Ut unum sint! - Siervos de los Pobres del Tercer Mundo

OPUS CHRISTI SALVATORIS MUNDI
Ut unum sint!
MISSIONARI SERVI DEI POVERI DEL TERZO MONDO
ANNO V
N. 2/2014
Messaggio di Padre Giovanni Salerno msp
Cari amici,
Laudetur Iesus Christus!
Nel precedente numero della “Ut
unum sint” ho voluto riflettere su
alcuni aspetti caratteristici del
nostro servizio ai più poveri, presentando il nostro logotipo nei
suoi diversi aspetti. Ora riprendo
il tema per sottolineare qualcosa
che in questi lunghi anni di vita
missionaria ho sempre ripetuto a
tutti quelli che si sono avvicinati
al nostro Movimento, sentendo
sinceramente nel loro cuore il
desiderio di mettersi al servizio
dei poveri, e anche a quelli che
erano semplicemente in cerca di
una bella ed esotica esperienza
missionaria. A tutti loro dicevo che non possiamo ridurre il nostro servizio ai poveri a un
semplice assistenzialismo. L’esperienza della Chiesa, infatti, ci
insegna che questo assistenzialismo finisce per rendere i poveri
ancora più poveri. Riconoscendo che i poveri non hanno fame
soltanto di pane materiale, ma anche di Dio, del Pane Eucaristico
e del Pane della sua Parola, il nostro servizio deve avere come
obiettivo quello di portare questo duplice alimento, spirituale
e materiale, là dove normalmente i poveri non possono essere
serviti mediante la pastorale ordinaria, cioè più in là dell’asfalto.
Il nostro Movimento, come “Opus Christi” che è, vuole seguire
un cammino totalmente contrassegnato dall’autentico servizio
ai più diseredati, nella più completa dimenticanza di sé, delle
proprie soddisfazioni personali e della costante tentazione di
cercare una smagliante realizzazione personale anche nel campo missionario: tutto questo sulla base della convinzione che, in
mezzo a tanti problemi, risulta sì più facile dominare con il denaro e risolvere certe situazioni pure con il denaro, ma il denaro
non redime. E, anche se è vero che i poveri del Terzo Mondo
hanno bisogno di aiuti economici, non è questa la loro principale
necessità. Ciò di cui essi hanno maggior bisogno e con maggior
urgenza è la vita intera di fratelli che li servano come servi, disposti a spingersi fin dove nessuno osa farlo, per portare loro le
vere e uniche ricchezze dell’umanità, quelle che Cristo e la sua
Chiesa distribuiscono.
Il missionario Servo dei Poveri del Terzo Mondo, per l’esperienza
di tutti i santi e gli uomini di Dio, sa che un cuore pieno di amore
trova mille iniziative per testimoniare la grandezza e la gratuità
della propria dedizione. Dobbiamo essere pieni di Dio per poter
servire i poveri. Dobbiamo essere convinti che ai poveri, ai bambini orfani e abbandonati e a tutti gli altri che serviamo, dobbiamo dare Dio, facendo tutto il possibile affinché il servizio che
diamo loro si converta in uno strumento di santità per noi stessi
e per tutti coloro che incontriamo sul nostro cammino. Il nostro
servizio ai più poveri lo realizziamo nel seguire Cristo, amandoli
come Lui li ha amati, soccorrendo le loro necessità materiali e
soprattutto offrendo loro a mani piene le ricchezze che Lui affidò
alla Chiesa, sua Sposa, facendo di loro la comunità dei “poveri
di Yavè”. Oggi giorno, purtroppo, sono una moltitudine i poveri
che si allontanano dalla Chiesa perché questa non sempre mostra il suo volto missionario, non sempre mostra il suo desiderio
di mettersi al servizio dei poveri. Molti agnostici non hanno letto
né ascoltato niente del Vangelo e non sanno niente della Chiesa.
I poveri di ogni razza e di ogni religione intuiscono, anche senza sapere nulla della Chiesa, che solamente Lei può farli felici.
Come controparte, la Chiesa ha il dovere fondamentale e principale di cercare i poveri e di amarli e servirli, come hanno fatto
i profeti e gli Apostoli e tutti i Santi. L’"Opus Christi", con il suo
silenzio pieno d’amore, vuole vivificare la Chiesa, come l’acqua
vivifica la terra. Questo impegno di servire i poveri ci spinge a lavorare tanto nel “Terzo Mondo” come nel “Primo Mondo”, convinti della verità di quanto diceva Giovanni Paolo II “Non c’è vero
servizio ai poveri se non nasce da una vera conversione”. E noi abbiamo una grande preoccupazione e una grande responsabilità:
quella di promuovere e favorire la conversione dei cuori, tanto
nel “Terzo Mondo” come nel “Primo Mondo”. Aiutare i poveri senza riconoscere in loro il volto di Cristo significa renderli
più poveri moralmente. Per questo motivo, i sacerdoti e i laici
del Movimento danno ritiri spirituali in molti Paesi, aiutando
la conversione dei cuori verso Dio e proponendo il servizio dei
poveri come un elemento importante di questo cammino. Dire
che anche in “Occidente” ci sono dei poveri e chiedersi "perché
andare così lontano per aiutare i poveri?" è una specie di cancro
che distrugge la Chiesa, un male che avanza silenzioso come il
tarlo che corrode il legno. Tale atteggiamento, infatti, priva la
Chiesa locale dello spirito missionario, così come dello spirito
di sacrificio e di abnegazione, fondamentali per ogni cristiano
e per ogni comunità ecclesiale. I Missionari Servi dei Poveri
del Terzo Mondo annunciano a tutti che non c’è santità senza
servizio ai poveri, e cercano di risvegliare in ogni persona che
incontrano la responsabilità che ha di amare i poveri se vuole salvarsi. Questo annuncio non è semplicemente un insieme
di parole vuote, ma una testimonianza vissuta d’intensa vita
spirituale, in intima unione con Cristo Eucaristia, nel servizio
giornaliero ai fratelli bisognosi. Infatti, nessuno dà quello che
non ha. Con questi presupposti si può capire il nostro desiderio
di essere liberi nel servire i poveri, senza lasciarci manovrare da
nessuno, ma sottomessi solo a Dio, confidando sempre di più
nella sua infinita Provvidenza. Il nostro Movimento, in vari Paesi, in quanto civilmente riconosciuti come “Onlus”, potrebbe
ricevere aiuti dai Governi, ma non abbiamo voluto farlo (e preghiamo perché ciò si mantenga in futuro come un punto fermo
del nostro carisma) per non correre il rischio di dipendere poi
nella forma concreta di aiutare i poveri. È stata la Madre Teresa
di Calcutta che, nei primi anni di vita del nostro Movimento,
mi ha consigliato di adottare queste norme; e non mi sono mai
pentito di averla ascoltata. Dio nostro Padre ci giudicherà un
giorno, non per le opere che abbiamo realizzato, ma per la misura dell’amore con cui abbiamo servito i poveri.
