potrebbe definirsi la ‘condizione digitale’, di cui una delle caratteristiche principali è ovviamente il fatto di essere basata sull’alternanza di zero e uno al posto delle complesse articolazioni dell’alfabeto, che garantisce la convergenza di tutto, la traduzione di ogni sostanza, senso o esperienza, incorrendo nell’inestricabile fusione tra contenitore e contenuto. In ragione di questa alternanza, un cellulare può contenere, tradurre ed espandere le forme convergenti di tutta la comunicazione umana sin dall’inizio dei tempi. La condizione digitale è ubiqua e rende vicini tutti e tutto. L’accesso istantaneo a persone, oggetti e servizi promuove una ‘cultura partecipativa’ suscitando nella gente il desiderio di essere coinvolti, un’esigenza alimentata dai social media. La connettività è virale e la reputazione diventa un capitale realmente importante. Al momento, l’economia digitale è guidata dalle grandi metafore industriali come il cloud computing, la cosiddetta ‘nuvola informatica’, o l’internet degli oggetti e, più recentemente, i Big Data. L’aspetto curioso, però, è che nessuna di queste ‘innovazioni’ è affatto nuova. Tutta l’informatica di rete, dagli albori di internet alla memorizzazione effettiva in database indipendenti da dispositivi, ha sfruttato una ‘nuvola’ sospesa in qualche posto in attesa che qualcuno la riportasse a terra. L’internet degli oggetti è stato inventato due decenni fa da Neil Gershenfeld presso il Center for Atoms and Bits del Massachusetts Institute of Technology, molto prima che la distribuzione di tag e sensori e gli indirizzi univoci dei nostri telefoni diventassero normale amministrazione. Sembra come se queste parole di moda emergano dalla pratica delle reti per imprimere una nuova direzione al settore delle telecomunicazioni e delle tecnologie 88 Derrick De Kerckhove dell’informazione e della comunicazione. I Big Data sono semplicemente un’estensione del concetto di Customer Relation Management (CRM), ovverosia la gestione della relazione con i clienti, una pratica esistente da circa trent’anni. Tuttavia, la vera fonte di una possibile rinascita dell’economia è ciò che è ora noto come il ‘mercato intelligente’, costituito da persone collegate in rete che si riuniscono puntualmente online per valutare e consigliare prodotti e servizi, crearne o proporne di nuovi, sviluppare applicazioni e mash-up. Il mercato intelligente supera tutti i confini gerarchici e conosce tutti i segreti delle aziende, mettendo in discussione il motivo per il quale la gente dovrebbe continuare a sottostare ai grandi azionisti quando può diventare il vero protagonista di progetti che ha scelto personalmente. Infatti, se non vi sono business angel in vista, queste persone collegate si riuniscono online anche per finanziare direttamente un progetto. Il crowdfunding, detto anche microfinanziamento collettivo, sebbene ancora allo stato embrionale, può, di fatto, essere il segnale di una svolta del tutto innovativa nell’economia, oltre che fonte di creatività e prosperità. Grazie a Creative Commons, movimento per la liberalizzazione del copyright, i mercati intelligenti possono usufruire online di contenuto riutilizzabile e remixabile per creare mash-up di applicazioni. I mercati intelligenti trovano posto nella coda lunga degli interessi della gente tramite siti di consigli e social media. Internet funge, infatti, da sistema limbico sociale trasferendo emozioni attraverso confini geografici, sociali e ideologici. Benché molto traffico in rete sia irrilevante o illogico, la maggior parte di esso è emozionale perché le emozioni, positive o negative che siano, sono ciò che la gente è più pronta a condividere, incoraggiata anche da Twitter, blog e Facebook. Pertanto, proprio come la creazione di contenuto tende a dipendere sempre più dal contenuto generato dagli utenti, il cosiddetto UserGenerated-Content (UGC), la promozione nei mercati intelligenti si affida a una sorta di ‘pubblicità generata dagli utenti’. Sono tre le regole d’oro per promuovere qualunque cosa nei mercati intelligenti: 1. essere presenti online; 2. stimolare il coinvolgimento; 3. creare comunità. Essere nuovi Be new 89 Come raccomanda il Clue-Train Manifesto, dimentichiamo il branding e il broadcasting per trasformare, invece, la promozione in una conversazione. Sta diventando sempre più importante essere presenti online anziché sui cartelloni pubblicitari, tanto che il Sindaco di San Paolo del Brasile, suscitando notevole apprezzamento, ha eliminato tutta la pubblicità da strade e viali della città, seguito ben presto, in tale iniziativa, da Houston negli Stati Uniti. Consideriamolo un debole segnale del futuro. Gli stessi utilizzatori di questa formula pubblicitaria sono abbastanza compiaciuti della decisione: se nessuno può più utilizzare questo genere di pubblicità, la concorrenza non verrà da lì e potranno investire il loro denaro in mezzi di comunicazione più efficaci. Il secondo elemento è il coinvolgimento. In una cultura partecipativa, la gente non vuole che le si dica cosa fare (‘Mangia questo’, ‘Guarda questo’, ‘Vota per questo candidato’, ecc.). Ora che può esprimere i propri sentimenti attraverso Twitter, desidera dire la sua al riguardo. L’idea è, pertanto, quella di scoprire strategie e mezzi per coinvolgere il potenziale pubblico e invitarlo a una conversazione. La forma minima di coinvolgimento – e contenuto emozionale – è rappresentata dalla pratica futile, ma efficace, di fare clic su ‘Mi piace’ per qualunque cosa. Personalmente non lo faccio mai perché non apprezzo il sistema; non voglio che i miei sentimenti siano ridotti a un qualche trucchetto binario! La terza regola d’oro della promozione nell’era digitale è creare comunità. Il modo migliore per far parlare di sé, dei propri prodotti o dei propri servizi consiste nel riunire la gente affinché si scambi opinioni, creando in tal modo una comunità di interesse. Attenzione, però: ciò potrebbe anche ritorcersi contro se si commette un errore. La reputazione è il valore più prezioso e non va dimenticato che si è sempre valutati. Tutta colpa di uno dei più importanti innovatori della cultura digitale, un italiano la cui invenzione ha supportato l’industria più potente dei nostri tempi, Google. Massimo Marchiori ha, infatti, inventato e sviluppato il page ranking e, per questo, tutti noi siamo continuamente classificati in qualche luogo, in qualche modo, anche voi, cari lettori. Esistono già molti esempi dell’utilizzo di tali regole nei mercati intelligenti e intendo descriverli per vedere come potrebbero essere 90 Derrick De Kerckhove applicati a Udine al fine di indicare la via per la possibile rinascita dell’economia al Future Forum. Derrick De Kerckhove Massmediologo di fama internazionale, insegna Sociologia della cultura digitale e Marketing e nuovi media all’Università di Napoli. Allievo ed erede intellettuale di Marshall McLuhan, è uno dei massimi studiosi della web society oltre che uno dei più autorevoli teorici della comunicazione. I suoi concetti di brainframes e di intelligenza connettiva sono al centro del dibattito contemporaneo. Ha diretto dal 1983 al 2008 il McLuhan Program in Culture & Technology dell’Università di Toronto, dove è tuttora docente. Poliglotta, tiene seminari in tutto il mondo. Tra i suoi saggi tradotti in italiano: Brainframes: mente, tecnologia mercato (Baskerville, 1993); L’architettura dell’intelligenza (Testo&Immagine, 2001); Transpolitica: nuovi rapporti di potere e di sapere (con V. Susca, Apogeo, 2008); Il sapere digitale (con A. Buffardi, Liguori, 2011). Essere nuovi Be new 91 LA SCUOLA DEL FUTURO Paolo Palamiti La scuola del futuro terrà conto in qualche modo di quanto il mondo sia cambiato negli ultimi 20 anni e continui a farlo in maniera molto sostenuta giorno per giorno, allargando i suoi confini e facendo dipendere i suoi sviluppi da variabili sempre più complesse e sempre più difficili da controllare. Laurearsi oggi, oppure prendere un diploma, significa essere ben lungi da una soluzione definitiva riguardo al proprio futuro, sia in termini lavorativi che in termini di conoscenze acquisite. La vecchia idea che avevamo fino a qualche tempo fa di titolo di studio, un po’ come se fosse un titolo onorifico che poteva garantire il diritto a un certo tipo di impiego e a un certo compenso, è ormai definitivamente tramontata, dietro il sipario dell’ennesima rivoluzione industriale e della globalizzazione. Quello che i ragazzi di domani dovranno imparare sarà di guardare il mappamondo in modo diverso rispetto al modo in cui lo hanno sempre guardato i loro genitori. La nostra idea di planisfero era quella che si trovava appesa in tutte le aule insieme al crocefisso, con l’Europa al centro e tutti gli altri continenti intorno. La geografia che ci insegnavano a scuola era quella con le nazioni, i confini, le capitali, i fiumi, i laghi e le catene montuose, dove al massimo si arrivava a toccare un po’ di orografia e un po’ di tettonica delle placche. Il planisfero di oggi dovrebbe almeno prendere in considerazione l’idea di mettere la Cina al centro del mondo, sulla base degli sconvolgimenti che la sua apertura dei mercati e lo spostamento verso il mercato delle dinamiche della sua economia hanno provocato all’economia e alla politica internazionale. Se si volesse poi essere ancora più moderni e ancora più espliciti, si dovrebbe provare a immaginare un insegnante che ogni giorno cambia il disegno del suo planisfero, quello appeso nell’aula dove insegna, mettendoci al centro un altro Paese, o almeno un’altra area geografica. Quelli che fino a poco tempo fa erano i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) poi sono diventati i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), poi sono diventati i NEXT 11 (Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud, 92 Paolo Palamiti Vietnam), fino a diventare oggi i MINT (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia). Nel giro di pochi anni ognuna di queste sigle ha rappresentato il futuro, come a voler dire ai nostri giovani «se volete veramente crescere e guardare al futuro non potete non pensare di specializzarvi in uno di questi Paesi». Se provo a immedesimarmi in uno qualsiasi di questi ragazzi, sarei già sconvolto, nei panni della maggior parte di loro, di dover fare i conti con il fatto di dover guardare al futuro al di fuori di quei confini entro i quali ho trascorso i miei giorni fino a oggi, ovvero il mio paese, o la mia città, la mia provincia o al massimo la mia regione. Il significato di domestico, i miei insegnanti dovranno insegnarmi che da qualche tempo non è più lo stesso, che non è più legato alla mia casa, alle mie mura, alla mia famiglia, al mio giardino e che inteso in questo senso può diventare un vincolo. Rimane invece una risorsa se l’aggettivo domestico lo associo a una cultura e a un insieme di tradizioni che fanno parte integrante della mia identità e delle quali io mi posso fare forte per creare valore aggiunto. Ripensare a un nuovo modo di concepire il mio attaccamento alla mia casa, alla mia famiglia, al mio giardino, alla mia cultura e alle mie tradizioni sarebbe comunque soltanto il primo passo da compiere verso una nuova dimensione entro la quale dover concepire la mia cultura e la mia società: quella europea. L’Europa, infatti, è ormai entrata a far parte delle nostre vite molto più in profondità di quanto ci immaginiamo o qualcuno ci vuole dare a credere. Partendo dall’idea che ormai più della metà del nostro patrimonio legislativo è soltanto la trasposizione a livello nazionale di decisioni prese a Bruxelles, in un mondo così fortemente globalizzato come il nostro, quella europea sarà sempre di più la nostra dimensione minima, dove i nostri giovani dovranno andare a inserire le loro vite, le loro decisioni di studio, la loro dimensione culturale, insieme a quella lavorativa. L’Europa è ormai entrata talmente tanto a far parte del nostro immaginario e della nostra idea di futuro da aver ormai intaccato anche il nostro modo di sognare. Anche senza rendercene conto, ad esempio, ormai facciamo sempre di più appello, non soltanto noi europei, a un’Europa che protegga per il futuro un’idea di pace che ha saputo garantirci negli ultimi 60 anni, come mai era successo prima. Questa pace, in particolare, l’Europa continua a difenderla con grande suc- Essere nuovi Be new 93 cesso (come testimonia il Premio Nobel per la pace di cui l’Unione Europea è stata insignita proprio nel 2013) sia all’interno che all’esterno dei propri confini, andando ad allargarli anche proprio con la speranza di riuscire a raggiungere regioni del mondo all’interno delle quali il raggiungimento della pace attraverso l’Europa rimarrebbe davvero l’ultima speranza concreta di successo (come nel caso del Medio Oriente). Inoltre, parlando del modo in cui l’Europa ci insegna a sognare, non possiamo non pensare al modo diverso in cui l’Europa ci fa pensare (o almeno dovrebbe farci pensare) alla gestione della nostra politica. Da questo punto di vista, infatti, mi immagino e abbiamo voluto immaginarci attraverso il Future Forum una scuola dove la politica, così come la storia, vengono insegnate sì a partire dai greci, ma arrivano almeno fino quasi ai giorni nostri, addirittura spingendosi oltre la nostra epoca, fino al futuro. Perché soltanto in questo modo si riuscirà davvero a far capire a chi il nostro Paese, o le nostre amministrazioni o le nostre imprese, un giorno le dovranno guidare, che la nostra politica oggi, avendo come punto di riferimento quello europeo e poi quello internazionale, non è soltanto diversa da quella dei greci, ma è anche molto diversa da quei partiti e da quelle ideologie che hanno governato il nostro mondo fino ai primi anni ’90. La fine della guerra fredda, infatti, e la caduta del muro del Berlino, hanno fatto entrare le generazioni di allora in un’epoca storica che, se da un lato rappresenta la nostra attualità, dall’altro ha creato dinamiche talmente diverse sia dal punto di vista economico, che da un punto vista giuridico, ma soprattutto dal punto di vista della gestione del potere a livello internazionale, che senza insegnarle ai nostri giovani, non si potrebbe neppure pensare che i nostri giovani in questo nostro mondo potrebbero essere veramente pronti a dire la loro. A conti fatti, quindi, ai nostri giovani, pensando al futuro, dovremmo cercare di trasferire un messaggio molto forte: studiare fino a trent’anni non basta. Ma anche che studiare fino a trent’anni è fin troppo, se fatto in modo esclusivo. In altre parole, le complessità del nuovo mondo globalizzato – sia per quanto riguarda il numero delle variabili che incidono nei diversi meccanismi di funzionamento del sistema, sia per quanto riguarda gli innumerevoli collegamenti fra le stesse variabili, sia tenedo conto dell’incertezza dei risultati 94 Paolo Palamiti attesi, sia della velocità dei loro cambiamenti – richiedono un grado di specializzazione e di approfondimento che non si può certo esaurire in ventiquattro anni di vita (tenendo conto che fino a sei anni, giustamente, non si va a scuola). Allo stesso tempo, le stesse considerazioni implicano che la scuola, per quanto vorrà aggiornarsi e rendere i propri insegnamenti più fluidi e più moderni, sia dal punto di vista dei contenuti che delle modalità didattiche, non sarà mai in grado di comprendere la complessità e raggiungere la velocità di crociera di ciò che là fuori, nel modo reale, succede in tempo reale, mentre nella mente dei ragazzi non può che essere filtrato, per la velocità più giusta al loro apprendimento, che cambia moltissimo con la loro età, con il loro livello di maturità e con le scelte che faranno riguardo al loro futuro. Se è vero, infatti, che la nostra epoca è quella dell’economia della conoscenza, allo stesso tempo è anche vero che viviamo nell’epoca della conoscenza applicata, ovvero di una conoscenza data sempre meno in astratto, sempre meno assoluta, che deve invece essere sempre testata praticamente nell’immediato, prima di passare alla scoperta o al livello di conoscenza successivo. Ecco, dunque, che l’unico modo di far guardare i nostri giovani al futuro in modo istruttivo diventa quello di farli pensare al loro lavoro in astratto e alla loro conoscenza in concreto. Questo significa due cose. Da una parte pensare al lavoro in astratto significa non pensare a un lavoro specifico che, una volta individuato, rimanga quello per sempre. Molto meglio pensare a un modello di lavoro che ci permetta di mettere sempre più a frutto i nostri talenti e le competenze e le esperienze che abbiamo acquisito, anche se il contesto a cui le applichiamo cambierà, come succederà per certo e anche più volte. Dall’altra parte, pensare alla conoscenza in concreto, significa dimenticarsi della cultura come nozione e cominciare a far propria l’idea delle discipline più astratte (come la filosofia, la letteratura o la storia) come contributi essenziali al nostro modo di essere, e l’idea delle discipline più tecniche come contributi essenziali al nostro modo di fare. In altre parole, per essere sicuri di non aver gettato al vento ventiquattro anni della nostra vita e di non ritrovarsi a uscire dall’università e dai vari Master e Dottorati a trent’anni ritrovandosi di fronte a un mondo che, nel frattempo che noi passavamo le nostre giornate sui Essere nuovi Be new 95 libri, è cambiato talmente tanto da rendere le nostre conoscenze quasi totalmente inutili, i nostri studi dovranno essere sempre più affiancati da esperienze lavorative che ci facciano conoscere il mondo fin da subito, senza correre il rischio di essere esclusi da un mercato del lavoro che ci considera già troppo vecchi prima ancora di esserci entrati, ma soprattutto facendo maturare in noi la coscienza di quel tipo di conoscenza e di esperienza nei confronti della quale i nostri giovani dovranno essere sempre più esigenti, rivolgendosi a un mondo della scuola che, se non vorrà definitivamente rinunciare a loro, dovrà saper loro rispondere adeguatamente. Il Liceo Economico e Sociale (LES), in questo senso, rappresenta sicuramente la frontiera del nostro modo di fare scuola e del nostro modo di fare cultura. Se da un lato, infatti, il tipo di economia alla quale si pensa insegnando e frequentando il LES non è quella tradizionale, orientata soltanto all’individuo e al profitto – al LES si insegna e si impara pensando anche alla solidarietà necessaria a far rinascere un territorio e quindi un’idea di persona orientata non soltanto al proprio tornaconto, ma anche a far nascere negli operatori di quel territorio un profondo senso di comunità che solo può riuscire a far emergere anche in un contesto internazionale – dall’altro lato il LES punta a formare la vera classe dirigente del futuro, partendo già dai ragazzi delle scuole superiori, affiancando a una scuola comunemente intesa – fatta di libri e aule, lezioni e compiti in classe, mattinate di insegnamento e pomeriggi di studio – una serie di progetti che possiamo tranquillamente definire d’impresa, dove non soltanto accanto all’economia politica si insegna l’economia aziendale, ma dove i nostri ragazzi imparano a pensare come dei veri e propri ‘imprenditori globalizzati’, capaci di ragionare con l’ampiezza necessaria oggi ad abbracciare le giuste valutazioni per rivolgersi ai mercati, ma anche con il coraggio necessario a immaginare la loro vita, il loro lavoro, la loro azienda, a trent’anni di distanza e abituandosi a prendere decisioni oggi che dipenderanno da come sarà il mondo per allora, ma che soprattutto influenzeranno fin da oggi non soltanto la loro vita, ma sicuramente anche quelle dei loro figli e probabilmente anche quella dei loro nipoti. Frequentare il LES oggi significa far apprendere ai nostri giovani un linguaggio capace di farli interloquire fin da subito con 96 Paolo Palamiti quelle imprese, con quei datori di lavoro, con quelle istituzioni, con quei gruppi di interesse insieme ai quali saranno protagonisti di un mondo che cambierà sempre di più anche grazie a loro, possibilmente in meglio. Paolo Palamiti Consigliere parlamentare europeo, si è occupato di regolamentazione del mercato interno, ambiente, di relazioni esterne e bilancio comunitario. Laureato in Economia, specializzato in Politica internazionale presso l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), prosegue la sua attività di ricerca e d’insegnamento presso l’Università Bocconi, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e l’Istituto Universitario Sophia. Essere nuovi Be new 97 IL FUTURO DELLE INFRASTRUTTURE STRADALI Sostenibilità e riutilizzo dei materiali marginali Nicola Baldo Sostenibilità è la parola chiave che meglio di ogni altra può sintetizzare con efficacia quale possa e debba essere il futuro delle infrastrutture stradali, per un Paese che voglia rimanere al passo con quelli più sviluppati e competitivi, a maggior ragione in un momento storico caratterizzato da una difficile congiuntura economica. Il concetto di sviluppo sostenibile è stato già da tempo definito in ambito internazionale, in termini del tutto generali, nel rapporto Brundtland (ONU, 1987); si parla di un modello di sviluppo che soddisfa i bisogni del presente, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni. Più recentemente, in ambito italiano, le norme in materia ambientale (D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) hanno delineato con maggior precisione le caratteristiche salienti dello sviluppo sostenibile (art. 3 quater): • non compromissione della qualità della vita; • prioritaria tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale; • equilibrio fra risorse ereditate, da risparmiare e da trasmettere sulla base di un principio di solidarietà; • salvaguardia degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative prodotte dalle attività umane. Per comprendere come tali principi possano concretizzarsi nel settore delle costruzioni stradali, risulta opportuno introdurre alcune brevi premesse, relative alla tecnologia costruttiva delle infrastrutture viarie. Risulta immediato osservare quale sia l’elemento comune a tutte le strade, qualunque sia il tracciato geometrico; si tratta della pavimentazione, che costituisce la sovrastruttura stradale. La percezione visiva di una pavimentazione si limita per lo più alla superficie di rotolamento degli pneumatici, ma il manto superficiale è solo la punta dell’iceberg; 98 Nicola Baldo al di sotto di esso si sviluppa il corpo della sovrastruttura, di composizione e spessore variabile, in relazione allo specifico ambito di esercizio (viabilità autostradale, piuttosto che locale, ecc.). Il componente principale delle pavimentazioni stradali, da un punto di vista quantitativo, è certamente l’aggregato minerale, che costituisce lo scheletro litico della sovrastruttura. Tale aggregato, ricavato prevalentemente dalle attività estrattive di cava, rappresenta una risorsa naturale limitata, il cui impiego risulta sempre più oneroso, sia in termini economici, che dal punto di vista dell’impatto ambientale e territoriale. Del resto, se da un lato si registra una minore disponibilità di aggregati naturali, poiché le cave vengono aperte con crescente difficoltà in ragione di autorizzazioni molto stringenti, dall’altro si presenta la possibilità di impiegare materiali di scarto, per i quali lo smaltimento in discarica appare una opzione sempre meno sostenibile. La difficile reperibilità di siti nel territorio da adibire a tale uso e la ferma opposizione della popolazione residente nelle aree attigue, rendono certamente preferibile la possibilità di riutilizzare tali materiali residuali. Pertanto, i principi dello sviluppo sostenibile, in particolare quelli della tutela ambientale e dell’equilibrio delle risorse, possono tradursi per l’ambito in esame nella sostituzione, totale o parziale, dell’aggregato minerale con materiali di scarto, che in termini tecnologici possono essere definiti come materiali marginali. Trattasi di sottoprodotti industriali e rifiuti dalle più svariate origini (industriali, di trasformazione, di costruzione) che possono presentare caratteristiche fisiche e meccaniche, nonché prestazionali paragonabili a quelle dei tradizionali materiali da costruzione. Il riutilizzo dei materiali marginali consente quindi di tutelare le risorse naturali, limitando l’impiego di inerte da cava e al contempo di salvaguardare il territorio con la riduzione di rifiuti da smaltire in discarica. Naturalmente l’impiego dei materiali marginali non può prescindere dalla verifica dell’idoneità tecnica del materiale, in relazione alla particolare applicazione e agli eventuali specifici problemi di progettazione, costruzione ed esercizio, ma soprattutto della totale compatibilità ambientale, al fine di evitare l’uso indiscriminato di rifiuti tossici e pericolosi per la salute dell’uomo. Molteplici sono le tipologie di materiali marginali potenzialmente di interesse, come le scorie di acciaieria e le sabbie di fonderia, sotto- Essere nuovi Be new 99 prodotti delle lavorazioni siderurgiche e metallurgiche, il granulato di gomma ottenuto dalla triturazione degli pneumatici fuori uso, gli aggregati derivanti dalle demolizioni e costruzioni edili, le ceneri pesanti prodotte dall’incenerimento dei rifiuti solidi urbani, i fanghi di dragaggio, le plastiche riciclate e naturalmente il fresato stradale, ricavato dalla demolizione delle pavimentazioni esistenti a fine vita utile, solo per citare quelli maggiormente investigati a livello nazionale e internazionale. Sono infatti oramai numerose le ricerche sperimentali condotte in questo ambito che hanno verificato positivamente la possibilità di sostituire l’aggregato di cava con alcuni dei materiali menzionati, nella formulazione di conglomerati innovativi per pavimentazioni stradali. In questo senso l’Ateneo di Udine, in collaborazione con altre prestigiose istituzioni Universitarie (in particolare l’Università di Padova e il Politecnico Olandese di Delft) è da tempo impegnato, con successo, nella ricerca e nello sviluppo di miscele speciali caratterizzate da elevati contenuti di materiali marginali (dal 30% al 90% in peso per le miscele bituminose, fino al 100% in peso per quelle cementizie), che soddisfino pienamente i requisiti di accettazione dei principali capitolati tecnici. Tra le diverse formulazioni messe a punto si menzionano i conglomerati antisdrucciolo chiusi tipo SMA (Stone Mastic Asphalt) per gli strati superficiali di usura, le miscele ad alto modulo per gli strati di collegamento e quelli portanti di base, i conglomerati cementizi e quelli schiumati per gli strati profondi di fondazione delle pavimentazioni stradali. In tutte queste applicazioni le soglie minime di idoneità tecnica sono sempre state raggiunte e anzi largamente superate, anche ben oltre il 100%, in relazione al parametro fisico-meccanico considerato. Non meno rilevanti sono risultati i miglioramenti nelle prestazioni ingegneristiche più significative, quali la resistenza alla fessurazione da fatica e alle deformazioni permanenti delle miscele bituminose, o la resistenza all’acqua dei conglomerati schiumati, con incrementi prestazionali anche superiori al 50% rispetto alle corrispondenti miscele confezionate con aggregato minerale convenzionale. Tutto questo nel pieno rispetto dei requisiti ambientali vigenti, ad esempio con cessione di metalli pesanti per eluizione sempre contenuta entro i valori ammissibili dalle norme ambientali. 100 Nicola Baldo La sostenibilità delle costruzioni stradali, per mezzo del riutilizzo dei materiali marginali, è quindi un obiettivo realisticamente perseguibile, in grado di coniugare felicemente esigenze di convenienza economica, di idoneità tecnica e di salvaguardia ambientale del territorio. Nicola Baldo Ricercatore nel settore scientifico disciplinare ‘Strade, ferrovie, aeroporti’ presso il Dipartimento di Chimica, Fisica e Ambiente dell’Università di Udine, dove svolge anche attività didattica. Laureatosi in Ingegneria civile all’Università di Padova, ha poi conseguito il dottorato di ricerca in Geodesia e Geomatica presso il Politecnico di Milano nel 2006. Essere nuovi Be new 101 IL PENSIERO ALIMENTARE E LA SUA STAGNAZIONE Alberto Capatti Nella storia presente, la cultura alimentare è strabica. Guarda per un verso al passato e ritrova negli alimenti ‘tipici’ la continuità temporale con esso; si affida per il fabbisogno quotidiano a una industria e a una grande distribuzione che sopperiscono ai bisogni e ai desideri, senza contestare la nostalgia dell’orto e del piccolo mercato. Apparentemente non sembra esserci un futuro, in Italia, al di fuori del nostro passato e di una attualità di consumi programmati e soddisfatti dall’industria agroalimentare. Questa visione si fonda sulla certezza che la storia presente è nata da una catastrofe identificata con la seconda guerra mondiale e con Hiroshima (fine e preludio della pace) e che una possibile catastrofe incomba più che mai su di noi, declinata come termica, climatica, ambientale, ovvero demografica o ancora economica. Gli indici che vengono citati, dalla biodiversità alla CO2, dal surriscaldamento della terra, alla crescita della popolazione mondiale e di consumi probabilmente insostenibili, sono tutti a supporto della certezza che viviamo una gravissima crisi e che s’impongono delle scelte. D’altro canto l’industria serve proprio a scongiurare la rarità e le crisi d’approvvigionamento, che in passato toccavano popolazioni intere e soprattutto le classi lavoratrici e gli stessi contadini, e costituisce un fattore di equilibrio e di squilibrio contemporaneamente. Dal 1984, con il volume Gastronomia e società curato da Corrado Barberis, e soprattutto dall’istituzione europea di DOP e IGP, nel 1992, il prodotto permette di misurare il nostro legame al passato, e serve a far sopravvivere e a rifondare la tradizione culinaria. Per tradizione non si intende la storia alimentare, ma la continuità o l’avvicendamento generazionale nelle pratiche contadine o artigianali, nel lavoro domestico e nella cucina di casa, con la premessa che l’industrializzazione e le sue conseguenze – che vanno dall’emigrazione al trasferimento degli alimenti nel mondo intero – hanno creato, creano fratture che 102 Alberto Capatti provocano scomparsa o rarità di vere e proprie eccellenze, o azzerano, con piatti pronti, qualsiasi competenza. Nell’ultimo ventennio, le associazioni (Slow Food, ambientalisti, verdi…) e i certificatori eco e bio, si sono alleati in una salvaguardia del patrimonio ‘naturale’, della civiltà contadina e dei saperi artigianali. La conseguenza è stata che per assicurarci un futuro migliore, bisogna ispirarci, in Italia, ai valori di un’epoca anteriore al boom economico e ai suoi effetti industriali. Si tratta di una nuova cultura ispirata a principi etici che ritrovano nell’orto, nel chilometro zero, nel contadino un punto di riferimento, una certezza. La conseguenza è stata una conflittualità permanente. Tecnocibo e prodotti ‘naturali’ entrano in collisione rappresentando valori incompatibili anche quando il primo risponde alla necessità di nutrire tutta la popolazione, razionalizzando i processi, e i secondi legittimano la memoria e i valori del cibo. Gli OGM hanno rappresentato e rappresentano il punto di collisione di un sistema alimentare bifronte, in cui contano non la ricerca scientifica, la pianificazione economica, la cultura stessa macro e micro, ma la visione apocalittica o utopica o semplicemente unidimensionale e presentista del futuro. Il problema è diventato ‘quale natura ci immaginiamo’: tradizionale o brevettata, etica o scientifica, a prescindere dalla nostra storia attuale, che ci imporrebbe di valutarla con tutte le sue contraddizioni. I cibi stessi fungono da idee: nel consumo di una mela, nella scelta di un formaggio, mettiamo in gioco dei valori, al fine di mascherare le nostre stesse perplessità sulla loro origine. La principale conseguenza di questo conflitto che si ripercuote nella nostra percezione dello spazio, locale e/o globale, e del tempo, passato e/o presente, è stata la perdita di una visione critica, e una perfetta stagnazione del pensiero alimentare. Sarebbe facile documentare questo aspetto con una cronaca delle fasi di programmazione di Expo 2015 e dei suoi ipotetici padiglioni, sino al compimento del 2013, oppure con una analisi della cultura gastronomica attuale strangolata dalla incapacità di affrontare la sua stessa crescita, favorita da fattori in conflitto e compromessa dalla sua ideologia. Gli squilibri del sistema alimentare non permettono che il pensiero si rifugi oggi nei luoghi comuni della tradizione e della catastrofe e Future Forum è sicuramente il segnale che occorre superare una ormai ventennale recessione. Essere nuovi Be new 103 Alberto Capatti Membro del comitato scientifico di CasaArtusi, è stato professore di Storia della cucina e della gastronomia all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, di cui è stato Rettore. Le sue ricerche si muovono nel campo della cultura gastronomica, della storia dell’alimentazione e della cucina italiana e francese. Ha diretto il mensile di cultura alimentare «La Gola» e il trimestrale di Slow Food «Slow». Ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra cui la curatela dell’autobiografia di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina (Rizzoli, 2010) e La cucina italiana: storia di una cultura (con M. Montanari, Laterza, 2005). 