La sposa di Novazzano - corretto

La sposa di Novazzano
«Sono stufa! È ora che tuo padre dia il consenso al nostro matrimonio! Non ne posso più!».
«Non capisco perché anche il tuo non gli faccia quel piccolo piacere… la richiesta di mio padre non è così astrusa!».
«È assurda, ecco cos’è! Per un po’ di polvere da sparo continua a farci disperare... è giusto?».
«È sbagliato, però, in cambio, il mio vecchio gli dà una pinta di vino, di quello buono, fatto in casa! La polvere serve
per le cartucce, dobbiamo chiudere quella faccenda per sempre!».
«In Italia non le vendono?».
«È difficile trovarle, poi le vuole confezionare lui con la polvere buona e tanti pallettoni, la prossima volta deve
essere quella definitiva, siamo stanchi di farci prendere in giro… il ladro ha i giorni contati!».
«Mio padre fa il guardia-frontiera, gli danno le cartucce contate, non la polvere! Inizio a pensare che tu non mi
voglia più sposare! Non ce la faccio più, ho voglia di murarmi viva come le Tre Vergini di Somazzo!».
«Allora io, per non essere da meno, mi annego nella Lura!».
A casa Enrico fece un nuovo tentativo col padre, ma la risposta fu: «Io posso aspettare… voi ce la farete? Possibile
che la tua bella non riesca a convincere quel testone?».
A volte la disperazione apre porte sconosciute, Enrico entrò da una di quelle: «Papà, ho avuto un’idea, domani in
Parrocchia diremo che oltre la Processione e la Fiera per San Giuseppe sarebbe bello far dei botti per celebrarlo
degnamente, per scacciare l’inverno e nel frattempo festeggiare la primavera».
«Guarda cosa fa l’amore… aguzza l’ingegno!», rispose il Battista entusiasta.
In parrocchia la proposta suscitò molto interesse e l’Arciprete, cui sorrideva l’idea di superare nei festeggiamenti
quelli del Circolo operaio, disse: «La guerra è appena finita, in Italia la polvere da sparo si trova solo al mercato nero e
non va bene…».
«Sciur Arzipret, ce ne vuole parecchia per fare dei botti come si deve… San Giuseppe e i Morti di Somazzo se lo
meritano!», disse il Battista.
L’Arciprete, che ai suoi fedeli si rivolgeva sempre in dialetto, replicò: «A Nuvazàn sta mìa ul pà du la murûsa dul tò
fioeu? L’è mìa un duganiér? Lu, duvrìa vegala!».
«Lasciamo stare signor Arciprete, non c’è niente da fare, il padre di Franca dice che le cartucce gliele danno contate
e poi la polvere da sparo la tengono in polveriera a Biasca…», s’intromise il ragazzo.
«A Bieschia? Alûra… gh’hinn mìa prublémi, ga pènsi mi!», l’Arciprete allargando le braccia continuò: «Ul Prevóst
da San Cärlu l’eva in Seminäri cun mi!».
La ricorrenza di San Giuseppe di quell’anno fu indimenticabile! All’alba i botti avevano colto nel sonno e stupito
tutti gli abitanti del circondario. La chiesetta era addobbata con fiori di elleboro galleggianti in conche di vetro colme
d’acqua (i fiori che Franca prediligeva), di primule e dei pochi fiori d’inizio primavera.
Dopo la Processione, i due promessi con l’Arciprete e i genitori, fissarono la data del matrimonio; per far felici i
genitori del ragazzo sarebbe stato celebrato il primo sabato d’ottobre nella Chiesetta di San Giuseppe e dei Morti di
Somazzo: la Chiesetta della pioggia; il pranzo di nozze, per scelta della famiglia della sposa, il giorno dopo al Grotto
del Giuvan di Salorino, dove Franca faceva da cuoca e barman.
Il ventisette settembre era tutto pronto: le fedi, la camera approntata per gli sposi, soprattutto l’uva era quasi matura,
quindi il ladro si sarebbe fatto vivo presto!