P. Giovanni Salerno, msp
Ut unum sint!
Riflessione Biblica
"Li inviò..."
P. Sébastien Dumont, msp (belga)
Caro lettore,
Gesù, quando inviò i Dodici, fece loro alcune raccomandazioni che sono molto preziose anche per noi…
Ascolta!
In quel tempo, Gesù, “chiamati a sé i Dodici, incominciò a inviarli a due a due, dando loro il potere sopra gli
spiriti immondi. Comandò loro che, ad eccezione di un
bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane,
né bisaccia, né denaro nella cintura; che calzassero i
sandali, ma non indossassero due tuniche. Diceva loro:
- Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non
partiate di là. Ma se in un luogo non vi si ricevesse né vi
si desse ascolto, andate via di là, e scuotete la polvere di
sotto i vostri piedi in testimonianza contro di essi -. Essi
partirono, predicando che si convertissero; scacciavano
molti demoni, ungevano con olio molti malati e li guarivano” (Mc 6, 7-13).
Medita!
Nell’ultima meditazione (su Mc 3, 13-19), abbiamo visto che Gesù costituì il gruppo dei Dodici perché stessero
sempre con Lui, e per inviarli a predicare, con il potere
di scacciare i demoni. Adesso vediamo che questo invio
si realizza…
Gesù “chiamati a sé i Dodici…”: Immaginiamoci la scena… Intorno a Gesù c’è molta gente…, e Gesù, tra tutta
questa gente, chiama a sé alcuni, scelti per una missione
particolare. Già San Marco (3,13) ci ha detto che Gesù
“chiamò a sé quelli che volle”. Il bello è che questi Dodici
sono disponibili… Stanno al fianco di Gesù come strumenti docili nelle sue mani. Ascoltano la chiamata e… si lasciano inviare, senza porre ostacoli… E tu, sei disponibile
quando Gesù ti chiama?
"Incominciò a inviarli a due a due”: Per dare una testimonianza valida di qualche cosa che non era immediatamente verificabile, secondo il Deuteronomio (19,15 e 17,6)
era necessario che ci fossero due o tre testimoni. Così la
testimonianza dei testimoni di Gesù dev’essere credibile.
“I due” sono portatori non di un’opinione soggettiva, ma
del messaggio divino, che merita d’essere ascoltato prontamente. Essi sono “gli inviati di Gesù”. Inoltre, l’andare
“a due a due” obbliga a unire le parole alle opere, cioè a
mettere in pratica l’amore fraterno che si predica. Questo
aggiunge credibilità alla testimonianza…
“Dando loro potere sopra gli spiriti immondi”: Il bastone
che devono portare con sé simbolizza proprio quell’autorità. Come Mosè separò le acque del Mar Rosso alzando
il suo bastone (cfr. Es 14,16), così gli apostoli possiedono
l’autorità ricevuta da Gesù di scacciare i demoni, lottando
contro il male. Per la loro missione, essi si sono messi to-
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talmente al servizio di Gesù, in totale dipendenza da Lui.
Proprio per questo hanno la sua stessa autorità. Gesù ha
fiducia che essi compiranno questo servizio con responsabilità.
Lui continuerà ad essere il “padrone”, colui che possiede
l’autorità nella sua pienezza, ma adesso parlerà e agirà attraverso di loro. Essi continueranno la stessa missione di
Gesù …; sembra perfino che con maggior successo che
Gesù stesso… Infatti, il nostro testo finisce narrando che
“scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti malati e li guarivano”, mentre invece Gesù, a Nazaret, “non
poté farvi alcun miracolo…” (Mc 6,5). È che lì aveva incontrato una grande incredulità. Anche se meno sensazionali, i Sacramenti sono anch’essi segni efficaci… Riceviamoli con fede!
“Né pane, né bisaccia, né denaro nella cintura…”, né
tunica di riserva: Totalmente disponibili per Dio e la sua
opera… i Dodici non devono preoccuparsi della propria
comodità e dei propri guadagni. Devono procedere leggeri,
pieni solo di Dio. Ciò che hanno tra le mani è troppo prezioso. “Solo Dio basta”, dice Santa Teresa di Gesù. Tutti
devono poter sperimentarlo: “O voi tutti che avete sete,
venite all'acqua; anche chi non ha denaro, venga! Comperate e mangiate, senza denaro e senza spesa, vino e latte”
(Is 55,1). Anche se gli è lecito ricevere un’offerta, il missionario deve essere staccato dai beni di questo mondo e a
maggior ragione quando si tratta di annunciare il Vangelo
e di amministrare i Sacramenti (cfr. Hch 8,20).