104 LE BUONE AZIONI DI RIFIUTI ZERO Rossano Ercolini Le certezze nella vita sono poche, ma nel ‘piccolo’ alcune certezze le ho. Una: il Goldman Prize il 15 aprile scorso mi è stato assegnato a San Francisco e poi in un’altra cerimonia partecipatissima a Washington perché ho promosso in Italia e in Europa una campagna a favore della strategia Rifiuti Zero, contro l’incenerimento dei rifiuti. Questa ‘certezza’ è stata rinforzata da incontri autorevoli avuti con almeno trenta tra deputati e senatori guidati da una raggiante Nancy Pelosi (per uno dei sei premi assegnati a un italiano) a Capitol Hill Building nel corso di un lunch e dall’incontro avuto con lo staff del presidente culminati con l’incontro con Obama. Nella stessa mattinata, nel corso di un tour de force, avevo incontrato la task force della Banca Mondiale e poi l’intera direzione dell’Ente di Protezione ambientale degli USA. Prime conclusioni: se negli USA e per volontà della Goldman Foundation si è voluto attribuire un riconoscimento che viene definito il ‘Nobel alternativo per l’ambiente’, come direbbe Cocciante ‘ci sarà un perché’. Magari è un perché che in Italia ha turbato e turba le alte sfere dell’industria sporca e assistita e gli stati maggiori della Federambiente (che vuole gli inceneritori) e gran parte della ‘politica’ che trasversalmente ha promosso la bugia della ‘termovalorizzazione’. Ma è un perché che riconosce, oltre alla ‘biografia’ del sottoscritto spesa nel lottare dal 1976 contro inceneritori e discariche, anche i percorsi di una rete diffusa di comitati, associazioni e Comuni (guidati dal Comune di Capannori in provincia di Lucca) impegnate a promuovere l’alternativa dei ‘10 passi verso Rifiuti Zero’. Sarà per questo che adesso quando vado, invitato da moltissimi gruppi di cittadinanza attiva ma anche da Comuni intorno a me c’è un rispetto e una attenzione mai avuta negli anni precedenti. E io, questa ‘autorevolezza’ riconosciuta sul campo la voglio interamente giocare perché in Italia e in Europa non sia l’incenerimento dei rifiuti (‘dedicato’ cioè in inceneritori, o ‘non dedicato’ cioè in cemen- Essere nuovi Be new 105 tifici) a farla da padrone, ma lo sforzo entusiasmante e rivoluzionario dell’obiettivo Rifiuti Zero o Zero Waste. Esso si fonda ed esalta non il ruolo delle tecnologie costosissime e comunque inaffidabili (perché comunque anche gli inceneritori moderni emettono diossine e PCB oltre a nanopolveri che non sono nemmeno previste dagli standard emissivi di legge, ma che sono pericolosissime per la salute umana) ma il ruolo delle comunità e della cittadinanza attiva. Sono i cittadini che hanno letteralmente nelle loro mani la possibilità di fare o di non fare rifiuti. Infatti i rifiuti ci sono quando mischiamo l’umido con gli scarti asciutti come carta, plastiche e metalli, mentre se le stesse mani tengono separati i flussi degli scarti, a partire dagli scarti putrescibili, non abbiamo rifiuti ma ‘scarti’ di grande valore ecologico ed economico. Non a caso nel 2012 l’UE ha affermato che nel cassonetto c’è una vera e propria miniera urbana preziosissima, soprattutto perché nei prossimi 25 anni tutti gli analisti prevedono una crisi nel reperimento delle materie prime (raw materials scarcity). Allora non la Zero Waste Italy, ma il ‘governo’ europeo ha affermato che ‘Rifiuti Zero è possibile’ e che entro il 2020 niente che sia riciclabile e/o compostabile potrà essere interrato o bruciato. È possibile davvero andare in questa direzione? Chi lo sta facendo e dove? E come? Certo che sì! San Francisco e gran parte della California (comprese Los Angeles, San Diego, Oakland, e l’intera Silicon Valley) lo stanno facendo. San Francisco, bellissima città, è già ora all’82% di sottrazione dallo smaltimento in discarica (e non vuole inceneritori). Los Angeles, quattro milioni e mezzo di abitanti è un po’ più indietro ma pur sempre a un discreto 65% (e Rifiuti Zero si intende raggiungibile entro il 2020-2022). Ma molte altre città come Camberra e intere regioni del Canada e degli USA stanno perseguendo tale obiettivo. Ci si accorge, sulla scorta dei ‘continenti di plastica’ che le correnti degli Oceani hanno materializzato al largo del Pacifico (tra California e Haway) che occorre venir fuori dalla ‘inciviltà dell’usa e getta’ e che non è più tempo di produrre rifiuti che rappresentano in termini ambientali, ma anche economici, delle vere e proprie pietre al collo della stessa economia. Ecco, allora il successo dei 10 passi Rifiuti Zero in Italia. Ecco il perché del successo di quella ‘rivoluzione in corso’ di 200 Comuni italia- 106 Rossano Ercolini ni che rappresentano ormai più del 7% della popolazione del nostro Paese. Paese bellissimo e ben strano, dove, in una sorta di luna-park troviamo il peggio della gestione dei rifiuti ‘azzerata’ in discariche e inceneritori (come in quello di Brescia, che blocca le potenzialità della raccolta differenziata di questa città) ma anche il meglio. Abbiamo Treviso, che a pieno titolo può considerarsi la nostra San Francisco, e abbiamo Salerno con buona pace di chi dice che nel Sud le buone pratiche non sarebbero possibili. Passando naturalmente per Capannori (47.000 abitanti in provincia di Lucca) di cui nessuno si sarebbe accorto se non avesse sconfitto gli inceneritori che la Regione voleva costruire e se non avesse adottato la ormai ‘mitica’ delibera Rifiuti Zero adottata ora da oltre 200 Comuni del Bel Paese. 10 passi per tanti posti di lavoro a favore della raccolta porta a porta (a Capannori 60, nell’empolese Val d’Elsa, 220.000 abitanti, almeno 160 e in Italia almeno altri 500.000). Allora, in un riassunto incalzante che scandisce modi e tempi del ‘fare’: RD, raccolta differenziata porta a porta, impianti di compostaggio che producano per un’agricoltura sana, biologica e a filiera corta, riciclo di materiali come metalli preziosi, fibre cellulosiche, polimeri plastici, vetro ecc., centri per la riparazione e il riuso che ridiano una seconda vita a beni durevoli, a mobili, ad abiti e oggetti con cui riempire di gente e di acquisti vere e proprie (e convenienti) boutique dell’usato. E poi interventi locali di riduzione ‘a monte’ degli scarti, a partire dall’autocompostaggio familiare e/o di condominio, di sistemi di ricariche alla spina, di adozione di pannolini lavabili, di sostituzione dell’usa e getta in sagre, scuole, feste e marce non competitive. In questo modo, Comuni come quello da Capannori hanno ridotto del 40% la propria produzione dei rifiuti (rispetto al 2004, anno di maggior produzione i rifiuti pro capite giorno sono scesi da un 1,92 kg a 1,18) e molti altri, soltanto passando dalla raccolta attraverso cassonetti stradali al cosiddetto porta a porta (no Vespa) hanno fatto registrare riduzioni immediate del 15-20%. Complice la crisi, oggi Rifiuti Zero è ancora più possibile, se soprattutto applichiamo sistemi di tariffazione ‘you pay as you throw’ (paghi in base ai rifiuti non differenziati prodotti) che incentivano le buone pratiche, scoraggiando invece la produzione indiscriminata di rifiuti. Soltanto applicando questi primi sette passi si ottengono risultati di riduzione degli ‘smaltimenti’ spesso superiori al 75% (come sta avve- Essere nuovi Be new 107 nendo in migliaia di Comuni italiani dal nord al sud). Il passo numero 8 risulta importantissimo per applicare il progetto RZ. Infatti secondo la strategia RZ il ‘residuo’ o RUR (Rifiuto Urbano Residuo) non deve essere fatto scomparire in discariche e/o inceneritori (anche un inceneritore ha bisogno di due discariche per le ceneri pesanti e per le ceneri ‘fini’ e più pericolose) o trasformato in ‘nanopolveri’ dai camini degli inceneritori, ma deve essere reso ben visibile e studiato. Certo, in un periodo transitorio deve essere anche trattato attraverso ‘impianti a freddo’ o ‘fabbriche dei materiali’ in grado di recuperare ancora metalli, fibre cellulosiche e le stesse plastiche eterogenee (plaxmix) oltre che a stabilizzare le residue frazioni organiche. In questo modo di quel 25-30% che residua dopo le raccolte porta a porta non più del 10-12% verrà stabilizzato per essere smaltito in discariche dove niente di pericoloso e particolarmente impattante andrà conferito. Con il plasmix ormai recuperato si potrà realizzare un lungo elenco di prodotti quali i pallets, i vasi per fiori, i tubi per l’idraulica, le cassette per l’ortofrutta, materiali per l’edilizia. In questo senso e per iniziativa del Centro di Ricerca Rifiuti Zero del Comune di Capannori che io dirigo e in collaborazione con l’industria cartaria del distretto cartario della piana di Lucca (il più importante d’Europa continentale) stiamo dirottando lo smaltimento dello scarto di pulper (derivante dalla lavorazione dei maceri per produrre cartone ondulato) consistente soprattutto in plastiche eterogenee dall’incenerimento alla produzione di manufatti da ‘plastica seconda vita’ attraverso un impianto pilota di Occhiobello (RO) dell’azienda R-Ritecno-R. L’obiettivo è quello di realizzare proprio a Capannori un impianto a regime che metta a sistema la piena riuscita dei test condotti ormai su tonnellate di uno scarto che da problema sta per diventare materia prima/seconda. Lo step 8/b (la seconda parte del passo 8) è invece quella di studiare cosa ‘rimane sullo stomaco del sistema di digestione dei rifiuti’ a partire dai rifiuti non riciclabili e/o compostabili. Anche qui ormai possono essere ‘raccontate’ esperienze di ‘successo’ come quelle del centro di ricerca RZ di Capannori, che avendo il compito di studiare che cosa rimane nel sacco grigio del RUR ha aperto dei ‘casi studio’ di cui quello più famoso è stato quello sulle capsule del caffè. Ebbene, dopo aver scritto una ‘famosa’ lettera a Lavazza si è aperto un tavolo di confronto con AIIPA (che raccoglie le aziende del settore) le 108 Rossano Ercolini quali stanno preparando tre centri pilota per recuperare le plastiche e il fondo del caffè delle capsule. Nel frattempo è stato stimolato un confronto tecnico che ha portato brevetti di capsule riutilizzabili per centinaia di volte, di ‘compresse’ di caffè ‘monoporzionato’ i cui fondi sono interamente recuperabili così come il ridottissimo imballaggio plastico. Insomma, seppur nel concreto, è stato sollevato il problema della ‘Responsabilità Estesa del Produttore’ per cui se il 70% del problema dei rifiuti viene risolto dalle buone pratiche della comunità, il restante deve essere messo nelle mani dei cicli produttivi che, a fronte degli attuali prodotti non recuperabili e quindi considerati dei veri e propri errori di progettazione, devono, appunto, essere riprogettati industrialmente. È infatti questo il passo n. 9 mentre il n. 10 è quello di ridurre sempre più il ricorso alla discarica, considerata transitoria e dove mettere solo scarto non impattante. Ma Rifiuti Zero non si occupa solo di rifiuti. Esso è tutt’uno con la buona educazione e il coinvolgimento dei cittadini che fanno la differenza e la differenziata. Allora, attivare un percorso Rifiuti Zero a partire dal basso (buttom up) significa sviluppare la democrazia delle comunità locali, restituendo un volto umano alle amministrazioni, ai Comuni e alla politica. Allora Rifiuti Zero va oltre la stessa, importante, sostenibilità ambientale e introduce una ‘società oltre lo spreco’ che, guidandoci gradualmente fuori dalla ‘inciviltà del consumismo’, lancia una sfida radicale alla stessa politica. Rifiuti Zero è allora ‘il nuovo che avanza’. Rossano Ercolini Responsabile del progetto ‘Passi concreti verso Rifiuti Zero’ è il coordinatore del Centro di Ricerca Rifiuti Zero del Comune di Capannori, in provincia di Lucca. È presidente dell’associazione ‘Diritto al Futuro’, che ha promosso la vertenza contro i CIP6 ed è tra i principali fondatori della Rete nazionale Rifiuti Zero, un impegno che è stato raccontato nei volumi Rifiuti Zero, una rivoluzione in corso (di Paul Connett, con P. Lo Sciuto, Dissensi, 2010) e in Zero rifiuti (di M. Correggia, Altreconomia, 2013). Per la sua attività gli è stato assegnato il prestigioso Goldman Environmental Prize 2013, Nobel alternativo per l’ambiente. Essere nuovi Be new 109 SUPPORTARE L’INNOVAZIONE NELLE AREE MONTANE Il modello trentino Luca Capra L’economia trentina è fortemente influenzata dalla presenza della montagna. Il 60% della superficie del Trentino è al di sopra dei mille metri s.l.m. Il 71,3% del territorio ospita bosco, pascolo e acque. Il 70% della popolazione risiede nei Comuni al di sotto dei 600 m s.l.m. Si può parlare a tutti gli effetti di economia di montagna. Il modello di sviluppo trentino non si fonda pertanto su grandi aree industriali, bensì su tre concetti facilmente incardinabili anche in un territorio di piccole dimensioni e orograficamente complicato: ‘green’, ‘small’ e ‘smart’. Ogni anno in Trentino si investono più di 200 milioni di euro in ricerca, sia verso strutture pubbliche che private. Il Trentino ospita infatti importanti centri di ricerca, come la Fondazione Kessler e la Fondazione Mach oltre a importanti centri nevralgici di sviluppo di importanti aziende nazionali e multinazionali. Non solo, anche l’università rientra tra le eccellenze italiane ed europee nella ricerca, nella qualità dell’offerta e nell’attrazione internazionale. Ricerca e formazione quindi sono importanti pedine per lo sviluppo strategico della Provincia. Il sistema trentino inoltre offre incentivi e agevolazioni per lo start-up, lo sviluppo e il consolidamento di impresa, l’export, oltre che servizi di carattere logistico che consentono di trovare una casa all’azienda, a seconda delle proprie necessità e dello stadio di sviluppo. Passo importante in questo senso è stata la creazione di due poli di innovazione tematici gestiti da Trentino Sviluppo – il Polo della Meccatronica e Progetto Manifattura – a supporto di due cluster trainanti del territorio, quello della meccatronica e delle green techs, che assieme a legno, ICT e agroalimentare detteranno lo sviluppo futuro del sistema. In questo contesto si colloca anche il ruolo di Trentino Sviluppo, l’agenzia creata dalla Provincia autonoma di Trento per favorire lo 110 Luca Capra sviluppo sostenibile del Trentino. L’esperienza operativa di Trentino Sviluppo, in continuo confronto con le dinamiche nazionali e internazionali, ne fa l’enzima del territorio trentino ovvero il punto di contatto con le opportunità offerte a livello territoriale, nazionale, europeo e internazionale. Quattro sono i driver operativi di Trentino Sviluppo – logistica, servizi, finanza e network – attraverso i quali si favorisce la nascita, lo sviluppo, la crescita, il consolidamento e l’innovazione di impresa. Alle imprese si offre quindi un moltiplicatore di opportunità orientato allo sviluppo del business verso l’eccellenza e il successo. Il punto di forza di Trentino Sviluppo è di utilizzare di volta in volta i propri strumenti a seconda delle esigenze e del contesto che vive l’impresa per massimizzarne la competitività attraverso percorsi di sviluppo progettati ad hoc. Per lo sviluppo della propria missione nel triennio 2012-2015 Trentino Sviluppo ha individuato alcuni driver strategici. In particolare: promozione, creazione e sviluppo di nuove imprese, promozione, innovazione e sviluppo di cluster e filiere, internazionalizzazione, innovazione del sistema delle attività produttive del territorio, attrazione di investimenti e gestione del sistema della ricerca applicata. Per massimizzare l’impatto e i risultati delle azioni messe in campo si rende necessaria l’individuazione di fattori di moltiplicazione che ne ottimizzino l’efficacia: fare rete e sistema diventano quindi mantra fondamentali per la guida dell’attività della società. Con la riorganizzazione delle attività dopo l’estate, Trentino Sviluppo ha deciso di investire nelle professionalità a supporto dello sviluppo e dell’innovazione aziendale. Trentino Sviluppo: una filiera di servizi per fare impresa Trentino Sviluppo è una società partecipata dalla Provincia autonoma di Trento e creata per favorire lo sviluppo sostenibile del territorio attraverso azioni e servizi volti a supportare la nascita di nuova imprenditorialità e la competitività e innovatività delle imprese esistenti. Essa ha il compito, inoltre, di promuovere i fattori di attrattività del sistema trentino nei confronti di aziende e centri di ricerca di eccellenza extraprovinciali potenzialmente interessati a stabilirsi sul territorio. Essere nuovi Be new 111 Le attività operative spaziano dalla gestione di un Parco scientifico tecnologico – che raggruppa sette BIC con oltre 120 aziende insediate, centri di ricerca, laboratori – alle attività immobiliari e di partecipazione nel capitale sociale delle imprese, dall’apprestamento di aree industriali ai servizi di supporto alla nuova imprenditorialità e alla crescita delle imprese esistenti. Questi ultimi sono indirizzati alle singole aziende per le quali Trentino Sviluppo ha messo a punto negli ultimi anni una vera e propria ‘filiera di servizi’, favorendo collaborazioni tra imprese e sostenendo l’avvio e lo sviluppo di filiere, distretti e cluster ad alta specializzazione. La filiera dei servizi riguarda aziende nelle diverse fasi del loro ciclo di vita. In particolare si distinguono le fasi di seed (aziende in fase di progettazione), start-up (aziende all’inizio dell’attività operative) e crescita/maturità. Il successo di una nuova impresa non richiede solo la presenza di talento, doti innate (leadership, desiderio di apprendere, un approccio innovativo e pragmatico), impegno ed entusiasmo, ma anche un contesto esterno favorevole. Creare un ambiente che possa facilitare la nascita di un imprenditore è quindi di importanza vitale per tutto l’ecosistema ed è ciò che Trentino Sviluppo sta cercando di perseguire. Per la fase di seed Trentino Sviluppo ha attivato il concorso D2T StartCup che premia le migliori idee di business dei giovani, al quale si collega, per le imprese in uno stadio successivo, in fase di avviamento, lo strumento di finanziamento cosiddetto ‘Seed Money’ per il lancio di nuove start-up ‘ad alto potenziale’. Completano il quadro delle iniziative a supporto della fase di elaborazione, definizione e costruzione dell’idea imprenditoriale, il progetto di animazione imprenditoriale rivolto principalmente al tutoraggio di iniziative di autoimpiego, il progetto di pre-incubazione che prevede di riservare appositi spazi ‘leggeri’ all’interno del Polo tecnologico di Rovereto per accogliere e accompagnare con attività di tutoraggio i primi passi degli aspiranti imprenditori, e l’affiancamento delle nuove iniziative imprenditoriali interessate alla ricerca di investitori (organizzazione di forum di investimento, attivazione di contatti con business angel e fondi di investimento). Alle start-up innovative è poi offerta la possibilità di insediamento nei nostri incubatori (BIC), nei quali, oltre a trovare servizi di carattere 112 Luca Capra logistico, hanno la possibilità di fruire di servizi di supporto personalizzato per il miglioramento dell’operatività aziendale. Continuando nella filiera a sostegno dell’innovazione d’impresa i servizi offerti dal team di Trentino Sviluppo passano dallo Sportello Ricerca e Impresa, che offre supporto ai ricercatori intenzionati a divenire imprenditori e realizza un luogo d’incontro tra università e imprenditori, al supporto nella protezione e valorizzazione della proprietà intellettuale. Il trasferimento tecnologico e il supporto all’innovazione d’impresa (prodotto, processo, organizzazione) sono, invece, attuati tramite il progetto ‘Aquile Blu’ – dieci esperti senior affiancano Trentino Sviluppo – e tramite la rete Enterprise Europe Network, che, mettendo in collegamenti circa 600 enti europei aiuta le aziende locali nella ricerca di partner internazionali. Parallelamente a tutto ciò, Trentino Sviluppo ha sviluppato un’offerta nell’ambito della cultura d’impresa, ovvero iniziative di formazione e training: ne sono esempi, workshop, seminari e corsi specialistici, metodologie per il miglioramento sul campo dell’operatività aziendale quali i cantieri Kaizen e il Quality Function Deployment. Luca Capra Responsabile dell’Area Promozione tecnologica di Trentino Sviluppo, l’agenzia creata dalla Provincia autonoma di Trento per favorire lo sviluppo sostenibile del sistema trentino attraverso azioni e servizi volti a supportare la crescita dell’imprenditorialità e la capacità di fare innovazione. Ha diretto progetti di ricerca industriale cofinanziati dalla Commissione europea ed è stato direttore dell’Area Impresa e Innovazione, occupandosi delle attività di incubazione, start-up d’impresa e supporto all’innovazione. Ha collaborato con EBN (Rete europea dei BIC) come esperto per la valutazione delle prestazioni di centri europei, al fine di concedere il marchio di qualità BIC. Essere nuovi Be new 113 L’ACCESSIBILITÀ E LA VALORIZZAZIONE DEI BENI, DEGLI SPAZI E DEI SERVIZI Dall’abbattimento delle barriere architettoniche alla progettazione inclusiva Christina Conti Le persone vivono in spazi progettati e costruiti per essere fruiti. Se con il termine ‘persone’ si facesse riferimento a tutti, soggetti abili e non abili naturalmente in evoluzione, e se la ‘fruizione’ fosse considerata un requisito essenziale del progetto, l’accessibilità sarebbe propria dell’architettura. In realtà ciò non accade, le nostre città continuano a essere piene di ostacoli fisici e percettivi e gli spazi a essere usati limitatamente, nonostante da più di vent’anni sia vigente un apparato legislativo, continuamente implementato, che fornisce criteri progettuali sufficientemente articolati per l’edilizia privata e pubblica. Anche se si tratta di provvedimenti non sempre esaustivi, deliberati in anni diversi e riportati in apparati tra di loro inorganici, basterebbero se fossero assunti dai progettisti come requisiti base del progetto e non come parametri per una verifica a posteriori; è prassi infatti che l’accessibilità delle opere venga verificata dal progettista in fase avanzata adottando le indicazioni come vincoli e non come elementi di composizione. L’inaccessibilità dei nostri spazi non dipende, quindi, dalla mancanza di strumenti bensì dalla inadeguata ‘cultura dell’accessibilità’ degli operatori del processo, che tendono ad applicare pedissequamente i provvedimenti cogenti dimenticandosi che l’accessibilità è allo stesso tempo un requisito normativo e un carattere della composizione. Nella maggior parte dei progetti, quando le soluzioni proposte scindono le richieste della norma dai canoni formali, il risultato è la sommatoria 114 Christina Conti di dispositivi tecnologici aggiunti come ausili; elementi riconoscibili e a volte incongruenti, che alterano la qualità complessiva dell’intervento. Ragionando secondo la logica esigenziale/prestazionale che considera le esigenze degli utenti fondamentali per l’individuazione dei requisiti di progetto, è opportuno fare alcune considerazioni generali partendo dal presupposto che l’obiettivo sociale è permettere la massima autonomia possibile al maggior numero di persone, compatibilmente con i diversi gradi di abilità e in relazione ai naturali mutamenti evolutivi. Ciò comporta il riconoscimento della diversità dei profili delle persone, uguali per ‘valore’ ma con esigenze tra di loro differenti; quelle stesse peculiari esigenze che devono essere considerate per parametrizzare i diversi bisogni in termini di benessere, comfort e qualità formale. L’individuazione critica delle esigenze prioritarie rispetto alla moltitudine degli utenti in base alla destinazione d’uso dell’ambiente di progetto è guidata dal buon senso e vincolata dai provvedimenti legislativi che forniscono dimensioni limite e indicazioni prestazionali. Le regole lasciano ampia libertà di ragionamento sul dimensionamento degli spazi secondo i parametri antropometrici e sulle scelte tecnologiche di costruzione e gestione degli ambienti; ciò significa che, assimilati i vincoli dimensionali e le indicazioni prestazionali, è possibile ragionare: • sui minimi funzionali: controllo delle misure antropometriche delle persone, abili e disabili, rispetto allo spazio; • sull’orientamento: valutazione dei diversi gradi di percezione dello spazio da parte delle persone, abili e disabili, in relazione alla luce (naturale e artificiale) e ai colori; • sull’illuminotecnica: uso della luce naturale e artificiale per la composizione degli ambienti; • sull’acustica: impiego di soluzioni formali che contribuiscono alla riflessione del suono e espedienti tecnologi fonoassorbenti; • sui caratteri tipologici: dimensionamento e aggregazione degli ambienti, dei percorsi e degli elementi tecnici rispetto alla destinazione d’uso; tenendo sempre presente che: • le persone si muovono in uno spazio e svolgono determinate funzioni in un tempo diverso a seconda del proprio grado di abilità; Essere nuovi Be new 115 • ognuno di noi costruisce, consapevolmente o meno, una mappa mentale del luogo in cui si trova, percependo lo spazio secondo la qualità fisica degli elementi che lo compongono (forme, colori, disposizioni, materiali, ecc.) per orientarsi autonomamente e in sicurezza. Per quanto concerne la tecnologia, non esistono limiti oggettivi ma solo prescrizioni di prestazioni necessarie; la scelta dei materiali e dei componenti è quindi libera da specificità di prodotto. Ciò è importante perché svincola il progetto dalle dinamiche merceologiche permettendo il raggiungimento di risultati formalmente adeguati anche attraverso scelte ‘ad hoc’ coerenti con l’estetica complessiva dell’opera; quando la normativa non fornisce i parametri necessari per poter procedere con la scelta e il dimensionamento degli elementi e delle relative finiture è quindi l’esperienza a supportare il progetto esecutivo. L’accessibilità non è quindi solo un problema di applicazione dei minimi imposti dalla normativa obbligatoria bensì è un modo completo di pensare le forme degli spazi per le persone. In questa direzione, nell’ultimo ventennio sono stati fatti importanti passi avanti da parte degli operatori e ancora prima dalla società nel suo insieme, portando verso una nuova consapevolezza della persona e alla volontà di raccordarla con gli strumenti vigenti. L’obiettivo attuale secondo cui si stanno muovendo gli istituti pubblici di governo e istruzione e le associazioni di categoria mira a trasformare l’abbattimento delle barriere architettoniche da elemento limitante a strumento per il progetto. Un percorso articolato che è iniziato nella seconda metà del secolo scorso, quando la ricerca di qualità del vivere quotidiano ha posto al centro dell’attenzione le esigenze delle persone per la salvaguardia dello sviluppo sociale. La lenta presa di coscienza dei diritti di uguaglianza delle persone, abili e disabili, è il risultato raggiunto attraverso l’attività svolta dagli istituti pubblici e relativi apparati legislativi, delle associazioni che rappresentano i diversi portatori d’interesse, i servizi sanitari e sociali, e gli enti di formazione, anche attraverso le consulte e i comitati territoriali (l’istituto di coordinamento delle associazioni in Friuli Venezia Giulia è la Consulta Regionale delle Associazioni delle Persone Disabili e loro famiglie FVG onlus). In questo contesto di riferimenti ancora frammentati, una possibile 116 Christina Conti strada da percorrere per i progettisti è la partecipazione dei progetti con persone esperte in materia e ipotetici utenti abili e disabili. Le associazioni rappresentanti delle diverse persone con disabilità sono generalmente a disposizione per interventi di confronto e verifica preventiva dei progetti; spetta quindi ai progettisti adottare la prassi di condivisione del progetto ricercando il risultato ottimale, consapevoli che non esiste mai un risultato valido nell’esatta misura per tutti quanti. La partecipazione del progetto è quindi una delle possibili strade da percorrere per il soddisfacimento del requisito dell’accessibilità ed è in questo senso che anche nella nostra Regione si sta operando; esemplificativo in questo senso è il CRIBA FVG Centro di Informazione Regionale sulle Barriere Architettoniche che dal 2009 opera fornendo un servizio locale di assistenza ai privati, ai professionisti e agli enti pubblici. La partecipazione è una prassi sperimentale che trova supporto anche nell’ampia letteratura scientifica, risultato della continua attività di ricerca, e nella didattica dell’architettura il cui impegno qualifica la formazione dei futuri professionisti. (Testo tratto da: C. Conti, La forma dell’accessibilità, Dossier della rivista «Costruire», vol. 332: 47-54). Christina Conti Architetto. Ricercatore in Tecnologia dell’architettura all’Università di Udine, è professore aggregato nel Corso di studi in Architettura. Svolge attività di didattica e di ricerca nell’ambito della progettazione inclusiva e dell’accessibilità ambientale. È responsabile scientifico del Laboratorio DALT del Dipartimento di Ingegneria civile e Architettura e coordinatore del comitato tecnico-scientifico del CRIBA FVG, nell’ambito del Design for All e della progettazione inclusiva. Essere nuovi Be new 117 LO SVILUPPO DELLE ENERGIE RINNOVABILI A GÜSSING E LE SUE RAMIFICAZIONI Bernhard Deutsch Quando il progetto fu avviato agli inizi degli anni ’90, la regione di Güssing versava in condizioni piuttosto sfavorevoli. Cinquanta anni di storia di regione confinante lungo la Cortina di ferro (a 8 km dal confine ungherese); mancanza di infrastrutture di trasporto; la regione meno sviluppata e quindi con il minor reddito pro capite in Austria; poche realtà imprenditoriali; scarse possibilità occupazionali; combustibili fossili a basso costo; pessimo diradamento forestale; elevata dipendenza dai combustibili fossili. Due avvenimenti furono decisivi per il futuro sviluppo della regione di Güssing: in primo luogo, la caduta della Cortina di ferro e, con essa, lo spostamento geografico che proiettò Güssing dai margini al cuore dell’Europa; in secondo luogo, il previsto accesso dell’Austria all’Unione Europea (UE) e, con esso, la prospettiva di importanti finanziamenti nell’ambito dell’Obbiettivo 1 del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), cui il Land austriaco del Burgenland aveva diritto per il basso reddito pro capite. Prima dell’adesione dell’Austria all’UE, vennero condotti in tutto il Burgenland sondaggi e progetti di iniziativa comunitaria per definire idee e argomenti relativi all’Obbiettivo 1 del FESR. I sondaggi prevedevano anche domande su questioni relative a riscaldamento ed energia. Questi furono i risultati: la maggior parte delle abitazioni private nella regione di Güssing utilizzava gasolio o carbone per il riscaldamento e, per la mancanza di reti di gasdotti o di teleriscaldamento, le abitazioni avevano forme di riscaldamento autonomo. L’energia fossile doveva essere acquistata all’esterno con la conseguente fuoriuscita di denaro dalla regione. Numerose risorse disponibili in regione (quali resti del diradamento forestale, erba tagliata con l’aratura, insilato di mais, ecc.) restavano intatte e non venivano neanche considerate fonti di energia. 