SENTENZA CORTE GIUST. UE SEZ. II 24 ARABADJIEV DROZDOVS BALTIKUMS AAS OTTOBRE 2013 C-277/12 PRES. SILVA DE LAPUERTA REL. Assicurazione obbligatoria r.c. auto - Incidente stradale - Decesso dei genitori del richiedente minorenne - Diritto del figlio al risarcimento - Danno immateriale - Risarcimento - Copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria. 72/166/CEE 84/5/CEE 90/232/CEE DIRETTIVE Assicurazione obbligatoria r.c. auto - Incidente stradale - Decesso dei genitori del richiedente minorenne - Diritto del figlio al risarcimento - Danno immateriale - Risarcimento - Copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria. 1. Gli articoli 3, paragrafo 1, della Direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda Direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime decedute in un incidente stradale nei limiti in cui tale risarcimento sia previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia oggetto del procedimento principale. 2. Gli articoli 3, paragrafo 1, della Direttiva 72/166 e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda Direttiva 84/5 devono essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile, per il decesso di un prossimo congiunto in un incidente stradale solo sino a concorrenza di un massimale inferiore agli importi fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della Direttiva 84/5. Sentenza 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GU L 103, pag. 1; in prosieguo: la « prima direttiva »), nonché dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU 1984, L 8, pag. 17; in prosieguo: la « seconda direttiva »). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Drozdovs, rappresentato dalla sig.ra Balakireva, e la Baltikums AAS (in prosieguo: la « Baltikums »), società di assicurazioni, in merito al risarcimento da parte di quest’ultima, a titolo di responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, dei danni morali subiti dal sig. Drozdovs derivanti della morte dei suoi genitori in un incidente stradale. Contesto normativo responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.1 ⎪ Il diritto dell’Unione 3. L’articolo 1 della prima direttiva così enuncia: « Ai sensi della presente direttiva, s’intende per: (...) 2. persona lesa: ogni persona avente diritto alla riparazione del danno causato da veicoli; (...) ». 4. L’articolo 3, paragrafo 1, della prima direttiva prevede quanto segue: « Ogni Stato membro adotta tutte le misure necessarie (...) affinché la responsabilità civile relativa alla circolazione dei veicoli che stazionano abitualmente nel suo territorio sia coperta da un’assicurazione. I danni coperti e le modalità dell’assicurazione sono determinati nell’ambito di tali misure ». 5. L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva così recita: « 1. L’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva] copre obbligatoriamente i danni alle cose e i danni alle persone. 2. Salvo importi maggiori di garanzia eventualmente prescritti dagli Stati membri, ciascuno Stato membro esige che gli importi per i quali tale assicurazione è obbligatoria ammontino: — per i danni alle persone, ad almeno [EUR] 350 000 quando vi sia una sola vittima; quando vi siano più vittime implicate in uno stesso sinistro questo importo si moltiplica per il loro numero, per i danni alle cose, ad almeno [EUR] 100 000 per ciascun sinistro indipendentemente dal numero delle vittime. Gli Stati membri possono prevedere, in sostituzione degli importi minimi di cui sopra, un importo minimo di [EUR] 500 000 per i danni alle persone, qualora vi siano più vittime di uno stesso sinistro ovvero, per i danni alle persone e alle cose, un importo minimo globale di [EUR] 600 000 per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime o dalla natura dei danni ». 6. L’articolo 1, primo comma, della terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU L 129, pag. 33; in prosieguo: la « terza direttiva »), dispone che « l’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva] copre la responsabilità per i danni alla persona di qualsiasi passeggero, diverso dal conducente, derivanti dall’uso del veicolo ». Il diritto lettone 7. L’articolo 15 della legge relativa all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei proprietari di autoveicoli, [Sauszemes transportlīdzekļu īpašnieku civiltiesiskās atbildības obligātās apdrošināšanas likums, Latvijas Vēstnesis, 2004, n. 65 (3013)], nella sua versione in vigore alla data dei fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: la legge « OCTA »), intitolato « Limite della responsabilità dell’assicuratore », così disponeva: « (1) In caso di sinistro, l’assicuratore che ha preso in carico l’assicurazione della responsabilità civile del proprietario del veicolo che ha causato l’incidente o il consorzio delle imprese di assicurazione degli autoveicoli (qualora sia il Fondo di garanzia che debba corrispondere l’indennizzo) risarcisce il danno, nei limiti della responsabilità dell’assicuratore: 1) sino a 250 000 lats [lettoni (LVL)] per ciascuna vittima di un danno alla persona; 2) sino a [LVL] 70 000 per danno alle cose, a prescindere dal numero dei terzi, vittime del sinistro. (2) I terzi possono richiedere un risarcimento, secondo il diritto comune, per i danni non risarciti ai sensi della presente legge o che superino i limiti della responsabilità dell’assicuratore ». 8. L’articolo 19 della legge OCTA, intitolato « Danni alle persone », così enunciava: « (1) Si considerano danni materiali causati alle vittime implicate in un incidente stradale: 1) le spese per cure mediche; 2) l’incapacità lavorativa temporanea; 3) l’invalidità lavorativa definitiva; 4) la morte. ⎪ P.2 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore (2) Per danni immateriali si intendono i danni collegati a dolori e patimenti psicologici, vale a dire: 1) il trauma fisico subito dalla vittima; 2) la mutilazione o l’invalidità della vittima; 3) il decesso della persona da cui si dipende economicamente, di una persona a carico o del coniuge; 4) l’invalidità del gruppo 1 della persona dalla quale si dipende, di una persona a carico o del coniuge. (3) L’importo e le modalità di calcolo dei risarcimenti assicurativi dei danni materiali e immateriali causati alle persone sono fissati dal Consiglio dei Ministri ». 9. L’articolo 23 della legge OCTA, intitolato « Danni conseguenti al decesso della vittima », così recitava: « (1) Hanno diritto a un risarcimento assicurativo in caso di morte della persona dalla quale dipendono: 1) i figli, anche adottivi: a) fino alla loro maggiore età, (...) ». 10. L’articolo 5 del codice civile, nella sua versione in vigore alla data dei fatti di cui al procedimento principale (Civillikums, Latvijas Republikas Saeimas un Ministru Kabineta Ziņotājs, 1993, n.1), nella sua versione in vigore alla data dei fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: il « codice civile »), disponeva quanto segue: « Quando una controversia è decisa secondo equità o secondo diritto, il giudice statuisce ai sensi dei principi generali di diritto ». 11. L’articolo 1635 del codice civile così enunciava: « Ogni danno ingiusto, vale a dire ogni fatto illecito, attribuisce a chi ne è stata la vittima il diritto di chiedere un risarcimento a colui che l’ha posto in essere, nei limiti in cui tale azione gli possa essere imputata ». 12. L’articolo 2347 del codice civile prevedeva quanto segue: « Se una persona cagiona, con un atto che le è imputabile e che è illecito, un danno fisico a un’altra persona, essa deve risarcire a quest’ultima persona le spese mediche e, secondo la valutazione del giudice, gli eventuali mancati guadagni. Chi esercita un’attività di elevata pericolosità per chi gli stia attorno (trasporto, industria, lavori di costruzione, sostanze pericolose, etc.) è obbligato a risarcire i danni conseguenti da tale pericolosità se non può dimostrare che il danno sia stato dovuto a forza maggiore, a colpa della vittima o a grave negligenza. Qualora il controllo della fonte di pericolosità sia sfuggito al proprietario, al detentore o all’utilizzatore, senza che ciò corrisponda a un suo errore, a causa del fatto illecito di un’altra persona, quest’ultima è responsabile del danno cagionato. Se anche il detentore (proprietario, possessore, utilizzatore) ha agito in modo illecito, è possibile invocare la responsabilità per il danno cagionato tanto della persona che ha utilizzato l’oggetto, fonte di elevata pericolosità, quanto del suo detentore, secondo il grado di colpa di ciascuno ». 