“Che calzassero i sandali”: Sì, per poter camminare molti
km (cfr. Hch 12,8), andare in cerca della pecorella smarrita,
predicare fino agli ultimi confini del mondo e - oggi diremmo - spingersi “più in là dell’asfalto”, abbiamo bisogno di
“sandali”. Quali “sandali” ci permetteranno di realizzare il
“sogno missionario” di fare in modo che “giunga a tutti”
il Vangelo, come ci invita insistentemente a fare il Santo
Padre (cfr. Evangelii Gaudium, nn. 20, 31, 43, 48)?
“Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non
partiate di là”: dove si accoglie il Vangelo s’instaura una
comunione fraterna.
“Essi partirono, predicando che si convertissero”: Si
potrebbe tradurre anche così: “Partirono per predicare
la conversione”. L’importante è predicare, annunciare il
Vangelo dell’amore di Dio manifestato in Cristo. La conversione è la conseguenza, è la risposta a questo amore
una volta che lo si è conosciuto.
Prega! Ti invito a prenderti il tempo necessario per rileggere il testo sacro qui commentato e per pregarci sopra.
Vive! Che cosa ti ha detto il Signore? Vivilo.
Il tuo piccolo fratello missionario.
Ut unum sint!
Riflessione Patristica
Aquila e Priscilla
P. Walter Corsini, msp (italiano)
Cari amici, con questo articolo cominciamo ad entrare in
contatto diretto con coloro che - per i loro scritti e la loro
testimonianza di vita - noi riconosciamo come giganti della fede e del servizio alla Verità e denominiamo Padri della
Chiesa. Incominciamo conoscendo una coppia che non fa
parte della lista “canonica” dei Padri della Chiesa, ma che,
per la loro vita e il loro apostolato, rappresenta emblematicamente l’umile canale attraverso cui le verità della fede ci
sono state trasmesse vitalmente fin dagli albori della Chiesa.
Si tratta della copia di “sposi missionari” Aquila e Priscilla,
che si trovano nell’orbita dei numerosi collaboratori che gravitavano attorno all’Apostolo san Paolo.
I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma tanto lui come lei
erano di origine ebrea: erano giunti da Roma a Corinto, dove
san Paolo li aveva incontrati all’inizio degli anni cinquanta e
si era unito a loro, dato che - come narra san Luca - esercitava il loro stesso mestiere di fabbricanti di tende per uso domestico; ed era stato accolto nella loro casa (cfr. Hch 18, 3).
Il motivo del loro trasferirsi a Corinto era stata la decisione
dell’imperatore Claudio di espellere da Roma gli ebrei che
risiedevano nell’urbe, perché "provocavano tumulti a causa
di un certo Cresto" (cfr. Vite dei dodici Cesari: Claudio, 25).
È chiaro che non si conosceva bene il nome di Cristo, ma
è altrettanto chiaro che c’erano delle discordie nella comunità ebrea riguardo alla questione se Gesù era il Cristo. Per
l’imperatore questi problemi erano un motivo sufficiente per
allontanare da Roma tutti gli ebrei residenti. Da ciò si deduce che questi due sposi avevano già abbracciato la fede
cristiana a Roma, negli anni quaranta.
In un secondo momento si trasferirono nell’Asia Minore, a
Efeso.
Così conosciamo il ruolo importantissimo che svolse questa
coppia di sposi nell’ambito della Chiesa primitiva: accoglieva nella propria casa il gruppo dei cristiani del luogo quando
si riunivano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare
l’Eucaristia. In questo modo possiamo vedere come nasce la
realtà della Chiesa nella casa dei credenti.
In seguito, una volta tornati a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere una funzione importantissima. La tradizione agiografica posteriore diede un’importanza molto
particolare a Priscilla: a Roma abbiamo una chiesa e una
catacomba dedicate a lei. Certamente, alla gratitudine delle
prime Chiese deve unirsi anche la nostra, perché il cristianesimo è giunto fino a noi grazie alla fede e all’impegno
apostolico non solo degli Apostoli, ma anche di fedeli laici,
di famiglie e di sposi missionari come Priscilla e Aquila.
Questa coppia dimostra, in particolare, l’importanza dell’attività degli sposi cristiani: quando sono sostenuti dalla fede
e da un’intensa spiritualità, il loro coraggioso impegno per
la Chiesa e nella Chiesa risulta naturale. La comunione quo-
tidiana della loro vita si prolunga e in un certo senso si sublima nell'assumere una responsabilità apostolica comune a favore del Corpo Mistico di Cristo. Avvenne così nella prima
generazione di cristiani, e adesso abbiamo la grande fortuna
di vedere che avviene così anche nelle nostre fraternità di
famiglie missionarie e in molte meravigliose realtà operanti
nel cuore della Chiesa.
Ci impressiona anche l’ospitalità di Aquila e Priscilla a favore di coloro che erano chiamati a predicare la Buona Novella, svolgendo tale attività come un vero servizio al Vangelo.
Di fronte a questo, il nostro pensiero riconoscente si dirige
alle molte persone che in diverse nazioni ci aprono la loro
casa e mettono a nostra disposizione il loro tempo per accompagnarci nei vari incontri missionari, come pure le famiglie povere dei villaggi della Cordigliera che ci offrono la
loro ospitalità. Davvero il Signore, tanto nei primi anni della
Chiesa delle origini come oggi, continua a suscitare questo
fondamentale servizio “domestico”.