118 Bernhard Deutsch La nascita del ‘Modello Güssing’ Come in molte altre storie di successo, il fattore decisivo che rese possibile il ‘Modello Güssing’ fu l’incontro delle persone giuste al momento giusto. Nel 1992, Peter Vadasz fu eletto sindaco della città di Güssing e incontrò l’ingegner Reinhard Koch. Koch era a capo di un piccolo studio tecnico di Güssing e ricevette dal Comune il compito di progettare il sistema di trattamento delle acque reflue e la fognatura comunale. Sin dall’inizio Vadasz e Koch si trovarono subito d’accordo sul fatto che la questione energetica costituisse la soluzione per eccellenza per un miglioramento della situazione economica regionale. Questa era l’idea di base: l’utilizzo di risorse locali per la produzione energetica, invece dell’acquisto di combustibili fossili. L’obiettivo di questa strategia erano tre risultati possibili: 1) evitare la fuoriuscita di denaro dalla regione, trattenendolo invece al suo interno mediante l’utilizzo e lo sfruttamento delle risorse locali, creare nuovi posti di lavoro e aumentare il valore aggiunto della regione; 2) diminuire, quindi, la dipendenza dai combustibili fossili; 3) ridurre in maniera decisiva le emissioni di CO2. Tuttavia, l’obiettivo fondamentale consisteva nel rilanciare definitivamente l’economia regionale tramite l’utilizzo di energie rinnovabili. Vadasz e Koch concordarono subito che questa strategia fosse non solo giusta ma anche realizzabile. Il sindaco Vadasz fu responsabile delle decisioni politiche e diede avvio allo sviluppo economico di quegli anni, mentre Koch fu responsabile della progettazione tecnica e della realizzazione dell’idea. Sotto la responsabilità del sindaco Peter Vadasz il Consiglio comunale di Güssing adottò le seguenti risoluzioni: • risoluzione del Consiglio comunale del 13 luglio 1993: bozza di progetto di studio sul futuro approvvigionamento energetico; • risoluzione del Consiglio comunale del 24 novembre 1994: partecipazione del Comune di Güssing all’azienda Güssinger Fernwärme GmbH (Riscaldamento urbano Güssing Srl); • risoluzione del Consiglio comunale del 19 marzo 1996: il Comune mette a disposizione uno speciale appezzamento di terreno per la costruzione del riscaldamento urbano. Dopo le prime misure per il risparmio energetico adottate dalla città di Güssing (rinnovamento termico degli edifici pubblici, successivi sostituzione/rinnovo dell’illuminazione stradale, ecc.), molti proprietari Essere nuovi Be new 119 di terreno forestale della regione iniziarono a coltivare questi terreni con la consapevolezza che il diradamento boschivo avrebbe prodotto risorse per il riscaldamento e non solo. Iniziarono, inoltre, a delineare logistica e trasporto del legno. Venne fondata l’associazione forestale del Burgenland (Burgenländischer Waldverband) per garantire, insieme ai molti proprietari di terreno forestale, l’utilizzo sostenibile e la tutela delle risorse forestali. Infine, nel 1992 furono costruiti i primi piccoli impianti di riscaldamento a corto raggio (urbani) nei villaggi circostanti la città di Güssing. Nella maggior parte dei casi furono i Sindaci o i responsabili locali ad avviare il processo, ma anche privati e agricoltori avviarono iniziative in tal senso. Una delle iniziative più importanti consistette nella creazione del concetto di ‘progetto faro’: qualunque realtà funzionante che si potesse ‘vedere e toccare’ aumentò la credibilità della tecnologia e promosse un sentimento di sicurezza e fiducia tra la popolazione. Prima della costruzione di questi impianti (molti dei quali basati su cooperative agricole) fu necessario convincere la popolazione locale del nuovo sistema. Come già menzionato, il combustibile fossile era a basso costo, il riscaldamento a gasolio era considerato moderno e progressista, mentre il riscaldamento a legna (come tutti i lavori legati alla lavorazione del legno) veniva reputato obsoleto. Si successero numerosi consigli comunali e campagne informative per convincere la popolazione dei benefici del riscaldamento urbano: indipendenza dall’approvvigionamento di combustibili fossili, provenienza del legno dalle aree circostanti, creazione di valore all’interno della propria regione, nessuna pulizia delle canne fumarie, nessun lavoro di manutenzione, costi inferiori a quelli dei combustibili fossili sia a breve che a lungo termine (soprattutto costi di riscaldamento stabili nel lungo termine grazie all’uso delle risorse locali) e, di conseguenza, maggior benessere. L’importante passo successivo fu fatto nel 1996 con la costruzione a Güssing di un impianto di riscaldamento urbano a biomassa. Questo costituì una vera e propria sfida in quanto doveva rifornire non un piccolo villaggio di 200 abitanti bensì una cittadina di 4.000 abitanti. Anche in questo caso furono necessarie diverse campagne informative. L’amministrazione comunale attuò un importante provvedimento 120 Bernhard Deutsch collegando tutti gli edifici pubblici (scuole, asili, ospedali, ecc.) alla rete di riscaldamento urbano. Questo fu un segnale positivo per la popolazione. Oggi oltre il 50% delle abitazioni private, degli edifici pubblici e una gran parte delle attività commerciali e industriali sono collegati alla rete di riscaldamento urbano. Güssing divenne interessante per imprese e industrie per i bassi costi e un prezzo stabile del riscaldamento. I due principali produttori di pavimenti in legno in Austria si stabilirono a Güssing perché qui le imprese avevano garanzia di riscaldamento a basso prezzo nel lungo termine. In cambio, l’impianto di riscaldamento urbano viene rifornito di legno di scarto proveniente da questi stessi impianti di produzione di parquet. Silvicoltura sostenibile e risorse disponibili La superficie forestale complessiva del Burgenland ammonta a 133.000 ha (che corrispondono a circa il 30% di foreste). Il 57% è costituito dalla cosiddetta piccola area boschiva (< 200 ha), il 43% da boschi comunali o da estese aree forestali private. Il catasto forestale nel distretto di Güssing ammonta a circa 19.741 ha che corrispondono al 45% di foreste (rispetto a una superficie complessiva di 485 km2). Di media un appezzamento di terreno forestale nel comune di Güssing misura 0,48 ha (rispetto alla media di 0,61 ha nel Burgenland). Questo relativamente piccolo appezzamento di terreno forestale (che storicamente si deve al diritto di successione) rappresenta uno dei motivi per cui un diradamento forestale professionale con attrezzature moderne non fosse possibile dal punto di vista economico. Attualmente viene utilizzato solo il 40-50% della produzione annuale di legno; di questo il 60% viene impiegato per legna da energia, il 20% per uso industriale e il restante 20% come tronchi da sega. Sempre meno proprietari privati di terreno forestale (che costituiscono la percentuale più alta) sono in grado di occuparsi del diradamento del proprio terreno. A causa del mancato diradamento in passato, oggi sono disponibili molte risorse inutilizzate. Inoltre, organizzazioni quali l’associazione forestale del Burgenland come altri fornitori privati di servizi sono stati incaricati da molti proprietari terrieri del diradamento e della consegna del legname alle centrali elettriche a biomasse. In tema di centrali elettriche a biomasse e approvvigionamento di ri- Essere nuovi Be new 121 sorse nel distretto di Güssing: come summenzionato, la maggior parte dei piccoli impianti di riscaldamento a biomasse sono cooperative di agricoltori che sostanzialmente si riforniscono di legna proveniente dalle terre circostanti; i membri della cooperativa consegnano la legna del proprio terreno forestale all’impianto di riscaldamento urbano. L’azienda per il riscaldamento urbano, Güssinger Fernwärme GmbH, utilizza principalmente il legno di scarto dei produttori di parquet di Güssing. La centrale elettrica a biomasse di Güssing viene alimentata con cippato di legno proveniente dalla regione di Güssing (nel raggio di 30-40 km dalla città) fornito perlopiù dall’associazione forestale del Burgenland. La centrale elettrica a biomasse Con la costruzione della centrale elettrica a biomasse a Güssing nel 2001, si acquisì maggior efficienza sotto diversi aspetti. Calore ed energia vengono prodotti utilizzando una speciale tecnologia di gassificazione del legno sviluppata dal Politecnico di Vienna. Le specifiche caratteristiche del gas generato consentono la produzione di gas naturale sintetico (BioSNG) e di combustibili liquidi sintetici quali benzina o diesel (BTL - Biomass To Liquid), nonché l’impiego di celle a combustibile ad alta temperatura. Oggi Güssing è considerato un centro di ricerca all’avanguardia in Europa nel campo della gassificazione del legno e della produzione di combustibili di seconda generazione. Effetti sociali ed economici Grazie a tutti questi sviluppi, Güssing ha registrato enormi progressi. È difficile poter confermare un cambiamento nella mentalità della popolazione, ma molti sono sicuramente orgogliosi dei progressi fatti. Ciononostante, gli abitanti di Güssing non sono più ‘alternativi’ di chi vive altrove. La cosa più importante è che la lampadina funzioni quando si accende l’interruttore e che i termosifoni siano caldi. Sono soprattutto agricoltori e guardie forestali a dover affrontare la questione in quanto fornitori delle risorse. Da parte del Comune si può ancora intensificare l’impegno nell’ambito delle relazioni pubbliche e della sensibilizzazione. La realtà dei fatti è che, comunque, con lo sviluppo della città di Güssing sono stati creati oltre 1.000 nuovi posti di lavoro (fonte: Austria 122 Bernhard Deutsch statistiche: 2.136 occupati nel 1991; 3.388 occupati nel 2006). Oltre 50 nuove imprese si sono trasferite a Güssing. L’introito derivante dall’imposta municipale è aumentato da € 340.000 nel 1993 a € 1,5 milioni nel 2009. Le emissioni di CO2 si sono ridotte da 37.000 tonnellate nel 1996 a 22.500 tonnellate nel 2009. In merito ai consumi per riscaldamento ed elettricità nel settore delle abitazioni private, degli edifici pubblici e di attività commerciali e industrie, l’attuale livello di indipendenza è pari al 71%; se si omette il consumo energetico delle industrie, il grado si indipendenza supera il 100%. Ma in generale il grado di indipendenza è una variabile! Il Centro europeo per le energie rinnovabili Il ‘Centro europeo per le energie rinnovabili’ (abbreviazione tedesca EEE) venne fondato come associazione nel 1996 a Güssing per coordinare e attuare in modo professionale tutti i progetti relativi alle energie rinnovabili. Nello stesso anno venne messo in funzione l’impianto di riscaldamento urbano di Güssing – il più grande impianto di riscaldamento urbano a biomassa in Austria. Nel 2002, venne fondato l’EEE Ltd. come consociata dell’associazione. L’EEE Ltd. ha la sua sede nel Centro tecnologico di Güssing creato dal Burgenland nel 2002. Intanto, l’EEE è diventato un’istituzione riconosciuta a livello europeo per lo sviluppo di concetti locali e regionali sostenibili di risparmio energetico e l’utilizzo e la produzione di energie rinnovabili. L’EEE si è guadagnato un’eccellente reputazione di partner affidabile in diverse reti a livello nazionale ed europeo. Nel campo della ricerca, dello sviluppo e della gestione di progetti è sempre molto richiesto come ufficio di coordinamento. L’EEE è anche cofondatore del Progetto ‘Eco Energy Land’ (ökoEnergieland) e funge da organizzazione ombrello per tutte le attività in campo energetico della regione di Güssing. Organizza seminari e formazione nel campo delle energie rinnovabili e visite guidate dell’‘Eco Energy Land’. Settori di attività dell’EEE Amministrazione di impianti dimostrativi Nell’area circostante la città di Güssing esistono oltre 30 impianti che utilizzano tecnologie diverse e sono in parte amministrati dall’EEE. È possibile organizzare visite guidate su richiesta in qualunque momen- Essere nuovi Be new 123 to; le prenotazioni si effettuano direttamente presso l’EEE nell’ambito del turismo eco-energetico. Ricerca e Sviluppo Una delle principali chiavi del successo delle energie rinnovabili a Güssing è stata ed è tuttora l’integrazione della ricerca. Sin dall’inizio l’EEE ha promosso progetti di cooperazione con diversi istituti di ricerca; tuttavia, l’EEE non ha mai condotto direttamente alcun progetto di ricerca, bensì ha assunto il ruolo di piattaforma di collegamento. L’EEE riunisce imprese, ingegneri edili e ricercatori. La costruzione della centrale elettrica a biomasse di Güssing è stata possibile solo grazie a questa innovazione e a una struttura di cooperazione unica. La centrale elettrica a biomasse costituisce il fulcro del lavoro di ricerca e sviluppo di Güssing e il punto di partenza per ulteriori innovazioni nei settori della tecnologia delle celle combustibili, del Biomass to Liquid (BTL, combustibili di seconda generazione) e BioSNG (gas naturale sintetico). Nel 2009 venne inaugurato il centro di ricerca (Programma COMET) per la gassificazione delle biomasse e i combustibili sintetici. La rete di ricerca ‘bioenergy 2020+’ ha sede nel ‘Technikum Güssing’ all’interno di questo centro di ricerca cui partecipano, tra gli altri, il Politecnico di Vienna, il Politecnico di Graz e il Joanneum Research. Un importante passo avanti nel campo della ricerca è costituito dalla costruzione nel 2011 di un impianto dimostrativo per la gassificazione termica di materiali di scarto di ogni tipo. Formazione Negli ultimi anni l’EEE ha organizzato numerosi seminari e conferenze. Su richiesta questi possono essere organizzati singolarmente in qualunque momento. Inoltre, l’EEE intende condurre campagne di sensibilizzazione sulle energie rinnovabili al fine di accrescere l’interesse per le energie alternative. Formazione ed eventi su base regolare mirano a garantire la qualità delle centrali elettriche a biomasse. Nell’ambito dell’istruzione e della formazione, l’obiettivo a medio termine è costituito da energia solare, fotovoltaico e pompe di calore e altresì dalla promozione di una formazione professionale nel campo della gestione energetica. 124 Bernhard Deutsch Servizi L’EEE ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo delle energie rinnovabili a Güssing ed è lieto di condividere le proprie esperienze, ad esempio mediante la fornitura di piani energetici su misura a comuni e regioni. Questi comuni e regioni sulla strada dell’autosufficienza energetica ricevono sostegno dall’EEE e traggono beneficio dall’integrazione dell’EEE nella rete di ricerca di Güssing. Per diffondere le esperienze nel campo della gestione di progetti è stata creata una rete di partner regionali, nazionali e internazionali. Nell’ambito di svariati progetti di cooperazione vengono sviluppati concetti regionali sostenibili per l’impiego di energie rinnovabili e attuati progetti concreti. Turismo eco-energetico Per far fronte al crescente numero di turisti a Güssing, è stato istituito il turismo eco-energetico. Guide certificate addestrate dall’EEE effettuano visite negli impianti. Inoltre, è stato lanciato il progetto ‘Eco Energy Land’ con cui la regione ha acquisito un marchio comune nel settore turistico. Nel 2010 è stato creato a Güssing un percorso pedagogico dedicato alle scuole. Il passo successivo è stato un campeggio sull’energia nell’estate 2011 in collaborazione con l’Università di Risorse naturali e Scienze della vita di Vienna (in tedesco BOKU) e il Resort naturale ‘Weinidylle’ con l’obiettivo di sensibilizzare i giovani. Bernhard Deutsch È membro dello European Center for Renewable Energy di Güssing, centro austriaco fondato nel 1996 che sviluppa progetti regionali e comunitari per il risparmio energetico e l’impiego di energie rinnovabili basati sulla decentralizzazione della produzione di energia e sull’impiego di tutte le possibili fonti rinnovabili disponibili sul territorio. Essere nuovi Be new 125 NUOVI PROCESSI E ATTRATTIVITÀ DEI TERRITORI ALPINI CONTEMPORANEI Alberto Di Gioia I cambiamenti alla luce dei dati socio-economici Le Alpi sono considerabili come insieme di sistemi ad alto livello di differenziazione, sottoposte a una intensa multiscalarità di pratiche, dinamiche e processi per i quali si contraddistinguono come una regione peculiare d’Europa, connotate da un palinsesto denso di sovrapposizioni di significati di elementi culturali, sociali, economici e politici, con un’alta intensità delle dinamiche poste dal mutamento e, negli anni recenti, dalla transizione alla post-modernità. Alcuni aspetti smentiscono le sensazioni degli stereotipi (sostanzialmente urbani) comunemente diffusi, che legano da una dimensione le Alpi all’immagine da cartolina del tempo che fu, patria di prodotti tipici e culture locali di montanari e pastorelli, da un’altra dimensione esclusivamente al loisir invernale o estivo, sulla scia della definizione già data nel 1871 da Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf, sulle ‘Alpi terreno di gioco dell’Europa’. Fenomeni di trasformazione territoriale molto evidenti nelle Alpi, vissuti soprattutto nell’ultimo secolo, con forti variazioni di tendenza dell’ultimo decennio rispetto alle serie storiche del passato e la nascita di nuovi processi in alcuni casi di ri-popolamento, fanno sì che sia molto interessante analizzare quali cambiamenti stiano avvenendo. Il 73% dei Comuni alpini a livello transnazionale, intendendo quindi i Comuni appartenenti ai sette Paesi alpini sottoscriventi la Convenzione delle Alpi, nel ventennio 1981-2001 ha incrementato la popolazione residente, che oggi si attesta complessivamente su circa 14 milioni di abitanti. Aumento certamente non diffuso equamente sul territorio, che anzi è contraddistinto dalla presenza di notevoli squilibri sia a livello regionale (differenze poste a livello di sistemi territoriali), che a livello locale (fenomeni di polarizzazione di risorse e attività). Nei Comuni alpini un sostanziale aumento di popolazione è correlato a un aumento degli squilibri inter- 126 Alberto Di Gioia ni dovuti ai processi di iper-polarizzazione di alcuni centri rispetto ad altri, i quali determinano, di fatto, la desertificazione di molti Comuni mentre altri soffrono di un ‘surriscaldamento dello sviluppo’ (Ruffini, 2009). Tale squilibrio è piuttosto notevole in Italia: considerando che sul territorio alpino nostrano risiede il 49,7% della popolazione urbana alpina complessiva, circa 4 milioni di abitanti diffusi in circa 1.800 Comuni, i Comuni in incremento demografico sono il 50% del totale dei Comuni alpini italiani, contro (in base al dato precedente) circa il 75% dei Comuni alpini in crescita degli altri Stati. Osservando viceversa i Comuni alpini italiani toccati da spopolamento, dagli anni ’80 essi rappresentano una cifra prossima al 50% del totale (in una proporzione quindi analoga a quella dei Comuni in crescita, dato che conferma come la situazione complessiva sia fortemente dinamica), situazione che trova seguito soltanto nella situazione slovena, contro, viceversa, un 12% e 8,1% dei Comuni alpini svizzeri e tedeschi (rappresentano le aree a minor spopolamento, se escludiamo per ovvie ragioni statistiche i dati del Liechtenstein e del Principato di Monaco). Considerando il saldo migratorio delle aree alpine italiane nel periodo 2009-2011, esso mostra una situazione sostanzialmente stabile o positiva, in cui in generale la popolazione delle aree interne sta crescendo (confronto con il rapporto immigrati/emigrati). Sono molto scarsi i casi di saldo fortemente negativo (con più di 50 unità). La concentrazione delle aree con saldo negativo è più forte nelle Alpi Orientali, anche se si deve dare lettura del fatto che questo dato è da ascrivere alla presenza di una maggior dinamica dei residenti interni (ovvero spostamenti di residenza da un Comune a uno viciniore) piuttosto che a fenomeni di reale spopolamento: infatti osservando i dati dei nuovi iscritti, i valori di queste aree sono solitamente in linea se non superiori alla media (a eccezione delle Alpi venete). Indice del fatto che, pur a fronte di un saldo migratorio negativo, è comunque molta la popolazione in arrivo. Un caso particolare è quello dell’Alto Adige, in cui a fronte di saldi migratori in alcuni casi negativi, la popolazione è quasi sempre in aumento se non stabile. Indice di come questo dato sia sostenuto da valori positivi del saldo naturale. Nel Nordovest è osservabile invece come, accanto a zone in cui lo spopolamento è ancora in atto, localizzate soprattutto nei Comuni minori interni, si instaurino processi Essere nuovi Be new 127 inversi soprattutto a partire dai centri locali per servizi e occupazione e con una certa diffusione sui territori limitrofi. Questo fenomeno è abbastanza evidente, rimanendo al Piemonte, in tutto il territorio valdostano, nel biellese, nel verbano, nelle vallate del cuneese meridionale (Valli Gesso e Tanaro) e nell’Alta Langa. L’attrattività territoriale verso nuovi abitanti Dall’osservazione delle dinamiche demografiche e in relazione a uno studio condotto sui nuovi abitanti delle Alpi (NovAlp, Associazione Dislivelli) possiamo osservare come vi siano in molti luoghi nuovi processi caratterizzati sia dal ritorno di popolazione residente, nuovi montanari legati a occupazioni in molti casi assai diverse rispetto al passato, sia al cambiamento del carattere dell’abitare (aspetti fondamentali: servizi e multi-lavoro), in relazione ai tipi di territori coinvolti da questi processi e alle persone che lo abitano. In molte parti delle Alpi il rapporto tra abitanti e territorio alpino ha innescato processi virtuosi di sviluppo locale, che si pongono come pratiche interessanti per l’impostazione di politiche territoriali per la montagna effettivamente orientate ai reali bisogni degli abitanti. Sempre dallo studio NovAlp emerge infatti come i territori alpini esercitino, in molti casi, una certa e nuova attrazione verso nuove forme di immigrazione di persone in cerca di nuove condizioni di vita sia per la qualità abitativa che per il lavoro. Dall’integrazione tra classi motivazionali e condizioni socio-economiche è possibile definire tipologie di abitanti interessati da questo processo (si rimanda a Corrado, Dematteis, Di Gioia, 2014), nella maggior parte dei casi interessati a migliorare la propria vita e la vita familiare rispetto alle condizioni poste dalle medie e grandi città, con nuove occupazioni create da idee e progetti personali e integrate con le risorse territoriali e le specificità locali. Dal punto di vista territoriale le aree maggiormente attrattive verso questi processi sono quelle che, alternativamente, hanno una certa disponibilità di servizi territoriali, in primo luogo reti telematiche e comunicazioni (quindi sia materiali che immateriali), hanno disponibilità di risorse e beni utilizzabili quindi dai nuovi residenti, hanno instaurato già negli ultimi anni processi di sviluppo locale, solo in alcuni casi riflesso direttamente da politiche locali di accoglienza o di attrazione di nuovi abitanti. Questo aspetto è in realtà fondamentale e deve essere consi- 128 Alberto Di Gioia derato, insieme alla disponibilità di servizi, come un indirizzo fondamentale per la possibilità di attrazione verso nuovi residenti e nuovi lavoratori. Queste politiche possono anche essere strutturate da forme di azioni congiunte pubblico-privato, in relazione ad esempio alla ricomposizione fondiaria di lotti agricoli abbandonati o non utilizzati per nuovi lavoratori esterni, o per la rifunzionalizzazione di manufatti non utilizzati e la progettazione di attività agro-ambientali magari integrate con attività turistiche a basso impatto (turismo lento). Alberto Di Gioia Docente di Analisi urbanistiche e territoriali con strumenti GIS al Politecnico di Torino, si interessa di analisi spaziale e dinamiche evolutive delle regioni alpine. È membro di Dislivelli, associazione di Torino che opera per favorire una visione innovativa della montagna e delle sue risorse. Ha realizzato analisi sistemiche dello spazio alpino in relazione all’individuazione di tipologie territoriali legate alle potenzialità di sviluppo, alla marginalità e all’isolamento territoriale. Essere nuovi Be new 129 I NUOVI ABITANTI DELLE ALPI Erwin Durbiano Il fenomeno dei nuovi abitanti delle Alpi italiane A partire dalla metà degli anni ’90 si assiste in Italia alla ridefinizione dell’approccio strategico e progettuale al territorio di montagna e alle sue specificità, così da poter approdare oggi allo slegarsi da una visione assistenzialistica, stereotipata e spesso contraddistinta da una logica di sviluppo economico riduttivo e monosettoriale, a favore di nuove idee e forme di sviluppo rivolte alle terre alte; i provvedimenti legislativi a carattere specifico, la valorizzazione delle peculiarità in ambito della pianificazione territoriale e la crescente rilevanza nei programmi e nelle politiche europee, sono tra i principali elementi che confutano il cambiamento nel concepire e nell’agire sulle aree di montagna. Nel 2012 il documento ‘Le aree interne: nuove strategie per la programmazione 2014-2020 della politica di coesione territoriale’ pubblicato dal Ministero per la Coesione Territoriale proietta la montagna (e non solo) verso uno sviluppo che implicitamente fa leva sulle potenzialità intrinseche dei territori e su una cooperazione con forze esterne. Il cambiamento in atto nell’intero arco alpino, non solo italiano, così come dimostrato dalla letteratura nazionale e internazionale sul tema, è altresì verificato dall’insediamento di nuova popolazione (definito in seguito come il fenomeno del ritorno alla montagna) anche in territori marginali e da sempre in continua e costante perdita di popolazione. Analizzando i lineamenti generali del fenomeno si può affermare che si tratta di uno spostamento spontaneo, che non è il risultato di specifiche pianificazioni né oggetto di dedicate politiche pubbliche e che porta con sé il riappropriarsi dei paesaggi montani, la riqualificazione di borgate, lo sviluppo di nuovi turismi, la creazione di nuovi mestieri e la riproposizione di quelli antichi in un’ottica odierna. Il fenomeno del ritorno alla montagna comporta cambiamenti in ambito sociale, in termini di popolazione residente, in ambito economico, in termini di 130 Erwin Durbiano recupero di vecchi mestieri e/o implementazione di nuovi mestieri e culturale, in termini di nuovi stili di vita e di consumo e di creazione di nuove associazioni. Il fenomeno del ripopolamento riguarda un numero limitato di nuovi abitanti non ancora in grado di rappresentare un saldo migratorio positivo, ma risulta comunque interessante tanto da poter permettere di affermare che si sono innescate nuove dinamiche sociali. La ricerca a carattere esplorativo del fenomeno dei nuovi insediati nelle Alpi italiane (si rimanda a Corrado, Dematteis, Di Gioia, 2014) permette di ottenere una conoscenza preliminare di un fenomeno recente e di ampia diffusione, in cui risulta fondamentale individuare le caratteristiche dei neo-montanari per poter definire tipologie di insediati, comprendere le dinamiche e i fattori attrattivi e repulsivi dei potenziali territori di accoglienza e di conseguenza indirizzare le politiche pubbliche. Un primo indizio di rinascita della montagna è da ricercarsi nelle dinamiche demografiche più recenti: considerando la variazione della popolazione nei Comuni dell’arco alpino italiano nel periodo 20012011 si nota un aumento di popolazione che riguarda non solo le aree più tipicamente a vocazione turistica ma anche le aree marginali e tendenzialmente soggette, in passato, a un continuo e costante spopolamento. Il dato demografico assume un rilevante significato se letto a una scala comunale, per cui emerge la reale dimensione dei processi in atto da considerarsi come cambiamenti all’interno dei sistemi locali. In alcuni casi l’arrivo di nuovi abitanti consente di poter parlare di una vera e propria inversione di tendenza del saldo migratorio, generalmente da mettersi in relazione con l’arrivo di un’intera comunità di soggetti. In questo caso, spesso, si tratta di comunità extracomunitarie che si formano in aree, solitamente, fragili, dove i costi della vita sono minori rispetto al contesto urbano ed è possibile dedicarsi a mestieri della tradizione (Dematteis, 2010). Le categorie di nuovi abitanti Il fenomeno dei nuovi abitanti, analizzato nelle dinamiche socioeconomiche più recenti (si considera il periodo 2009-2011), viene indagato anche attraverso le anagrafi comunali dalle quali è possibile ottenere informazioni dettagliate, che permettono di ricostruire il Essere nuovi Be new 131 profilo del neo abitante delle Alpi, al fine di comprendere le scelte e le motivazioni, le preferenze e i vantaggi, i costi e le difficoltà incontrate. Il nuovo abitante, spinto principalmente alla montagna dalle occasioni lavorative e dal minor costo della vita, è motivato da scelte a forte valenza in termini di qualità della vita, da declinarsi soprattutto nella gestione dei rapporti sociali, dell’ambiente di vita quotidiana e di una diversa concezione del tempo e del ritmo di vita. Il nuovo abitante proviene per lo più dall’interno della stessa provincia di residenza, sovente della cerchia dei Comuni più vicini, e la scelta della specifica località non sempre è dovuta a precedenti legami con la realtà di inserimento (i casi più frequenti rimangono comunque quelli dove per questioni di parentela o amicizia, o per via di una visita pregressa avvenuta durante le vacanze si è a conoscenza della località di arrivo). Una descrizione interpretativa del fenomeno sia sotto l’aspetto oggettivo dell’apporto dei nuovi insediati all’economia e alla vita sociale locale, sia sotto quello soggettivo delle motivazioni e delle valutazioni positive o negative delle scelte effettuate è possibile attraverso classificazioni dei nuovi abitanti. Le componenti socio-economiche del fenomeno possono essere assunte come un primo criterio per una classificazione e interpretazione dei nuovi insediati; considerando la suddivisione dei neo-abitanti in popolazione attiva e non, emergono preferenze localizzative correlate ai diversi tipi di aree montane: quelle più accoglienti per infanti, studenti e pensionati sono caratterizzate da un’elevata offerta di servizi, dal facile accesso al trasporto pubblico e da una certa densità di popolazione. Tra gli attivi occorre distinguere coloro che praticano attività radicate, da quanti svolgono lavori tendenzialmente ubiquitari o generici. Questa distinzione è rilevante per distinguere due diversi modi di contribuire allo sviluppo montano. Le attività ubiquitarie e i lavori generici hanno un ruolo quantitativamente non trascurabile: i loro effetti positivi sullo sviluppo locale, oltre alla produzione di reddito, consistono nell’aumento dell’occupazione e della popolazione locale. Le attività ‘radicate’, oltre a questi effetti, ne hanno altri due particolarmente importanti: lo sviluppo basato su un miglior utilizzo delle risorse potenziali locali e la domanda di ricerca applicata e di formazione professionale specifica. Un’altra distinzione rilevante riguarda gli effetti che l’attività dei nuovi insediati ha 132 Erwin Durbiano sull’economia locale e in particolare sulla capacità di mettere in valore le risorse potenziali presenti nel contesto locale. Una seconda classificazione, maggiormente a carattere soggettivo, si basa essenzialmente sulle motivazioni della nuova scelta insediativa; la prima principale distinzione è tra chi persegue esclusivamente o prevalentemente un’utilità economica e chi invece ne fa una questione esistenziale, tra gli estremi di queste due figure ci sono varie combinazioni intermedie, che non sempre permettono una netta distinzione tra di esse. Nella classe degli ‘utilitaristi’ occorre distinguere tra imprenditori, occupati dipendenti o saltuari e semplici residenti. La scelta utilitaristica di tipo imprenditoriale può riguardare attività rivolte a sfruttare risorse locali sotto-utilizzate oppure (specie nelle aree più urbanizzate e in crescita demografica) la domanda locale di beni e servizi. In entrambi i casi giocano a favore della scelta montana situazioni locali di risorse poco o male utilizzate e di domanda poco o male soddisfatta. Nella classe degli ‘esistenziali’ si ha una vasta gamma di motivazioni che di base interpretano differentemente l’approccio alla montagna e rifiutano in modo più o meno marcato la vita di città, passando da una scelta anti-urbana e quella che potremmo dire della città in montagna. Ognuna di queste categorie richiede politiche diverse, sia sul piano soggettivo, cioè per quanto riguarda le azioni di attrazione e di accompagnamento, sia sul piano oggettivo degli interventi rivolti a rendere il territorio di accoglienza attrattivo in quanto rispondente alle diverse esigenze; risulta pertanto necessario operare in modo selettivo sulle categorie di nuovi abitanti che si vogliono attrarre in specifici territori di montagna a fronte, soprattutto, del contributo allo sviluppo che sono in grado di apportare. Erwin Durbiano Pianificatore territoriale, è membro dell’associazione Dislivelli di Torino, che opera per favorire una visione innovativa della montagna e delle sue risorse, costruendo reti tra ricercatori, amministratori e operatori e promuovendo servizi socio-economici integrati, oltre che interventi sociali, tecnologici e culturali capaci di futuro. Con Federica Corrado e Daria Rabbia è autore del documentario Ritorno alla montagna: la Valle di Susa si racconta. Essere nuovi Be new 133 MA IL FUTURO QUANDO ARRIVA? Fabio Feruglio Questo testo, per essere efficace, deve essere letto sfogliando la presentazione dell’intervento che è disponibile in slideshare: http://www.slideshare.net/fabio.feruglio/20131129-future-forum Il testo sarà intervallato dalla parola click ogni volta che c’è da far scorrere la presentazione, si parte dalla prima slide (copertina). L’idea di questo intervento è nata mentre con Renato (Quaglia) stavamo lavorando sul programma preliminare di Future Forum e sul contributo che Friuli Innovazione avrebbe potuto dare a un evento così ampio e complesso. Mentre parlavamo Renato mi fece notare che io tornavo sempre su un punto, che in buona sostanza era questo: in generale nel nostro Paese ci facciamo sempre sorprendere dal futuro. E anche quando il futuro lo stavamo inventando noi (sto pensando a Marconi, Meucci, Cruto, Natta, Olivetti, per capirci) chi lo ha fatto diventare presente per tutti, sono stati gli altri e non noi. Così a un certo punto mi ha detto «Beh dai, fai anche tu un intervento, vieni a raccontarci queste cose». Forse allora lo disse per andare avanti più rapidamente nel lavoro che stavamo facendo, ma come vedete ho accettato. Quindi io non vi racconterò di quello che succederà tra 15 o 20 anni ma vi presenterò brevemente alcune riflessioni su quanto sia necessario abituarci a comprendere e cogliere gli spunti che ci anticipano il futuro. Era da un bel po’ che qui non succedeva qualcosa di importante come Future Forum click Finalmente uno squarcio di luce, click finalmente qui a Udine, click finalmente uno slancio per guardare oltre, per porsi degli interrogativi, click Ma soprattutto per far rinascere, in chi l’avesse persa, la voglia 134 Fabio Feruglio della sfida sui temi cruciali: Lavoro click Industria click Sapere click Città click Scienza click. Nella giornata conclusiva di Future Forum, dopo tutto ciò che abbiamo ascoltato, dobbiamo fare in modo che anche questa non sia un’occasione persa. Non sprechiamo questa opportunità, questo regalo che ci è stato fatto, perché ha un valore di gran lunga maggiore dell’impegno enorme (di questi tempi) di chi lo ha concepito, progettato, realizzato e supportato. Questa opportunità deve trasformarsi in un nostro cambiamento. Dobbiamo da oggi in poi fare in modo di interessarci tutti con maggior continuità e assiduità ai temi che sono stati trattati e, se ce ne sarà ancora uno a breve, alle visioni di futuro; dobbiamo abituarci a considerarle anche nelle nostre scelte e azioni. E per imparare a farlo, dobbiamo trovare la risposta a questa domanda. click La parola futuro è una di quelle parole che quando si pronunciano in un contesto di lungo periodo, il più delle volte ci incanta. Restiamo tutti affascinati dalle meraviglie che può riservarci il futuro, ovviamente quando rifuggiamo dai futuri catastrofici. Però è vero che in generale pensando al futuro pensiamo al progresso, all’innovazione, per lo più ci sentiamo proiettati molto lontano dal presente e dalle nostre responsabilità attuali. Parlare di futuro dovrebbe invece farci riflettere (inchiodarci) sulle nostre responsabilità di oggi e sulla nostra capacità di azione, perché altrimenti non saremo mai protagonisti del futuro. Allora andiamo alla ricerca di una risposta a questa domanda. Forse già tutti ne abbiamo una pronta, ma dobbiamo trovarne le motivazioni profonde. click Innanzitutto il futuro è strettamente legato alla natura dell’uomo, al suo desiderio di progredire, di sviluppare della progettualità. click Questa è oramai ‘storica’: sono passati quasi vent’anni, ma qualcuno è ancora fermo lì, al sito vetrina. Questo è un altro esempio di progresso, Essere nuovi Be new 135 click ma qui qualcosa forse è andato storto. Preparando questo intervento ho riscoperto le prime cose che mi hanno fatto riflettere sul futuro: click Nel gioco degli scacchi