13. Ai sensi dell’articolo 22 del codice di procedura penale [Kriminālprocesa likums, Latvijas Vēstnesis, 2005, n.74 (3232)], intitolato « Diritto al risarcimento del danno subito »: « Il diritto di chiedere e ottenere di diritto il risarcimento dei danni morali e patrimoniali è garantito alla persona che ha subito un danno derivante da un fatto illecito, compresi i danni morali, le lesioni fisiche e i danni ai beni ». 14. Gli articoli 7 e 10 del decreto n.331 del Consiglio dei Ministri, relativo all’importo e alle modalità di calcolo dei risarcimenti assicurativi per i danni morali cagionati alle persone (Noteikumi par apdrošināšanas atlīdzības apmēru un aprēķināšanas kārtību par personai nodarītajiem nemateriālajiem zaudējumiem), del 17 maggio 2005 [Latvijas Vēstnesis, 2005, n.80 (3238); in prosieguo: il « decreto »)], che attuano l’articolo 19, paragrafo 3, della legge OCTA, enunciano quanto segue: « Articolo 7 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.3 ⎪ L’importo dei risarcimenti assicurativi per dolori e patimenti psicologici conseguenti al decesso di una persona da cui si dipende economicamente, di una persona a carico o del coniuge è pari a [LVL]100 per ciascun richiedente e per persona ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 1, della legge relativa all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei proprietari di autoveicoli. (...) Articolo 10 L’importo totale dei risarcimenti assicurativi è limitato a [LVL]1000 per ciascuna vittima d’incidente stradale se tutti i danni di cui ai punti 3, 6, 7 e 8 sono risarciti ». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 15. Il 14 febbraio 2006 i genitori del sig.Drozdovs sono deceduti in un incidente stradale avvenuto a Riga (Lettonia). Il sig.Drozdovs, che è nato il 25 agosto 1995, è stato, di conseguenza, posto sotto la tutela della sig.raBalakireva (in prosieguo: la « tutrice »). 16. Tale incidente è stato causato dal conducente di un’auto assicurata con la Baltikums. L’autore del predetto incidente, che si trovava in stato di ubriachezza, che guidava a eccessiva velocità un veicolo in cattive condizioni dal punto di vista tecnico e che aveva effettuato, al momento di detto incidente, una manovra di sorpasso pericolosa, è stato condannato con sentenza penale a sei anni di pena detentiva e alla sospensione della patente di guida per autoveicoli per cinque anni. 17. Il 13 dicembre 2006 la tutrice ha informato la Baltikums dell’incidente e ha invitato quest’ultima a corrispondere gli indennizzi previsti, tra cui quello dovuto a titolo di danni morali, che era stato calcolato in LVL200000. Il 29 gennaio 2007 la Baltikums ha versato, conformemente all’articolo 7 del decreto, una somma di LVL200 a titolo di risarcimento delle sofferenze psicologiche sopportate dal sig.Drozdovs, nonché un importo di LVL4497,47 a titolo di danni patrimoniali, che non è oggetto di controversia. 18. Il 13 settembre 2007 la tutrice ha proposto, nei confronti della Baltikums, un ricorso diretto al versamento di un’indennità pari a LVL200000 a titolo di danni morali subiti dal sig.Drozdovs. Tale ricorso, che era motivato sul fatto che la morte dei genitori ha causato al sig.Drozdovs sofferenze piscologiche a motivo della sua giovane età, si fondava sugli articoli 15, paragrafo 1, primo comma, 19, paragrafo 2, terzo comma, e 39, paragrafi 1 e 6, della legge OCTA, nonché sull’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. 19. Essendo stati respinti il predetto ricorso e l’impugnazione proposta dalla tutrice, segnatamente sulla base dell’articolo 7 del decreto, quest’ultima ha proposto un ricorso in cassazione dinanzi al giudice del rinvio, chiedendo l’annullamento della sentenza pronunciata dal giudice d’appello e il rinvio della causa a tale giudice per un nuovo esame. 20. Con il predetto ricorso, la tutrice ha fatto valere in particolare che il giudice d’appello aveva erroneamente applicato l’articolo 15, paragrafo 1, primo comma, della legge OCTA, in quanto tale disposizione dovrebbe essere interpretata in conformità, segnatamente, della prima e della seconda direttiva. Orbene, risulterebbe da tale normativa dell’Unione che uno Stato membro non può fissare limiti del risarcimento inferiori agli importi minimi previsti all’articolo 1 della seconda direttiva. Ne conseguirebbe che l’articolo 7 del decreto viola i limiti del risarcimento fissati all’articolo 15, paragrafo 1, primo comma, della legge OCTA e dalle direttive summenzionate. 21. Il giudice del rinvio rileva che l’articolo 1 della seconda direttiva fissa un importo di garanzia obbligatorio per i danni alle persone e i danni alle cose, ma non prende in considerazione direttamente i danni morali causati alle persone. Inoltre, la Corte avrebbe riconosciuto che la prima e la seconda direttiva non sono dirette ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli Stati membri, per cui questi ultimi rimarrebbero liberi di determinare il regime applicabile agli incidenti stradali. Se ne potrebbe dedurre che le direttive interessate non riguardino l’importo del risarcimento dei danni morali causati alle persone. 22. Tuttavia, il giudice del rinvio ritiene che sarebbe del pari possibile affermare che le predette direttive ostano a normative degli Stati membri che fissino un limite massimo a un regime di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli. ⎪ P.4 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore Infatti, la finalità di tale assicurazione sarebbe di risarcire, almeno parzialmente, a favore delle vittime di incidenti stradali i danni che possono essere valutati in modo oggettivo, segnatamente i danni causati alle cose e alle persone, compresi i danni morali. 23. Inoltre, la Corte avrebbe dichiarato che le direttive interessate vietano sia di rifiutare o di limitare in modo sproporzionato il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di incidenti stradali, sia di prevedere importi minimi di garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. 24. Orbene, il giudice del rinvio osserva anche che un sistema di assicurazione della responsabilità civile efficace deve mirare a conciliare i diversi interessi delle vittime di incidenti stradali, dei proprietari di autoveicoli e delle loro imprese assicuratrici. Limiti di risarcimento chiari garantirebbero alle vittime gli indennizzi previsti per i danni subiti, limiterebbero i premi assicurativi a somme ragionevoli e consentirebbero alle imprese assicuratrici di fruire di un reddito. 25. Il giudice del rinvio precisa che il legislatore nazionale ha limitato il risarcimento da parte dell’assicurazione obbligatoria a titolo di responsabilità civile risultante da incidenti stradali fissando dei massimali e che esso ha delegato al governo il compito di stabilire le norme relative all’importo e alle modalità di calcolo del risarcimento da parte dell’impresa assicuratrice dei danni non patrimoniali causati alle persone. Orbene, secondo esso, tali regole limitano in modo sproporzionato il diritto al risarcimento da parte della predetta impresa assicuratrice, segnatamente mediante la concessione di un’indennità « irrisoria » di LVL100 prevista per la sofferenza psicologica causata dalla morte di una persona dalla quale la persona interessata dipende economicamente. 26. Ciò premesso, l’Augstākās tiesas Senāts ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: « 1) Se il risarcimento obbligatorio del danno alle persone, previsto all’articolo 3 della [prima direttiva] e [all’articolo 1, paragrafo 2,] della [seconda direttiva] includa anche il danno morale. 2) In caso di risposta affermativa alla prima questione, se l’articolo 3 della [prima direttiva] e [l’articolo 1, paragrafo 2,] della [seconda direttiva] debbano essere interpretati nel senso che tali disposizioni non autorizzano uno Stato membro a limitare l’importo massimo del risarcimento del danno immateriale (morale), fissando un limite sostanzialmente inferiore al limite della responsabilità assicurativa fissato dalle direttive e dalla legge nazionale ». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 27. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafo 2, della seconda direttiva debbano essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli debba coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime decedute in un incidente stradale. 28. Si deve ricordare che dai preamboli della prima e della seconda direttiva emerge che queste sono dirette a garantire, da un lato, la libera circolazione sia dei veicoli che stazionano abitualmente nel territorio dell’Unione europea, sia delle persone che vi si trovano a bordo e, dall’altro, a garantire che le vittime degli incidenti causati da tali veicoli beneficeranno di un trattamento comparabile, indipendentemente dal luogo dell’Unione in cui il sinistro è avvenuto (sentenza del 23 ottobre 2012, Marques Almeida, C-300/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 26 e la giurisprudenza ivi citata). 29. La prima direttiva, come precisata e integrata dalla seconda e dalla terza direttiva, impone quindi agli Stati membri di garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli che stazionano abitualmente sul loro territorio sia coperta da un’assicurazione e precisa, in particolare, i tipi di danni e i terzi vittime che siffatta assicurazione deve coprire (sentenza Marques Almeida, cit., punto 27 e la giurisprudenza ivi citata). 30. Occorre tuttavia ricordare che l’obbligo di copertura, da parte dell’assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati ai terzi dagli autoveicoli è distinto dalla portata del risarcimento di detti danni a titolo di responsabilità civile dell’assicurato. Infatti, mentre il primo è responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.5 ⎪ definito e garantito dalla normativa dell’Unione, la seconda è sostanzialmente disciplinata dal diritto nazionale (sentenza Marques Almeida, cit., punto 28 e giurisprudenza ivi citata). 31. Al riguardo, la Corte ha già dichiarato che dall’oggetto della prima, della seconda e della terza direttiva, nonché dal loro tenore letterale, risulta che esse non sono dirette ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli Stati membri e che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, questi ultimi restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile a sinistri derivanti dalla circolazione di autoveicoli (sentenza Marques Almeida, cit., punto 29 e giurisprudenza ivi citata). 32. Di conseguenza, e alla luce segnatamente dell’articolo 1, punto 2, della prima direttiva, allo stato attuale del diritto dell’Unione, gli Stati membri restano in linea di principio liberi di stabilire i loro regimi di responsabilità civile, in particolare i danni causati dagli autoveicoli che devono essere risarciti, la portata del risarcimento di tali danni e le persone che hanno diritto al predetto risarcimento. 33. Tuttavia, la Corte ha precisato che gli Stati membri devono esercitare le loro competenze in tale settore nel rispetto del diritto dell’Unione e che le disposizioni nazionali che disciplinano il risarcimento dei sinistri risultanti dalla circolazione di autoveicoli non possono privare la prima, la seconda e la terza direttiva del loro effetto utile (sentenza Marques Almeida, cit., punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 34. Per quanto riguarda la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria dei danni causati dagli autoveicoli che devono essere risarciti ai sensi della normativa nazionale sulla responsabilità civile, l’articolo 3, paragrafo 1, seconda frase, della prima direttiva lasciava, certamente, come rilevato dal governo tedesco, agli Stati membri il compito di determinare i danni coperti nonché le modalità dell’assicurazione obbligatoria (v., in tal senso, sentenza del 28 marzo 1996, Ruiz Bernáldez, C-129/94, Racc. pag. I-1829, punto 15). 35. Tuttavia, proprio al fine di ridurre le disparità sussistenti quanto alla portata dell’obbligo di assicurazione tra le normative degli Stati membri, l’articolo 1 della seconda direttiva ha imposto, in materia di responsabilità civile, la copertura obbligatoria dei danni alle cose e dei danni alle persone, sino a concorrenza di determinati importi. L’articolo 1 della terza direttiva ha esteso tale obbligo alla copertura dei danni alla persona di qualsiasi passeggero diverso dal conducente (sentenza Ruiz Bernáldez, cit., punto 16). 36. Pertanto, gli Stati membri sono obbligati a garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli applicabile secondo il loro diritto nazionale sia coperta da un’assicurazione conforme alle disposizioni delle direttive prima, seconda e terza (sentenza Marques Almeida, cit., punto 30 e giurisprudenza ivi citata). 37. Ne consegue che la libertà che gli Stati membri hanno di determinare i danni coperti nonché le modalità di assicurazione obbligatoria è stata limitata dalla seconda e dalla terza direttiva, in quanto esse hanno reso obbligatoria la copertura di taluni danni sino a concorrenza di importi minimi determinati. Figurano in particolare tra tali danni la cui copertura è obbligatoria i danni alle persone, come precisa l’articolo 1, paragrafo 1, della seconda direttiva. 38. Orbene, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 68 a 73 delle sue conclusioni e come dichiarato dalla Corte EFTA nella sua sentenza del 20 giugno 2008, Celina Nguyen/The Norwegian State (E-8/07, EFTA Court Report, pag.224, punti 26 e 27), occorre considerare, alla luce delle diverse versioni linguistiche degli articoli 1, paragrafo 1, della seconda direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva, nonché della finalità di tutela delle tre direttive di cui sopra, che rientra nella nozione di danni alle persone qualsiasi danno, nei limiti in cui il suo risarcimento sia previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato da parte del diritto nazionale applicabile alla controversia, derivante da una lesione all’integrità della persona, il che comprende le sofferenze sia fisiche che psicologiche. 39. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni del diritto dell’Unione devono essere interpretate e applicate in modo uniforme alla luce delle versioni vigenti in tutte le lingue dell’Unione. In caso di difformità tra le diverse versioni linguistiche di un testo di diritto dell’Unione, la disposizione di cui è causa dev’essere interpretata in funzione dell’economia generale e ⎪ P.6 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore della finalità della normativa di cui essa fa parte (v., in particolare, sentenza dell’8 dicembre 2005, Jyske Finans, C-280/04, Racc. pag. I-10683, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 40. Pertanto, posto che le differenti versioni linguistiche dell’articolo 1, paragrafo 1, della seconda direttiva utilizzano, in sostanza, le nozioni sia di « danno alla persona » che di pregiudizio immateriale, occorre attenersi all’economia e alla finalità di siffatte disposizioni e di tale direttiva. In proposito, è necessario, da un lato, rilevare che tali nozioni si aggiungono a quella di « danno alle cose » e, dall’altro, rammentare che le disposizioni e la direttiva predette sono dirette, in particolare, a rafforzare la tutela delle vittime. Ciò premesso, occorre accogliere l’interpretazione estensiva di dette nozioni che è riportata al punto 38 della presente sentenza. 41. Di conseguenza, tra i danni che devono essere risarciti conformemente alle direttive prima, seconda e terza figurano i danni immateriali il cui risarcimento è previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato dal diritto nazionale applicabile alla controversia. 42. Per quanto concerne la questione di sapere quali siano le persone che possono richiedere il risarcimento di tali danni immateriali, da un lato, occorre rilevare che risulta dal combinato disposto degli articoli 1, punto 2, e 3, paragrafo 1, prima frase, della prima direttiva che la tutela chedeve essere assicurata in virtù di tale direttiva si estende a ogni persona che ha diritto, ai sensi della normativa nazionale sulla responsabilità civile, al risarcimento dei danni causati da autoveicoli. 