Che grande esempio costituiscono Aquila e Priscilla per le
nostre famiglie cristiane del giorno d’oggi! Essi hanno saputo porre la Parola di Dio al centro del loro impegno cristiano,
della loro vita di coppia, della loro casa. Hanno saputo fare
della fede il catalizzatore che ha unito sempre di più il loro
matrimonio, rendendolo veramente l’espressione di una sola
carne, dato che nel Vangelo li vediamo citati praticamente
sempre insieme.
Aquila e Priscilla sono i testimoni di come il Vangelo può
riuscire a trasformare una famiglia. Essi si sono consacrati
pienamente alla diffusione del Vangelo, pur mantenendo attive le loro responsabilità professionali. Hanno aperto la loro
casa a persone desiderose di conoscere Gesù e hanno dato
una testimonianza di fede anche ai non credenti.
Che la loro testimonianza aiuti e incoraggi le nostre famiglie
nel loro delicato e fondamentale compito di essere Chiesa
domestica, perché: “Non è poca cosa fare della propria casa
una chiesa” (San Giovanni Crisostomo. In 1 Cor. hom. 54,2:
PG 61,374).
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Ut unum sint!
Riflessione Ecclesiologica
La Chiesa, Sacramento universale di salvezza (II)
P. Giuseppe Cardamone, msp (italiano)
Nell’articolo precedente facevamo osservare che la Chiesa
è “Sacramento” soltanto grazie a Cristo, che la riempie del
Suo Spirito, e non può realizzarsi come tale indipendentemente da Lui. Abbiamo anche riportato le citazioni più
importanti che il Concilio Ecumenico Vaticano II fa al riguardo, tratte dalla Lumen Gentium (nn. 1, 9, 48) e dalla
Gaudium et Spes (n˚ 45).
Ci accingiamo dunque a fare un commento a dette citazioni, come introduzione al tema della Chiesa “Sacramento”.
Per questo motivo, sarebbe utile avere alla mano i testi
citati nel precedente articolo (LG1, LG9, LG48 e GS45).
Fatte queste premesse, dalle citazioni sopra riportate deduciamo ciò che segue:
• La Chiesa non è essenzialmente sacramento, ma è “in Cristo in qualche modo un sacramento”, dice LG1. Ciò vuol dire
che il concetto di sacramento è applicato alla Chiesa in modo
analogico, perché trova in Cristo stesso la realizzazione piena:
Cristo è il vero sacramento del Padre; è attraverso la sua umanità santissima, unita alla seconda Persona della Santissima
Trinità, che la grazia raggiunge il mondo, trasfigurandolo.
È da essa che hanno origine i sette sacramenti, grazie ai quali la Chiesa è resa come un sacramento nel suo essere e nel
suo agire. La similitudine della Chiesa ai sacramenti sta nel
fatto che è allo stesso tempo frutto della grazia divina (segno
dell’azione di Dio) e strumento perché la stessa si espanda
a tutti gli uomini. La Chiesa è frutto dell’iniziativa divina,
grazie a Dio Padre che la riunisce in un solo Spirito intorno
all’Eucaristia, convocandola da tutti i popoli. Ma, insito alla
natura stessa del dono ricevuto, sta il fatto che Dio invia
la Chiesa a tutto il mondo, rendendola così strumento della redenzione (LG9). LG1 guarda a questa grazia, di cui la
Chiesa è segno e strumento, soprattutto come unità: nella
Chiesa popoli diversi trovano l’unità attraverso un’unione
sempre più intima con il Padre di misericordia, al quale in
Cristo abbiamo accesso in un solo Spirito (Ef 4,32).
La Chiesa, famiglia dei figli di Dio, è già tutt’ora il segno di
ciò che sarà nei secoli futuri: “Diventeranno un solo gregge
e un solo pastore” (Gv 10,16). È anche importante notare
che il concetto di “Chiesa Sacramento” viene proposto dai
Padri del Concilio all’inizio della Lumen Gentium, come ad
indicare che è questa la chiave per meglio comprendere l’essenza della Chiesa. La parola sacramento, infatti, descrive
allo stesso tempo l’essere della Chiesa (unita a Cristo, relativa a Cristo, piena dello Spirito) e la sua natura dinamica e
missionaria (germe del popolo di Dio, strumento di unità e
di redenzione del genere umano).
• LG9 sottolinea che la Chiesa, sacramento di Cristo, non è
una realtà immaginaria, spirituale o semplicemente futura,
ma è una realtà già presente e operante nell’oggi del mondo,
dato che è visibile ed ha nel Successore di Pietro e Vescovo
di Roma il segno principale di questa visibilità. La Chiesa
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sacramento universale di salvezza è la Chiesa Cattolica governata dal Successore di Pietro, oggi papa Francesco.
LG9 inoltre sottolinea che l’unità alla quale la Chiesa punta
è salvifica. Non è una semplice unione sociale o morale. È
piuttosto un’unione spirituale, realizzata dallo Spirito Santo
che, vivente ed operante in ogni figlio di Dio, rende la chiesa
dinamica, come l’anima dà vita al corpo. Detta unità può essere pertanto espressa come unione del genere umano in Dio
e con Dio, per mezzo del Suo Figlio Gesù, in un solo Spirito.