c’è una visione del gioco, una strategia, uno sforzo continuo nel prevedere le mosse, nell’influenzarle, c’è ovviamente un obiettivo, un ruolo attivo, è un gioco che mi piacque subito e ne imparai le regole a 5/6 anni per giocare con i ragazzi un po’ più grandi di me. click Mio padre mi fece leggere questo libro quando uscì: era il 1972. Credo che rappresenti in assoluto la prima riflessione sul concetto di risorse finite e di implicazioni dello sviluppo, con analisi quantitative, modelli matematici e capacità di calcolo che oggi ci sembrano primitive. L’altra cosa straordinaria è che la ricerca fu commissionata da italiani (Aurelio Peccei, il Club di Roma) al MIT. Ecco ma click Come arriva il futuro? Come lo percepiamo? Quando ci accorgiamo che arriva? Il più delle volte ci sorprende. click Avremmo immaginato nel 2005 cosa sarebbe successo nel 2013? Non tanto in relazione all’elezione del Papa, quanto al modo diverso di vivere le emozioni: non solo le possiamo conservare, ma le possiamo condividere immediatamente con tutto il mondo, le possiamo fotografare o filmare, e poi subito twittare, postare, commentare, chattare. Questa è la parte che ci sorprende, ma in realtà anche quel futuro lì è arrivato così: click qui se ne comincia a parlare, qui si stanno creando grandi aspettative, qui cominciano i problemi da qui in poi si imbocca la strada giusta questo click è un esempio che posiziona le diverse tecnologie sulla curva e ci può far capire cosa stia succedendo oggi, e cosa possiamo aspettarci domani. Ci aiuta a prepararci per essere pronti. click Questo invece è un esempio che ho tratto da un documento del 2008, click ma che mi piace sempre far vedere 136 Fabio Feruglio click per l’immediatezza con cui evidenzia le questioni fondamentali sulle quali si sviluppa il nostro futuro, le competenze. click Questo purtroppo è del 2013 e deve farci riflettere (inchiodarci) alle nostre responsabilità: nell’analisi delle competenze degli adulti l’Italia è risultata all’ultimo posto (OCSE). click Qui vediamo le competenze click Da un altro punto di vista click click click Credo che ci stiamo avvicinando a scoprire la risposta che cerchiamo: ma quando arriva il futuro? Ma farei ancora qualche passaggio. Quali sono i limiti di ciò che possiamo aspettarci dal futuro? click click click click click Bene credo che adesso cominciamo a mettere a fuoco la risposta alla nostra domanda click e a comprendere click perché quella risposta ci sembri sempre di più ragionevole, come risposta click click Però dove lo andiamo a cercare il futuro? click Abbiamo visto che il futuro è in qualche modo legato alla stessa natura umana, abbiamo visto come arriva il futuro ma dove lo si incontra, ci sono dei luoghi del futuro? Luoghi fisici, ma anche virtuali? click Scuole, da qui possiamo cominciare a leggere il futuro click Imprese, certo c’è anche qui il futuro, ma non in tutte click Centri di ricerca, qui il futuro è di casa, ma non dobbiamo farcelo sfuggire (Fermi, Majorana, Segrè, Amaldi, Pontecorvo) click Università, anche qui il futuro è di casa. Ma insegniamo anche a trasformare buoni risultati di ricerca in business. click Parchi scientifici e tecnologici, possono essere un’opportunità per chi il futuro se lo vuole costruire (qui facciamo le start-up), o per chi l’ha perso e se lo vuole riprendere (qui facciamo incontrare gli imprenditori con i ricercatori). Il Parco nella foto è a 6,5 km da qui ed è lì anche per voi, è qualcosa di nostro (il presidente della CCIAA di Udine, Da Pozzo, è uno dei soci di riferimento). click Qui non servono commenti click Qui sì. Andando a leggere cosa si sta brevettando: si impara molto del futuro. Essere nuovi Be new 137 Guardate che ancora oggi c’è qualcuno che pensa alla Cina come a quelli che ci copiano le sedie. La Cina detiene il 20% dei brevetti in nanotecnologie. Adesso sappiamo come arriva il futuro, anche dove trovarlo il futuro, ma non ancora come fare a prenderlo, a non perderlo… click click Dobbiamo allenarci a percepire e cogliere il futuro quando si avvicina click Dobbiamo essere pronti ad afferrarlo, a plasmarlo, e per fare questo dobbiamo essere predisposti al cambiamento, anche se non è facile click E come vedete spesso non è stato facile neanche per coloro che già erano sulla buona strada click Però dobbiamo provarci click Ma non possiamo fare la fine della rana bollita, che sguazza nell’acqua tiepida senza accorgersi che la temperatura sale e quando l’acqua bolle non ha più le forze per saltare via. click Oramai abbiamo trovato la nostra risposta, la nostra risposta alla domanda «quando arriva il futuro?», e siamo conviti che sia quella giusta. click Anche i ragazzi che hanno scritto questo articolo l’avevano trovata. Loro hanno capito subito quando arriva il futuro. Quei ragazzi erano in quarta e quinta liceo nel 2008 quando sono venuti a visitare il Parco Scientifico e Tecnologico Luigi Danieli di Udine. Anche qui qualcuno ha scritto un articolo sul giornale click Ma i risultati non arriveranno, se continuiamo ad autocelebrarci, immaginando una realtà apparente. In quella mappa, che proviene dal recente rapporto europeo sull’indice di competitività delle regioni, noi siamo medio bassi nella scala dei valori. Se non cerchiamo sempre di migliorare, se non guardiamo in faccia la realtà, non faremo progressi. Non coglieremo mai il futuro, e allora resteremo prigionieri del passato (o del presente) senza opportunità di essere davvero protagonisti del futuro click Ormai conosciamo la risposta e ne siamo ben consapevoli! click Che è ciò che più conta! Siamo anche consapevoli che oggi ci 138 Fabio Feruglio sono molte più opportunità di quante ce ne fossero in passato, per essere protagonisti e non comparse del nostro futuro. Ecco, dobbiamo ‘Essere nuovi tutti insieme per guardare avanti’. click Fabio Feruglio Direttore di Friuli Innovazione, vanta un’ampia esperienza professionale internazionale. Ha operato con crescenti responsabilità nel settore della consulenza aziendale, lavorando nell’ambito di progetti innovativi, di cambiamento dell’organizzazione, dei processi aziendali dei sistemi informativi, in tutte le aree aziendali: produzione, logistica, vendite e distribuzione, manutenzione impianti, amministrazione e controllo, risorse umane. È stato partner italiano e internazionale di Arthur Andersen e di Deloitte. Le sue esperienze professionali si sono concentrate per lo più nei settori manifatturiero, del consumer business, pubblico (università), chimico, farmaceutico e petrolifero. Essere nuovi Be new 139 IL FUTURO CI È GIÀ ADDOSSO Franco Iseppi Il punto di vista Il tema può essere affrontato partendo da molti punti di vista. Quanto si è detto finora mi consiglia di partire dall’idea che la costruzione di una ipotesi sul turismo di domani debba partire dalla nostra capacità di intercettare la domanda (a volte inespressa) di chi oggi pratica il turismo in senso generale e nelle sue specifiche espressioni. Intendiamoci: capire un bisogno, una domanda latente non è compito solo di sociologi, antropologi, psicologi, ma anche di imprenditori, perché il turismo svolge una funzione sociale e culturale, ma è anche e, per alcuni, soprattutto un business. Henry Ford se avesse ascoltato i suoi concittadini avrebbe fatto dei cavalli più veloci, invece ha inventato l’automobile. Silvio Berlusconi, quando ha iniziato la sua avventura professionale, lo ha fatto comprendendo prima degli altri che c’era una risorsa nascosta di cui il mercato aveva bisogno: la pubblicità. Essa avrebbe cambiato il peso del consumatore nel mercato stesso. Carlo Petrini, dando vita a Slow Food, aveva intuito che c’era una forte domanda (non organizzata) verso un nuovo tipo di rapporto tra produttore e consumatore. Vi ricordo che l’idea del nome al movimento non è di Carlo Petrini ma di Folco Portinari. Folco Portinari è stato anche uno dei primi stimolatori del premio Nonino. Partire dalla domanda per costruire una ipotesi di futuro non significa che non si prende in considerazione l’offerta, perché entrambe sono facce della stessa operazione e cioè l’invenzione di prodotti e servizi. Significa solamente partire da un punto di vista piuttosto che da un altro, senza porci troppo il problema se è nato prima l’uovo o la gallina. Certo è più facile partire da prodotti e servizi esistenti per ipotizzare un futuro, ma questa strada potrebbe portare non troppo lontano, vista la velocità con la quale cambia lo stile di vita dei consumatori e i bisogni di chi pratica il turismo, anche se in modo consapevole e compatibile. 140 Franco Iseppi I limiti dei trend Se noi ci limitassimo a tenere conto dei trend di crescita o di criticità come li vediamo oggi, ci limiteremmo: a tutelare offerte sature (mare e montagna), senza valutare le loro stesse potenzialità evolutive; a rafforzare offerte storicamente forti (beni culturali, città d’arte); a promuovere offerte emergenti e significative (enogastronomia, artigianato, made in Italy, eventi...) • sottovalutando le potenzialità del turismo urbano e rurale, proprio nel momento nel quale sta cambiando il rapporto tra cultura urbana e cultura rurale nel nostro Paese; • non considerando seriamente che l’attrattività dei beni culturali si sta allargando alla nostra eredità culturale in senso lato, espressione di una domanda culturale più allargata; • non investendo nelle zone interne del Paese, la cui attrattività complessiva sta aumentando; • accettando come inevitabili le forme di turismo più persuasive e avanzate della omologazione planetaria; • non riconoscendo a sufficienza che l’orientamento verso un turismo personale racchiude in sé la possibilità di cambiamento radicale della pratica turistica (fine dell’intermediazione e nuova concezione del modo di viaggiare). La necessità di distinguersi Sarebbe sbagliato non riconoscere ai trend di crescita e di criticità (basati sull’offerta di beni e servizi) un grande peso nella definizione del futuro, ma essi non bastano per sostenere e affermare un turismo come il nostro, che può godere di asset peculiari, sui quali costruire le proprie prospettive di sviluppo. Possiamo permetterci di disegnare il futuro del nostro turismo su molte distintività: a) la storia. Siamo la memoria del turismo europeo: si veda la funzione di ‘GranTour’. Il nostro turismo può essere supportato: 1. da un indiscutibile valore del patrimonio culturale, come capitale artistico riconosciuto; 2. da un ineguagliabile patrimonio agro-alimentare; 3. da un paesaggio, testimonianza della impronta che la storia e l’uomo hanno lasciato sul territorio (nel bene e nel male); 4. dalla ricchezza della sua biodiversità, da considerarsi un unicum; 5. dall’essere posizionato in modo centrale nella civiltà mediterranea; Essere nuovi Be new 141 b) l’immaginario. Il turismo è anche rappresentazione. La rappresentazione nel mondo dei luoghi turistici italiani (spesso compromessa dalla immagine di disastri ambientali e di degrado non solo fisico, ma anche morale) è ancora molto forte e positiva (merito della letteratura, del cinema, della natura, della storia, della geografia), al punto di rappresentare ancora un punto di forza. Si può allargare all’Italia quanto Simone Anholt, guru del National Brand, sostiene relativamente alla Toscana: la bellezza è qualcosa di hard e non di soft, e pertanto è un valore strutturale; c) l’identità plurale. L’Italia è vissuta come un Paese con forte identità plurale, e cioè basato sul valore della diversità, valutabile come un vero vantaggio competitivo; d) il territorio. Le riforme legislative e la modifica dell’art. 5 della Costituzione configurano il turismo in chiave territoriale, e quindi caratterizzato da specificità ambientali, storiche e culturali. L’aggettivo ‘locale’ non connota il turismo come localistico. Si tratta di trovare nella specificità del territorio l’essenza di una offerta non standardizzata, non banale e non necessariamente di massa. Perché il territorio, ‘i territori’ sono importanti per il turismo? Perché il territorio è diventato il contesto integratore (meglio il contenitore) nel quale si esprime la domanda del viaggiatore. Nessuno viaggia più con una sola motivazione (beni culturali, beni enogastronomici, eventi), ma ognuno ha una sua gerarchia di bisogni che, però, vorrebbe soddisfare nello stesso contesto. La diversa identità dei territori diventa pertanto un vero vantaggio competitivo per soddisfare contemporaneamente tutti i bisogni dei viaggiatori. I condizionamenti del presente Il nostro ragionamento termina con una ultima considerazione: il nostro presente come condiziona il nostro futuro turistico? Vediamo quali sono le criticità universalmente riconosciute al nostro sistema turistico: a) accessibilità: il nostro è un Paese spezzato a metà, a causa dello stato delle infrastrutture di comunicazione; b) Sud: ha le potenzialità di una industria-traino, ma si ferma lì; c) carenza di prodotti specifici (per famiglie, anziani, disabili – richiesti dai buyer internazionali) e di servizi personali efficienti e competitivi, spesso accompagnati da costi alti e gestiti con professionalità non ec- 142 Franco Iseppi cellente. Insomma, spesso la qualità complessiva della nostra offerta lascia a desiderare e l’accoglienza è di scarsa qualità; d) sviluppo durevole e sostenibile: non è (purtroppo) il contesto nel quale si collocano le nostre strategie di intervento; e) promo-commercializzazione mondiale molto carente e polverizzata; f) tecnologicamente povero: il 53% in Europa si informa e sceglie utilizzando internet. Noi non abbiamo un portale nazionale; g) modello di governance non virtuoso tra gli attori del sistema (Stato, Regione ed ente locale); h) prodotto di sistema: il turismo è certo se c’è una buona relazione tra politiche dei beni culturali, politiche ambientali, politiche agroalimentari e politiche delle infrastrutture (queste poi sono una precondizione allo sviluppo turistico). Esiste questa buona relazione tra le diverse politiche? Non c’è bisogno di rispondere. Il turismo non riesce a essere un prodotto di sistema; i) l’osservatorio sul turismo. Per ora i dati sistematici (ISTAT e Banca d’Italia) sono disponibili due anni dopo. Per chi deve prendere delle decisioni il lasso di tempo è troppo lungo. Ci si deve accontentare di informazioni anche buone, ma non sistematiche. Riflessione finale Anche per coloro che preferiscono vedere il bicchiere dalla parte piena, non c’è da essere allegri. Non chiedetemi se è possibile un futuro radioso, con un presente come il nostro. Forse è possibile, ma è certo che c’è moltissimo da fare. In ogni modo cominciamo a sfatare un luogo comune: in un mondo in continuo movimento (accelerato, disconnesso e continuo), il presente non si distingue ma si identifica con il futuro. Franco Iseppi Insegna Teorie e tecniche di comunicazione dei media alla Facoltà di Ingegneria del cinema e dei media al Politecnico di Torino. Dal luglio 2010 è presidente del Touring Club Italiano. Produttore, curatore e ideatore di numerosi programmi televisivi, ha ricoperto vari incarichi dirigenziali in RAI, di cui è stato direttore generale dal 1996 al 1998. È consulente e manager di associazioni, istituzioni e imprese operanti nel campo della convergenza tra televisione, telecomunicazioni e internet. Osservatore ed esperto di apparati di comunicazione di massa, ha scritto e collabora a riviste specializzate nazionali e internazionali. Ha pubblicato saggi e ricerche sul sistema televisivo e dei media italiani e sui consumi culturali. Essere nuovi Be new 143 LAVORO DEL FUTURO E FUTURO DEL LAVORO Da Adriano Olivetti alla Società della Conoscenza condivisa Bruno Lamborghini Oggi parlare del futuro del lavoro in Italia, in un momento drammatico della più grave crisi dal dopoguerra, una depressione che appare peggiorare senza speranza da un quinquennio, sembra un dibattito astratto, fuori del tempo. Più che di futuro del lavoro, oggi si parla della mancanza di lavoro, quasi della morte del lavoro che tanti pagano sulla propria pelle, un lavoro che i giovani cercano invano oggi in Italia, con indici di disoccupazione giovanile tra i più alti, con il frustrante parcheggio delle risorse più strategiche, quelle dei giovani che sono l’asset per costruire futuro. Credo che invece, oggi in particolare, in Italia occorra parlare del lavoro in modo nuovo. Se c’è una morte del lavoro è quella del lavoro dequalificato, la catena di montaggio, la fine del taylorismo-fordismo, i caratteri del lavoro che hanno determinato oltre 200 anni di sviluppo industriale, ma che ora non hanno più spazio, in occidente, ma sempre più anche nei Paesi emergenti che cercano di rincorrere i vecchi modelli dell’occidente. La fine del taylorismo-fordismo nelle fabbriche, ma anche negli uffici, nei servizi, anche se da tante parti si cerca sbagliando di proseguire su questa strada che non ha più futuro. La perdita di senso nella ricerca di una produttività statistica astratta, quando la competitività, l’innovazione e lo sviluppo richiedono ben altro. È assolutamente necessario parlare di futuro del lavoro, di lavoro del futuro, avendo chiaro che la grande depressione delle economie occidentali e in particolare delle economie dell’eurozona meridionale è solo la causa più superficiale, non strutturale delle perdite di occupazione. Ma vi è ben altro da considerare. 144 Bruno Lamborghini Al di là e al di sopra degli effetti della crisi nata dalla finanza internazionale e dalle politiche sbagliate per frenare la crescita incontrollata dei debiti degli stati e delle banche, è in atto una mutazione strutturale dei sistemi economico-sociali che hanno governato sinora la crescita industriale, non solo nei Paesi di antica industrializzazione, ma anche nelle economie emergenti. È in atto una sfida radicale di cambiamento di fronte alla quale siamo del tutto impreparati, anche se facciamo convegni, scriviamo libri sul cambiamento, sul change management. Cominciamo a renderci conto che qualcosa sta cambiando sotto i nostri piedi, diamo la colpa spesso alle nuove tecnologie, alla globalizzazione, alla concorrenza della Cina, ma non andiamo oltre, perché prevale l’istinto di conservazione, del business as usual, l’add’a passà a nuttata. Ci sarà un giorno la ripresa, basta guardare quanto fanno nella Germania della Signora Merkel, senza renderci conto di quanto anche i tedeschi sono preoccupati del futuro e cercano di trovare la stabilità tra le braccia di Mutti. Ci rifugiamo nella difesa del posto di lavoro del passato, anche se le fabbriche si sono svuotate, non tanto per colpa dei cinesi, ma perché non siamo capaci di innovare i nostri prodotti, di innovare soprattutto le forme e i contenuti del lavoro. Nel lavoro del futuro non c’è più il posto di lavoro certo e immutabile, c’è al suo posto la crescita continua della mia professionalità che solo io gestisco, non devo affidarmi ad altri, ma solo alla mia capacità di cambiare, di aggiornarmi, di stare al passo con il cambiamento continuo. È un salto traumatico perché il nostro istinto naturale è la difesa del nostro saper fare, anche se non lo aggiorniamo. Anche se è divenuto drammaticamente obsoleto e non serve più. Credo che dobbiamo modificare anche il nostro linguaggio, sostituire la parola lavoro con attività, professione, così come sostituire la parola formazione con la parola apprendimento. Possibilmente apprendimento continuo per tutta la vita, in stretto collegamento con la nostra attività, la nostra capacità di lavoro. C’è un modello di formazione dominante da abbandonare, quello dell’impegno scolastico che impegna la nostra vita per alcuni anni e Essere nuovi Be new 145 poi basta, da un certo momento in poi nessuna formazione, si vive di una falsa rendita formativa che finisce rapidamente, e ci rende obsoleti, inadatti ad affrontare una società che cambia quotidianamente e che chiede nuovi contenuti lavorativi. In alcuni Paesi si comincia a comprendere che apprendimento e impegno lavorativo devono procedere sempre assieme, non in fasi separate e distanti, ma in modo integrato in tutte le età della vita. In Germania ad esempio apprendimento teorico e apprendistato pratico procedono assieme almeno in alcune fasi della vita scolastica. In Italia sembra ancora un sacrilegio parlare a scuola di lavoro e di impresa. Io, che vengo dal mondo aziendale insegnando in università, mi sono spesso sentito guardato con sufficienza dai colleghi quando promuovevo o meglio obbligavo stages in azienda ai tesisti. Il principio è che l’università deve essere un monumento all’insegnamento scientifico, non occuparsi di business. Il risultato finale è quindi il restare a casa per anni dopo la laurea inviando invano curricoli. Devo dire però che al di là della mancanza generale di comprensione dei problemi del lavoro e della sua mutazione, così come delle conseguenze in termini di scelte o mancate scelte da parte della politica e anche da parte imprenditoriale, sta crescendo una nuova Italia che ha capito e vuole partecipare al cambiamento. Non vi è dubbio che le imprese esportatrici, che vivono la realtà dei mercati internazionali più dinamici e che sono forse l’unico vero motore della nostra economia, hanno chiaro quanto sta accadendo e hanno profondamente modificato la loro azione organizzativa, con particolare riferimento alle modalità di lavoro. Un esempio per tutte, che mi è particolarmente caro: Enrico Loccioni, un medio imprenditore marchigiano che opera nelle high tech dei sistemi di automazione a contatto con le realtà mondiali più innovative, ha capito quale è il futuro del lavoro. Se andate a visitare i suoi reparti capite subito che i lavoratori sono principalmente persone che considerano gli obiettivi come propri, partecipando personalmente e in team in cui lavoro e apprendimento continuo stanno assieme. La conoscenza, il know how nella sua impresa è totalmente condiviso. 146 Bruno Lamborghini C’è una consapevolezza etica nel proprio lavoro che produce effetti straordinari nella capacità di innovare, di introdurre idee nuove e quindi nel successo dei risultati. Nel caso di Loccioni vale quanto qualcuno ha detto riguardo il fatto che le imprese tradizionali sono industrie specializzate per prodotti, come automobili, elettrodomestici. Le nuove imprese sono specializzate nel produrre innovazione dovunque e cambiano attività guidate dai percorsi dell’innovazione (tecnologica, organizzativa, ecc.). Innovation driven, non product driven. Per questo, anche se vi sono crisi in un mercato, utilizzano la capacità d’innovazione per trovare altri mercati e quindi non c’è mai crisi del lavoro e l’impresa, fintanto che innova, non va mai in crisi. L’Italia è piena di imprese innovative e credo che tutti voi conoscete altri casi simili che danno speranza a questo Paese di ritrovare una strada di vero sviluppo. A metà settembre 2013 abbiamo organizzato a Salerno un grande Congresso di AICA dedicato alle nuove frontiere digitali. Abbiamo incontrato e sentito tanti giovani, in gran parte del Sud, che hanno avviato start-up, spin off universitari, per divenire artigiani digitali, dai FabLab con le stampanti 3D, agli sviluppi di nuovi media digitali e app, ai cosiddetti makers che riescono a coniugare bit e atomi, innovazione digitale e capacità manifatturiera, con un rapporto dal basso con le università, con la creazione di fitte reti relazionali con i centri di ricerca più avanzati in USA, in Svezia, in Giappone. A Roma recentemente vi è stata la Makers Faire con centinaia di nuovi giovani produttori. Un grandissimo impegno creativo, anche in carenza di grandi risorse finanziarie e in mancanza di un sistema Paese che non li ostacoli, ma con forti legami territoriali, l’unione feconda tra valori locali e reti mondiali. Impresa e lavoro devono trovare forza nel legame con il territorio, che diviene un ecosistema interattivo con le imprese, senza il rischio di specializzare il territorio come nel caso dei distretti, per i quali tutto il sistema locale rischia di entrare in crisi quando cambiano i mercati e le tecnologie. Questi giovani non sono preoccupati del futuro, perché lo stanno creando con la loro attività, con il loro entusiasmo. Questa creatività la troviamo se visitiamo gli ambienti di coworking, Essere nuovi Be new 147 dove si trovano assieme competenze diverse di giovani innovatori che condividono computer, ma anche tavoli di calcio balilla. C’è una iniziativa che si sta sviluppando chiamata TAG (Talent Garden) ormai in diverse città del Nord Italia. Sono sedi aperte 24 ore su 24, dove si va con modica spesa e si trova un ambiente infrastrutturato always on, senza orari, dove si opera già nel modo di lavorare del futuro, in totale partecipazione e collaborazione, in cui vita e attività operativa tendono a coincidere, in cui l’unica garanzia di futuro è la propria testa, in scambio continuo con altre teste. So che alcuni sorridono di fronte a queste prospettive pensando che gli artigiani digitali, i coworker non risolveranno nel breve i problemi della disoccupazione italiana, i cassintegrati, il 40% di disoccupazione giovanile. Non dimentichiamo però che negli USA, ma anche in Europa, da queste nuove forme di attività, dai garage sono nate in pochissimo tempo imprese di dimensioni mondiali. Pensiamo a Google, che ha adottato queste modalità operative in ambienti aperti all’open innovation e in cui un giorno alla settimana è lasciato libero a ciascuno per pensare. Ma pensiamo anche che si può pure in Italia: Arduino, un microprocessore open source a bassissimo costo, nato a Ivrea da 5 ragazzi in un garage, oggi è divenuto standard internazionale, tanto che Intel nei giorni scorsi ha deciso di integrarlo nei suoi sviluppi. Abbiamo introdotto per il Congresso di AICA uno slogan: «I protagonisti dell’Italia digitale sono già tra noi». I nuovi protagonisti stanno nascendo nel silenzio dei media, forse con l’eccezione di Riccardo Luna su «Repubblica», ma soprattutto nel silenzio e nell’indifferenza della politica e delle istituzioni. Non si tratta di chi opera solo nel mondo digitale: vediamo nascere nuove iniziative libere anche in altre aree, come ad esempio le nuove imprese tecno-agrarie, nuovi prodotti e servizi dell’ambiente, dell’energia, del turismo. È uscito un bel libro che consiglio, scritto da un giovane economista italiano che insegna a Berkeley, Enrico Moretti. Si intitola La nuova geografia del lavoro e parla degli Stati Uniti, ma quello che dice vale anche per il nostro Paese e apre opportunità per il futuro, assieme a mostrare i rischi per chi sta fermo. 148 Bruno Lamborghini Moretti dice: negli Stati Uniti l’economia postindustriale, basata sul sapere e sull’innovazione, sta cambiando profondamente il mercato del lavoro per la tipologia dei prodotti, per le modalità e per la localizzazione produttiva, creando enormi disparità geografiche tra i centri innovativi, come Seattle, e i centri in declino irreversibile come Detroit, in conseguenza dell’incapacità di cambiamento innovativo. Per alcune regioni e soprattutto alcune città americane, la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie generano aumenti della domanda di lavoro, più produttività e redditi più alti. Le aree che non riescono a partecipare a questo processo vengono emarginate con pesanti effetti in termini di istruzione, aspettative di vita e stabilità famigliare. Noi pensiamo agli effetti della globalizzazione mondiale, mentre in realtà questi fenomeni si manifestano all’interno delle nazioni o delle aree regionali. Le imprese e i lavoratori più creativi si concentrano in determinati luoghi e non in altri, creando fenomeni di forte attrazione e mobilità del lavoro, con mercati del lavoro ‘densi’ in alcune aree a danno di altre a minor tasso di innovatività. Questa analisi deve farci riflettere anche per il futuro dell’Italia produttiva in termini di fattori innovativi concentrativi in alcune aree, di crisi endemiche per carenza di innovazione e processi di maggiore mobilità sociale. Nel sottotitolo del mio intervento ho evidenziato ‘Da Adriano Olivetti alla Società della Conoscenza condivisa’ e cerco di spiegare perché prendo questi due riferimenti parlando del lavoro del futuro. Il termine Società della Conoscenza è ormai abusato sia nei convegni che anche nelle politiche europee. Ricordiamo Lisbona Obiettivo 2010 dell’Unione Europea, in cui si programmava di fare dell’Europa la più avanzata Società della Conoscenza, dando ai Paesi membri precisi target da raggiungere. Arrivati al 2010 senza averli raggiunti, si è spostato l’obiettivo su Horizon 2020, più o meno con gli stessi target tecnologici, formativi e organizzativi. La grande crisi ha interrotto parte di questi obiettivi, ma resta sempre aperta l’esigenza di dare un futuro di sviluppo innovativo al vecchio Essere nuovi Be new 149 continente, schiacciato tra Stati Uniti e Paesi emergenti e condizionato dalle politiche di austerità connesse all’Eurozona. Non basta accumulare conoscenza. Oggi internet, i social networks accumulano miliardi di miliardi di informazioni, i Big Data che gestiscono quantità stratosferiche di informazioni, alimentate sempre più anche da oggetti in rete (internet of things), informazioni e dati che non divengono conoscenza se non vengono finalizzati. La conoscenza assieme all’abilità pratica diviene competenza e solo allora serve davvero. Ma il valore della conoscenza si accresce esponenzialmente solo se è oggetto di scambio, se diviene conoscenza condivisa. Nei laboratori di ricerca oggi si sono aperte le porte. Ci si muove nell’open innovation, nello scambio in rete attraverso i Forum e allora la conoscenza diviene la materia prima dell’innovazione e del nuovo lavoro. È la fine della frammentazione della catena di montaggio sia in fabbrica che negli uffici. Ciascuno apporta la sua conoscenza al gruppo e la condivide arricchendola e producendo valore aggiunto. La nuova value chain è conoscenza condivisa, apprendimento di scambio che produce nuova conoscenza individuale e collettiva, innovazione aperta, partecipazione creativa nelle attività del lavoro, condivisione dei risultati. In fondo, si potrebbe dire che questo era il modello dell’artigiano classico, della bottega artigianale, uccisa dalla fabbrica di massa. L’Italia per sua natura è forse un ambiente adatto a un rilancio di questo modello, che peraltro non significa non divenire mai grande impresa, dato che abbiamo modelli di artigiani italiani di successo divenuti grandi imprese, come Luxottica, Della Valle, Cucinelli e tanti altri. In più oggi le tecnologie di rete permettono di essere glocal, cioè di fare ricerca e innovazione con strutture limitate, aperte al mondo attraverso ampissime relazioni in rete con tutto il mondo, di produrre con nuovi modelli produttivi a costi ridotti (il digital fabrication model sta entrando anche nella produzione di larga scala e consente di personalizzare i prodotti), ma ancora le nuove tecnologie di rete consentono di vendere in tutto il mondo attraverso reti di e-commerce a costi minimi di distribuzione. 150 Bruno Lamborghini Ripeto, oggi la vera sfida è la centralità dell’investimento, è nelle persone, nelle competenze, più che nelle tecnologie o nelle macchine. Oggi molte imprese, di fronte alla crisi della domanda, sono costrette a tagliare i costi e cioè a mandare a casa i dipendenti, senza badare se con loro se ne va via dall’azienda il patrimonio di conoscenze, il know how, cioè il vero asset per lo sviluppo futuro e restano solo i muri vuoti. Le persone e le loro competenze, il loro lavoro sono gli elementi vitali, e l’investimento fondamentale per lo sviluppo è rappresentato dalla valorizzazione delle competenze dei propri dipendenti, aiutandoli a una formazione permanente e creando una capacità di rinnovare la value chain dei collaboratori. La centralità delle persone mi porta immediatamente a parlare di Adriano Olivetti e della sua concezione dell’azienda e del lavoro. Un pensiero e una azione imprenditoriale, quella di Adriano Olivetti, che oggi a 50 anni dalla sua scomparsa viene riscoperta come la chiave per affrontare questo nuovo scenario. C’è un discorso di Adriano, quando deve affrontare una crisi di mercato nel 1952, un discorso che esprime bene il significato del ruolo di imprenditore verso le persone che collaborano assieme con lui all’obiettivo di crescita aziendale. «Verso l’estate del 1952 la fabbrica attraversò una crisi di crescenza e di organizzazione. Fu quando riducemmo gli orari; le macchine si accumulavano nei magazzini di Ivrea e delle filiali a decine di migliaia. L’equilibrio tra spese e incassi inclinava pericolosamente: mancavano ogni mese centinaia di milioni. A quel punto c’erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere più nessuno; c’erano cinquecento lavoratori di troppo; taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L’altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. Fu scelta senza esitazione la seconda via. In Italia furono assunti 700 nuovi venditori, fu ribassato il prezzo delle macchine, furono create nuove filiali. Diciotto mesi dopo, il pericolo di rimanere senza lavoro era ormai scongiurato». C’è una espressione nel pensiero di Adriano Olivetti che mi ha sempre colpito: «Per vivere occorre progettare». Tutta la sua vita è stata motivata, guidata da questa esigenza quasi ossessiva: progettare significa Essere nuovi Be new 151 guardare avanti, pensare al futuro per innovare sempre, per crescere e creare ricchezza collettiva, per costruire valori destinati a restare vivi anche al di là della vita dell’impresa. Pensiamo invece quanto oggi sia difficile programmare, andare oltre al budget annuale o perfino mensile. Ma questa vista corta porta inesorabilmente al fallimento. Adriano Olivetti non amava guardare indietro, guardare al passato. Preferiva guardare avanti, a un domani prossimo, non futuribile, un domani da costruire partendo oggi con una squadra secondo un progetto preciso. A proposito del suo concetto di lavoro ecco cosa dice ai lavoratori di Pozzuoli nel 1955: «Perché lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica e le macchine e i banchi e gli altri uomini, per produrre qualcosa che vediamo correre nelle vie del mondo e ritornare a noi in salari che sono poi pane, vino e casa, partecipiamo ogni giorno alla vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e alle sue cose più grandi, finiamo per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra, il lavoro diventa a poco a poco parte della nostra anima, diventa quindi una immensa forza spirituale». E ancora sulla disoccupazione, ricorda l’ammonimento di suo padre Camillo, «la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: tu devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano da subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro». E Adriano poi aggiunge: «E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo». Lavoro, persona, ambiente sociale, comunità di persone nella fabbrica e nel territorio, conoscenza, formazione, cultura. Una sintesi della concezione adrianea che è stata tradotta in una utopia concreta, che ha prodotto sotto la sua guida negli anni ’50 la più grande, bella e competitiva impresa italiana e un modello unico del lavoro, osteggiato da sindacati, politici e confederazioni industriali, legati a modelli di sfruttamento fordista. E che vedevano in lui un nemico, un rivoluzionario, quando si chiedeva «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano semplicemente nell’indice dei 152 Bruno Lamborghini profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica?». Ho cercato di concentrare in sette valori olivettiani questo messaggio per dare a chi fa impresa, ma anche a chi vi lavora delle direzioni verso cui andare per affrontare questa grande mutazione del lavoro e soprattutto un aiuto ai giovani per costruire il loro futuro di lavoro. Questi valori sono: 1) visione del futuro, avere una ricerca e una curiosità insaziabile e progettare sempre il futuro, non subirlo, non ancorarsi all’esistente, ma guardare avanti, sognare, avere vision; 2) intelligenza che innova, porre al centro conoscenza, innovazione e decisione di cambiamento; 3) ricerca e libertà creativa, dare e avere spazio alla libertà di pensare, divenire una comunità di condivisione di idee e conoscenze; 4) cultura del cambiamento, non fermarsi mai ai risultati raggiunti, ma ripartire ogni giorno come fosse il primo, avere il coraggio di abbandonare quello che si sa per imparare il nuovo tutti i giorni della vita. Il cambiamento è l’unica certezza in un contesto di incertezza ma non bisogna avere paura; 5) coscienza sociale: non siamo delle isole ma degli arcipelaghi. Siamo responsabili della costruzione del bene comune, che ci ritorna moltiplicato mille volte. L’etica deve entrare in tutte le azioni, in tutti i lavori, in tutte le imprese. 