43. Dall’altro, occorre precisare che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 78 delle conclusioni e contrariamente a quanto fa valere il governo tedesco, la terza direttiva non ha limitato la cerchia di persone tutelate, bensì, al contrario, ha reso obbligatoria la copertura dei danni subiti da determinate persone ritenute particolarmente vulnerabili. 44. Altresì, tanto più che la nozione di danno riportata all’articolo 1, punto 2, della prima direttiva non è circoscritta, niente consente di considerare, contrariamente a quanto sostengono i governi lettone e lituano, che determinati danni, come i danni immateriali, nei limiti in cui debbano essere risarciti ai sensi della normativa nazionale sulla responsabilità civile applicabile, dovrebbero essere esclusi da tale nozione. 45. Nessun elemento della prima, della seconda o della terza direttiva consente di affermare che il legislatore dell’Unione abbia desiderato limitare la tutela assicurata da tali direttive alle sole persone direttamente coinvolte in un evento dannoso. 46. Di conseguenza, gli Stati membri sono obbligati a garantire che il risarcimento dovuto, ai sensi della loro normativa nazionale sulla responsabilità civile, a motivo dei danni immateriali subiti dai familiari di vittime di incidenti stradali sia coperta dall’assicurazione obbligatoria sino a concorrenza degli importi minimi stabiliti all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. 47. Nel caso di specie, questo sarebbe il caso posto che, secondo le indicazioni del giudice del rinvio, una persona che si trovi nella situazione del sig.Drozdovs ha diritto, in virtù della normativa nazionale lettone sulla responsabilità civile, al risarcimento dei danni immateriali subiti derivanti dalla morte dei suoi genitori. 48. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime decedute in un incidente stradale nei limiti in cui tale risarcimento sia previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia oggetto del procedimento principale. Sulla seconda questione 49. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafo 2, della seconda direttiva debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali derivanti, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile, responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.7 ⎪ dal decesso di familiari in un incidente stradale solo sino alla concorrenza di un massimale inferiore a quelli fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. 50. Si è affermato al punto 46 della presente sentenza che gli Stati membri sono obbligati a garantire che il risarcimento dovuto, ai sensi della loro normativa nazionale sulla responsabilità civile, a motivo dei danni immateriali subiti dai congiunti prossimi delle vittime di incidenti stradali sia coperto dall’assicurazione obbligatoria sino a concorrenza degli importi minimi stabiliti all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. 51. Occorre del pari ricordare che la Corte ha avuto modo di dichiarare che l’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva osta ad una normativa nazionale che prevede massimali di garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati da detto articolo (v., in tal senso, sentenza del 14 settembre 2000, Mendes Ferreira e Delgado Correia Ferreira, C-348/98, Racc. pag. I-6711, punto 40, nonché ordinanza del 24 luglio 2003, Messejana Viegas, C-166/02, Racc. pag. I-7871, punto 20). 52. Poiché la Baltikums sostiene che il legislatore nazionale possa prevedere, per categorie specifiche di danni, massimali di garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati dal predetto articolo qualora sia garantito che, per la totalità dei danni, gli importi minimi di garanzia fissati dal medesimo articolo siano rispettati, occorre rilevare, da un lato, che l’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva non prevede né autorizza una distinzione, tra i danni coperti, diversa da quella stabilita tra danni alle persone e danni alle cose. 53. Dall’altro lato, occorre ricordare che è stato rilevato al punto 33 della presente sentenza che gli Stati membri devono esercitare le loro competenze in tale settore nel rispetto del diritto dell’Unione e che le disposizioni nazionali che disciplinano il risarcimento dei sinistri risultanti dalla circolazione di autoveicoli non possono privare le tre direttive del loro effetto utile. 54. Orbene, se il legislatore nazionale potesse prevedere, per ciascuna delle differenti categorie specifiche di danni identificati, eventualmente, nella normativa nazionale, massimali di garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva, i predetti importi minimi di garanzia e, pertanto, tale articolo sarebbero privati del loro effetto utile. 55. Risulta altresì dal fascicolo sottoposto alla Corte che, a differenza delle circostanze che hanno dato luogo alla citata sentenza Marques Almeida, la normativa nazionale controversa nel procedimento principale non è diretta a determinare il diritto della vittima a un risarcimento a titolo di responsabilità civile dell’assicurato, né l’eventuale portata di tale diritto, ma è idonea a limitare la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile di un assicurato. 56. Infatti, la tutrice ha rilevato, e in udienza dinanzi alla Corte il governo lettone ha confermato, che, secondo il diritto lettone, la responsabilità civile dell’assicurato a titolo, segnatamente, dei danni immateriali subiti da talune persone a causa di un incidente stradale può eccedere gli importi coperti, ai sensi della normativa nazionale controversa, dall’assicurazione obbligatoria. 57. Orbene, ciò premesso, si deve affermare che la normativa nazionale controversa nel procedimento principale pregiudica la garanzia, sancita dal diritto dell’Unione, che la responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, determinata secondo la normativa nazionale applicabile, sia coperta da un’assicurazione conforme alla prima, alla seconda e alla terza direttiva (v., in tal senso, sentenza Marques Almeida, cit., punto 38 e la giurisprudenza ivi citata). 58. Ne deriva che si deve rispondere alla seconda questione dichiarando che gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva devono essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile, per il decesso di un prossimo congiunto in un incidente stradale solo sino a concorrenza di un massimale inferiore agli importi fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. Sulle spese 59. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un ⎪ P.8 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: 1) Gli articoli 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime decedute in un incidente stradale nei limiti in cui tale risarcimento sia previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia oggetto del procedimento principale. 2) Gli articoli 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166 e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5 devono essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile, per il decesso di un prossimo congiunto in un incidente stradale solo sino a concorrenza di un massimale inferiore agli importi fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 84/5. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.9 ⎪ SENTENZA CORTE GIUST. UE SEZ. II 24 OTTOBRE 2013 C-22/12 PRES. SILVA DE LAPUERTA REL. ARABADJIEV HAASOVÁ Assicurazione obbligatoria r.c. auto - Incidente stradale - Decesso di un passeggero - Diritto al risarcimento del coniuge e del figlio minore di età - Danno immateriale - Risarcimento Copertura fornita dall’assicurazione obbligatoria. 84/5/CEE 84/5/CEE 90/232/CEE DIRETTIVA L’articolo 3, paragrafo 1, della Direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda Direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, quale modificata dalla Direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, e l’articolo 1, comma 1, della terza Direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve garantire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime, decedute, di incidenti stradali, qualora tale risarcimento sia previsto, in forza della responsabilità civile dell’assicurato, dalla normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale. Sentenza 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GU L 103, pag. 1) (in prosieguo: la « prima direttiva »), e dell’articolo 1, primo comma, della terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU L 129, pag. 33) (in prosieguo: la « terza direttiva »). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la sig.ra Haasová, che agisce in nome proprio e in nome di sua figlia minore di età, Kristína Haasová, nata il 22 aprile 1999, e, dall’altro, il sig. Petrík e la sig.ra Holingová, vertente sul risarcimento da parte di questi ultimi, a titolo della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, del danno conseguente al decesso del sig. Haas, coniuge della sig.ra Haasová e padre di Kristína Haasová, a causa di un incidente stradale avvenuto in territorio ceco. Contesto normativo Diritto internazionale privato 3. L’articolo 3 della Convenzione sulla legge applicabile in materia di incidenti della circolazione stradale, adottata a L’Aia il 4 maggio 1971 (in prosieguo: la « Convenzione dell’Aia del 1971 »), ratificata dalla Repubblica slovacca, dalla Repubblica ceca e da altri Stati membri dell’Unione europea, nonché da alcuni paesi terzi, stabilisce quanto segue: « La legge applicabile è la legge nazionale dello Stato sul cui territorio l’incidente è avvenuto ». ⎪ P.10 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore 4. L’articolo 4 di tale convenzione dispone quanto segue: « Fatto salvo l’articolo 5, sono ammesse deroghe all’articolo 3 nei seguenti casi: a) Quando nell’incidente è coinvolto un solo veicolo, e tale veicolo è immatricolato in uno Stato diverso da quello sul cui territorio è avvenuto l’incidente, si applica la legge nazionale dello Stato d’immatricolazione alla responsabilità — verso il conducente, il detentore, il proprietario o qualsiasi altra persona che vanti un diritto sul veicolo, senza tenere conto della loro residenza abituale, — verso il passeggero rimasto vittima dell’incidente, se questi aveva la propria residenza abituale in uno Stato diverso da quello sul cui territorio è avvenuto l’incidente, — verso la persona rimasta vittima dell’incidente che si trovava sul luogo dell’incidente al di fuori del veicolo, se essa aveva la propria residenza abituale nello Stato d’immatricolazione. In caso di più vittime la legge applicabile è determinata separatamente per ciascuna di esse. b) Quando più veicoli sono coinvolti nell’incidente le disposizioni di cui alla lettera a) sono applicabili soltanto se tutti i veicoli sono immatricolati nello stesso Stato. (...) ». 5. L’articolo 8 di detta convenzione è formulato come segue: « La legge applicabile stabilisce in particolare: 1. le condizioni e l’estensione della responsabilità; 2. i motivi di esonero, nonché ogni limitazione e ripartizione della responsabilità; 3. l’esistenza e la natura dei danni risarcibili; 4. le modalità e l’entità del risarcimento; 5. la trasferibilità del diritto al risarcimento; 6. i soggetti aventi diritto al risarcimento del danno personalmente subito; 7. la responsabilità del preponente per il fatto del preposto; 8. i casi di prescrizione e decadenza, incluse le norme sulla decorrenza, l’interruzione e la sospensione dei termini ». La normativa dell’Unione 6. L’articolo 28 del regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (« Roma II ») (GU L 199, pag. 40) (in prosieguo: il « regolamento Roma II »), intitolato « Rapporti con altre convenzioni internazionali in vigore », stabilisce quanto segue: « 1. Il presente regolamento non osta all’applicazione delle convenzioni internazionali di cui uno o più Stati membri sono parti contraenti al momento dell’adozione del presente regolamento e che disciplinano i conflitti di leggi inerenti ad obbligazioni extracontrattuali. 2. Tuttavia, il presente regolamento prevale, tra Stati membri, sulle convenzioni concluse esclusivamente tra due o più di essi nella misura in cui esse riguardano materie disciplinate dal presente regolamento ». 7. L’articolo 1 della prima direttiva così dispone: « Ai sensi della presente direttiva, s’intende per: (...) 2. persona lesa: ogni persona avente diritto alla riparazione del danno causato da veicoli; (...) ». 8. L’articolo 3, paragrafo 1, della prima direttiva così dispone: « Ogni Stato membro adotta tutte le misure necessarie (...) affinché la responsabilità civile relativa alla circolazione dei veicoli che stazionano abitualmente nel suo territorio sia coperta da un’assicurazione. I danni coperti e le modalità dell’assicurazione sono determinati nell’ambito di tali misure ». 9. L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU 1984, L 8, pag. 17), quale modificata dalla direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 (GU L 149, pag. 14) (in prosieguo: la « seconda direttiva »), prevede quanto segue: responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.11 ⎪ « 1. L’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva] copre obbligatoriamente i danni alle cose e i danni alle persone. 2. Salvo importi maggiori di garanzia eventualmente prescritti dagli Stati membri, ciascuno Stato membro esige che l’assicurazione sia obbligatoria almeno per gli importi seguenti: a) nel caso di danni alle persone, un importo minimo di copertura pari a 1 000 000 EUR per vittima o a 5 000 000 EUR per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime; b) nel caso di danni alle cose, 1 000 000 EUR per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime. Ove opportuno, gli Stati membri possono stabilire un periodo transitorio fino a cinque anni dalla data di attuazione della direttiva [2005/14], entro il quale adeguare i propri importi minimi di copertura agli importi di cui al presente paragrafo. Gli Stati membri che stabiliscono il suddetto periodo transitorio ne informano la Commissione e indicano la durata del periodo transitorio. Entro 30 mesi dalla data di attuazione della direttiva [2005/14], gli Stati membri devono aumentare gli importi di garanzia ad almeno la metà dei livelli previsti nel presente paragrafo ». 10. L’articolo 1 della terza direttiva prevede, segnatamente, che « l’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1 della [prima direttiva] copre la responsabilità per i danni alla persona di qualsiasi passeggero, diverso dal conducente, derivanti dall’uso del veicolo ». La normativa nazionale La normativa slovacca 11. L’articolo 11 della legge n. 40/1964, che istituisce il codice civile (in prosieguo: il « codice civile slovacco »), dispone quanto segue: « La persona fisica ha diritto alla tutela della propria persona, in particolare alla tutela della vita e della salute, dell’onore e della dignità, nonché della riservatezza, del nome e delle espressioni di natura personale ». 12. L’articolo 13 del codice civile slovacco prevede quanto segue: « 1) La persona fisica ha in particolare il diritto di esigere che si desista da comportamenti illegittimi lesivi dei propri diritti della personalità, che si eliminino le conseguenze di tali comportamenti e che le venga riconosciuta una riparazione adeguata. 2) Qualora una riparazione adeguata ai sensi del paragrafo 1 non sia possibile, in particolare in quanto sia stata gravemente lesa la dignità di una persona fisica o sia stato gravemente leso il suo prestigio sociale, quest’ultima ha altresì il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in forma pecuniaria. 3) L’entità del risarcimento ai sensi del paragrafo 2 è stabilita dal giudice con riguardo alla gravità del danno immateriale emerso e alle circostanze in cui è avvenuta la violazione del diritto ». 13 L’articolo 4 della legge n. 381/2001, in materia di contratto di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di veicoli a motore (in prosieguo: la « legge slovacca relativa all’assicurazione obbligatoria »), stabilisce quanto segue: « 1) L’assicurazione della responsabilità civile trova applicazione nei confronti di chiunque risponda del danno risultante dalla circolazione del veicolo a motore indicato nel contratto di assicurazione. 