• LG48 sottolinea esplicitamente il carattere universale e
quindi missionario dell’influsso sacramentale della Chiesa
volto ad unificare l’umanità. La Chiesa è sacramento per il
mondo intero, per l’universo creato (nello spazio e nel tempo); la Chiesa è piena dello Spirito Santo, Spirito del Risorto, perché il mondo intero sia trasfigurato dalla sua azione
che trasfigura l’uomo facendolo un altro Cristo, dandogli i
tratti spirituali del Figlio di Dio. Questo Spirito trasfigurante
è dato alla Chiesa visibile, guidata dagli Apostoli e dai loro
successori, i vescovi con a capo il vescovo di Roma. Ancora
una volta, tramite il riferimento agli Apostoli, si mette in
luce che non si tratta di una metafora: si sta parlando della
Chiesa di Cristo operante nel mondo, la Chiesa Cattolica. Si
mostra inoltre che è lo Spirito Santo l’autore principale della
virtualità sacramentale della Chiesa e che tale virtualità si
realizza in virtù dell’unione della Chiesa stessa con Cristo.
È solamente in quanto suo Corpo, vivificato dallo Spirito
Santo, che la Chiesa acquisisce detta virtualità.
• È interessante notare che è l’azione congiunta di Cristo
e dello Spirito ciò che costituisce la Chiesa Sacramento;
un’azione che, considerata dal punto di vista di Cristo, è
detta unificante; mentre, considerata da quello dello Spirito,
è detta salvifica. Unità e salvezza sono quindi attribuite a
Cristo e allo Spirito, rispettivamente, anche se in realtà la
loro è un’azione sempre congiunta: Cristo dona lo Spirito
di salvezza; e lo Spirito, a sua volta, cristifica, ci riunisce
in un solo Corpo, in un’azione congiunta che ci rende figli
dell’unico Padre.
• L’affermazione di GS45 è di una tale portata teologica e
spirituale che merita di essere approfondita con più attenzione, per cui torneremo a parlarne. Dalla sua comprensione
dipende l’azione pastorale della Chiesa e dipendono anche,
in molti aspetti, la vita spirituale del cristiano e la comprensione della presenza della Chiesa nel mondo. Infatti, l’affermare che tutto ciò che la Chiesa ha da offrire al mondo
dipende dal suo essere sacramento universale di salvezza
mette in chiara luce un fatto essenziale: la Chiesa è portatrice di Cristo e del Suo Spirito; la Chiesa, ancora oggi come
duemila anni or sono, si dirige all’umanità dolente con le
stesse parole di Pietro: “Non possiedo né argento né oro, ma
quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (Atti 3,6).
Ut unum sint!
Riflessione Morale
Il peccato uccide!
P. Agustin Delouvroy, msp (belga)
Ciò che chiamiamo “peccato” non dovrebbe essere oggetto di derisione. Ringraziamo le ditte produttrici di sigarette quando ci avvertono che “fumare uccide”. Molto più
dobbiamo ringraziare quelli che ci aiutano a smascherare
la realtà del peccato, avvertendoci che il peccato mortale
uccide.
• La vita cristiana non è altro che - una volta generati
dalla grazia di Dio che ci fa suoi figli nel suo Figlio Unico
che è Gesù - pensare, parlare e agire come farebbe Gesù
se stesse al nostro posto. Certe cose Gesù non le farebbe
mai. Non pensiamo, dunque, che tutto fa lo stesso e che
l’essere umano è qualcosa senza senso in mezzo al creato.
Riconosciamo che dobbiamo ubbidire alla voce di Dio nel
nostro cuore. Senza di essa, la nostra libertà è cieca e noi
non sappiamo quello che ci conviene.
• Ci sono atti che non possiamo commettere senza voltare
le spalle a Dio: li chiamiamo peccati mortali. “Il peccato
mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come
lo stesso amore” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n˚
1861). Parliamo di peccato mortale quando “la volontà si
orienta verso una cosa di per sé contraria alla carità dalla
quale siamo ordinati al fine ultimo” (Ibidem, n˚ 1856). È
un rifiuto del piano amoroso di Dio su tutte le cose, in un
tema particolarmente grave, per mezzo di un atto cosciente
e libero, come vedremo più in dettaglio qui di seguito.
• Il peccato mortale produce la morte in noi e intorno a
noi, ci separa da Dio che è la Vita, ci priva della sua grazia
e del dono della carità. La Sacra Scrittura ci parla di peccati
che causano la morte (Gc 1, 15) ed escludono dal Regno dei
Cieli (Gal 5, 19-21; 1Cor 6, 9-10; Rom 1, 28-32). “Se non è
riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l’esclusione dal regno di Cristo e la morte eterna dell’inferno”
(Catechismo della Chiesa Cattolica, n˚ 1861).
• “Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è lui che
mi ama” (Gv 14, 21). “Il peccato mortale che si oppone
a Dio non consiste soltanto nel rifiuto formale e diretto
del comandamento della carità” (Congregazione per la
Dottrina della Fede. Dichiarazione “Persona Humana”, n˚
10). “Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo,
sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa
di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è
già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione”
(Giovanni Paolo II. Esortazione Apostolica “Reconciliatio
et Paenitentia”, n˚ 17). Amare Dio significa osservare i
comandamenti.
• Di fronte alla realtà del peccato mortale dobbiamo essere
vigilanti, ma non ci succederà di commettere un peccato
mortale per distrazione. Per commettere un peccato mortale, si devono dare tre condizioni tutte insieme (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1857-1859):
1. Materia grave. Non ogni atto cattivo è grave, e nemmeno è ugualmente grave; ma neppure una cosa vale l’altra.
Nel male si possono dare diversi gradi di gravità. Ci sono
perfino atti la cui materia è sempre grave, indipendentemente dal soggetto che agisce e dalle circostanze in cui
questi agisce. Esistono anche peccati che rivestono una
gravità estrema, per la loro speciale pericolosità e malvagità: sono i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio
(cfr. Gn 4, 10; Gn 19, 13; Es 22, 22; Dt 24, 14 y Gc 5, 4) e
i peccati contro lo Spirito Santo (cfr. Mt 12, 31-32 e Catechismo della Chiesa Cattolica, n˚ 1864).