6) forma, bellezza, tecnologia, la bellezza delle cose, delle idee cambia il mondo e rende felici. Tecnologia e bellezza stanno assieme nei prodotti, nell’attività degli artigiani. Adriano Olivetti esprime bene la sua visione di bellezza: «colui che prende il giusto cammino deve cominciare ad amare le bellezze della terra e progredire incessantemente (cioè innovare, creare il nuovo) verso l’idea della Bellezza stessa: dall’armonia delle forme a quella delle azioni, dalla perfezione delle azioni (l’impresa) a quella delle conoscenze (la società della conoscenza) per raggiungere infine quella ultima conoscenza che è la Bellezza in sé (la forma più alta della vita)»; 7) apertura al mondo: il mondo oggi è aperto, non è un nemico, ma un alleato per costruire il nostro futuro di lavoro, mondo e ambiente locale stanno assieme, vi è una logica olivettiana del think global and act local. Essere nuovi Be new 153 Credo che se tutti fossimo convinti di seguire queste strade, potremmo ridisegnare il percorso per il nostro lavoro del futuro già oggi. Nel dopoguerra la ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra ha spinto tutti, piccoli e grandi, pubblici e privati, a darsi da fare per costruire, creare nuove attività, arrivando sino a quello che venne chiamato il miracolo economico. Oggi credo siamo di fronte a tante macerie che sono le aziende che chiudono, i giovani senza lavoro, la perdita di speranza di futuro e perfino di valori di una etica civile e sociale. Occorre oggi ritrovare la volontà di ricostruire, avendo però chiaro che è finito un ciclo, è finita una storia, ma questo richiede di affrontare un nuovo cammino caratterizzato da un grande cambiamento, forse una mutazione permanente senza più rendite di posizione, false illusioni e falsi privilegi. Non riusciremo a creare come allora un altro miracolo economico, ma dobbiamo provarci e soprattutto dare ai giovani la speranza di futuro. Bruno Lamborghini Presidente di AICA (Associazione Italiana di Informatica e Calcolo Automatico) di Milano, dell’Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea e dell’Associazione Prometeia di Bologna. È docente del Master in Comunicazione digitale all’Università Cattolica di Milano, dove ha insegnato Organizzazione aziendale. Già direttore centrale della Olivetti oltre che amministratore e presidente di società del Gruppo Olivetti, è autore di libri, saggi e articoli di economia industriale con particolare riferimento alle tecnologie digitali. Tra i lavori recenti: L’impresa web. Social Networks e Business Collaboration per il rilancio dello sviluppo (Franco Angeli, 2009). 154 UDINE/FRIULI A LEARNING CITY/REGION ? Norman Longworth Se c’è una cosa che abbiamo imparato negli ultimi anni è che il nostro mondo locale è diventato un luogo più complesso in cui vivere. I politici e le autorità cittadine di oggi sembrano dover tenere in equilibrio più palline in aria allo stesso tempo. Tra queste: nuove tecnologie, cambiamenti climatici, terrorismo internazionale, sostenibilità, internet, invecchiamento della popolazione, migrazioni di massa, energie rinnovabili, promozione di salute e benessere. Nessuna di tali questioni complesse arrovellava le menti delle amministrazioni locali sessanta o anche solo trenta anni fa. Lo Sviluppo Professionale Continuo delle autorità cittadine era necessario per pochi tecnici, manager e leader. Lo sviluppo delle autorità locali in Learning Organisations, organizzazioni che imparano, indica che esso è ormai parte integrante dell’apprendimento continuo di tutti i lavoratori in molte città, proprio come lo è in numerose imprese come elemento che ne contraddistingue la qualità. La globalizzazione e un mondo in rapido cambiamento hanno stravolto tutto. Le autorità cittadine sono oggi tenute a trovare soluzioni a questioni che colpiscono l’intero pianeta, così come gli interessi quotidiani di servizi, cittadini e istituzioni all’interno della città. Tale complessità è alimentata dalle incerte fluttuazioni della finanza internazionale, dalla richiesta di competenze, dagli atti terroristici, dall’instabilità politica e dalla risposta a una crescente povertà globale. I tre principali fattori di interesse dei governi locali sono: • primo, lo sviluppo economico: fornire posti di lavoro, crescita e investimenti endogeni per la popolazione e prestazioni previdenziali; • secondo, lo sviluppo sociale: con la sua enfasi su servizi per il pubblico, istruzione, comunità sane e riduzione della povertà; • infine, il più recente interesse ambientale in questioni quali sostenibilità, energia, risorse idriche e gestione dell’inquinamento dell’aria. Essere nuovi Be new 155 In passato ciascuna questione veniva trattata in compartimenti separati dell’amministrazione urbana. Tuttavia, oggi ci rendiamo conto che tutto è collegato. Molti elementi trascendono i semplici confini di modelli separati. La gestione delle Learning cities, città che imparano, è oggi un business olistico. La crescita, ad esempio, se apparentemente è un requisito economico, assume un aspetto ambientale allorché le viene richiesto di essere sostenibile, e un aspetto sociale laddove coincide con l’esigenza di una popolazione istruita e qualificata in grado di utilizzare la tecnologia moderna. Ogni cosa diviene interdipendente, interattiva, interconnessa, e la consapevolezza di tali interrelazioni insieme allo sviluppo di strategie per affrontarle, sono oggi l’interesse prioritario di leader e autorità cittadine. Queste sono alcune previsioni tratte da relazioni governative, libri e periodici: • il 20% dei profili professionali del 2023 non esiste ancora; • chi finisce gli studi oggi sarà preparato a svolgere più di 4 professioni nell’arco della vita: la natura del lavoro, la tecnologia, gli stili di lavoro e di vita rendono le nostre conoscenze e competenze subito obsolete; • la maggior parte della popolazione sarà obbligata e in grado di lavorare oltre i settanta anni di età; • i cambiamenti climatici influenzeranno profondamente il nostro futuro. Oggi l’incertezza contraddistingue le nostre vite. Cosa possiamo farci? Un indizio lo fornisce Arthur C. Clarke, scrittore inglese di fantascienza, che disse: «Ognuno dovrà ricevere un’istruzione al livello di semi-alfabetismo dello studente universitario medio entro il 2000. Questo garantirà la sopravvivenza minima del genere umano». La risposta allora, come sempre, sta nell’istruzione e nell’apprendimento. C’è differenza, tuttavia, non nella misura in cui ci è stato trasmesso in passato: anche l’istruzione deve cambiare per rispondere alle sfide. Siamo passati dall’epoca dell’Istruzione e della Formazione – per coloro che la volevano, quando era necessario, concentrandoci su cosa insegnanti e istituzioni erano pronti a offrire – all’epoca dell’Apprendimento Permanente, che: • è rivolto a tutti nella città e nella regione; 156 Norman Longworth • avviene in qualunque luogo, tempo e modo desideri colui che apprende; • si concentra sulle esigenze e domande di colui che apprende; • consente a colui che apprende il pieno possesso del proprio apprendimento; • utilizza strumenti e tecniche propri dell’Apprendimento Permanente, quali la costruzione di programmi e verifiche di apprendimento personalizzati; • utilizza tecnologie informatiche, quali internet come meccanismo di ricerca e trasmissione; • sfrutta il potere dell’apprendimento collaborativo attraverso reti locali, nazionali e internazionali; • è promosso da un esercito di consulenti, mentori, guide e insegnanti per facilitare il percorso di apprendimento; • si basa sullo sviluppo di competenze, attitudini, attributi e sulla definizione di valori di apprendimento. Le regioni, il Friuli, dovranno diventare Learning Regions, regioni che imparano, e le città, Udine, diverranno Learning Cities. Per loro si tratta di una crescita nel senso più ampio del termine – ambientale, sociale, economica, culturale, personale e di comunità – in cui ciascun aspetto deve essere sostenibile e basato sullo sviluppo di capacità di riflessione innovative. Quindi cos’ha questo a che fare con il Friuli Future Forum? La risposta sta nelle tendenze attuali registrate negli USA, dove l’incremento della ricchezza nazionale è alimentato da città e regioni; in Cina, che sta compiendo uno sforzo enorme per trasformare le sue città in Learning Cities; in Corea, dove le sue 110 Learning Cities hanno contribuito a un tasso di crescita annuo del PIL superiore al 7%. Simon Jenkins ha scritto su «The Guardian» il giorno di questa presentazione: «Le città sono le polis del futuro. Per la prima volta la maggior parte della popolazione vive nelle città anziché al di fuori di esse. Questi luoghi sono i motori della crescita economica e della mobilità sociale, sono le capitali della cultura e crogioli di migrazione. Esse devono crescere e mutare, altrimenti si fossilizzeranno». Pertanto città e regioni stanno diventando sempre più i motori della crescita nazionale. Ma i motori hanno bisogno di combustibile e il combustibile in ogni caso deve essere l’apprendimento, un appren- Essere nuovi Be new 157 dimento di una qualità ancora mai vista in gran parte dell’Europa. Per avere successo le città/regioni di oggi devono essere intelligenti, creative, innovative, adattabili, ingegnose, varie e aperte, e così i loro cittadini. I sistemi d’istruzione moderni, soprattutto le scuole, tendono a non generare individui con tali aspirazioni e ampie vedute. Un apprendimento continuo nel corso della vita è necessario non solo a funzionari, manager e dipendenti delle imprese, né soltanto a politici, responsabili e dipendenti dei governi locali, né esclusivamente a insegnanti ed educatori: è necessario a tutti, tutti i cittadini, la città intera come una gigantesca Learning Organisation. Allora cos’è una Learning City? Ecco alcune delle centinaia di definizioni: Un luogo con progetti e strategie per promuovere crescita personale, coesione sociale e creazione di ricchezza sostenibile attraverso lo sviluppo del potenziale umano di tutti i cittadini e il potenziale sociale, finanziario e culturale delle sue istituzioni e organizzazioni. La Piattaforma Internazionale UNESCO per Learning Cities è una rete globale di città che lavoreranno insieme per l’attuazione di concetti e progetti di Learning City. Da 2 anni collaboro con l’UNESCO per definire aspetti chiave, indicatori, atti a determinare e misurare crescita e prestazioni delle Learning Cities. Tempo e luogo non consentono ora un’analisi dettagliata di questi indicatori. Tra i ‘maggiori benefici’ gli indicatori economici riguardano un miglioramento degli aspetti della prestazione economica tra cui: sfruttamento di tutte le risorse, formazione interna all’azienda, ricerca e sviluppo, innovazione e creatività, imprenditorialità, facilità di creare start-up, promozione di investimenti interni, nuove abilità e competenze, Learning Organisations e altri. Gli Indicatori di Sostenibilità includono consapevolezza e partecipazione dei cittadini, aree urbane verdi, controllo/riduzione dell’inquinamento, controllo/riduzione del consumo energetico, valutazione dell’impatto ambientale, preparazione ai cambiamenti climatici, ecc. Gli Indicatori Sociali comprendono alfabetizzazione degli adulti, mentori, strumenti di apprendimento personalizzati, partecipazione civile, pari opportunità, inclusione e molto altro. I Pilastri Principali coprono un’ampia gamma di idee e attività di apprendimento permanente che consentiranno alla Learning City di 158 Norman Longworth evolversi, con la creazione di possibilità di apprendimento per tutti, rilanciando l’apprendimento comune, la formazione sul posto di lavoro, l’utilizzo della tecnologia e la creazione di una cultura di apprendimento. Questi si suddividono a loro volta in 28 indicatori. Infine, le Condizioni Fondamentali, a sottolineare impegno e volontà politica, partenariato e partecipazione di tutti gli interessati e l’approvvigionamento di risorse. Un aspetto estremamente importante di quest’ultimo è l’enorme incremento di risorse grazie a collegamenti con altre città e regioni, scambi di conoscenze, esperienze, idee, buone prassi e occasionalmente di denaro. Mi auguro che questo breve documento possa convincervi che Udine e il Friuli insieme debbano diventare una Learning City/Region, se non altro perché questo è il futuro e offre benefici per tutti, cittadini, organizzazioni e istituzioni. Prendete allora in considerazione le parole del documento politico della Commissione europea: «In un mondo globalizzato città e regioni non possono permettersi di non diventare Learning City/Region. È questione di prosperità, stabilità, occupabilità e benessere personale di tutti i cittadini». Infine, strumenti e materiale per l’apprendimento sono disponibili sul sito web http://eurolocal.info. Raccomandazioni al testo ‘Udine/Friuli – Learning City/Region?’ In allegato, e di conseguenza al dibattito che si è svolto dopo la mia presentazione, ho inviato al Sindaco di Udine una serie di raccomandazioni che consentiranno di iniziare questo percorso. Ciò non avverrà nell’arco di un anno e neppure di 5 anni, ma si dovrebbe iniziare subito. Come può realizzarsi questo nella città/regione di Udine/Friuli? Le seguenti raccomandazioni sono state inviate al Sindaco della città per discuterne con le autorità e i professionisti locali. 1. Decidere di sviluppare la città (oppure la città e la regione circostante) in una Learning City. Distribuire un elenco di caratteristiche chiave della Learning City (anch’esso fornito al Sindaco) e chiedere alle autorità cittadine di scegliere i tratti più importanti per la città. Concentrarsi su questi e su altri che riguardano esclusivamente la vostra città. 2. Fondare una Commissione per la Lifelong Learning City, ovvero per l’apprendimento permanente della città, composta da rappre- Essere nuovi Be new 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 159 sentanti di tutti gli interessi locali, pubblici e privati. Definire le linee guida per la Commissione e darle la facoltà di promuovere attività e individuare obiettivi per ciascuna attività. Essere innovativi (ad esempio, un disoccupato, uno studente). Fondare delle sottocommissioni per lo sviluppo dei concetti di apprendimento permanente in ciascuna area di azione, economica, sociale/culturale, ambientale. Coinvolgere in ciascun gruppo la più ampia gamma di persone possibile. Definire obiettivi per singoli cittadini e organizzazioni. Nominare un alfiere della futura Lifelong Learning City, una delle figure più influenti della città, e dargli potere esecutivo. Organizzare una conferenza di un giorno con la presenza di 100 persone chiave e l’intervento di esperti di Lifelong Learning City per trasmettere il messaggio (1). Rendere la conferenza bidirezionale: durante il giorno ospitare una serie di sessioni guidate di brainstorming nelle diverse aree di azione per ottenere il loro impegno e le loro idee. Dare a un partecipante la responsabilità di raccogliere e pubblicare queste idee sul sito web della città. Creare sul sito web della città un Forum elettronico di Learning City cui tutti possano contribuire. Ingaggiare esperti per una serie di workshop, seminari e conferenze di Lifelong Learning City dedicati a tutti gli attori della vita cittadina al fine di creare il più rapidamente possibile un nucleo di collaboratori impegnati. Renderlo un processo a cascata: chiedere agli esperti di fornire materiale e istruire i partecipanti a formare a loro volta altri. Associarsi a un’organizzazione di Learning City, anche più di una laddove ciò costituisca un valore aggiunto. Alcune offrono più opportunità di altre, ad esempio l’UNESCO ha creato di recente una piattaforma internazionale di Learning City (2) che promuove gli scambi elettronici tra scuole, università, istituti di istruzione per adulti, imprese, autorità locali, musei, biblioteche, ecc., di numerose città. Questo promuoverà lo sviluppo di casistiche di buone prassi, informazione e conoscenza in rete, e un nucleo di città alla pari con cui collaborare: un’enorme risorsa supplementare per le città membro. Il mondo a due passi. Organizzare un Learning Festival: coinvolgere molte organizza- 160 Norman Longworth zioni della città, collegarlo ad altre attività quali settimana dell’istruzione per adulti, festeggiamenti per gli obiettivi raggiunti, ecc. 10. Coinvolgere in maniera positiva i media. Attribuire loro un ruolo nell’ambito di consultazioni e riunioni, anche organizzando concorsi che portino benefici alla città, quali maggior sicurezza, idee per pubblicizzare la città, per coinvolgere i cittadini, per esporre il lavoro dei bambini: se questo aumenterà la loro circolazione i media saranno molto interessati. 11. Sviluppare un piano imprenditoriale e strategico. Collegarlo alle attività descritte sopra, negli allegati e suggerite nel corso di conferenze e seminari. Fissare obiettivi realistici con delle scadenze (2 anni, 5 anni, 10 anni). 12. Mobilitare i cittadini, come a Brisbane. Creare un ufficio (con personale volontario) per lo sfruttamento di talenti, competenze, conoscenze, idee ed esperienze quale risorsa umana della comunità, e collegarli alle diverse esigenze. Includere persone di tutte le età. Norman Longworth Già docente di Lifelong Learning all’Università di Stirling, è l’ideatore della ‘information ladder’, un diagramma che descrive gli stadi dell’apprendimento. Ha tenuto corsi in numerose università europee e ha diretto progetti sulla Learning City, ambito in cui è considerato uno dei massimi esperti. È stato consulente per UE, OCSE e UNESCO e ha collaborato con l’Osservatorio Pascal. Autore di numerosi saggi, in italiano ha pubblicato Città che imparano. Come far diventare le città luoghi di apprendimento (Cortina, 2007). Essere nuovi Be new 161 LE NUOVE FRONTIERE DEL TURISMO E LO SVILUPPO DI IMPRESE E TERRITORI Andrea Pollarini Quella che definiamo, complessivamente, industria turistica è in realtà il combinato-disposto di quattro diversi sistemi d’offerta – nati in epoche, con scopi e modalità differenti – e dei diversi gradi e livelli di interazione che questi hanno determinato nel corso del tempo. Specificamente: • il sistema dell’‘esperienza’ ovvero dell’agire turistico come rito di appartenenza, nato attorno al XVII secolo nell’ambito dell’aristocrazia europea (britannica in particolare) e che attraverso la sua espressione più nota – il Grand Tour – ha dato il nome all’intero comparto; • il sistema della ‘villeggiatura’ e della ‘vacanza’, che ha origini ancor più remote ma che nella sua forma moderna è figlio del XIX secolo e si riferisce all’utilizzo commerciale di quei ‘periodi’, più o meno estesi, di sospensione dell’attività lavorativa che la società industriale riconosce ai propri addetti; • il sistema del ‘viaggio organizzato’ fatto di reti, snodi e veicoli (per molti secoli rudimentali, scomodi, lenti e insicuri e poi, via via, sempre più rapidi, comodi e capienti) utilizzati per scopi che, il più delle volte, avevano ben poco a che fare con il turismo quanto piuttosto con il lavoro, il commercio, la pratica religiosa, lo studio, l’emigrazione, ecc.; • il sistema dell’‘accoglienza’ che denota invece l’insieme degli strumenti, delle tecniche e dei dispositivi atti a ‘ospitare’ (ricavandone un legittimo compenso o altre forme di riconoscenza) quanti decidano di risiedere per un periodo determinato in una città o in una residenza diversa dalla propria. Ma allora perché abbiamo parlato e continuiamo a parlare di ‘industria turistica’ come se si trattasse di un tutt’uno? Probabilmente perché da un certo punto in avanti (più o meno dalla metà del XIX 162 Andrea Pollarini secolo) uno di questi sistemi – quello della vacanza – è divenuto culturalmente egemone, subordinando o assoggettando gli altri ai propri disegni e alle proprie strategie. Questo, almeno, fino all’ultimo quarto del XX secolo, quando ha preso forma un significativo cambiamento di direzione. Quello ‘spazio sociale’ che un secolo e mezzo prima aveva consentito l’affermazione dell’industria delle vacanze – vale a dire lo spazio del tempo libero (dal lavoro) e della ri-creazione (della forza lavoro) – si è dilatato e riempito di significati. Da spazio ‘sospeso’ è diventato progressivamente e per un numero crescente di persone lo spazio in cui gli individui esercitano concretamente le proprie passioni, in cui costruiscono nuovi ambiti e nuovi modelli di relazioni, in cui ridefiniscono il proprio intorno comunitario: in sintesi, lo spazio a cui affidano la definizione di un’identità più ricca, articolata e cangiante di quella assegnata in sorte dalla società industriale sulla base del parametro identificativo del ‘lavoro’. Un’identità che si esprime attraverso la realizzazione di ‘esperienze’ di vario genere e che trova nell’agire turistico il proprio veicolo privilegiato, il proprio ambito ideale di svolgimento. È da questo switch – da questo cambiamento di paradigma, in relazione al quale internet ha svolto un ruolo di acceleratore formidabile – che ha preso forma l’industria turistica contemporanea, basata su un modello industriale in cui il prodotto turistico, al pari delle altre merci post-industriali, è diventato o ritornato a essere una merce sostanzialmente ‘valoriale’, strumento di auto-definizione e di relazione con i propri simili. Nel processo di scomposizione (dei contenuti e delle modalità dell’offerta, che diventano quindi soggetti a migliaia di possibili combinazioni) e di riaggregazione della ‘filiera del valore’ dei sistemi turistici ovvero del rapporto tra attrattore-viaggio-sistema d’accoglienza nonché del rapporto tra industria turistica e non (un prodotto alimentare tipico è una componente dell’offerta turistica? Qualche anno fa l’avremmo negato oggi ne siamo certi) l’identità è diventata quindi la parola chiave, l’unica capace di tenere assieme i concetti di ri-creazione e di valore, la proiezione di una domanda frastagliata e cangiante e, al contempo, della potenzialità competitiva dei sistemi turistici territoriali. Di conseguenza le declinazioni del termine identità non rappresentano un’esercitazione linguistica o sociologica ma sono anzi, al contra- Essere nuovi Be new 163 rio, il punto focale del posizionamento e del modo di stare sul mercato di una destinazione turistica o di un singolo operatore. Perché l’identità – almeno dal punto di vista turistico – è attraente, caratteristica e distintiva oppure non è (perché dovrei comprare qualcosa che ho già o che posso facilmente trovare dovunque?). Nel costruire la nostra offerta turistica dobbiamo chiederci innanzitutto cosa ci rende ‘speciali’ e può indurre un insieme più o meno esteso di individui a sceglierci tra tutti gli altri. L’identità è evolutiva. Non è una semplice fotografia del passato – come comunemente si tende a credere – ma un rapporto dialettico tra consapevolezza del passato e ‘visione’ del futuro. Un individuo (così come un territorio) è, al tempo stesso, la propria storia e il proprio progetto futuro. Una persona che ha smesso di ‘progettarsi’ è una persona (un territorio) che probabilmente ha smesso di esistere attivamente. L’identità è relazionale: non è una semplice esposizione di bellezze o di luoghi attrattivi ma è fare in modo che il nostro ospite possa ‘entrare in relazione’ con quella bellezza e sentirsi partecipe di quei luoghi. Nel turismo contemporaneo, poi, il concetto di relazionalità si arricchisce di una valenza ulteriore perché prevede che i nostri ospiti possano entrare in relazione tra loro tramite noi, sentirsi parte della stessa ‘comunità’ di valori. L’identità è ‘risultante’ nel senso che ogni risorsa turistica – che si tratti di una vasta porzione di territorio piuttosto che di un singolo asset – è in realtà un significante suscettibile di una pluralità di significati possibili. Significati che spetta a noi sviluppare in una direzione piuttosto che in un’altra in ragione dei nostri obiettivi strategici, dell’immagine ‘storicamente’ percepita del nostro territorio, del profilo dei concorrenti e – soprattutto – dell’evoluzione delle sensibilità di consumo, ovvero degli intorni valoriali che definiscono la domanda (da cui l’idea di un’identità che risulta come il punto d’incontro tra alcuni caratteri ‘connaturati’ alla risorsa offerta e determinate aspettative specifiche della domanda) L’identità è molteplice. Quante e quali identità ha una città come Milano? Moda, certamente, ma anche design, industria, arte, storia, lirica (la Scala), sport (la ‘Scala del calcio’), gastronomia tradizionale (il panettone) e innovativa (Marchesi e i suoi numerosi allievi) e altre 164 Andrea Pollarini ancora. Ciascuna di queste è un ‘pezzo’ dell’identità complessiva di Milano. Di più, è una ‘marca di specificazione’ del brand Milano che – per poter funzionare adeguatamente – deve essere strutturata come tale ovvero organizzata come una linea di prodotto a scala territoriale. Il futuro delle destinazioni turistiche articolate e ‘mature’ passa inevitabilmente da un riassetto di questo tipo in cui le singole linee di prodotto competono in mercati specifici (la moda con Parigi, Londra, New York; il calcio con Madrid, Manchester o Monaco ecc.) e, tutte insieme nella competizione tra destinazioni omologhe. L’identità è composita. Attraverso quali elementi ci formiamo l’immagine dell’identità di un territorio? Ovviamente da qualunque elemento in grado di penetrare all’esterno di quel territorio e di comunicarci qualcosa, sia che si tratti di un output ‘turistico’ in senso stretto piuttosto che culturale, produttivo o altro. Pensare che il turismo sia un’industria ‘a parte’ e che il suo appeal possa essere determinato senza tener conto di tutto il resto è semplicemente una sciocchezza da evitare. L’identità è prospettica, nel senso che la sua determinazione cambia in funzione della ‘distanza’ di chi guarda. Nell’Italia dei mille campanili le differenze di identità tra due territori adiacenti rischiano di perdersi già oltre il confine della regione e diventare del tutto incomprensibili quando si passa il confine nazionale. Questo non significa azzerare le differenze ma significa invece calibrarle in funzione della distanza dell’osservatore e, contestualmente, definire il tipo di ‘aggregazione’ con cui ci presentiamo a lui (marca territoriale, regionale, nazionale, ecc.). Significa anche, però, che nel turismo post-industriale la definizione geografica dei pubblici tende a scomparire in favore della loro caratterizzazione vocazionale (certamente ci sono differenze tra un appassionato d’arte nordamericano e uno cinese ma la loro provenienza è subordinata al fatto di essere, entrambi, appassionati d’arte) e che la definizione in senso ‘vocazionale’ del posizionamento di mercato di un territorio risulterà sempre più determinante per la sua capacità competitiva. L’identità, infine, è accogliente e per accoglienza non si intende semplicemente l’organizzazione del sistema ricettivo ma l’insieme dei punti di contatto che uniscono turista e territorio. In un sistema così articolato e composito l’accoglienza è anche la fon- Essere nuovi Be new 165 damentale ‘camera di compensazione’ che consente di trasformare le divaricazioni dell’offerta turistica in sinergie piuttosto che in conflitti. Un dispositivo che può esercitare positivamente questo ruolo solo se si progetta – a sua volta – su base ‘valoriale’: accessibilità, sicurezza, amichevolezza, analiticità (capire che ‘tipo’ di turista abbiamo davanti e quali siano le sue esigenze), suggestione, adeguatezza, continuità (diacronica e sincronica) sono i valori da cui partire per realizzare un ‘lavoro’ che, per funzionare, non deve però essere inteso come l’applicazione astratta di una ‘tecnica’ ma come la traduzione della capacità di un territorio di fare sentire l’ospite benvoluto, di farlo sentire parte di un posto ‘speciale’. Perché questo è quello che lui, in fondo, ci chiede ed è questo che un luogo turistico che si reputi tale è tenuto a dargli. Andrea Pollarini Presidente e fondatore della Scuola Superiore del Loisir e degli Eventi di Comunicazione di Rimini, un istituto di ricerca e consulenza che dal 2001 esplora sistematicamente l’area dei consumi vocazionali e dei ‘nuovi turismi’ originati nella sfera del loisir. Studia i modi attraverso cui questi consumi interfacciano il sistema delle imprese e i sistemi turistici locali, arrivando a configurarsi come la prima struttura italiana specializzata in Tourism Design. Da oltre trent’anni si occupa – dal punto di vista professionale e didattico – di eventi di comunicazione e di consumi culturali. Ha collaborato con numerosi enti territoriali, istituzioni culturali, aziende e fiere alla realizzazione di eventi culturali e progetti di marketing territoriale. Ha tenuto e tiene corsi e seminari presso diverse università italiane (La Sapienza di Roma, Bocconi e IULM di Milano). 