2) In base all’assicurazione della responsabilità civile l’assicurato ha il diritto che l’assicuratore rimborsi il danneggiato, per suo conto, a fronte di affermate e comprovate pretese: a) di risarcimento del danno alla salute e di rimborso delle spese in caso di decesso, b) di risarcimento del danno che trae origine dalla lesione, distruzione, sottrazione o perdita della cosa, c) di rimborso delle spese sostenute normalmente connesse alla rappresentanza legale per l’esercizio delle pretese risarcitorie di cui alle lettere a), b) e d), qualora l’assicuratore non abbia adempiuto agli obblighi previsti dall’articolo 11, paragrafo 6, lettera a) o b), oppure abbia illegittimamente rifiutato di fornire la prestazione assicurativa, o abbia illegittimamente ridotto la prestazione assicurativa fornita, ⎪ P.12 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore d) di risarcimento per la perdita di guadagno. 3) In base all’assicurazione della responsabilità civile l’assicurato ha il diritto a che l’assicuratore rimborsi all’ente preposto, qualora l’assicurato risulti obbligato nei confronti del suddetto ente, i costi fatti valere, comprovati e pagati, per l’assistenza sanitaria, le indennità di malattia, le indennità di malattia per agenti di polizia e militari, le indennità per infortuni, le indennità per infortuni per agenti di polizia e militari, i trattamenti pensionistici, i trattamenti pensionistici per agenti di polizia e militari, i trattamenti pensionistici da fondi pensione complementare ». La normativa ceca 14. L’articolo 11 della legge n. 40/1964, che istituisce il codice civile (in prosieguo: il « codice civile ceco »), dispone quanto segue: « La persona fisica ha diritto alla tutela della propria persona, in particolare alla tutela della vita e della salute, dell’onore e della dignità, nonché della riservatezza, del nome e delle espressioni di natura personale ». 15. L’articolo 13 del codice civile ceco prevede quanto segue: « 1) La persona fisica ha in particolare il diritto di esigere che si desista da comportamenti illegittimi lesivi dei propri diritti della personalità, che si eliminino le conseguenze di tali comportamenti e che le venga riconosciuta una riparazione adeguata. 2) Qualora una riparazione adeguata ai sensi del paragrafo 1 non sia possibile, in particolare in quanto sia stata gravemente lesa la dignità di una persona fisica o sia stato gravemente leso il suo prestigio sociale, quest’ultima ha altresì il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in forma pecuniaria. 3) L’entità del risarcimento ai sensi del paragrafo 2 è stabilita dal giudice con riguardo alla gravità del danno immateriale emerso e alle circostanze in cui è avvenuta la violazione del diritto ». 16. L’articolo 444 di tale codice dispone quanto segue: « 1) In caso di danno alla persona, la sofferenza della persona lesa e il pregiudizio da essa subito nell’ambito dei rapporti sociali danno luogo a un risarcimento forfettario. (...) 3) In caso di decesso, agli aventi diritto è riconosciuto un risarcimento forfettario pari a: a) 240 000 [corone ceche (CZK)] per la perdita del coniuge; (...) ». 17. L’articolo 6 della legge n. 168/1999 sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di altri veicoli (in prosieguo: la « legge ceca relativa all’assicurazione obbligatoria »), ha il seguente tenore: « 1) L’assicurazione della responsabilità trova applicazione nei confronti di chiunque risponda del danno risultante dalla circolazione del veicolo indicato nel contratto di assicurazione. 2) Salvo diversa disposizione della presente legge, l’assicurato ha diritto a che la compagnia assicuratrice risarcisca per suo conto al danneggiato, nella misura e nell’importo previsti dal codice civile, a) il danno causato alla salute o con la morte, b) il danno che trae origine da danneggiamento, distruzione o perdita della cosa, nonché il danno che trae origine dalla sottrazione della cosa, qualora la persona fisica abbia perso la capacità di occuparsene, c) il mancato guadagno, d) le spese effettivamente sostenute connesse con la rappresentanza legale per l’esercizio delle pretese risarcitorie di cui alle lettere a), b) e c); tuttavia relativamente al danno di cui alle lettere b) o c) solo nel caso in cui il termine di cui all’articolo 9, paragrafo 3, sia già trascorso o nel caso in cui la compagnia assicuratrice abbia illegittimamente rifiutato oppure illegittimamente ridotto la prestazione assicurata, purché il danneggiato abbia fatto valere e dimostrato la sua pretesa e purché l’evento dannoso, che ha dato origine a tale danno e per il quale risponde l’assicurato, sia avvenuto nel periodo in responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.13 ⎪ cui era in vigore l’assicurazione della responsabilità, ad eccezione del periodo d’interruzione di quest’ultima ». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 18. Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale e dalle precisazioni fornite dal giudice del rinvio in risposta a una domanda di chiarimenti rivoltagli dalla Corte ai sensi dell’articolo 101 del suo regolamento di procedura, risulta che il sig. Haas è deceduto il 7 agosto 2008 in territorio ceco, a causa di un incidente stradale provocato dal sig. Petrik, che guidava un automobile da turismo appartenente alla sig.ra Holingová. 19. L’automobile della sig.ra Holingová, immatricolata nella Repubblica slovacca, nella quale si trovava il sig. Haas, si è scontrata con un automezzo pesante immatricolato nella Repubblica ceca. Al momento dell’incidente la sig.ra Haasová e sua figlia erano nella Repubblica slovacca. 20. Con sentenza resa nell’ambito di un procedimento penale dall’Okresný súd Vranov nad Topľou (Repubblica slovacca), il sig. Petrík è stato riconosciuto colpevole di omicidio e di lesioni personali ed è stato condannato a una pena di detenzione di due anni con misura alternativa alla detenzione. Ai sensi degli articoli 50, paragrafo 2, e 51, paragrafo 4, lettera c), del codice penale slovacco, egli è stato condannato al risarcimento del danno, incluso il pagamento dell’importo di EUR 1 057,86 per il danno subito dalla sig.ra Haasová. 21. Inoltre, la sig.ra Haasová e sua figlia hanno chiesto la condanna del sig. Petrik e della sig.ra Holingová al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdita, rispettivamente, del coniuge e del padre, ai sensi dell’articolo 13, paragrafi 2 e 3, del codice civile slovacco. In primo grado il sig. Petrik e la sig.ra Holingová sono stati condannati a versare alla sig.ra Haasová un importo pari a EUR 15 000 a titolo di risarcimento di detto danno. Tutte le parti hanno proposto appello avverso tale sentenza di condanna dinanzi al Krajský súd v Prešove (Repubblica slovacca). 22. Tale giudice considera che, tenuto conto delle circostanze di fatto, dev’essere applicato il diritto sostanziale ceco e, in particolare, l’articolo 444, paragrafo 3, del codice civile ceco, il quale prevede, in caso di decesso, che il coniuge avente diritto della vittima benefici di un risarcimento forfettario pari a CZK 240 000. Orbene, sorgerebbe la questione dell’adeguatezza di tale risarcimento e, di conseguenza, quella del diritto a un risarcimento integrativo in base all’articolo 11 di tale codice. 23. Al riguardo, il giudice del rinvio considera che i diritti della sig.ra Haasová e di sua figlia derivano da quelli della vittima, dato che la vita del sig. Haas è stata tutelata dall’articolo 11 di detto codice. Esso precisa che gli articoli da 11 a 16 dei codici civili slovacco e ceco garantiscono la tutela della persona, che include la tutela della vita, della salute, dell’onore, della dignità, della vita privata, del nome e della libera espressione contro i « pregiudizi », termine utilizzato per indicare un danno immateriale derivante da una violazione del diritto a tale tutela. 24. Il giudice del rinvio sottolinea altresì che, in forza della legge slovacca sull’assicurazione obbligatoria, il proprietario di un autoveicolo ha il diritto di esigere che l’assicuratore garantisca per suo conto, alla vittima di un sinistro da cui sorge la responsabilità di detto proprietario, il risarcimento di un danno attuale accertato, nei limiti previsti da tale legge e in base alle condizioni assicurative, e, di conseguenza, il risarcimento del danno alla persona e il rimborso delle spese connesse al decesso. 