Come i bambini piccoli hanno bisogno di qualcuno che
insegni loro a scoprire che il fuoco può causare loro una
grave scottatura o che è male rubare, così noi abbiamo bisogno dell’aiuto della retta ragione, della Sacra Scrittura
e del Magistero ecclesiale per conoscere ciò che è gravemente peccaminoso. La guida di base la troviamo nei dieci
comandamenti (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n˚
1858).
2. Piena consapevolezza. Bisogna sapere cosa si sta facendo. Questo non vuol dire che sia necessario poter dare
una spiegazione magistrale di quanto si fa. Basta conoscere il carattere gravemente peccaminoso dell’atto, la sua radicale opposizione alla legge di Dio (cfr. Catechismo della
Chiesa Cattolica, n˚ 1859).
3. Deliberato consenso. Il peccato mortale è sempre frutto di una volontà che può decidere liberamente e normalmente. Si tratta sempre di una scelta personale, anche se
non richiede necessariamente una minuziosa ponderazione
(cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n˚ 1859). Il pieno
consenso non esige una malizia speciale della volontà, e
nemmeno un sentimento di odio verso Dio. Per commettere un peccato mortale basta che l’uomo voglia un atto che
oggettivamente è grave.
- Quando ci affacciamo umilmente alla realtà del peccato
mortale, nel nostro cuore sgorga questa invocazione: “Signore, abbi misericordia di noi e del mondo intero”. Il
Vangelo ci insegna che il Cuore del Padre si commuove
davanti a questa invocazione, perfino prima ancora di sentirla pronunciare (cfr. la parabola del figlio prodigo in Lc
15, 11-31). E Gesù istituì il sacramento della confessione,
aprendo per ognuno la fonte della misericordia.
“Il peccato mortale (…) richiede una nuova iniziativa della
misericordia di Dio e una conversione del cuore, che normalmente si realizza nel sacramento della Riconciliazione” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n˚ 1856). Chi si
pente del peccato mortale desidera ricevere il sacramento
della confessione e non si accosta alla Santa Comunione
prima di averlo ricevuto. Cristo non giustificò il fariseo,
che presumeva di essere senza colpa, bensì il pubblicano
che confessava i suoi peccati (cfr. Lc 18, 9-14).
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Ut unum sint!
Riflessione Spirituale
Sequela e imitazione di Cristo
1. Chiamata divina e risposta umana
P. José Carlos Eugénio, msp (portoghese)
Per sua propria natura, la chiamata universale e personale di Gesù a seguirlo e imitarlo suppone ed esige
che si faccia sentire nel profondo dell’anima umana una
voce “silenziosa”, la voce di Dio che invita: “Seguimi!”
(Mt 9, 9).
Sono svariatissimi i modi in cui questa voce si manifesta e viene avvertita. “Ma si badi che questa voce del
Signore che chiama non va affatto attesa come se dovesse giungere all'orecchio del futuro presbitero in qualche
modo straordinario (…). Essa va piuttosto riconosciuta
ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni
giorno il Signore per far capire la sua volontà ai cristiani
che sanno ascoltare” (Concilio Ecum. Vaticano II. Decreto “Presbyterorum Ordinis”, n˚ 11). Questo significa
che Dio raramente chiama per mezzo di segni straordinari, e che perfino le chiamate straordinarie e sconcertanti sono frequentemente preparate e rese possibili
dall’ascolto delle indicazioni della vita ordinaria e dalla
fedeltà ad esse.
Samuele fu diligente nel fare attenzione alla Parola che
Dio gli rivolgeva, perché viveva in un atteggiamento
abituale di ascolto e di obbedienza al sommo sacerdote
Eli (1Sam 3, 1-21). La stessa cosa avvenne con Abramo,
quando Dio gli apparve, vestito da pellegrino, accanto
alle Querce di Mamre (Gn 18, 1-10): egli lo accolse semplicemente, seguendo la voce del buon senso e della
tradizionale ospitalità; ciò gli permise d’incontrare Dio,
che gli annunciò il compimento della promessa che gli
aveva fatto: la nascita di suo figlio Isacco.
Nemmeno la chiamata di san Paolo, che risulta essere
una delle più straordinarie e impressionanti sfugge a
questa legge. Egli, infatti, perseguitava i cristiani per il
suo attaccamento alla Legge mosaica, convinto di essere così gradito a Dio, e certamente aveva, almeno fondamentalmente, un atteggiamento di disponibilità ad
ascoltare la sua voce. Lo confessa egli stesso, anche se
solo indirettamente: “Prima ero stato bestemmiatore, persecutore e violento. Però ottenni misericordia avendo fatto ciò
nell’ignoranza, quando mi trovavo ancora nell’incredulità”
(1Tim 1, 13).
Secondo la dottrina paolina, la voce di Gesù che chiama si manifesta, ordinariamente, in due modi diversi,
ma convergenti (cfr. Rom 10, 14): uno interiore, quello della grazia, e l’altro esteriore, sensibile e concreto.
Gesù chiama per mezzo di qualche avvenimento ordinario che suscita nel nostro animo un’emozione privilegiata, che può essere provocata materialmente ed esteriormente, per esempio, da una celebrazione liturgica,
un ritiro o una lettura spirituale, una disgrazia, una
malattia, un lutto, ecc. Normalmente questo non viene
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avvertito dagli altri, ma solo dall’interessato, il quale,
per mezzo di questo fatto, si sente chiamato, orientato
e come spinto interiormente a seguire e imitare il Signore.