166 IL CIBO VISTO CON LA LENTE DELLE NEUROSCIENZE Raffaella Ida Rumiati e Francesco Foroni Nel suo ultimo libro Catching Fire Richard Wrangham argomenta che il salto evoluzionistico che ha permesso di passare dall’Australopiteco all’Homo erectus, passando per l’Homo habilis, è stato favorito dall’uso del fuoco per cuocere i cibi. L’uso del fuoco per la preparazione del cibo ha avuto un impatto a più livelli: ha aumentato il valore del cibo, ha cambiato il nostro corpo, il nostro cervello, l’uso del nostro tempo, e la nostra vita sociale. Questo salto evoluzionistico ci ha dotato di un cervello sufficientemente complesso, fornito di meccanismi sofisticati che ci permettono di riconoscere il cibo e di guidarci nelle nostre scelte alimentari. La selezione naturale ha fatto di noi degli onnivori: diversamente dai panda che si nutrono prevalentemente di bambù, o dai koala che si alimentano di foglie di eucalipto, noi possiamo mangiare di tutto. L’essere onnivori, insieme all’eccessiva disponibilità di cibo specie nei Paesi più ricchi, rende le nostre scelte alimentari molto ardue: scegliere cosa comprare al supermercato o che cosa ordinare al ristorante genera ansia. Fortunatamente il nostro cervello ci viene in soccorso. Delle diverse modalità sensoriali gusto, olfatto, tatto, udito e vista, quest’ultima è sicuramente quella cui più facciamo riferimento nella vita di tutti i giorni, unitamente alle nostre passate esperienze (cioè la nostra memoria). Lo scopo principale della nostra ricerca è studiare i meccanismi neuro-cognitivi che sono alla base delle nostre scelte alimentari. I metodi di cui ci serviamo sono quelli delle neuroscienze comportamentali e includono: compiti cognitivi, potenziali evento-relati (un’applicazione dell’elettroencefalografia), risonanza magnetica funzionale, e neuropsicologia (lo studio dei pazienti affetti da malattie neurologiche). I risultati di questo progetto, oltre a spiegare come normalmente giungiamo a compiere le nostre scelte alimentari, ci permetteranno se non di prevenire almeno di controllare le conseguenze di comportamenti irrazionali che conseguono alle crisi alimentari, come nel caso dell’a- Essere nuovi Be new 167 viaria o della ‘mucca pazza’, e di quelli patologici. Oltre alle crisi alimentari siamo interessati a studiare le cause che determinano l’obesità e altri disturbi dell’alimentazione che colpiscono sia individui neurologicamente sani che quelli affetti da malattie neurodegenerative quali il Morbo di Parkinson e le demenze. Per prima cosa abbiamo creato un database di circa 900 immagini, delle quali un terzo raffigura cibi sia trasformati che naturali, mentre le rimanenti raffigurano utensili da cucina, elementi naturali non commestibili, animali e ambienti. Per ciascuna immagine abbiamo raccolto dati relativi a diverse variabili di interesse quali il contenuto calorico percepito, la distanza dal momento in cui si può mangiare, il livello di trasformazione percepita, la valenza dell’immagine (quanto piacevole), l’attrattività, ecc. (Foroni et al., 2013). Abbiamo coinvolto circa 110 partecipanti di cui conosciamo età, sesso, scolarità, le abitudini alimentari e il peso corporeo ecc. FRIDa è ‘open source’ (http://foodcast.sissa.it/neuroscience/). Da quando lo abbiamo pubblicato, abbiamo ricevuto un centinaio di richieste di accesso da parte di ricercatori di enti di ricerca pubblici e privati. L’analisi dei risultati ha messo in luce alcune caratteristiche intrinseche dei cibi che influenzano il modo in cui li percepiamo. Innanzitutto abbiamo osservato una correlazione significativa tra il contenuto calorico reale del cibo e il contenuto percepito dai partecipanti: questi ultimi cioè sono in grado di stimare il contenuto calorico dei cibi molto accuratamente. Tuttavia, sono più accurati nel caso dei cibi naturali (r =.70) che di quelli trasformati (r =.33). Che fossimo in grado di stimare il contenuto calorico era già stato dimostrato in precedenza e con il nostro studio lo abbiamo confermato. Ciò che è assolutamente nuovo nel nostro studio è che dal nostro studio si evince che questa capacità dipende dal tipo di cibo (naturale o trasformato). Il livello di trasformazione dei cibi non è mai stato studiato prima e questo risultato suggerisce che questa caratteristica svolge un ruolo importante nel modo in cui percepiamo il cibo. Sappiamo che i primati non-umani usano strategie o euristiche particolari quando devono scegliere il cibo da mangiare. Per esempio, scegliere i cibi sulla base della quantità di rosso o verde è una strategia ampiamente utilizzata dai primati non umani. Infatti, in generale il colore indica il loro livello di maturazione e il conseguente contenu- 168 Raffaella Ida Rumiati e Francesco Foroni to energetico. Quello che non è chiaro è se questa distinzione giochi ancora un ruolo nelle nostre scelte alimentari. Per rispondere a questa domanda abbiamo analizzato come il grado di attrattività dei cibi venga associato al colore. Ci siamo chiesti quindi se siamo più attratti dai cibi più rossi e meno da quelli verdi? E se così fosse, questa regola si applica a tutti i cibi indiscriminatamente, anche quando il colore non è indicativo del livello di maturazione? Abbiamo osservato che i cibi che contengono una quantità superiore di colore rosso sono giudicati come più attraenti: questo effetto vale tanto per i cibi naturali che per quelli trasformati, ma questi ultimi però sono giudicati come più attraenti di quelli naturali. Invece, nel caso degli stimoli che non sono commestibili, come gli utensili di cucina, questa preferenza per il rosso non è stata osservata. Questo suggerisce come un meccanismo primitivo sia rimasto nel nostro repertorio comportamentale anche a scapito talvolta dell’accuratezza. Sappiamo dalla ricerca condotta con animali che il cibo trasformato o cotto offre un maggior vantaggio energetico, risultato che è in linea anche con il ruolo giocato della trasformazione del cibo nel favorire l’evoluzione della nostra specie. Pertanto ci siamo chiesti come questa caratteristica sia rappresentata nel nostro cervello. Abbiamo condotto un esperimento utilizzando i potenziali eventorelati, un’applicazione dell’elettroencefalografia, che registra l’attività delle onde cerebrali quando i partecipanti all’esperimento osservano degli stimoli ambientali. In questo particolare esperimento gli stimoli consistevano in una frase seguita da un’immagine di un cibo naturale o trasformato, presentati sullo schermo. Le frasi descrivevano una caratteristica sensoriale del cibo, per esempio ‘È dolce’, oppure una funzionale ‘È adatto per un pranzo di nozze’: in alcuni casi l’accoppiamento era congruente (calamari - ‘È adatto per un pranzo di nozze’), in altri casi l’accoppiamento era incongruente (ostrica - ‘È dolce’). Le risposte cerebrali associate alle coppie congruenti sono state confrontate con quelle associate alle coppie incongruenti. In particolare, ci aspettavamo di osservare una modulazione della N-400, un’onda cerebrale che viene modulata dal conflitto cognitivo-semantico generato dalla presentazione della coppia di una frase e di una immagine incongruenti. La nostra ipotesi era che quest’onda cerebrale mostrasse delle differenze importanti tra Essere nuovi Be new 169 come il nostro cervello analizza i cibi naturali e quelli trasformati. I risultati mostrano come intorno a 400 millisecondi dalla presentazione degli stimoli, il cervello elabori il cibo naturale in modo diverso da quello trasformato, in funzione del tipo di informazione cui è associato, rispettivamente sensoriale o funzionale. Questi risultati suggeriscono come i concetti che riassumono le nostre conoscenze sui cibi naturali siano caratterizzati meglio dall’informazione sensoriale, mentre quelli relativi ai cibi trasformati sono meglio descritti dall’informazione funzionale. Ci sono ancora molte domande cui le neuroscienze del cibo devono rispondere, e noi intendiamo farlo con il nostro lavoro nei prossimi anni. Oltre a studiare l’effetto delle caratteristiche intrinseche degli stimoli, analizzeremo anche l’influenza delle caratteristiche delle persone quali, per esempio, lo stato fisiologico o il loro peso corporeo. Siamo convinti che la comprensione dei meccanismi neuro-cognitivi alla base della categorizzazione e della scelta del cibo, favorendo un’educazione alimentare basata su principi scientifici, può aiutarci a gestire al meglio le crisi alimentari e migliorare la nostra salute in generale. Raffaella Ida Rumiati Professore di Neuroscienze cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Ha lavorato presso istituti di ricerca in Giappone, Israele e Germania. Si è specializzata nello studio del coinvolgimento delle rappresentazioni motorie nelle funzioni cognitive dei soggetti normali e dei pazienti con disturbi neurologici. Ha svolto ricerche nel campo dei deficit cognitivi legati a pazienti affetti da demenza, ictus, morbo di Parkinson, sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e sclerosi multipla. Ha pubblicato molti articoli scientifici sul ruolo del sistema motorio nelle funzioni cognitive e sulle implicazioni etiche di alcuni temi neuroscientifici. Francesco Foroni Ricercatore in Neuroscienze cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Ha lavorato in istituti universitari in Olanda e Stati Uniti. Specializzato nello studio dei processi cognitivi coinvolti nei giudizi sociali (preferenze in ambito sociale riguardo il cibo e l’opinione in rapporto a gruppi sociali), ha svolto ricerche sui processi che determinano le emozioni e su come queste influenzano giudizi e processi decisionali. Ha pubblicato articoli scientifici sui temi neuroscientifici. 170 IL FUTURO DELL’ALIMENTAZIONE Annalisa Saccardo Un anonimo del Cinquecento soleva sempre dire: «Ci sono tante cose importanti nella vita: la prima è mangiare, le altre non le conosco». Nel 2050 saremo 9 miliardi di persone. Si apre la grande sfida di garantire cibo sicuro e in quantità sufficiente per tutti nel rispetto dell’ambiente. Siamo e andremo sempre più verso un modello di agricoltura sostenibile. Si rafforzerà il trend già in atto nell’UE di ottenere la produzione di alimenti ricorrendo a processi di produzione a basso impatto ambientale. In Europa, l’agricoltura grazie alla Politica Agricola Comunitaria è già, quindi, nella Green economy. La domanda di cibo nel mondo sarà espressione di esigenze molto diverse: quelle dei Paesi a economia avanzata nei quali i consumatori, chiedono qualità, quantità, sicurezza alimentare, rispetto del benessere animale, produzioni a basso impatto ambientale e quelle dei Paesi in via di sviluppo che dovranno progressivamente passare da un regime alimentare vegetariano a uno che includa le proteine di origine animale. Cosa influenzerà la scelta alimentare dei consumatori nei Paesi a economia avanzata? Avremo: 1. una motivazione nutrizionale legata essenzialmente alla tutela della salute, con una percentuale di consumatori attenti alle caratteristiche organolettiche e nutrizionali dell’alimento. Ci sarà una domanda crescente dei cosiddetti functional food, alimenti cioè che possiedono caratteristiche benefiche per la salute (ad esempio antitumorali, anti-invecchiamento, antiossidanti e così via) o naturalmente o perché ‘aggiunte’ nel processo di produzione (si pensi alla patata al selenio); 2. una motivazione percettivo-sensoriale, per cui si richiedono cibi di alta qualità legati al territorio; 3. una motivazione economica per cui alcuni consumatori sono interessati solo ad acquistare alimenti a basso prezzo da hard discount; Essere nuovi Be new 171 4. una motivazione etica che riguarda consumatori sensibili alla tutela ambientale e al rispetto del benessere animale (alimenti biologici, biodinamici, diete vegetariane ecc.) nonché una domanda di alimenti specifici da parte di coloro il cui regime alimentare è condizionato dalle convinzioni religiose. Il sistema agro-industriale, quindi, dovrà tener conto di una domanda di alimenti molto diversificata Sotto il profilo della tutela ambientale un aspetto importante sarà quello della gestione delle risorse idriche. L’agricoltura impiega il 70% delle risorse idriche mondiali. Per produrre cibo per una persona per un giorno, servono 2000 litri di acqua (fonte: IFAD Water facts and figures). L’obiettivo, sarà quindi, quello di produrre più cibo utilizzando meno acqua. D’altro canto, se nel 1950 un ettaro di terra dava cibo a 2 persone, nel 2030 un ettaro dovrà sfamarne 5. La sfida, pertanto, è: l’adozione di processi di produzione sostenibili con una popolazione mondiale in crescita. Ogni giorno ci sono 200.000 persone in più da sfamare nel mondo. Oggi, un miliardo di persone sono denutrite, un altro miliardo sono sovralimentate. Ma il produrre più cibo dovrà avvenire tutelando ambiente e biodiversità. Ogni anno nel mondo si perdono 7.3 milioni di ha di foreste. In Italia la superficie forestale è in aumento perché aumentano i terreni dismessi dall’attività agricola. Ogni secondo si perde un terreno destinato all’agricoltura. L’agricoltura, oltre a produrre alimenti deve proteggere gli habitat e, parallelamente, deve essere tutelata rispetto alla sottrazione di suolo, da parte di altri settori produttivi (industria e servizi). In futuro, quindi, dovranno diffondersi sempre di più tecniche agronomiche volte a realizzare: • fasce a bordo campo per la riproduzione di insetti impollinatori; • minimun tillage (aratura minima); • rotazioni colturali; • pratiche agronomiche a basso impatto ambientale; • fasce tampone; • gestione della fauna selvatica. Oggi, e sempre più in futuro, l’agricoltore è e diventerà un land manager: fornirà alimenti, gestirà il territorio e le risorse ambientali. Come saranno raggiunti tali obiettivi? Diceva Eisenhower «L’agricoltura sembra tremendamente facile quando il tuo aratro è una matita, 172 Annalisa Saccardo e sei lontano migliaia di chilometri dal campo di grano». Per vincere queste sfide l’agricoltura ha bisogno di ricorrere all’innovazione. I governi europei dovranno investire nel miglioramento genetico senza ricorrere agli OGM, al fine di soddisfare la domanda dei consumatori che rifiutano alimenti GM. Dal momento che la maggior parte degli Stati membri dell’UE e prima di tutti l’Italia, ha rifiutato l’introduzione degli OGM in agricoltura è tanto più importante garantire un uso efficiente e sostenibile dei mezzi di produzione e cioè, fitofarmaci per la difesa delle colture contro gli attacchi di parassiti e fitopatie e fertilizzanti. Ma innovazione significherà anche: • riciclo degli scarti della produzione agroalimentare e reimpiego nel ciclo produttivo aziendale (produrre + cibo producendo – rifiuti); • gestione efficiente delle risorse idriche tramite sistemi di irrigazione innovativi; • gestione efficiente delle fonti energetiche ricorrendo alle agro-energie. Un aspetto fondamentale è il miglioramento genetico delle colture senza ricorso agli OGM: la ricerca sulle sementi a seguito della domanda di mercato di sementi OGM free, dovrà necessariamente continuare a sviluppare innovazione in questo settore. Oggi per il mais e la soia la ricerca sul miglioramento genetico è soprattutto orientata al ricorso agli OGM perché la domanda di sementi GM, nel caso di queste colture, supera quella di sementi OGM free. Ma qualcosa sta cambiando. Non a caso di recente è stato realizzato in Italia dal Centro Ricerche in Agricoltura (CRA), il progetto Esplora. La ricerca pubblica in Italia e all’estero si sta orientando verso tecniche di miglioramento genetico delle colture senza ricorrere agli OGM al fine di ottenere cultivar che presentano resistenza alle fitopatie e ai cambiamenti climatici (ad esempio alla siccità). Attraverso la diffusione di nuove varietà viene incrementata la potenzialità produttiva delle colture senza effetti collaterali sulla sostenibilità dell’ecosistema agricolo. Ciò avviene tramite il trasferimento di caratteri da una cultivar all’altra. A tal fine è necessario individuare il maggior numero di marcatori possibili. Cosa si fa con tali tecniche? Sono introdotti nuovi caratteri di resistenza ai patogeni o a stress ambientali (ad esempio cultivar resistenti alla siccità o ad alcune ma- Essere nuovi Be new 173 lattie); nuovi caratteri qualitativi che promuovono un ampliamento della gamma di prodotti in sintonia con le esigenze dell’industria di trasformazione alimentare consumatori (ad esempio, nel grano duro creazione di varietà che hanno un maggior contenuto proteico per la produzione di pasta che tenga la cottura); nuovi caratteri che promuovono un ampliamento della gamma degli alimenti in sintonia con le esigenze dei consumatori (ad esempio functional food). Innovazione significa anche uso sostenibile della chimica in agricoltura. Da anni ormai si assiste a una riduzione dell’uso di fitofarmaci e all’adozione di tecniche agronomiche per la mitigazione dei rischi. Secondo i dati ISTAT 2013, in Italia, nel periodo 2002-2012, la quantità di prodotti fitosanitari è diminuita complessivamente di 33 mila tonnellate (-19,8%). Si registra un calo dei fungicidi (-28,9%), degli insetticidi e acaricidi (-17,7%) e dei prodotti erbicidi (-22,9%), nonché una riduzione dei prodotti molto tossici e tossici del 33,6% e una riduzione dei prodotti non classificabili del 26,1%. La tendenza alla diminuzione è in linea con le indicazioni della PAC. L’uso sostenibile dei fitofarmaci nell’UE è già un obbligo: la direttiva 2009/128/CE dal 1 gennaio 2014 impone a tutta l’agricoltura convenzionale di convertirsi alla difesa integrata. La diffusione dei prodotti di origine biologica e delle trappole sono il segmento più innovativo della distribuzione, anche se le quantità immesse al consumo risultano ancora di entità limitata. In futuro i fitofarmaci resteranno un mezzo indispensabile di produzione, seppure in quantità sempre più ridotte. La quantità del loro uso è influenzata da condizioni meteorologiche, nuove avversità, piani colturali adottati dagli agricoltori. L’offerta alimentare sarà sempre più condizionata dai consumatori. È un trend già in atto. Le multinazionali e i fast food stanno cambiando le loro scelte in funzione dei consumatori. Monsanto ha rinunciato a commercializzare OGM nei Paesi dove non sono accettati e investe in tecnologie alternative come il Progetto AquaTek, nell’ambito del quale si stanno sperimentando ibridi di mais non GM resistenti alla siccità abbinati a sistemi di irrigazione innovativi. Anche Pioneer si sta muovendo nella medesima direzione sperimentando ibridi di mais non GM resistenti alle aflatossine e ibridi di mais non GM resistenti alla siccità. 174 Annalisa Saccardo In futuro il cibo locale aprirà un breccia importante nell’alimentazione globalizzata. Ci sono già le prime avvisaglie. Grazie a un accordo con Coldiretti, Mac Donald e INALCA hanno introdotto alimenti made in Italy. La domanda di cibo a connotazione territoriale e di alimenti non OGM sta trovando un proprio spazio nella globalizzazione: il trend è irreversibile. Nel fast food è entrato, in questi giorni, l’hamburger di chianina IGP e carne piemontese con uno storico cambiamento nell’alimentazione, soprattutto dei più giovani. La catena metterà in distribuzione il panino attraverso un accordo siglato dalla Filiera Agricola Italiana Spa associata alla Coldiretti con Inalca del Gruppo Cremonini. Gli alimenti a forte connotazione territoriale conquisteranno, quindi, sempre maggiori quote di mercato. Del resto, secondo uno studio dell’Eurispes sull’alimentazione (dati 2013): acquistano prodotti alimentari made in Italy oltre due terzi degli italiani (77,6%); due terzi del totale (76,8%) controllano anche l’etichettatura e la provenienza degli alimenti che acquistano; quasi la metà (46,4%) compra spesso prodotti DOP, IGP, DOC. L’88% degli italiani pone attenzione all’origine geografica e alla marca (68%); la Grecia ci supera per attenzione all’origine del prodotto (90%), la Spagna si ferma al 66%, Germania 74%, Francia 75% e Gran Bretagna 52%. Nell’Unione Europea, in media, il 71% ha risposto di essere attento all’origine geografica e il 47% alla marca. La tendenza al consumo locale e regionale fa riferimento al rapporto tra cibo e territorio, alla prossimità tra il luogo di produzione e quello di consumo di un alimento, garanzia di autenticità (vedi ad esempio i prodotti a chilometro zero). La ricerca di cibi locali e di stagione spinge i consumatori a variare le abitudini di acquisto, privilegiando esperienze in cui vi possa essere un contatto diretto con i produttori. Come ha giustamente evidenziato il prof. Montanari dell’Università di Bologna ‘mangiare geografico’ significa conoscere o esprimere la cultura del territorio tramite una cucina (prodotti ricette naturali). In questo caso, il cibo locale racconta una storia. Per quanto concerne il futuro degli OGM, diminuirà la produzione nei Paesi sviluppati. Già nel 2012 per la prima volta dal 2006, la crescita degli OGM rallenta nei Paesi sviluppati (48% delle colture OGM mondiali), mentre aumenta nei Paesi in via di sviluppo (52%). I Paesi leader nel mondo nella produzione di colture GM sono a parte Usa e Essere nuovi Be new 175 Canada i Paesi in via di sviluppo: Cina, India, Brasile, Argentina e Sud Africa. In Europa, si coltivano solo in Portogallo, Spagna, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania. È evidente che i Paesi europei con prodotti di alta qualità a denominazione d’origine rifiutano e continueranno a rifiutare gli OGM (Francia e Italia) così come quelli a grande tradizione agricola (Germania, Austria, Inghilterra) e i Paesi nordici che sono grandi consumatori di prodotti biologici (Scandinavia e Danimarca). Anche Monsanto ha dovuto arrendersi a questa ostilità dei consumatori europei verso gli OGM, cambiando la strategia sul mercato comunitario a causa dell’assenza di prospettive commerciali. Il gigante agroalimentare ha annunciato, alcuni mesi fa, che ritirerà tutte le domande pendenti di omologazione di nuove colture OGM nell’Unione Europea, tra cui cinque qualità di mais, una di soja e una di barbabietola da zucchero. «Ritireremo le richieste di approvazione nei prossimi mesi», ha affermato il presidente e direttore generale della multinazionale americana per l’Europa, Josè Manuel Madero. La decisione ha spinto, pertanto, il gruppo a concentrarsi sul business delle sementi tradizionali in Europa. Per quanto riguarda, infine il futuro degli alimenti biologici, la produzione aumenterà, ma sono cibi destinati a restare un mercato di nicchia. «L’agricoltura biologica tutela l’ambiente, ma non sfamerà il mondo» come emerge da uno studio pubblicato sulla rivista «Nature» nel 2012. I cali di rese sono dovuti a una minore disponibilità di azoto e di fosforo, specialmente in alcuni tipi di terreni. Nei Paesi industrializzati l’agricoltura biologica rende il 20% in meno, mentre nei Paesi poveri e in via di sviluppo le rese sono ridotte addirittura del 43%. Annalisa Saccardo Presso l’Area Ambiente e Territorio di Coldiretti si occupa della legislazione nazionale e comunitaria in materia agro-ambientale, con particolare riferimento alla disciplina in materia di acque, aree protette, biodiversità, forestazione, caccia e fauna selvatica, fitofarmaci, fertilizzanti, apicoltura e OGM e, quindi, con riferimento a tutto ciò che riguarda l’agricoltura sostenibile. È responsabile in modo specifico del settore dell’agricoltura biologica e dell’impiego dei fitofarmaci e dei fertilizzanti. Pubblica notizie su «Il Punto Coldiretti», giornale online della Confederazione, e tiene docenze e relazioni a livello internazionale sulle materie di competenza. 176 I NUOVI VITIGNI RESISTENTI ALLE MALATTIE Una minaccia o una opportunità per la viticoltura italiana? Attilio Scienza Quasi ogni giorno emergono nuove occasioni per accentuare il conflitto tra scienza e società. Questa distanza crescente spesso è causata dallo ‘scientismo’, da quell’eccesso di autorità che va oltre la portata legittima della scienza e che attribuisce alla scienza la capacità esclusiva di produrre l’effettiva conoscenza dell’uomo e della società. È infatti lo scientismo il responsabile della retorica della comunicazione, di quella faglia che costantemente viene approfondita, tra le ragioni della scienza e gli orientamenti della società. Il vero nemico della scienza è quindi lo scientismo quando associa gli OGM alla ricerca genetica tradizionale o attribuisce alla diffusione degli OGM in India l’incremento dei suicidi tra gli agricoltori, senza che questi fenomeni non abbiano nulla in comune dal punto di vista intrinseco. È l’esempio delle cosiddette biotecnologie alle quali appartiene la ricerca genetica, sviluppata attraverso l’uso dei MAS che comprende ambiti di ricerca assai distanti e questa etichetta trasferisce le critiche ad altri settori delle biotecnologie verdi/agroalimentari. Le cause di questa incomunicabilità hanno radici negli albori del Novecento quando Croce e Gentile allo scopo di elevare la filosofia al rango di ‘religione dello spirito’ si lanciarono con successo contro le scienze empiriche e la matematica alle quali non riconoscevano alcun valore cognitivo. Il primato assoluto della filosofia idealista sulle scienze positive fu reso esplicito con la Riforma Gentile del 1923 con l’istituzione del liceo scientifico che non consentiva l’accesso alla Facoltà di Giurisprudenza dove si formava la classe dirigente di allora. In questo modo, afferma Corbellini, «le élites politiche e amministrative in Italia hanno maturato una formazione esclusivamente umanistica Essere nuovi Be new 177 e non sono in grado di comprendere l’impatto economico e sociale e il ruolo della ricerca scientifica nel dare competitività all’economia e dinamismo alla società». Anche l’informazione non aiuta a far comprendere i rapporti tra scienza e società, sottolineando quegli aspetti propri dello scientismo che rendono la cosiddetta scienza-spettacolo o delle star-system scientifiche, l’unico linguaggio che giunge distorto alla vita sociale e finisce per assomigliare alla magia in quanto assume un obiettivo intimamente connesso con gli istinti e le aspirazioni umane, come ad esempio la pubblicità dei produttori di alimenti che dichiarano l’assenza di derivati dagli OGM nei loro prodotti associando a questi un’idea fuorviante di genuinità e di naturalità. Può sembrare paradossale ma l’opposizione ai riscontri della genetica viene da due gruppi di opinione tra loro diametralmente opposti per basi ideologiche: la sinistra, i radicali e i no global da un lato e dall’altro i cattolici più conservatori, i millenaristi e i new age. L’elemento che gli unisce trasversalmente è il comune rifiuto, più o meno esplicito, al darwinismo e in genere al concetto di evoluzionismo. Mentre qualche tempo fa gli scienziati esprimevano con franchezza le loro idee, ora è loro consentito fare qualche professione di fede, veemente quanto imbarazzata, magari alla radio la domenica mattina, perché queste esternazioni possono essere professionalmente dannose. Purtroppo anche gli ambientalisti e i difensori delle tradizioni alimentari di un Paese sono diventati scientisti, in quanto fanno un uso opportunistico della scienza come risorsa retorica nella pubblicità in modo analogo a quello che avviene in ambito politico usando come modo di dire ‘scientificamente fondato’ o ‘scientificamente infondato’ per giustificare le loro prese di posizione dichiarate come sagge e giuste. Un caso emblematico è quello del cambiamento climatico che vede lo schieramento degli ambientalisti contro il ruolo delle scienza e della tecnologia alimentare nel determinare il peggioramento della qualità dell’ambiente e per le conseguenze sulla salute umana. Questo consente loro di assumere atteggiamenti scientistici e di avvalersi della scienza per legittimare i loro punti di vista, salvo poi riferirsi 178 Attilio Scienza a una banale spiritualità orientale che miscela yoga con yogurt, messaggio con massaggio, fitness con ascetica. Il tema della accettazione della scienza ha nello sviluppo della genetica viticola contemporanea una efficace esemplificazione. Se da un lato abbiamo la decodificazione del DNA della vite realizzato dal progetto italo-francese ‘Vigna’ e l’interazione con altri settori di ricerca quali la fisica, la scienza dell’informazione, la biochimica applicata, ecc., dall’altra parte non è stato possibile cogliere la portata di questi sviluppi senza tener conto in una prospettiva di lungo periodo dell’emergere di una attenzione sociale e culturale verso i temi della tradizione, del parere dei consumatori, della rigidità delle normative comunitarie, del bisogno di sostenibilità. Per adempiere al suo ruolo sociale la scienza non può permettersi di essere scientista e per fare questo deve investire di più nella comunicazione, che non è solo mero trasferimento, un modo semplicistico o diluito di comunicare un discorso specialistico come viene oggi realizzato, ma un processo selettivo. Deve infatti essere realizzata come un’interferenza (o corto circuito), una sorta di interazione multipla tra i contenuti specialistici e l’attenzione del pubblico, dove non si veda la comunicazione come la causa di cambiamenti o di atteggiamenti da parte del pubblico in seguito al trasferimento di certi risultati della ricerca, ma anche come effetto di sviluppi nella creazione di una zona di interazione tra il discorso specialistico e il pubblico stesso. Questo può essere realizzato attraverso un continuo interscambio attorno a un determinato tema dove il processo di elaborazione della conoscenza è il risultato di un corto circuito tra consumatore e ricercatore. Non estranei sono i mezzi di comunicazione di massa, che spesso disinformano più che informare, alla ricerca della notizia clamorosa che omologa le piante transgeniche ai frequenti rischi alimentari, al monopolio nella ricerca delle multinazionali, alla perdita di biodiversità con toni catastrofici e frasi d’effetto. Cosa vuole sapere la gente? Chi ha prodotto questi vitigni resistenti, perché li ha fatti, se posso fidarmi che siano stati fatti per il bene comune, quali sono le possibili conseguenze del loro impiego… Gli aspetti scientifici vengono dopo. Essere nuovi Be new 179 È verosimile che nei prossimi anni la viticoltura europea avrà a disposizione molti vitigni resistenti capaci di produrre vini di buona qualità, non dissimile da quella dei vitigni di sangue europeo: l’impatto sulla produzione e sul consumatore sarà paragonabile a quello che è avvenuto 150 anni fa con l’arrivo della fillossera. Ci aspetta una vera innovazione culturale sulla quale possiamo riflettere senza pregiudizi per trovare una risposta convincente a tutti i dubbi che ci poniamo. Ci sono anche problemi relativi alla nomenclatura e alle conseguenze delle Denominazioni d’origine nei confronti delle viti resistenti? E i produttori di vini da vitigno potranno chiamare ancora i loro vini con il nome dei vitigni resistenti, se questi vengono denominati analogamente ai vitigni europei che sono stati usati per l’incrocio? I progressi ottenuti dalla biologia molecolare, hanno consentito di ridurre notevolmente i tempi di valutazione dei nuovi incroci, con un significativo risparmio di tempo e di denaro, ma i problemi non risiedono nella ricerca, ma come in passato nel grado di accettazione dell’innovazione da parte del consumatore. I tempi fortunatamente sono cambiati in quanto la crescente domanda di sostenibilità ambientale forse riuscirà a vincere la sua diffidenza, dando così dignità a queste varietà per poter produrre vini a Denominazione e non dover quindi essere relegate a vitigni di seconda categoria. Un appello finale, destinato ai ricercatori e tratto dal Rapporto PUS del 1985: «il nostro messaggio più diretto e urgente deve essere agli stessi scienziati: imparate a comunicare con il pubblico, siate disponibili a farlo e consideratelo un vostro dovere». Attilio Scienza Professore ordinario di Viticoltura e professore associato di Fitormoni e fitoregolatori in arboricoltura presso l’Università di Milano. Accademico ordinario dell’Accademia italiana della vite e del vino e socio corrispondente dell’Accademia dei Georgofili, ha vinto il Premio AEI per la ricerca scientifica nel 1991 e il Premio Internazionale Morsiani nel 2006. Direttore del Master universitario di primo livello in ‘Gestione del Sistema vitivinicolo’ dell’Università di Milano, è autore di oltre trecento pubblicazioni scientifiche, prevalentemente dedicate alla vite e alla viticoltura. 180 ROBOTS Bruce Sterling Il mio argomento sui robot è molto semplice ed è il seguente: la vecchia concezione di robot non corrisponde alla realtà tecnica moderna. In origine i robot erano personaggi di un testo teatrale, RUR, dell’autore ceco Karel Capek. Questi robot del 1920 avevano due gambe, due braccia e una testa; avevano le sembianze di esseri umani artificiali perché in realtà erano persone: attori cechi in costume. Nessuno ha mai costruito un robot che sostituisca l’essere umano, che abbia le sembianze e agisca da essere umano. Questa è pura fantasia, paragonabile all’idea di costruire un aeroplano che abbia le sembianze e il comportamento di un uccello. I robot moderni sono macchine che hanno seguito una linea di sviluppo tecnologico molto difficile. Essi non imitano gli esseri umani perché questo sarebbe troppo complicato. I robot hanno, invece, funzioni limitate: possono muoversi, percepire e afferrare oggetti. Hanno moduli software diversi specializzati nel movimento, nella percezione e nella manualità. Ciascuno di questi rappresenta un problema distinto in informatica. Non esistono robot in grado di svolgere in maniera egregia le tre funzioni insieme, ovvero muoversi, percepire e afferrare oggetti. I robot efficienti non sono delle vere e proprie opere d’arte in cui ogni elemento si incastra perfettamente, sono piuttosto sistemi plug and play plasmati dall’economia. Il robot moderno è parte di un sistema di rete più ampio, non è un apparecchio indipendente che pensa in maniera autonoma. Il robot moderno è una periferica, come una stampante, un computer portatile o un telefono cellulare. L’auto senza conducente di Google è parte di Google, il drone che consegna pacchi è parte di Amazon: si tratta di robot telecomandati da banda larga wireless e Big Data. Sono robot moderni ma non assomigliano affatto agli esseri umani, sono come Google e Amazon con ruote e telecamera, e sono i migliori robot mai prodotti. Essere nuovi Be new 181 I robot non sono mai stati in grado di pensare, ma l’avvento di Big Data e Cloud li rende molto più capaci e potenti. Quando oggi parliamo di robot non ci riferiamo più agli attori in costume degli anni ’20, bensì parliamo di Cloud e Big Data dotati di movimento, percezione e manualità. Se si comprende la situazione moderna è facile capire perché società basate su Big Data e Cloud, come Google e Amazon, siano oggi particolarmente interessate ai robot: esse considerano i robot un nuovo modo meccanico per accrescere il potere che già possiedono. E per quanto riguarda le piccole e medie imprese, un settore in cui l’Italia eccelle per tradizione? A tal proposito si deve menzionare la famosa scheda Arduino di Ivrea. Finora sono state vendute circa un milione di schede Arduino. Arduino rappresenta la start-up tecnologica più famosa ed efficace. Arduino è un dispositivo in grado di tradurre un software digitale in segnali elettrici per il controllo di apparecchiature; si tratta di una sorta di traduttore tra software e azione meccanica. Per questo motivo Arduino è molto popolare tra gli appassionati di robot. È economico, semplice e ha una vasta base di utenti sviluppatori: tutti elementi positivi. Alla Maker Faire di Roma nell’ottobre 2013, Intel ha annunciato un’alleanza con Arduino: Intel lavora sulla creazione della scheda ‘Galileo’ compatibile con Arduino. Intel è un gigante industriale che possiede una capacità manifatturiera enorme e, con la creazione di Galileo, l’azienda scommette su un diverso tipo di robotica con caratteristiche italiane. Non esiste un Google italiano né un Amazon italiano, ma c’è un Arduino italiano, che ha molti amici internazionali. Il mio suggerimento per coloro che sono interessati ai robot è quello di accantonare idee vecchie di un secolo e confrontarsi con le reali opportunità di oggi. Bruce Sterling Scrittore e giornalista, è autore di romanzi di fantascienza e saggi. Celebre per Mirrorshades – antologia di racconti del 1986 che ha contribuito a definire il filone cyberpunk –, critico della Rete e teorico del cyberspazio, è uno dei più attenti osservatori dell’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre vite. Collabora con autorevoli testate internazionali (tra cui «Time», «Newsweek», 182 Bruce Sterling «The Wall Street Journal», «The New York Times», «Der Spiegel»). Dal 2007 vive a Torino e scrive per «La Stampa», dove cura insieme alla moglie Jasmina Tešanović la rubrica ‘Globalisti a Torino’. Collabora a «Repubblica» e all’edizione italiana di «Wired». Tiene corsi intensivi di Media e Design alla European Graduate School. Tra i suoi romanzi più recenti: Cronache dal basso futuro (Mondadori, 2005;) Artificial kid (Mondadori, 2006); Il chiosco (Delos Book, 2008); Atmosfera letale (Mondadori, 2009). Tra i saggi: Giro di vite contro gli hacker (Mondadori, 2004); Tomorrow Now. Come vivremo nei prossimi cinquant’anni (Mondadori, 2004). È stato appena ripubblicato La forma del futuro (Apogeo Education, 2013), una sorta di manifesto del design del XXI secolo. Essere nuovi Be new 183 SUL REDDITO DI CITTADINANZA Antonio Vanuzzo Ci hanno detto che il reddito di cittadinanza è presente in tutti i Paesi europei tranne la Grecia e l’Italia. È un fatto. Il MoVimento 5 Stelle ha ottenuto ampio consenso nella scorsa tornata elettorale inserendolo nel programma. Un altro fatto. Secondo l’ISTAT, a ottobre 2013 la platea di disoccupati di età compresa tra i 15 e i 64 anni – escludendo gli inattivi – si è assestata a 3,18 milioni di persone, con una crescita del 9,9% rispetto allo stesso periodo del 2012. Anche questo è un fatto. Per configurare un sistema di welfare attivo utilizzando la leva del reddito di cittadinanza, invece, si passa necessariamente nel campo delle ipotesi. Il merito dei grillini è di aver portato prepotentemente nel dibattito pubblico una questione che la sinistra, con l’eccezione di Sel, aveva sostanzialmente abbandonato. Il problema riguarda un Paese in deflazione, dove cioè i prezzi scendono per assenza di domanda causa crisi, e con un debito pubblico che sfiora il 130% del PIL, le risorse sono scarse e i margini di manovra inesistenti. Andando nel dettaglio, la proposta dei pentastellati prevede un assegno dagli 800 ai 1.000 euro, e alcuni requisiti: essere maggiorenni, residenti in Italia e avere un reddito netto inferiore alla soglia di povertà (600 euro al mese per un individuo, 1.000 per una coppia e 1.330 per una coppia con figlio: soglie più generose dell’Isee). Per gli immigrati, essere residenti in Italia da almeno due anni, aver lavorato per un minimo di 1.000 ore o conseguito un reddito di almeno 6.000 euro netti, sempre negli ultimi 24 mesi. Un reddito minimo garantito, in buona sostanza. Domanda: quanto costa? L’economista Tito Boeri, assieme a Paola Monti in un paper uscito a novembre 2013 ha calcolato che l’esborso della mozione grillina, divenuta poi un disegno di legge proprio con il supporto di Sinistra Ecologia e Libertà, si assesterebbe sui 19 miliardi di euro. Troppo? Dipende. Da due elementi: equità ed efficacia. 