25. Nel caso di specie la sig.ra Holingová avrebbe stipulato un contratto di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile con la Allianz-Slovenská poisťovňa a.s. (in prosieguo: la « Allianz »). Poiché la persona che ha causato il danno può rivolgersi all’assicuratore affinché risarcisca per suo conto il danno di cui essa deve rispondere, l’assicuratore dovrebbe essere chiamato in causa nell’ambito del procedimento risarcitorio in qualità di interveniente, dal momento che ha un interesse legittimo alla soluzione della controversia. Pertanto, la Allianz, su iniziativa del giudice del rinvio, sarebbe stata chiamata in causa in tale qualità. 26. Orbene, la Allianz avrebbe un siffatto interesse legittimo solo se il diritto esercitato rientrasse nella copertura della responsabilità civile fornita dall’assicurazione obbligatoria. Infatti, se ⎪ P.14 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore il danno non patrimoniale controverso nel procedimento principale non fosse coperto dall’assicurazione obbligatoria, l’intervento della Allianz nel procedimento non sarebbe giustificato. 27. Secondo il giudice del rinvio, il risarcimento dei danni alla persona riguarda in parte anche il pregiudizio non patrimoniale, vale a dire corrispondente alle sofferenze e al deterioramento della vita sociale. La nozione di danno coperta dal contratto di assicurazione includerebbe pertanto anche pregiudizi di natura non patrimoniale, segnatamente danni immateriali, morali o lesioni alla sfera affettiva. 28. Tale giudice considera inoltre che gli Stati membri sono tenuti, in forza delle direttive prima e terza, ad adottare tutte le misure necessarie affinché la responsabilità civile per i danni risultanti dalla circolazione degli autoveicoli che stazionano abitualmente nel loro territorio sia coperta da un’assicurazione, al fine di tutelare gli assicurati e le vittime di incidenti, e affinché ogni danno o pregiudizio coperto dall’assicurazione obbligatoria dei passeggeri degli autoveicoli dia luogo a un risarcimento. 29. Orbene, la Allianz rifiuterebbe di risarcire il danno non patrimoniale subito in quanto il risarcimento di tale danno ai sensi dell’articolo 13 del codice civile slovacco non sarebbe coperto dal contratto di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di un autoveicolo, poiché il diritto a un risarcimento siffatto esulerebbe dalla copertura prevista dalle leggi slovacca e ceca relative all’assicurazione obbligatoria. 30. Il giudice del rinvio considera tale questione determinante, dal momento che si dovrebbe risarcire anche il danno non patrimoniale subito dall’avente diritto della vittima di un incidente stradale, danno che sarebbe possibile risarcire ai sensi dell’articolo 13, paragrafi 2 e 3, del codice civile applicabile e che, secondo un’ampia interpretazione, dovrebbe essere considerato un danno alla persona, di cui all’articolo 4, paragrafo 2, lettera a), della legge slovacca sull’assicurazione obbligatoria. Ne conseguirebbe che il risarcimento di tale danno non patrimoniale rientrerebbe nell’ambito della responsabilità dell’assicuratore in forza del contratto di assicurazione obbligatoria. 31. Ciò premesso, il Krajský súd v Prešove ha deciso di sospendere al procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: « 1) Se l’articolo 1, primo comma, della [terza direttiva], in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva] debba essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione di diritto nazionale (quale quella di cui all’articolo 4 della legge slovacca [sull’assicurazione obbligatoria] e all’articolo 6 della legge ceca [sull’assicurazione obbligatoria]), ai sensi della quale la responsabilità civile risultante dall’uso di veicoli a motore non copre il danno non patrimoniale, espresso in forma pecuniaria, sofferto dai superstiti delle vittime di un incidente stradale derivante dall’uso di veicoli a motore. 2) Nel caso in cui alla prima questione si risponda che la summenzionata norma di diritto interno non è in contrasto con il diritto comunitario, se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafi 1, 2 e 4, della legge slovacca [sull’assicurazione obbligatoria] e all’articolo 6, paragrafi da 1 a 3, della legge ceca [sull’assicurazione obbligatoria], debbano essere interpretate nel senso che non ostano a che il giudice nazionale, in conformità all’articolo 1, primo comma, della [terza direttiva] in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva], riconosca agli aventi diritto delle vittime di un incidente stradale derivante dall’uso di veicoli a motore, nella loro qualità di soggetti lesi, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale anche in forma pecuniaria ». Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali 32. Il governo slovacco e la Commissione hanno manifestato dubbi quanto alla ricevibilità delle questioni pregiudiziali, rilevando che la decisione di rinvio non contiene alcuna esposizione dei fatti relativi all’incidente stradale indispensabili alla comprensione della controversia di cui al procedimento principale. Il governo slovacco ritiene, inoltre, che tali questioni non siano pertinenti ai fini della composizione di tale controversia, poiché la Allianz non sarebbe parte nel procedimento e la decisione del giudice nazionale nell’ambito di quest’ultimo non sarà vincolante per tale impresa assicurativa. 33. Al riguardo occorre rilevare che, rispondendo alla domanda di chiarimenti rivoltagli dalla responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.15 ⎪ Corte in applicazione dell’articolo 101 del suo regolamento di procedura, da un lato, il giudice del rinvio ha descritto i fatti relativi all’incidente stradale all’origine del procedimento principale, e, dall’altro, ha precisato che la risposta della Corte sarà determinante ai fini della valutazione dell’intervento della Allianz in detto procedimento principale e quindi rispetto al carattere vincolante della sentenza che interverrà nel medesimo nei confronti di tale impresa. 34. Le questioni pregiudiziali devono pertanto essere considerate ammissibili. Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 35. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva debbano essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di veicoli a motore deve garantire il risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dai congiunti delle vittime di un incidente stradale. 36. Preliminarmente si deve rilevare che il giudice del rinvio, da un lato, ha precisato che la normativa sulla responsabilità civile applicabile alla fattispecie di cui al procedimento principale, in base agli articoli 3 e 4 della Convenzione dell’Aia del 1971 e all’articolo 28 del regolamento Roma II, è la legge ceca, e, dall’altro, ha indicato che le questioni sollevate non riguardano la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile disciplinata nella sesta parte del codice civile ceco e quindi il risarcimento forfettario previsto all’articolo 444 di detto codice. Infatti, tale giudice considera che gli articoli 11 e 13 del codice civile ceco, riguardanti la tutela della persona, si applicano indipendentemente da tali disposizioni relative alla responsabilità civile e ha precisato che le suddette questioni riguardano esclusivamente la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria del risarcimento del danno immateriale dovuto in base alle disposizioni di tutela della persona. 37. A tale riguardo, occorre rammentare che dal preambolo della prima e della seconda direttiva emerge che queste sono dirette a garantire, da un lato, la libera circolazione sia degli autoveicoli che stazionano abitualmente nel territorio dell’Unione europea, sia delle persone che vi si trovano a bordo e, dall’altro, a garantire che le vittime degli incidenti causati da tali veicoli beneficeranno di un trattamento comparabile, indipendentemente dal luogo dell’Unione in cui il sinistro è avvenuto (sentenza del 23 ottobre 2012, Marques Almeida, C-300/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 26 e giurisprudenza ivi citata). 38. La prima direttiva, come precisata e integrata dalla seconda e dalla terza direttiva, impone quindi agli Stati membri di garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione degli autoveicoli che stazionano abitualmente sul loro territorio sia coperta da un’assicurazione e precisa, in particolare, i tipi di danni e i terzi vittime che tale assicurazione deve coprire (sentenza Marques Almeida, cit., punto 27 e giurisprudenza ivi citata). 