La sequela e l’imitazione di Cristo non sono un’opera
semplicemente nostra.
Sono anzitutto un’opera dello Spirito Santo; sono qualcosa di troppo grande, perché divino, per noi, troppo
piccoli: questo tesoro “lo abbiamo in vasi di creta, affinché
appaia che questa potenza straordinaria proviene da Dio e
non da noi” (2Cor 4, 7).
Però la chiamata di Dio, in un secondo momento, esige
una risposta da parte nostra.
E, quanto più generosa è la nostra risposta, in altrettanta maggior misura gli esempi e le parole di Gesù
diventano vita in noi, si trasformano in atteggiamenti,
in scelte, in gesti, in testimonianza. Si tratta di offrire sé
stessi come l’argilla che va modellata, perché il nostro
Dio è come il vasaio: “Come la creta nelle mani del vasaio,
così siete voi nella mia mano (…) Ritorni ciascuno dalla sua
strada malvagia, così che possiate migliorare la vostra condotta e le vostre azioni” (Ger 18, 6.11).
Nella nostra vita terrena, Dio ci dà sempre la possibilità di scegliere tra la risposta positiva e la risposta
negativa alla sua chiamata.
La risposta positiva dev’essere pronta, incondizionata ed
esclusiva, anche se ammette certe obiezioni, perché la persona chiamata conosce i propri limiti. Per esempio, Mosè
ricorda che tartaglia (cfr. Es 4, 10); Gedeone allude alla sua
condizione modesta (cfr. Gdc 6, 15); Geremia adduce di essere troppo giovane (cfr. Ger 1, 6); Pietro confessa la propria
condizione di peccatore (cfr. Lc 5, 8); ma, in fin dei conti, tutti
finiscono per rispondere di sì.
La risposta negativa consiste nel respingere esplicitamente Cristo e la sua chiamata. Nel Vangelo, questa
risposta la troviamo esemplificata nell’episodio del
giovane ricco: “Il giovane se ne andò afflitto, perché aveva
molte ricchezze” (Mt 19, 22).
Però, tra ambedue le risposte (la positiva e la negativa), c’è spesso e in certi cristiani una situazione intermedia, cioè un indugio, un dubbio o una indecisione
nel rispondere.
Fu il caso dei cristiani della Chiesa di Laodicea, che
non erano né freddi né caldi, ma tiepidi. Se non si esce
da questa nefasta situazione, l’anima rimane schiava
della tiepidezza, cioè della mediocrità.
Ci furono dei grandi santi che passarono per questo stato: sant’Agostino (cfr. Confessioni, VIII, 11) e santa Teresa
di Gesù (cfr. Libro della Vita, 8 § 2), tanto per citare due
dei più conosciuti. Ma riuscirono a superare questa situazione.
Ut unum sint!
Riflessione Vocazionale
Gli oblati (IV)
P. Álvaro Gómez Fernández, msp (spagnolo)
Incominciamo ricordando che, allo scopo di studiare le
diverse categorie di membri dei Missionari Servi dei Poveri del Terzo Mondo (MSPTM), per mezzo di questi articoli sul tema della vocazione cerchiamo di approfondire materie che, anche se riguardano più direttamente la
“categoria” di cui ci stiamo occupando, sono utili ad ogni
battezzato. Abbiamo già spiegato che nella categoria degli
“oblati”, considerati nel modo più semplice e immediato, rientrano quelle persone ammalate, anziane, carcerate,
ecc., che offrono le loro sofferenze per noi MSPTM e per i
poveri che serviamo. Per questo motivo, negli ultimi articoli abbiamo già parlato della responsabilità di collaborare
all’opera della Redenzione (cfr. articolo ‘Oblati’-I), responsabilità che, grazie al sacerdozio comune di cui partecipano tutti i battezzati (cfr. art. ‘Oblati’-II), abbiamo ricevuto
di fare della nostra vita una continua e totale oblazione a
Dio per le necessità della sua Chiesa, offrendogli soprattutto le nostre sofferenze (cfr. art. ‘Oblati’-III).
In questo articolo (IV) e nel prossimo (V), cercheremo di
riflettere proprio sul valore di questa sofferenza. Ci rendiamo conto che il Vangelo è pieno di grandi paradossi
che, se non sono “digeriti” nella prospettiva della fede,
rischiano di risultarci “indigesti”: per Vivere bisogna morire; se uno vuole essere grande deve farsi piccolo (cfr. Mt
18, 2-4); chi vuol essere il primo cerchi l’ultimo posto (cfr.
Mc 10, 44); per trovare se stessi è necessario dimenticare
se stessi; per guadagnare la Vita bisogna perderla (cfr. Mc
8, 35); quando sono debole è proprio allora che sono forte (cfr. 2Cor 12, 10)... Tra questi paradossi, uno che risulta particolarmente “indigesto” per le menti più razionaliste è il seguente: la gioia nella sofferenza. Un esempio
di questo, anche se non l’unico, sono le Beatitudini (cfr.