184 Antonio Vannuzzo Prendiamo la Francia, Paese equiparabile all’Italia per cultura e numero di abitanti. Nel 2009, l’Eliseo – all’epoca il premier era Nicolas Sarkozy, uomo di destra – ha approvato il Revenu de Solidarietè Active (Reddito di Solidarietà Attivo), con l’obiettivo di dare supporto ai lavoratori disagiati e di incoraggiarne il ritorno nella forza lavoro. L’RSA francese garantisce un reddito minimo in caso di inattività attraverso l’RSA-Socle, che ammonta a 470 euro al mese per una coppia senza figli e a 980 euro mese per una coppia con due figli. Il programma garantisce inoltre un reddito integrativo per le famiglie che lavorano, ma percepiscono un reddito basso, attraverso l’RSA-Chapeau. Si tratta di un sistema d’integrazione del reddito per gli stipendi sotto una certa soglia, che però incentiva la ricerca attiva del lavoro: per ogni euro di reddito da lavoro l’RSA copre 0,62 euro di reddito addizionale. Questo strumento è aperto a tutti i lavoratori over 25, under 25 con figli a carico e, dal 2010, è stato esteso anche agli under 25 già entrati nella forza lavoro. Prima di questa riforma, in Francia erano presenti nove diversi tipi di benefici sociali. In Italia, basta una superficiale ricognizione sul sito dell’Inps per rendersi conto che – tra cassa integrazione ordinaria e in deroga, mobilità ordinaria e in deroga, assegni familiari, ecc. – di strumenti a sostegno del reddito ce ne sono una ventina. Una semplificazione che sta studiando Matteo Renzi, neo segretario Pd, attraverso il Job Act: «Proponiamo un sussidio unico di due anni per chi perde il posto di lavoro e contemporaneamente un sistema serio di formazione professionale», ha detto intervenendo a ‘Che tempo che fa?’. Equità ed efficacia. Torniamo sugli Champs Elysees: i percettori di RSA devono iscriversi al Pôle Emploi (il servizio di collocamento pubblico francese) o a un’agenzia di collocamento privata. Il sistema è migliorabile: solo il 30% dei beneficiari risultano iscritti. Le politiche attive, insomma, vanno monitorate. A fronte di stanziamenti pari allo 0,6% del PIL, il costo del sistema è dello 0,1% del PIL (1,5 miliardi), ed è stato finanziato aumentando la tassa sui redditi da capitale dell’1,1 per cento. Il risultato, guardando al bicchiere mezzo pieno, è un aumento del reddito al consumo mediano del 18% (da 699 a 825 euro al mese al dicembre 2009, dati del ministero dell’Economia transalpino). Se ripartono i consumi, la deflazione si allontana e il costo del debito Essere nuovi Be new 185 si riduce. Sempre Boeri – che sembra aver sostituito il senatore di Scelta civica Pietro Ichino come ispiratore di Renzi su temi di lavoro e welfare – all’interno di un gruppo di lavoro ministeriale ha studiato la possibilità di implementare un ‘sostegno d’inclusione attiva’ (SIA), che comporta una spesa potenziale di 17 miliardi di euro. A differenza del disegno di legge grillino, il quoziente di calcolo è familiare e non individuale, e soprattutto prevede un sistema di controllo dei consumi dei beneficiari, circa il 12% delle famiglie italiane. Si vedrà se il Sindaco rottamatore sarà capace di coagulare un ampio consenso sull’idea di Boeri. D’altronde, il sistema pensionistico evidenzia pesanti squilibri: come dimostra l’ultima relazione della Corte dei Conti sull’INPS, l’ente previdenziale è da due anni in deficit, sostenuto prevalentemente dalle prestazioni dei contratti atipici. Senza una riforma del lavoro non solo i giovani non vedranno mai la pensione, ma nemmeno gli anziani. Il che è ben più grave. Antonio Vannuzzo Giornalista. Classe 1983, si laurea in Economia dei media all’Università Cattolica di Milano. Inizia la sua carriera nel 2003 come inviato a Telechiara, emittente televisiva del Nordest. Dopo un periodo di stage all’agenzia stampa americana Dow Jones, segue la cronaca di Piazza Affari per «Il Riformista». Nel 2010 fonda l’agenzia giornalistica FpS Media, service che fornisce contenuti editoriali a «Radio 24», «Il Fatto Quotidiano», «Repubblica TV», «L’Espresso». Collabora con «Il Foglio», «Panorama Economy» e «Capo Horn». A «Linkiesta» dalla sua fondazione, ricopre l’incarico di responsabile della sezione Finanza & Mercati. INTERVISTE di Giada Marangone per «Udine Economia» 188 Essere nuovi Be new 189 L’EMERGENZA EDUCATIVA Ivanhoe Lo Bello Lei è responsabile del settore Education di Confindustria. Come vede il tema della scuola? Se si affronta il tema del futuro, bisogna farlo con ‘occhi nuovi’, necessari per guardare alla scuola e all’impresa che sono le due ali che ci faranno volare verso la società della conoscenza. La questione educativa in Italia investe lo sviluppo economico, la coesione sociale, l’innovazione e il welfare. Le imprese dovranno riacquisire la loro dignità formativa per affrontare le sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. Che ruolo riveste la formazione nella creazione di nuovi posti di lavoro? La formazione crea posti di lavoro se fa crescere persone capaci di creare posti di lavoro, se fa affidamento cioè sulle competenze che ciascun giovane può sviluppare nel suo percorso formativo. Oggi chi arriva al diploma o alla laurea non deve chiedersi se ci sarà un posto di lavoro per lui, ma quanti posti di lavoro riuscirà a creare. Gli ultimi dati OCSE hanno mostrato quanto basse siano le competenze degli italiani. È questo il cuore del problema. Una formazione valida crea posti di lavoro quando sviluppa competenze negli studenti. Una maggiore apertura delle scuole all’impresa sollecita anche, negli studenti, la nascita di uno spirito di auto imprenditorialità che è necessario per tornare a competere nel mondo. Abbiamo un manifatturiero avanzatissimo e un Paese che offre risorse culturali e paesaggistiche non seconde a nessuno. La formazione deve essere sempre di più ‘a misura d’azienda’, costruita cioè su reali esigenze del tessuto imprenditoriale e del territorio. È d’accordo? Sì, ma con un’aggiunta: lo sviluppo nasce solo sulle reali esigenze del territorio se tra un territorio e l’altro si crea una rete formativa e produttiva. I territori sono infatti un parametro essenziale per 190 Ivanhoe Lo Bello cogliere e orientare le potenzialità di sviluppo per le imprese e per chi ci lavorerà. Il discorso riguarda dunque la formazione ‘a misura di territorio’ che significa farsi aiutare dalle imprese a capire quali sono le reali esigenze produttive di un’area. Molte scuole lo fanno, basti pensare all’Istituto tecnico Malignani di Udine, un fiore all’occhiello della scuola italiana, che collabora stabilmente (e con ottimi risultati) con le imprese del territorio. Abbiamo tanti settori su cui puntare, grazie alle nuove tecnologie: agricoltura e agri-business, economia green, manifatturiero 2.0, innovazione, moda e tanto altro. È ora che in ogni territorio si rifletta realmente su ciò che lo rende più competitivo. Quali sono, a suo avviso, le misure che devono necessariamente essere introdotte affinché le nostre aziende siano competitive anche a livello internazionale? Le imprese italiane devono essere messe in condizione di poter competere e di essere protagoniste nella dialettica Europa-Territori. In sintesi voglio suggerire tre criticità urgenti: 1) costo del lavoro elevato: abbiamo il costo del lavoro più elevato d’Europa; 2) burocrazia: per avviare e gestire un’impresa serve troppo tempo e le procedure sono complicate; 3) la formazione non è sempre adeguata. Molti giovani si trovano spesso senza avere competenze spendibili e con una scarsa conoscenza dell’inglese. Reti d’impresa un’opportunità per le micro e PMI? Le reti di impresa stanno mostrando di essere uno strumento molto efficace per lo sviluppo di PMI. Il numero delle reti è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni. Anche il mondo delle reti si sta aprendo all’Education. E con ottimi risultati. Sono già 93 infatti in Italia le reti ‘scuola-impresa’ e sono la dimostrazione che tutti devono e possono fare la propria parte per combattere l’emergenza educativa. Ivanhoe Lo Bello Vice presidente per l’Education di Confindustria e vice presidente di Unioncamere. Imprenditore, è socio e amministratore di altre società industriali. È stato presidente di Confindustria Sicilia e ha fatto parte del Direttivo e della Giunta di Confindustria. Essere nuovi Be new 191 FARE RETE NELL’INNOVAZIONE SOCIALE Bertram Maria Niessen Lei è stato uno degli ideatori e il project manager del progetto cheFare, uno spazio che permette alle imprese sociali profit e non profit di realizzare il proprio progetto, inducendo a fare rete e attivare network territoriali. Quali sono i pilastri sui quali si è fondata l’idea e attorno ai quali è stato concepito il progetto? Volevamo costruire un percorso che premiasse l’impatto sociale dei progetti culturali innovativi, segnalando e raccontando i nuovi modi possibili di fare cultura oggi in Italia. Per questo ci siamo concentrati su una serie di criteri molto concreti: collaborazione, co-produzione, innovazione, sostenibilità economica, equità economica e contrattuale, uso di tecnologie open-source e soprattutto impatto sociale positivo. Chi ha sintetizzato al meglio tutti questi requisiti guadagnando la borsa di 100.000 euro è stata Lìberos, una rete etica di stakeholder del libro, che sta cambiando l’economia culturale della Sardegna. Cosa si intende per innovazione sociale? L’innovazione sociale è l’insieme di idee, prodotti, servizi o modelli (sociali negli scopi e nei mezzi) in grado di creare nuove collaborazioni e relazioni. Chi opera nell’innovazione sociale ha tra i suoi obiettivi principali lo sviluppo del tessuto civico, grazie ad approcci in grado di facilitare e incoraggiare la collaborazione e la partecipazione. Qual è l’importanza della rete e come le nuove tecnologie dovranno integrarsi nel tessuto imprenditoriale? Oggi siamo a un punto di svolta. La digitalizzazione ha completamente cambiato i modi della produzione materiale. Bisogna capire che il Web non è un punto d’arrivo, ma di partenza. È dinamico e molto diverso da quello che era anche solo pochi anni fa. Noi in Italia siamo in ritardo perché non abbiamo quegli strumenti culturali in grado di cogliere evoluzioni così rapide. I dati, ad esempio, confermano che le nuove forme di business model che riescono a operare tramite piattaforme open-source sono più flessibili. 192 Bertram Maria Niessen Come reputa oggi il legame fra artigianato e nuove tecnologie? Tramite le nuove tecnologie si sta cercando di recuperare un settore rilevante per l’Italia, anche se c’è confusione tra quelle che sono le PMI manifatturiere e l’artigianato tout court; molti credono che siano la stessa cosa, ma non è così. Ci si sta muovendo verso un ‘artigianato digitale’, dove tecnologie anche non nuovissime (come il Cad e la stampa 3D) e nuove comunità online si scambiano know how e interagiscono, creando opportunità e ottenendo risultati importanti. Start-up e nuove tecnologie: binomio vincente? Non è così scontato. Per la crescita di start-up di successo è importante un ecosistema funzionale, efficiente e variegato, che da un lato si sviluppi attraverso un dialogo con le università e i sistemi di governance territoriale, dall’altro riesca a costruire modelli di investimento differenziati, tarati sulle nuove necessità imprenditoriali. Quali sono, a suo parere, le nuove sfide che dovranno affrontare le PMI italiane per uscire dalla crisi ed essere competitive anche oltre confine? Due sono le sfide che le PMI del nostro Paese dovranno affrontare. Per molti anni le nostre imprese sono state costrette, loro malgrado, a rinunciare a fattori strategici indispensabili per la crescita: la ricerca e lo sviluppo. Dovranno cioè riuscire nuovamente a investire per innovare. L’altra sfida assolutamente urgente è trovare il modo di conservare il capitale umano in Italia. In un Paese sempre più vecchio, la migrazione sistematica di quei giovani che hanno il sapere e la visione necessaria a innovare costituisce un danno incalcolabile per le PMI, come per la società nel suo complesso. Bertram Maria Niessen Ricercatore, progettista e manager per i processi di innovazione al crocevia tra cultura, arte e tecnologia. Nel 2009-2010 è stato ricercatore post-doc all’Università di Milano, lavorando sui progetti della Comunità Europea Edufashion e Openwear (economie P2P, crowdsourcing, moda e design). Attualmente lavora principalmente nei campi della ricerca urbana, economia della cultura, Diy 2.0 e manifattura distribuita, culture della rete e della collaborazione, innovazione dal basso. Dal 2012 è tra gli ideatori e il project manager di cheFare, premio da 100.000 euro per progetti di innovazione culturale promosso da doppiozero. Collabora con numerose riviste, blog e quotidiani italiani e internazionali. Essere nuovi Be new INTERVISTE di Alessandro Cesare per «Messaggero Veneto» 193 194 Essere nuovi Be new 195 MIGLIORE QUALITÀ DELLA VITA CON LE NUOVE TECNOLOGIE Brinda Dalal Brinda Dalal, direttore di ricerca all’Institute for the Future di Palo Alto (California), cosa dobbiamo aspettarci dal rapporto tra le nuove tecnologie e l’essere umano? Le implicazioni possibili sono innumerevoli. La prima delle evoluzioni già in atto è quella della distributed sensing, cioè di quei sistemi di misurazione in grado di potenziare i nostri sensi. C’è poi la cosiddetta biologia sintetica, che consente di combinare le cellule con i circuiti elettrici. In questo modo è possibile accendere o spegnere gruppi cellulari. L’idea a cui i ricercatori stanno lavorando è quella di poter arrestare il processo di duplicazione delle cellule cancerogene per fermare il progredire di un tumore. Le nuove tecnologie applicate alla scienza, quindi, non ci consentono più soltanto di migliorare l’aspetto esterno di un essere umano, ma il suo interno, rendendolo in qualche modo ‘trasparente’. Pensiamo alle possibili connessioni tra campo biologico ed elettrico anche attraverso il coinvolgimento del pensiero, con una comunicazione ‘brain to brain’, da cervello a cervello. Scenari che chiamano in causa l’etica? La tecnologia non ha un’etica, è indifferente all’etica. Sta a noi utilizzare le scoperte scientifiche in un certo modo. Abbiamo parlato di scenari futuri. Ci può fare degli esempi di come la tecnologia, oggi, ha migliorato la vita delle persone? Mi vengono in mente le persone affette da asma, che in Usa sono 25 milioni. Attraverso un erogatore dotato di tecnologia bluetooth, nel caso di un attacco d’asma si attiva un collegamento con lo smartphone che può mandare informazioni al tuo medico su dove ti trovi e sull’intensità della tua crisi. In tempo reale si ha a disposizione una mappatura completa del tuo stato di salute, con la possibilità di rice- 196 Brinda Dalal vere un feedback sui comportamenti da tenere. Un sistema che può servire per comunicare il sintomo di un malore e ricevere la cura in tempo zero. Le persone sono pronte a questa ‘rivoluzione’? Certamente le tecnologie, da sole, non bastano. Serve una nuova competenza da parte delle persone, che da un punto di vista culturale devono essere pronte a gestire queste informazioni e le implicazioni che ne possono derivare. Siamo sicuri di voler davvero conoscere a quali malattie genetiche siamo predisposti? Brinda Dalal Direttore di ricerca all’Institute for the Future di Palo Alto del programma ‘Technology Horizons’ che supporta società di tutto il mondo nel capire e progettare il cambiamento. All’IFtF dal 2002, ha coordinato progetti che spaziano dal futuro dei consumi alla mobilità, dalla riduzione della povertà all’accesso all’acqua potabile. La sua attività di ricerca è ora focalizzata sul rapporto tra uomo e tecnologia con particolare riguardo alla condivisione di esperienze soggettive. È presidente di Dhoopa Ventures LLC, società che fornisce consulenza in materia di innovazione e strategia di ricerca nei mercati emergenti e ad alta tecnologia. È tra i fondatori della Clean Technology Initiative allo Xerox Palo Alto Research Center. Essere nuovi Be new 197 CITTÀ INTELLIGENTI PER IL SUCCESSO ECONOMICO Roberto Siagri Entro il 2050, il 70% della popolazione vivrà nelle città. Una moltitudine di 9 miliardi di persone che dovrà disporre di sistemi in grado di gestire servizi ed emergenze. L’unico modo per riuscirci, però, sarà dando concretezza alle ‘smart cities’, le città intelligenti, ambienti urbani capaci di agire attivamente per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini. Roberto Siagri, si sente parlare spesso di smart cities. Esistono esempi concreti? Ci sono diverse esperienze smart nel mondo, ma l’argomento è piuttosto recente e quindi il percorso è all’inizio. Però esistono città che stanno andando decisamente in questa direzione, con l’obiettivo di creare sistemi urbani sempre più a misura di cittadino. In cosa consiste il concetto di smart? Appurato che il trend di abitanti della Terra è in crescita e quindi le problematiche legate all’inquinamento, alla sicurezza, al traffico delle città sono destinate ad aggravarsi, servono città che comincino ad agire in maniera intelligente, consentendo di superare ostacoli di varia natura con sistemi di controllo in grado di migliorare la qualità della vita delle persone. Senza questo tipo di sistemi le criticità rischiano di diventare ingestibili. Bisogna puntare sull’innovazione? È l’unica strada. Città intelligenti significano strade e palazzi pieni di sensori e computer in grado di comprendere, in tempo reale, ciò che sta accadendo, dando così informazioni migliori agli amministratori e alle forze di sicurezza, che in questo modo possono scegliere e intervenire non seguendo l’emotività ma basandosi sui numeri, sui dati certi, su informazioni dirette e in tempo reale. Il successo economico di una 198 Roberto Siagri città dipenderà da quanto sarà capace di essere sostenibile attirando forza lavoro qualificata e creativa. Da dove bisogna partire? Ogni città deve definire i suoi obiettivi primari: il concetto di smart può essere declinato in maniera differente. Amsterdam, ad esempio, ha posto come priorità la risoluzione del problema parcheggi, Melbourne vuole diventare la città più verde al mondo, alcuni centri cinesi vogliono combattere la piaga del traffico. I giovani sono pronti a questa ‘rivoluzione’? I giovani sono coscienti che nel futuro le città dovranno essere smart. Il problema è nelle classi digerenti. Sarebbe il momento di abbassare l’età di chi occupa posti decisionali, dando più spazio alle nuove generazioni. Roberto Siagri Presidente di Eurotech, azienda leader nell’ambito della tecnologia embedded, è responsabile per le strategie, i nuovi modelli di business e l’internazionalizzazione della società. Collabora con il Dipartimento di Ingegneria elettronica e meccanica dell’Università di Udine, dove ha tenuto corsi di Elettronica dei sistemi digitali. È membro dell’Italy-Japan Business Group e del comitato consultivo della Facoltà di Economia dell’Università di Padova. Per la sua competenza in temi legati all’innovazione, alla ricerca tecnologica e all’imprenditorialità, ha ricevuto riconoscimenti e premi da istituzioni italiane e internazionali. Essere nuovi Be new 199 PERSONE E AMBIENTE PERNO DELLA CITTÀ DEL DOMANI Bernardo Secchi Città a misura d’uomo, ‘intelligenti’ nella misura in cui riusciranno a superare i problemi legati all’ambiente, alle disuguaglianze sociali e alla mobilità. A gettare lo sguardo sul futuro dei centri abitati è Bernardo Secchi, professore emerito di Urbanistica allo IUAV di Venezia, da sempre impegnato nello sviluppo di idee e progetti per la città. Professor Bernardo Secchi, come si immagina le città dei prossimi decenni? Diverse da quelle di oggi, perché ogni grande crisi della storia ha portato con sè un radicale mutamento dei centri urbani. Ci può dare qualche anticipazione? Non mi interessa tanto spiegare come saranno le città, perché nessuno può dirlo, non avendo una palla di cristallo. Certamente saranno capaci di risolvere alcune delle loro principali criticità: penso, ad esempio, alla questione ambientale, alle disuguaglianze sociali, alla mobilità intesa come una sorta di diritto di cittadinanza. Ogni città nello stesso modo? Assolutamente no. Ognuna secondo la sua specificità. Roma risolverà i problemi in modo diverso da Parigi o da Londra. L’importante è che li affrontino e li risolvano. Non c’è alternativa? L’alternativa è un futuro di città invivibili, come quelle che si vedono nei film di fantascienza. Che ruolo avranno i cittadini? Un ruolo essenziale. Le città del futuro dovranno essere all’insegna delle persone, dando la priorità ai cittadini e alle loro esigenze. Servirà 200 Bernardo Secchi però un cambiamento delle politiche messe in atto finora. Oggi ci si ricorda delle città solo per la sicurezza e l’ordine pubblico. È strano, ma nei programmi dei governi, in Italia come in Europa, nonostante i grandi problemi siano tutti individuati nei centri urbani, non si fa mai riferimento alle città. Cambieranno le cose? In Italia certamente. Siamo molto bravi a reagire un attimo prima di trovarci sull’orlo del dramma. Bernardo Secchi Professore emerito di Urbanistica allo IUAV di Venezia, è stato preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Milano e ha insegnato in diverse università straniere. Ha ricevuto la laurea honoris causa dalle Università di Grenoble e di Hasselt e il Grand Prix d’Urbanisme. Ha partecipato alla redazione di numerosi piani e progetti, in Italia e all’estero. Con Paola Viganò ha vinto concorsi di progettazione in Italia e in Europa. È stato invitato a sviluppare idee e progetti per la ‘Grande Parigi’, per Bruxelles 2040 e per la ‘Grande Mosca’. È stato direttore di «Urbanistica». Tra i suoi ultimi libri: Prima lezione di urbanistica (Laterza, 2007); La città nel ventunesimo secolo (Laterza, 2008); La città dei ricchi e la città dei poveri (Laterza, 2013). Essere nuovi Be new 201 I GIORNALI ALLA SFIDA DIGITALE, MA IL CARTACEO RESISTERÀ Bruno Manfellotto La tecnologia sta cambiando l’informazione in maniera radicale: nei contenuti, nelle tempistiche, nel rapporto con gli utenti. Il flusso di notizie è aumentato in maniera esponenziale, così come il numero di fonti. Un processo inarrestabile, che va governato per dare valore alla moltitudine di informazioni presenti sul web. Compito che spetta al giornalista, figura chiamata ad avvalorare le notizie con la loro pubblicazione cartacea. Bruno Manfellotto, direttore dell’«Espresso», ne è convinto, ancor di più oggi che la comunicazione digitale va per la maggiore. Direttore, come inciderà la tecnologia digitale sulla trasmissione delle notizie? Il modo di trasmettere le notizie si è già evoluto. Rispetto a dieci anni fa le fonti e gli strumenti di informazione sono completamente diversi. Questo costringe la carta stampata e i media in genere a tener conto non più soltanto di un telex o di un’agenzia, ma di un complesso apparato informativo. E il cambiamento sarà ancora più drastico nei prossimi anni. E questo è un vantaggio o uno svantaggio per una redazione? Se da una parte rischi di subire gli effetti di questi strumenti digitali, dall’altra li puoi utilizzare a tuo vantaggio per raggiungere luoghi e fonti fino a qualche anno fa inimmaginabili. Si presentano opportunità e metodi di lavoro diversi. Il flusso di notizie va gestito. Ci può spiegare in che modo? È necessario far convivere l’aspetto più tradizionale del fare informazione con quello più innovativo. I contenuti a disposizione di una redazione vanno suddivisi tra più mezzi di comunicazione. Se prima un settimanale come «L’Espresso» elaborava il prodotto cartaceo nell’ar- 202 Bruno Manfellotto co di una settimana, ora è possibile che alcuni contenuti escano sul web prima della pubblicazione del giornale. Per questo, per evitare anticipazioni di altri, bisogna pensare a un prodotto spendibile su più piattaforme: alcune informazioni vanno date subito sul sito, approfondendole in un secondo momento sulla parte cartacea e quindi dandone diffusione sui social networks, in modo da verificarne l’impatto promuovendo discussioni tra i lettori. Serve cioè un approccio multimediale e multicontenuto. Un approccio che avete messo in pratica nel nuovo sito de «L’Espresso». I siti internet invecchiano rapidamente, come avviene per gli stili nella moda. E visto che si comunica attraverso lo stile, serve un restyling continuo per evitare che questo strumento di comunicazione diventi inefficace. Il sito va adeguato per essere in grado di ospitare contenuti informativi diversi, integrandolo col prodotto giornale, che a mio avviso continua a essere la parte che dà contenuto al sito. Un ragionamento valido anche nell’eventualità che i siti di informazione diventino a pagamento? L’Italia è un po’ in ritardo in questo processo. Comunque se domani dovremo confrontarci con strumenti a pagamento, sarà maggiore la necessità di fornire al lettore contenuti di qualità firmati dai giornalisti di punta dell’edizione cartacea, frutto di un lavoro approfondito e documentato. Quindi il web non scalzerà il prodotto cartaceo? L’edizione cartacea esisterà sempre perché l’informazione via web, ancora per molti, è avvalorata dalla carta stampata e dalla firma del giornalista. Il caso più eclatante, in questo senso, è la vicenda WikiLeaks: sono stati messi in rete migliaia di documenti, ma senza il lavoro di decodifica da parte di persone qualificate e specializzate, che li hanno scelti e pubblicati, avrebbero perso di significato. Le professionalità per portare a termine queste azioni si trovano nelle redazioni dei giornali. La politica come utilizza i nuovi strumenti di comunicazione via web? L’unica preoccupazione che hanno politici e governi è di verificare cos’è stato scritto di negativo contro di loro. Essere nuovi Be new 203 Restando alla politica, siete stati recentemente al centro di un attacco da parte di un consigliere della Regione Campania che ha chiesto alla magistratura di bloccare l’uscita de «L’Espresso» per una vostra inchiesta. Lo abbiamo invitato a leggere l’accurata inchiesta sulla situazione ambientale in Campania, prima di esprimere giudizi. Prendersela con chi fa informazione, invece che con chi dovrebbe impedire il traffico di rifiuti tossici gestito dalla criminalità organizzata, può solo peggiorare la vita di chi vive in quelle zone e da anni sopporta le terribili conseguenze dell’inquinamento. Bruno Manfellotto Giornalista, è direttore de «L’Espresso» dal luglio 2010. Ha iniziato la carriera giornalistica a «Paese Sera», dove alla fine degli anni ’70 ha inaugurato e diretto le pagine economico-finanziarie. Chiamato poi a «Panorama», si è diviso negli anni ’80 tra i temi dell’economia e della politica per poi assumere la guida della redazione romana; si è poi trasferito a Milano per l’incarico di capo redattore centrale. Passato a «L’Espresso» nel 1992, ne è stato vice direttore dal 1995 al 2000, quando è diventato direttore della «Gazzetta di Mantova». Dal 2003 al 2009 ha diretto «Il Tirreno» per assumere poi la carica di direttore editoriale dei quotidiani locali del Gruppo Editoriale «L’Espresso». Un anno dopo è stato chiamato alla direzione de «L’Espresso». Ha vinto il Premio Ischia Internazionale di Giornalismo nel 2007. Ha pubblicato S-profondo nord (Sperling & Kupfer, 2003). 204 LE SFIDE DELLA FLESSIBILITÀ DEL WELFARE AZIENDALE E DEL SISTEMA PENSIONI Tiziano Treu Welfare aziendale e occupazione giovanile, ma anche crisi del manifatturiero e nuova classe dirigente del Pd. Tiziano Treu, ex ministro del Lavoro e dei Trasporti alla fine degli anni ’90 (nei governi Dini, Prodi e D’Alema). Come deve evolvere il concetto di welfare in questo momento di crisi? Sono del parere che si debba introdurre il concetto di flessibilità anche nel sistema pensionistico, creando una finestra per consentire l’uscita dal mondo del lavoro tra i 60 e i 70 anni, prevedendo delle penalizzazioni economiche in base all’età prescelta. In questo modo, pur alzando l’età pensionabile, si eviterebbero drammi sociali. Cerchiamo la condivisione delle forze politiche. Lei si sta facendo promotore anche di un welfare aziendale. In cosa consiste? È una novità che si sta sviluppando. La prima azienda ad averlo messo in atto è stata Luxottica. Invece di dare premi di produzione in denaro, si propone ai dipendenti di investire tali risorse in servizi di welfare, che possono andare dagli asili nido ai ticket sanitari. A seconda del bisogno delle persone si può sviluppare una serie di servizi che lo Stato non riesce a garantire. Una soluzione fatta propria però prevalentemente dalle grandi aziende. Questo è il problema. Le istituzioni dovrebbero intervenire per allargare questo welfare integrativo anche alle piccole imprese, mettendo in campo un sistema di incentivi. Oggi arriva in una regione che sta vivendo crisi aziendali importanti (Electrolux, Ideal Standard). Il manifatturiero sta cedendo il passo? Essere nuovi Be new 205 In tutto il mondo ci sono stati problemi in questo settore. Il settore manifatturiero può uscire da questa situazione solo arricchendosi di innovazione, tecnologia e qualità. Lei ha introdotto per legge la flessibilità nel lavoro. Crede che per i giovani il posto fisso sarà sempre di più una chimera? La flessibilità non va intesa come precariato, ma come consapevolezza che il proprio ruolo nel mondo del lavoro può mutare nel tempo. Certo, bisogna assicurare una certa continuità lavorativa, altrimenti le famiglie non possono sopravvivere. In questa fase i giovani vanno sostenuti e aiutati a muoversi in un mercato del lavoro sempre più complesso. L’ho detto alla governatrice del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, è stato un peccato chiudere l’Agenzia del Lavoro in FVG, funzionava bene. Ha citato la presidente Debora Serracchiani. Che impressione le ha fatto? La classe dirigente del Pd ha bisogno di persone come lei, giovani e capaci. È brava e l’apprezzo molto. Tiziano Treu Senatore della Repubblica Italiana, è vice presidente della Commissione permanente su Lavoro e previdenza sociale. Già ministro del Lavoro nei governi Dini (1995), Prodi (1996) e ministro dei Trasporti nel governo D’Alema (1998), dal 2001 ha fatto parte, come senatore, di numerose commissioni ministeriali. Il suo nome è legato al cosiddetto ‘Pacchetto Treu’ da cui trae origine la legge 196/97 (‘Norme in materia di promozione dell’occupazione’) con cui il lavoro interinale e altre forme contrattuali di lavoro atipico hanno ottenuto riconoscimento legislativo da parte dell’ordinamento italiano. Docente emerito e già professore ordinario all’Università Cattolica di Milano, ha insegnato anche all’Università di Pavia e in atenei stranieri, tra cui Parigi X, Università Cattolica di Lovanio, Sophia University di Tokyo. Autore di numerose pubblicazioni, nella sua attività di studioso ha tenuto una stretta collaborazione con il sindacato (in particolare la Cisl) e con diverse associazioni internazionali di diritto del lavoro e relazioni industriali. 