«L’üga la tireremm giô ul dì dópu ul tò matrimóni, mô l’è ura da mett sü da guärdia ul Giuvanìn!», aveva detto il
Battista.
La domenica successiva di buonora, nella chiesetta, Enrico accanto alla madre aspettava impaziente la sposa; dopo
cinque minuti Franca entrò accompagnata dal padre e s’inginocchiò al suo fianco; l’Arciprete senza perdere tempo
diede inizio alla cerimonia: «Siamo qui riuniti per celebrare il…».
In quell’istante irruppe in chiesa il Giuvanìn e urlando coprì la voce del celebrante: «Ziu, ul ladar! Ul ladar!».
«Curr Enrico, curr a cà a tô ul s’ciopp! Mi, vô sü in vigna!», urlò il Battista precipitandosi fuori.
«Specium pà, ul füsìl l’è già chì nul cunfesiunäl… sciur Arzipret sa spusum sabat ca vegn…», poi lo sposo dopo
aver recuperato il fucile cercò con gli occhi Franca che, pallida dal furore, fece in tempo a rincorrerlo, trattenerlo per un
braccio e urlargli con rabbia: «Domani fate in modo di non mancare!», poi fece ritorno a Novazzano senza proferire
parola; gli strepiti della madre, gli insulti del padre verso il futuro consuocero, e i mezzi sorrisi e battutine dei parenti e
degli invitati non la sfioravano per niente.
Su nella vigna il Battista mise fine ai furti.
Il giorno dopo, malvolentieri, tutti si ritrovarono al Grotto del Giuvan per il pranzo delle imminenti nozze.
L’accoglienza, l’eccellente e abbondante pranzo tolsero ogni malumore e superarono di molto le attese degli invitati.
La sposa passava in continuazione dalla cucina, al bar, alla sala, elargendo sorrisi e baci a tutti gli invitati.
Il Battista non finiva più di raccontare la storia del ladro e come lo aveva ucciso; bagnando le sue parole con
abbondante vino continuava a elogiare il sangue freddo del figlio e la bontà e pazienza della futura nuora.
Ogni volta che ripeteva “futura nuora”, Franca sentiva la rabbia che le ribolliva dentro trasformarsi in odio e questo
darle forza per attuare la vendetta!
Suo padre, in silenzio, guardava esterrefatto il regalo del consuocero, le corna del ladro: un cervo.
Gli invitati, nonostante fossero sazi, avevano divorato la torta nuziale ed erano in attesa del cocktail di commiato che
Franca voleva servire personalmente.
Il Battista, ubriaco fradicio, alzava e abbassava la testa dal tavolo; quando arrivarono gli sposi, si alzò a fatica dalla
sedia, abbracciò il figlio, poi indicò e biascicò: «Un brindisi alla mia futura nuora».
Tutti applaudirono e urlarono: «Viva la sposa! Viva gli sposi!».
Franca, era come il ghiaccio del cocktail che gli stava porgendo.
Il Battista trangugiò la bevanda, si sedette e dopo un paio di minuti battè con forza la testa sul tavolo.
Dopo un quarto d’ora tutti gli invitati avevano visto i suoi occhi sbarrati.
La guardia medica, prontamente accorsa, sul certificato di morte scrisse: “Arresto cardiaco”.
Dopo la cerimonia funebre Franca andò a convivere con Enrico; in più, da quel giorno si occupò personalmente della
tomba del Battista, adornando la lapide con un’aiuola di ellebori: il fiore che lei amava tanto.
P. S. – Plinio riporta che già nell’antichità si curavano le malattie mentali con la polvere delle radici dell’elleboro; fino
al secolo scorso la stessa era usata nella terapia degli stati di sofferenza cerebro-meningea; in qualunque caso una dose
eccessiva (pochi milligrammi), causa arresto cardiaco. Per chi fosse interessato, e per qualsiasi necessità, ne posso
fornire a volontà!