Mt 5, 3-12), che alcuni non hanno dubitato di considerare come “il riassunto di tutto il Vangelo”. È logico che la
nostra natura tenda a respingere il dolore. Infatti, l’istinto
di conservazione occupa uno dei primi posti tra i nostri
istinti naturali fondamentali. La gioia nella sofferenza sarebbe, pertanto, qualcosa “contro-Natura” (masochismo,
ecc.), ma non “contro il Soprannaturale”, e potrebbe essere
compresa e apprezzata unicamente nella prospettiva della
fede e dell’amore verso Dio. Così, nell’unione con Cristo,
la sofferenza si trasforma nel tesoro più prezioso; ciò che
porta San Paolo ad assicurare che si rallegra dei suoi patimenti (cfr. 2Cor 12, 9-10), pur riconoscendo che la croce
è uno scandalo e una stoltezza per i non credenti, mentre
per i credenti è forza e sapienza di Dio (cfr. 1Cor 1, 23-25).
E la mentalità edonista moderna (ricerca smisurata del
benessere, del piacere, evitando ad ogni costo qualsiasi
sofferenza) non aiuta affatto in questo aspetto. Conseguentemente -e in modo controproducente- si insedia uno
strumento di morte e distruzione: eliminare i feti “Down”,
i malati terminali, gli anziani inebetiti… con la cinica scusa di una falsa compassione: “Affinché non soffrano”!...
Guarda un po’!... Non sarà piuttosto “affinché non mi
diano più fastidio”?... La cosa peggiore è che a noi stessi, credenti, poco a poco aderisce (coscientemente o no)
questa tendenza a rifiutare il dolore, la croce, forse non in
teoria (dove possiamo avere idee chiare al riguardo), ma
nella pratica sì. Non è forse vero? Ti faccio una prova (solo
una); rispondimi sinceramente: hai mai chiesto nemmeno
una volta a Dio il “perché” di qualcosa che ti ha fatto soffrire? O, incluso, ci sono stati dei periodi nella tua vita in
cui questo chiedere “il perché” occupava - e forse continua ancor oggi a occupare - “il posto esclusivo” nella tua
relazione con Lui? Ti ho preso in fallo! Sì, poiché questo
“chiedere il perché” non è altro che un modo mascherato
di rifiutare la Croce.
Permettimi un consiglio (imparato soffrendo “sulla mia
pelle”): MAI, MAI, MAI (la ripetizione non è un errore di
stampa) mai chiedere a Dio “il perché”. Come dice anche
San Paolo, al diavolo piace mascherarsi da angelo di luce
(cfr. 2Cor 11, 14) e molte volte, se non sappiamo vedere subito il suo subdolo assalto, possiamo almeno discernere i
suoi frutti (cfr. Mt 7, 20; Gal 5, 19-26): ansietà, rifiuto di Dio,
disperazione (che secondo San Tommaso d’Aquino, forse
non è il peccato più grave moralmente, ma il più pericoloso sì) a cui ci porta il chiedere “il perché”. Ma (seconda
parte del consiglio personale) se, invece di reclamare diffidente con Dio chiedendogli spiegazioni, sostituisci questo
“perché, Signore?” con un “grazie, Signore!”, ti assicuro
che i frutti saranno molto diversi. (“Questo tipo è impazzito”, diranno di me alcuni; eppure, preferisco essere un
pazzo felice, che non un sano di mente amareggiato!).
È vero che, all’inizio, i primi frutti sono forse un mal di
testa e un grande peso sullo stomaco, per la “violenza”
che dovrai fare a te tesso; però, se dentro di te, a questo
“grazie, Signore!” aggiungi che, anche se non comprendi
ciò che sta succedendo, ti fidi di Lui, speri o - meglio ancora - sei convinto che Lui sa ricavare il meglio dal peggio
(cfr. Rom 8, 28), ti garantisco che, per questa tua FIDUCIA
assoluta in Dio, Lui colmerà il tuo cuore di un’ondata di
pace e di serena allegria. Dio ti benedica! Prega per me.
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OPUS CHRISTI SALVATORIS MUNDI
“Missionari Servi dei Poveri del Terzo Mondo”
Costituiti da diverse realtà missionarie (sacerdoti e fratelli consacrati, religiose, matrimoni impegnati, sacerdoti e fratelli specialmente dedicati alla vita di preghiera e alla
contemplazione, soci, oblati, collaboratori, Gruppi d’Appoggio) che condividono il
medesimo carisma e si rifanno allo stesso fondatore.
OPUS CHRISTI
SALVATORIS MUNDI
Formato dai membri del Movimento dei Missionari Servi dei Poveri del Terzo Mondo chiamati a seguire un cammino di consacrazione
più profonda, con le caratteristiche della vita
comunitaria e la professione dei consigli evangelici secondo la propria condizione.
GRUPPI D’APPOGGIO
DEL MOVIMENTO
Hanno la finalità di approfondire e diffondere il nostro carisma, lavorando per la conversione di tutti i membri per mezzo dell’organizzazione di incontri periodici. I membri
sono considerati SOCI.
OBLATI
Ammalati o carcerati che offrono le loro sofferenze per i poveri del Terzo Mondo, come pure
tutti coloro che hanno accolto e fatto proprio
nella vita il carisma dei Missionari Servi dei Poveri del Terzo Mondo.
Missionari
Servi dei
Poveri del
Terzo Mondo
COLLABORATORI
Ogni uomo di buona volontà che voglia innamorarsi sempre di più dei poveri.
Gli interessati scrivano a:
MISSIONARI SERVI DEI POVERI DEL TERZO MONDO - ONLUS
CASELLA POSTALE 220 - 26900 LODI - Italia
Tel. (02) 9810260 - Fax (02) 98260273 - Cell. P. Walter 3351823251 - e-mail: [email protected]
MISIONEROS SIERVOS DE LOS POBRES DEL TERCER MUNDO
CUZCO: P.O. Box 907 - Cuzco - Perù
Tel. 0051 95 6949389 - 0051 98 4032491 - e-mail [email protected]
www.msptm.com
Con approvazione ecclesiastica