206 LA DEMOCRAZIA E LA POLITICA 2.0 NELL’ERA DELLA RETE Alberto Cottica Il concetto di democrazia, nell’era digitale, può avere applicazioni più ampie, consentendo ai cittadini interessati una partecipazione e un controllo della cosa pubblica a più ampio raggio. Una politica in stile Wikipedia: collaborativa, aperta e liberamente modificabile. Alberto Cottica, qual è la tesi introdotta dal suo libro sulla Wikicrazia? Con questo testo apro a una possibilità di intendere la politica pubblica. Non spiego dove la rivoluzione digitale ci sta portando, ma dove è possibile arrivare se ci impegniamo. Non sono convinto che il solo fatto di aver sviluppato tecnologie di comunicazione e di averle diffuse su larga scala sia sufficiente a propiziare un cambiamento del modo in cui si governano la società e i processi. Serve uno sforzo di tutti per riformare in profondità il modo con cui i cittadini si occupano delle politiche pubbliche. Quello che ho fatto con il libro non è raccontare la transizione digitale in atto, ma proporre un cammino di democrazia comune. Un po’ quello che sta tentando di fare il Movimento 5 Stelle? Non mi interesso di politica, ma di politiche. In questo senso non sono in opposizione al M5S, ma mi colloco proprio da un’altra parte. Dal mio punto di vista l’intelligenza collettiva dei cittadini non va utilizzata per prendere le decisioni di tipo macro, che spettano alla politica, quanto per la gestione della fase esecutiva. Si spieghi meglio. Prendo come esempio l’inclusione dei disabili. Tutti sono d’accordo e la politica può decidere di favorire questa inclusione. Il difficile è riuscirci davvero, perché magari chi dovrebbe progettare un marciapiede non presta la dovuta attenzione e finisce per creare una barriera architettonica insormontabile. La mia proposta ‘wiki’ è pensata pro- Essere nuovi Be new 207 prio per monitorare questa fase operativa: se tanti occhi controllano la progettazione del marciapiede, difficilmente potrà scappare l’errore. Come accade su Wikipedia, la condivisione consente di trovare gli errori e di porvi rimedio. Un approccio replicabile anche nelle attività di governo. Ci sono già esempi di governance in stile Wikipedia? Di iniziative che si basano su questo approccio ce ne sono molte, anche in Italia e nel libro porto alcuni esempi. La più ‘vecchia’ è quella di una cittadina del Regno Unito con il progetto ‘Fix my street’. In pratica è stato chiesto ai cittadini di monitorare il proprio quartiere per garantire una manutenzione urbana costante. In caso di guasti ai lampioni o di buche nella strada, c’è chi li segnala su internet e il sistema coinvolge il funzionario competente. Questo consente di avere molti controllori. Per funzionare, questo approccio, deve essere condiviso da tutti i cittadini? Non ce n’è bisogno. L’importante è coinvolgere quei cittadini che si sentono motivati, lasciando l’opportunità di entrare nel sistema a chiunque. Prendo di nuovo a esempio Wikipedia per spiegarmi: non tutti scrivono, lo fa una minoranza di cittadini. Ma tutti vi possono accedere, modificare eventuali errori e decidere di diventare a loro volta scrittori di contenuti. In questo modo ognuno si occupa di ciò che gli interessa in autonomia, e un cittadino può anche scegliere di non prendere parte al sistema. Alberto Cottica Economista, si occupa di economia creativa e digitale, con un forte interesse per le politiche di sviluppo. È esperto di politiche pubbliche collaborative e partecipazione online. Lavora al Consiglio d’Europa e all’Università di Alicante. Ha collaborato con il Ministero dello Sviluppo Economico come direttore di ‘Kublai’, il primo progetto dell’amministrazione centrale italiana basato sulle logiche del web 2.0. Il suo impegno è volto a rendere l’azione di governo più aperta, utilizzando internet per attingere all’intelligenza collettiva dei cittadini. È autore di Wikicrazia (Navarra, 2010). Come musicista ha suonato con i Modena City Ramblers, di cui è tra i fondatori. 208 NELLE SCUOLE IL PROCESSO DIGITALE NON SI PUÒ FERMARE Agostino Quadrino «La storia non si può fermare». Agostino Quadrino, direttore editoriale di Garamond, chiude così l’intervista in cui denuncia l’ostracismo messo in atto dalle grandi case editrici italiane contro l’affermazione della didattica digitale. Ma a suo modo di vedere, non porterà ai risultati sperati, visto che oramai il processo di diffusione tecnologica tra i ragazzi è in atto e non può più essere arrestato. Partiamo dalla casa editrice che dirige, la Garamond. La nostra è una realtà piccola ma molto presente nel mondo della scuola. Lavoriamo in questo settore da 25 anni e ciò che ci qualifica è il contatto diretto con gli insegnanti, poco più di 67 mila. Comunichiamo direttamente con loro per saggiare gli orientamenti negli istituti scolastici e per proporre i nostri contenuti digitali. Come procede il processo di innovazione nelle scuole? Il cambiamento digitale non solo è in atto, ma in gran parte c’è già stato, anche se non tutti vogliono ancora ammetterlo. La connessione ormai è nelle tasche di quasi tutti gli studenti, che comunicano tra loro grazie alle tecnologie digitali. E anche l’accesso al web, nelle sue varie forme, è disponibile praticamente a chiunque. In alcuni casi più fuori che dentro le scuole. Cos’è cambiato in questi anni nei ragazzi? Il modo di rapportarsi con la conoscenza e con le discipline. Dieci o vent’anni anni fa il libro di testo classico rappresentava la sola fonte disponibile. Oggi le fonti sono innumerevoli e accessibili ai più, con una scelta critica senza pari rispetto al passato. Chi ancora si attarda a discutere se la scuola debba adeguarsi a questa evoluzione, o vive in un altro mondo o non ha mai avuto a che fare con i ragazzi. Essere nuovi Be new 209 Non tutti sembrano pronti a questa ‘rivoluzione digitale’. Ci sono resistenze da parte della classe docente, che si dimostra non ancora pronta a queste nuove modalità di apprendimento (l’età media degli insegnanti italiani è 50 anni), oltre a non essere incentivata alla formazione e all’aggiornamento. Poi c’è una resistenza di tipo produttivo da parte delle case editrici più grandi (ce ne sono quattro o cinque che determinano il 75% del mercato). Basta un dato per comprendere il volume d’affari che sta dietro ai libri di testo: ogni anno le famiglie italiane spendono 800 milioni di euro per l’acquisto di volumi cartacei. Qual è il ruolo della politica in questo processo? Purtroppo i partiti più grandi fanno gli interessi degli editori e quindi le istanze di rinnovamento vengono osteggiate. Diversa la posizione del Movimento 5 Stelle, che spinge in maniera esplicita per il passaggio dai libri analogici a quelli digitali, che sono più economici, abbatterebbero il consumo di carta e favorirebbero la multimedialità. È così anche all’estero? No, non c’è un regime di oligopolio come in Italia. Nei Paesi più industrializzati hanno investito molto più che da noi nella digitalizzazione delle scuole e in banda larga. E anche i cosiddetti Paesi marginali ci stanno superando in questo settore. La diffusione del digitale nelle scuole pare però inevitabile. Le nuove generazioni studiano e chiedono le nuove tecnologie. L’innovazione non potrà essere fermata da battaglie di retroguardia, al massimo potrà subire un rallentamento. Gli editori non capiscono che quella digitale è l’unica strada anche per la loro sopravvivenza. Agostino Quadrino Direttore editoriale di Garamond. Ha insegnato per molti anni nelle scuole superiori di Roma e svolto attività di formazione e aggiornamento per docenti su temi di metodologia didattica e uso educativo delle tecnologie digitali e di rete. È autore di saggi filosofici sul pensiero di E. Lèvinas e di testi scolastici per le scuole medie e superiori. Da 15 anni dirige Garamond, casa editrice impegnata nell’innovazione della scuola con la pubblicazione online di strumenti e contenuti per la didattica digitale – come l’ultimo nato ‘EduCloud’ – in una logica di condivisione aperta dei saperi e di costruzione collaborativa della conoscenza come bene comune. 210 PMI PIÙ FORTI E RAZIONALIZZAZIONE DEGLI ENTI ASSOCIATIVI Massimo Paniccia Non parla apertamente di ripresa, ma ammette che il sistema sta rallentando la sua corsa negativa. Massimo Paniccia, presidente di Confapi FVG, chiede maggiore forza per le piccole e medie industrie, lasciando aperto uno spiraglio a una possibile unione tra Confapi e Confindustria. Dopotutto è già successo in altre parti d’Italia con la nascita di Unindustria. «Intanto abbiamo pensato a Confapi – afferma Paniccia – che l’anno scorso ha deciso di riunirsi in un unico organismo regionale e il processo di fusione oramai è in fase di completamento. Questo era quello che ci interessava fino a oggi, per il futuro potremo pensare ad altri tipi di aggregazione». Sulla possibile fusione con Confindustria, Paniccia aggiunge: «Proprio a Udine, tempo fa, abbiamo dato vita, insieme, alla Confederazione del sistema delle imprese affinché rappresentasse l’intero comparto produttivo. Ho sempre detto che questo è un problema che riguarda il livello nazionale e non il locale. Credo che queste debbano essere le basi su cui ragionare per avere un futuro comune». Il numero uno di Confapi FVG si è quindi soffermato sul ruolo delle piccole e medie imprese in Italia e sulla necessità di dare loro un maggior peso: «Non possiamo dire che le PMI sono l’asse portante del Paese solo quando fa comodo – precisa – lasciando poi che il sistema resti in mano a pochi. Questa è una delle contraddizioni italiane che va superata, parlando più di Paese che di individui. Anche se – continua Paniccia – appare chiaro che gli individui, gli imprenditori, più sono grandi e più hanno potere e possibilità di parlare, mentre invece i milioni di industriali che devono combattere quotidianamente per la sopravvivenza sono Essere nuovi Be new 211 molto più silenziosi, nonostante, con la loro voglia di fare, tengano in piedi questo Paese». Lo sviluppo delle PMI passa attraverso le aggregazioni tra le diverse realtà espressione di un territorio: «Il ruolo delle associazioni di categoria e della CCIAA – chiarisce Paniccia – è quello di aiutare le aziende a crescere, e noi lo stiamo facendo da una ventina d’anni con chi ha compreso che guardare al mondo è un’opportunità di crescita non solo per la sua azienda, ma per l’intero comparto economico regionale. Il nostro Paese ha circa 200 mila imprese che esportano, ma il 95% di esse sono piccole aziende che incidono solo per il 7% dell’export totale. Ciò significa che circa 2 mila imprese esportano per il 93% del totale. Ecco perché senza una crescita del settore produttivo con processi di aggregazione, il futuro del sistema Italia è a rischio. Il nostro compito è quello di mostrare agli imprenditori la strada per andare sui mercati internazionali a competere». Sul tema della crisi, Paniccia ha una visione ottimistica: «La discesa del nostro sistema economico sta rallentando e ci si comincia a preoccupare di come rimettersi in piedi, di come crescere, piuttosto che continuare a tener duro per non soccombere. Non vedo nessuna ripresa ma sicuramente c’è, da parte degli imprenditori, la voglia di non mollare, di tornare a investire e di pensare al futuro. In quest’ottica – conclude – vanno inseriti i ragionamenti su aggregazione e internazionalizzazione come modelli per superare una crisi che non è solo strutturale, ma rappresenta un modo nuovo di vivere in un sistema diverso da quello ante 2008». A discutere della finanza del domani, nella sede di Confapi FVG, è intervenuto anche Domenico Tonussi, ad private equity di Finanziaria Internazionale Holding Spa. «Oggi, alle imprese – mette in luce – serve un cambiamento di mentalità perché una fase del modello di sviluppo è passata, e la crescita per vie interne ormai non riesce più ad assicurare i benefici del passato. Serve un rafforzamento patrimoniale delle aziende, che può concretizzarsi, ad esempio, attraverso le private equity, strumenti in grado di sostenerle in termini di ricapitalizzazione, di ricambio generazionale e di ricomposizione delle quote societarie». 212 Massimo Paniccia Massimo Paniccia Presidente della Federazione Regionale delle Piccole e Medie Industrie del Friuli Venezia Giulia (Confapi FVG). Imprenditore, è presidente e amministratore delegato della Solari, azienda leader nei sistemi di informazione al pubblico e di orologeria industriale. Ha presieduto e fatto parte dei consigli di amministrazione di numerose aziende, associazioni di categoria e istituzioni bancarie. Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana, gli sono state conferite la laurea ad honorem in Scienze politiche dall’Università di Trieste e in Economia aziendale dall’Università di Udine. Essere nuovi Be new 213 TRASFERIRE TECNOLOGIE PER COSTRUIRE FUTURO Sergio Campo Dall’Orto Lo sviluppo di un’impresa passa attraverso la sua capacità di innovare prodotti e processi. Facile a dirsi, difficile a farsi. Perché è piuttosto complicato riuscire a connettere il mondo della ricerca con quello dell’impresa, per creare valore. Per Sergio Campo Dall’Orto, responsabile business development di PoliHub, la nuova struttura del Politecnico di Milano nata per affiancare le start-up, il modo migliore di portare l’innovazione in azienda non è trasferirla direttamente dall’università, ma costruirci attorno un’impresa. Un vero e proprio ripensamento del paradigma che lega le tecnologie ai nuovi prodotti e al lavoro. Professor Campo Dall’Orto, ci spieghi la sua visione di trasferimento tecnologico al mondo delle imprese. La mia posizione è frutto di un’esperienza pluriennale maturata al Politecnico. Il concetto di trasferire tecnologia e individuare all’interno dei centri di ricerca accademici delle innovazioni che possono essere utilizzate dalle imprese, è un percorso molto difficile da realizzare. Sono più propenso a creare metodi di collaborazione in cui si sviluppano progetti insieme fin dal principio. Un processo che può valere per ogni tipo di impresa? Soprattutto per quelle di dimensioni più elevate, con 100 dipendenti e oltre. Diventa difficile far collaborare le strutture più piccole, che sono il cuore della nostra economia. Vanno quindi cercate nuove modalità di interscambio tra mondo accademico e questo tipo di attività economiche, soprattutto in termini di know how. Per una piccola impresa diventa dispendioso distaccare del personale per fare ricerca, quindi è naturale che tenti di fare innovazione in casa. 214 Sergio Campo Dall’Orto Ma fare da soli, specie per le PMI, non sempre dà i risultati sperati. Al giorno d’oggi l’innovazione sta diventando troppo rapida e le piccole aziende non riescono a tenere il passo. Il tempo che ci impiegano a generare una nuova applicazione le fa arrivare tardi sui mercati e quindi i vantaggi che ne ricavano sono pochi. Bisogna trovare forme che siano immediatamente applicabili. Se io presento un’innovazione a un’impresa e ci vuole almeno un anno per farla diventare un prodotto industriale, molte aziende preferiscono rifiutare per puntare a processi più rapidi, magari meno innovativi, ma più spendibili. In questo contesto che ruolo hanno le università? Un ruolo fondamentale, perché i ricercatori viaggiano dieci anni in avanti rispetto alle aziende. Chi fa ricerca nel campo dell’innovazione, lo fa indipendentemente dal costo di trasformazione in prodotto. La sfida del futuro sarà proprio quella di creare un collegamento diretto tra centri di ricerca e aziende, per dar vita a qualcosa di immediatamente spendibile sul mercato. Come riuscirci? Al Politecnico di Milano ci stiamo provando. Il nostro trasferimento di innovazione è atipico, perché è finalizzato alla nascita di nuove imprese. Quando abbiamo raggiunto un nuovo processo innovativo, cerchiamo i giovani che lo possano accompagnare in una start-up e quindi farla diventare una nuova impresa. Questa, a mio modo di vedere, è la nuova frontiera del trasferimento tecnologico dell’università. Ci sono già esempi concreti? C’è, ad esempio, Fabtotum, la stampante 3D aiutata nel suo sviluppo da PoliHub, il nuovo incubatore del Politecnico di Milano: una struttura dedicata alle start-up creative e innovative. Oppure l’esperienza dell’ombrello biodegradabile. Sergio Campo Dall’Orto Docente di Imprenditorialità e design al Politecnico di Milano e responsabile del Business development di PoliHub, la nuova struttura per le start-up del Politecnico. Si è sempre interessato di innovazione e nuove tecnologie, in par- Essere nuovi Be new 215 ticolare del loro impatto sulle organizzazioni complesse. È uno dei maggiori esperti di telelavoro, che ha studiato, approfondito e implementato in imprese private e amministrazioni pubbliche. Ha svolto una intensa attività di studio sui modelli di diffusione dell’innovazione e del trasferimento tecnologico. È stato consulente di decisori pubblici per i modelli strategici di implementazione delle politiche dell’innovazione. Ha costituito e avviato il Consorzio Politecnico Innovazione (oggi Alintec), primo esempio italiano di struttura di interfaccia tra mondo della ricerca e sistema delle imprese, specializzandosi nella individuazione di giovani imprese start-up e nel supporto alla loro crescita. 216 100 MILIONI RISPARMIATI SE TUTTI UTILIZZASSERO IL PC Antonio Piva Per migliorare il ‘sistema Italia’ non serve aspettare necessariamente l’arrivo del futuro. Basta mettere in atto piccoli accorgimenti per aumentare le competenze di ognuno e, di conseguenza, per realizzare risparmi consistenti. Un esempio in questo senso l’ha dato Antonio Piva, coordinatore per il Nordest di Aica, l’Associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico. «Se tutti i dipendenti degli enti locali e della sanità del Friuli Venezia Giulia avessero una certificazione per l’utilizzo degli strumenti informatici – assicura Piva – si potrebbero risparmiare 100 milioni di euro l’anno. Conoscere bene il funzionamento dei computer richiederebbe minori costi per interventi tecnici e di assistenza». Le certificazioni di cui parla il coordinatore dell’Aica sono le patenti europee ECDL (European Computer Driving Licence), che dovrebbero diventare un insegnamento obbligatorio in tutte le scuole medie e superiori d’Italia. «Nel Nordest siamo un po’ indietro rispetto ad altre parti d’Italia – aggiunge Piva – e anche in Friuli le scuole che hanno adottato il protocollo ECDL sono poche. E questo non è un fattore positivo, perché un utilizzo consapevole dei sistemi informatici non soltanto può servire ad aumentare la sicurezza on line di bambini e ragazzi, ma può rappresentare un valore aggiunto per affacciarsi sul mercato del lavoro». Un tema, quello dell’inadeguatezza della formazione scolastica, toccato anche da Bruno Lamborghini, presidente di AICA e docente dell’Università Cattolica di Milano. «È un problema drammatico – afferma Lamborghini – perché non esiste un ponte tra scuola e mondo del lavoro. E così i nostri giovani cominciano a pensare al lavoro non durante gli anni dell’università o delle superiori, ma alla fine del loro percorso scolastico». Il presidente di AICA ha quindi parlato del lavoro in senso più ampio: «Serve un ripensamento del concetto stesso di lavoro, che va Essere nuovi Be new 217 ricostruito sulla base delle competenze e delle capacità di ognuno. I giovani devono sfruttare le nuove tecnologie per diventare ‘artigiani digitali’ e inventarsi un’occupazione ‘fai da te’. Il lavoro tradizionale è fisso; nel futuro, non esisterà più. Le competenze, invece, continueranno a essere spendibili ovunque». Per Lamborghini sono sette le caratteristiche attorno alle quali deve svilupparsi la capacità lavorativa del futuro, per permettere alle ‘persone’ («non più al capitale umano, come siamo malamente abituati a dire») di essere competitive: innovazione, ricerca e libertà creativa, capacità di operare condivisione e conoscenza, cultura del cambiamento e coraggio di cambiare, coscienza sociale, gusto della bellezza e apertura al mondo. Più si riuscirà a essere fedeli a questi dettami, maggiori saranno le possibilità e le occasioni per avere successo. Il contesto nel quale operare non è certo semplice, tutt’altro. Secondo i dati analizzati da Lamborghini «il quadro di sviluppo economico del 2016 è drammatico. L’occupazione non crescerà. Se dovesse andare bene non calerà, la brutta notizia è questa. Se non ci muoviamo immediatamente – conclude – le giovani generazioni non avranno un lavoro. I ragazzi di oggi faticano a gestire la propria conoscenza: è fondamentale che imparino a farlo al più presto». Antonio Piva Laureato in Scienze dell’Informazione, vice presidente dell’ALSI (Associazione Nazionale Laureati in Scienze dell’Informazione e Informatica) e presidente della commissione di informatica giuridica, coordinatore AICA Nordest. Ingegnere dell’Informazione, docente a contratto di diritto dell’ICT, qualità e comunicazione all’Università di Udine. Consulente su Governo Elettronico, Agenda Digitale e innovazione nella PA locale, Auditor Sistemi informativi e 231, è consulente e valutatore di sistemi di qualità ISO9000, Privacy e Sicurezza presso Enti pubblici e privati, autore di diverse pubblicazioni e libri su diritto ICT e Privacy. Ispettore AICA presso scuole ed enti di formazione, esperto di certificazioni e competenze informatiche, collabora con SDA Bocconi e Confindustria per ricerche sui costi dell’ignoranza informatica. Membro del Consiglio Nazionale del Forum Competenze Digitali, è presidente della Sezione Territoriale AICA del Nordest. 218 RETI DI IMPRESA E BUSINESS DIVERSIFICATI PER SUPERARE LA CRISI Enzo Rullani L’affermarsi delle reti di impresa dipenderà dal superamento di una ‘resistenza culturale’ diffusa tra gli imprenditori delle aziende di piccole e medie dimensioni. Se un modello è utilizzato da anni per fare impresa, è molto difficile lasciarselo alle spalle di punto in bianco. Ma è quello che richiede il mercato del futuro, come sostiene Enzo Rullani, docente di Economia della conoscenza e di Strategie di impresa alla Venice International University. Professor Rullani, perché le reti di imprese sono così importanti? Innanzitutto perché consentono alle aziende di cambiare i propri modelli di business. In pratica permettono alle imprese, unendo le forze, di realizzare ciò che hanno sempre visto come un ostacolo difficile da superare. È necessario superare resistenze soprattutto di tipo psicologico, perché gli imprenditori non si fidano troppo dei loro colleghi. Si deve vincere una vera e propria ‘resistenza culturale’ da parte di quegli imprenditori che in passato sono riusciti ad avere successo da soli. Ora però le condizioni sono mutate e non è più possibile farcela solo con le proprie forze. Questa ‘resistenza culturale’ esiste anche all’estero? All’estero è diverso perché il tessuto produttivo è costituito in prevalenza da grandi aziende, con le PMI che rappresentano una percentuale residuale, o perché si tratta di realtà appena nate o operanti in settori marginali. Da noi invece le piccole imprese sono l’asse portante del sistema produttivo. Esiste quindi un approccio diverso nel modo di considerare le reti e le aggregazioni. Esiste un numero massimo di aziende per creare una rete? Direi di no. Il problema non è il numero di imprese, ma l’approc- Essere nuovi Be new 219 cio che hanno. I consorzi legavano aziende che restavano comunque concorrenti, essendo specializzate tutte in un settore produttivo. Per le reti il discorso è completamente diverso, visto che nascono per creare complementarietà e dipendenza tra le diverse aziende. Ogni realtà produttiva è specializzata nella produzione di un componente che aggiungendosi a quello di un’altra impresa della rete crea il prodotto finito. Perché questo processo funzioni serve fiducia e integrazione. Il distretto è un concetto vicino alla rete di imprese? Non del tutto, dipende dalla reale conoscenza che il distretto ha dei meccanismi di aggregazione. Se una rete nasce, ad esempio, per aumentare l’export verso la Germania, dovrà comprendere un’azienda che opera già su quel mercato, magari tedesca, che quindi non fa parte fisicamente del distretto. Altrimenti si rischia di chiedere aiuto a una diretta concorrente. Che ruolo ha la politica? La politica deve scegliere le sue priorità. Se, come dovrebbe essere, si decide di investire su produzioni complesse, la politica deve dimostrarsi selettiva e premiare quelli che, per realizzare ‘cose difficili’, si mettono insieme e puntano sull’innovazione. Non dimentichiamo che dobbiamo competere con Paesi come la Cina. Enzo Rullani Presidente di TeDIS e docente di Economia della conoscenza e di Strategie di impresa alla Venice International University. È stato direttore del tLab, centro di studi sull’economia dell’immateriale e sull’innovazione nelle imprese di servizi del CFMT di Milano. Si occupa di economia della conoscenza e dell’immateriale, di terziario innovativo e dell’impatto del capitalismo globale sui distretti industriali e sulle reti trans-territoriali. Tra i suoi libri: La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza (Carocci, 2004); Il capitalismo personale. Vite al lavoro (con A. Bonomi, Einaudi, 2005); Innovare. Re-inventare il Made in Italy (con M. Plechero, Egea, 2007); Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi (Marsilio, 2010). 220 SFIDA ALLA CRISI PUNTANDO SULLA BORSA Roberto Calugi La stretta del credito è uno dei maggiori problemi delle imprese in questo momento di crisi. In futuro, un diverso e nuovo panorama tecnologico e imprenditoriale richiederà nuovi e diversi strumenti di finanziamento. Il compito sarà cercare di capovolgere la prospettiva con la quale si guarda al rapporto tra banche e aziende. Tutto questo in uno scenario che, negli ultimi tre anni, ha visto diminuire di oltre 3,5 miliardi di euro il credito concesso alle imprese del Friuli Venezia Giulia. Roberto Calugi, come si fa, in un momento come quello attuale, a mettere in dubbio la stretta del credito? La mia provocazione è: si dice che ci sia poca finanza oggi nel rapporto tra istituti di credito e imprese. Siamo certi, e lo dico provocatoriamente, che invece non ce ne sia troppa? Si spieghi meglio. I dati riguardanti le caratteristiche dell’indebitamento delle imprese italiane rispetto a quelle europee o extraeuropee ci dicono che la percentuale dei debiti bancari rispetto ai debiti delle imprese è pari al 66,5%, quando in Francia si arriva al 36%, la media dei Paesi OCSE si attesta su un 50%, mentre la media degli Stati più evoluti arriva fino a 28,5%. Queste percentuali dimostrano come in Italia, nel corso degli ultimi anni, ci sia stato un fortissimo ricorso alla leva del debito per finanziare la crescita delle imprese. Quindi c’è stata troppa finanza. Nel nostro Paese ci sono canali di approvvigionamento delle risorse finanziarie largamente sottoutilizzate, e non certamente per demerito delle imprese. E questo porta, di conseguenza, a un utilizzo con il contagocce degli strumenti di capitale di rischio e di fondi di investimento. Ecco perché il mercato azionario italiano è anch’esso sottoutilizzato. Essere nuovi Be new 221 Resta il fatto che la stretta del credito è una realtà. È vero, le banche sono rigide e non prestano facilmente il denaro. E a soffrirne sono soprattutto le imprese piccole e piccolissime. Voglio citare un dato a questo proposito: dal 2011 al 2013, la concessione del credito, in Friuli Venezia Giulia, si è ridotta di 3,7 miliardi di euro, per una percentuale pari al 10,8%. Quale può essere la strada per uscire da tale situazione? È come un cane che si morde la coda. Finché le imprese saranno dipendenti da un unico canale finanziario e avranno a disposizione risorse limitate, continueranno a essere caratterizzate da uno scarso sviluppo e saranno sempre più in sofferenza. Non c’è la bacchetta magica per cambiare le cose. Però è possibile migliorare la situazione guardando a forme di approvvigionamento finanziario alternative o ad altre modalità di partecipazione, considerando la quotazione in borsa una strada percorribile. E la politica che ruolo ha in questo contesto? Sicuramente un ruolo importante, visto che può varare una serie di normative per aiutare la concessione del credito alle imprese. Pensiamo a quanto è stato fatto per i mini-bond, che danno la possibilità anche alle aziende non quotate in borsa di emettere obbligazioni e cambiali finanziarie. Roberto Calugi Responsabile dell’Area ‘Sviluppo delle imprese’ alla Camera di Commercio di Milano, dove si occupa di accesso al credito, innovazione e internazionalizzazione delle aziende. Per Promos, l’Azienda Speciale della Camera di Commercio di Milano per le attività internazionali, ha seguito lo sviluppo di innovativi strumenti finanziari per l’internazionalizzazione di impresa e la promozione delle aziende milanesi nei Paesi Arabi. Responsabile per la Camera di Commercio di importanti eventi internazionali, ha curato la realizzazione delle prime sette edizioni della Conferenza Euromediterranea. Ha tenuto corsi presso le Università Bocconi, Cattolica del Sacro Cuore e Politecnico di Milano. Hanno partecipato alla prima edizione di Future Forum Esseri nuovi / Be new Udine, ottobre/novembre 2013 Alberto Abruzzese, Paola Annoni, Sergio Arzeni, Alberto Barberis, Stefano Baroni, Alessandra Bechi, Carsten Beck, Roberto Bonzio, Marina Brollo, Luigino Bruni, Paolo Cacciato, Roberto Calugi, Sergio Campo Dall’Orto, Alberto Capatti, Antonello Caporale, Maurizio Caporali, Ivana Capozza, Luca Capra, Giovanni Caprara, Enore Casanova, Enrico Castrovilli, Francesco Cazzaro, Mirco Cervi, Annalisa Chirico, Maurizio Cinelli, Claudio Cipollini, Cristiana Compagno, Christina Conti, Alberto Cottica, Brinda Dalal, Mirko Daneluzzo, Luca De Biase, Derrick De Kerckhove, Andreas Delleske, Antonio De Lorenzo, Michele De Nigris, Lionel Devlieger, Alberto Felice De Toni, Marco Di Ciano, Maura di Mauro, Rossano Ercolini, Paolo Ermano, Valeria Filì, Walter Filiputti, Vittorio Foramitti, Andrea Fumagalli, Domenico Garofalo, Salvatore Giuliano, Giuseppe Granieri, Furio Honsell, Franco Iseppi, Christian Keglovitz, Claus Kjeldsen, Bruno Lamborghini, Ivanhoe Lo Bello, Antonio Loffredo, Norman Longworth, Riccardo Luna, Barbara Lunghi, Bruno Manfellotto, Marco Masella, Armando Massarenti, Fulvio Mattioni, Stefano Maurizio, Viktor Mayer-Schönberger, Barbara Mazur, Elisa Micelli, Michele Morgante, Marco Morganti, Debra Mountford, Luca Nardone, Guido Nassimbeni, Bertram Niessen, Paolo Palamiti, Massimo Paniccia, Angelo Patrizio, Daniele Pittèri, Andrea Pollarini, Agostino Quadrino, Renato Quaglia, Stefano Quintarelli, Dilip Rahulan, Mario Rotta, Fabrizio Rovatti, Enzo Rullani, Raffaella Rumiati, Kurt Schmidinger, Bernardo Secchi, John Shehata, Roberto Siagri, Bruce Sterling, Stephen Taylor, Raffaele Trapasso, Tiziano Treu, Giuseppe Tucci, Antonio Vannuzzo, Alessandro Verona, Angela Wilkinson, Gabriella Zanocco. Future Forum 2013 Essere nuovi / Be new Udine, 14 ottobre/29 novembre Camera di Commercio di Udine Progetto Friuli Future Forum Con il patrocinio di Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Comune di Udine Comitato d’onore Giovanni Da Pozzo (Presidente), Debora Serracchiani, Alberto Felice De Toni, Sergio Arzeni, Antonella Nonino Partner scientifici OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - Parigi, IftF, Institute for the future - Palo Alto, CIFS, Copenhagen Institute for Future Studies - Copenhagen in collaborazione con Università degli Studi di Udine, Friuli Innovazione, Associazione culturale vicino/lontano, Enterprise Europe Network Progetto Renato Quaglia (project manager) Daniele Pittèri, Maria Lucia Pilutti, Alessandro Verona, Paolo Ermano, Michele Morgante, Manuela Croatto Comitato scientifico Marina Brollo, Maria Chiarvesio, Claudio Cipollini, Leopoldo Coen, Fabio Feruglio, Vittorio Foramitti, Gianluca Foresti, Francesco Marangon, Armando Massarenti, Michele Morgante, Gioacchino Nardin, Guido Nassimbeni, Roberto Siagri Curatori tematici Armando Massarenti, Michele Morgante, Guido Nassimbeni, Daniele Pittèri, Renato Quaglia, Alessandro Verona Curatori di sezione Roberto Calugi, Annalisa Chirico, Walter Filiputti, Giorgio Jannis, Paolo Palamiti, Vanni Treu, Gino Zottis Segreteria organizzativa Azienda Speciale Imprese e Territorio - I.TER Associazione culturale vicino/lontano partner Messaggero Veneto RAI - Radiotelevisione Italiana sede FVG 224 Il volume riunisce gli interventi presentati alla prima edizione del Future Forum 2013, dedicato all’innovazione e al futuro. Come cambieranno nei prossimi decenni lavoro, impresa, città, trasmissione dei saperi, nutrizione? Esperti delle maggiori organizzazioni internazionali, studiosi e ricercatori italiani tentano di rispondere a queste domande chiave per affrontare con strumenti più adeguati le trasformazioni che attendono nei prossimi anni l’economia e la società. Progetto Friuli Future Forum Avviato nel 2010 su iniziativa del presidente della Camera di Commercio di Udine, Giovanni Da Pozzo, il progetto Friuli Future Forum si offre come strumento innovativo di sostegno alla crescita economica e sociale del territorio friulano. All’inizio con il coordinamento di Lorenzo De Rita e, dalla fine del 2012, su progetto di Renato Quaglia, ha inaugurato un programma dedicato più esplicitamente alle imprese e al futuro: osservatorio dell’innovazione e rete di collaborazioni territoriali con le Associazioni di categoria e i protagonisti del sistema imprenditoriale, della formazione, universitario, culturale, della ricerca del territorio. Ha avviato partnership con istituti di ricerca europei e internazionali e promosso e realizzato la prima edizione del Future Forum (www.friulifutureforum.com). copia gratuita
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