39. Occorre tuttavia ricordare che l’obbligo di copertura, mediante assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati ai terzi dagli autoveicoli si distingue dalla questione dell’entità del risarcimento di detti danni a titolo di responsabilità civile dell’assicurato. Infatti, mentre il primo è definito e garantito dalla normativa dell’Unione, la seconda è sostanzialmente disciplinata dal diritto nazionale (sentenza Carvalho Ferreira Santos, cit., punto 28 e la giurisprudenza ivi citata). 40. Al riguardo, la Corte ha già statuito che dall’oggetto della prima, della seconda e della terza direttiva, nonché dal loro tenore letterale, risulta che queste ultime non mirano ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli Stati membri e che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, questi ultimi restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile ai sinistri derivanti dalla circolazione dei veicoli (sentenza Marques Almeida, cit., punto 29 e la giurisprudenza ivi citata). 41. Di conseguenza, e tenuto conto in particolare dell’articolo 1, punto 2, della prima direttiva, allo stato attuale del diritto dell’Unione, gli Stati membri restano in linea di principio liberi di determinare, nell’ambito dei loro regimi di responsabilità civile, in particolare, quali danni causati dai veicoli devono essere risarciti, l’entità del risarcimento degli stessi e le persone aventi diritto a detto risarcimento. ⎪ P.16 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore 42. Tuttavia la Corte ha precisato che gli Stati membri devono esercitare le loro competenze in tale settore nel rispetto del diritto dell’Unione e che le disposizioni nazionali che disciplinano il risarcimento dei sinistri risultanti dalla circolazione dei veicoli non possono privare la prima, la seconda e la terza direttiva del loro effetto utile (sentenza Marques Almeida, cit., punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 43. Riguardo alla copertura, fornita dall’assicurazione obbligatoria, dei danni causati dai veicoli che devono essere risarciti si sensi della normativa nazionale della responsabilità civile, l’articolo 3, paragrafo 1, seconda frase, della prima direttiva, lasciava certamente agli Stati membri, come ha osservato il governo tedesco, la competenza per determinare i danni coperti nonché le modalità dell’assicurazione obbligatoria (v., in tal senso, sentenza del 28 marzo 1996, Ruiz Bernáldez, C-129/94, Racc. pag. I-1829, punto 15). 44. Tuttavia, al fine di ridurre le disparità sussistenti quanto alla portata dell’obbligo di assicurazione tra le legislazioni degli Stati membri l’articolo 1 della seconda direttiva ha imposto, in materia di responsabilità civile, la copertura obbligatoria dei danni alle cose e dei danni alle persone, sino a concorrenza di determinati importi. L’articolo 1 della terza direttiva ha esteso taleobbligo alla copertura dei danni alla persona causati ai passeggeri diversi dal conducente (sentenza Ruiz Bernáldez, cit., punto 16). 45. Pertanto, gli Stati membri sono tenuti a garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli applicabile secondo la loro normativa nazionale sia coperta da un’assicurazione conforme alle disposizioni della prima, della seconda e della terza direttiva (sentenza Marques Almeida, cit., punto 30 e la giurisprudenza ivi citata). 46. Ne consegue che la libertà degli Stati membri di determinare i danni coperti e le modalità dell’assicurazione obbligatoria è stata limitata dalla seconda e dalla terza direttiva, dal momento che esse hanno reso obbligatoria la copertura di taluni danni a concorrenza di importi minimi determinati. In particolare figurano tra tali danni la cui copertura è obbligatoria i danni alla persona, come precisato dall’articolo 1, paragrafo 1, della seconda direttiva. 47. Orbene, come ha rilevato l’avvocato generale ai punti da 68 a 73 delle sue conclusioni e secondo quanto dichiarato dalla Corte EFTA nella sua sentenza del 20 giugno 2008, Celina Nguyen/The Norwegian State (E-8/07, EFTA Court Report, pag. 224, punti 26 e 27), si deve considerare, avuto riguardo alle diverse versioni linguistiche degli articoli 1, paragrafo 1, della seconda direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva, nonché all’obiettivo di tutela delle tre direttive summenzionate, che rientra nella nozione di danno alla persona ogni danno, il cui risarcimento è previsto a titolo della responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia, arrecato all’integrità della persona, che include le sofferenze sia fisiche sia psicologiche. 48. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni del diritto dell’Unione devono essere interpretate e applicate in maniera uniforme, alla luce delle versioni redatte in tutte le lingue dell’Unione. In caso di difformità tra le diverse versioni linguistiche di un testo di diritto dell’Unione, la disposizione di cui trattasi deve essere intesa in funzione del sistema e della finalità della normativa di cui fa parte (v., in particolare, sentenza dell’8 dicembre 2005, Jyske Finans, C-280/04, Racc. pag. I-10683, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). 49. In tal senso, poiché le diverse versioni linguistiche dell’articolo 1, paragrafo 1, della seconda direttiva impiegano, in sostanza, le nozioni di « danno alla persona » e di pregiudizio immateriale, ci si deve basare sul sistema e sulla finalità di tali disposizioni e di tale direttiva. A tale riguardo, si deve, da una parte, rilevare che tali nozioni si aggiungono a quella di « danno alle cose » e, dall’altra, che tali disposizioni e tale direttiva mirano, in particolare, a rafforzare la tutela delle vittime. Pertanto ci si deve attenere all’ampia interpretazione di dette nozioni quale figura al punto 47 della presente sentenza. 50. Di conseguenza, tra i danni che devono essere risarciti conformemente alla prima, alla seconda e alla terza direttiva figurano i danni immateriali il cui risarcimento è previsto a titolo della responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia. 51. Per quanto riguarda la questione di quali siano le persone che possono esigere il risarci- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.17 ⎪ mento di tali danni immateriali, si deve da un lato rilevare che da una lettura combinata degli articoli 1, punto 2, e 3, paragrafo 1, prima frase, della prima direttiva risulta che la tutela da assicurare ai sensi di tale direttiva è estesa a chiunque abbia diritto, in base alla normativa nazionale sulla responsabilità civile, al risarcimento del danno causato da autoveicoli. 52. Dall’altro lato, occorre precisare che, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 78 delle conclusioni e contrariamente a quanto rileva il governo tedesco, la terza direttiva non ha limitato l’ambito soggettivo di tutela, ma, al contrario, ha reso obbligatoria la copertura dei danni subiti da alcune categorie di persone considerate particolarmente vulnerabili. 53. Inoltre, poiché la nozione di danno che figura all’articolo 1, punto 2, della prima direttiva non risulta ulteriormente circoscritta, nulla permette di considerare, contrariamente a quanto sostiene il governo estone, che taluni danni, come i pregiudizi immateriali, nella misura in cui devono essere risarciti secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile applicabile, debbano essere esclusi da tale nozione. 54. Nessuna indicazione nella prima, nella seconda o nella terza direttiva permette di concludere che il legislatore dell’Unione avrebbe inteso limitare la protezione assicurata da tali direttive alle sole persone direttamente interessate da un evento dannoso. 55. Di conseguenza, gli Stati membri devono garantire che il risarcimento dovuto, secondo il loro diritto nazionale sulla responsabilità civile, a causa del pregiudizio immateriale subito dai congiunti delle vittime di incidenti stradali sia coperto dall’assicurazione obbligatoria a concorrenza degli importi minimi stabiliti all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva. 56. Tale conclusione dovrebbe valere nel caso di specie, dal momento che, secondo le indicazioni del giudice del rinvio, persone che si trovano nella situazione della sig.ra Haasová e di sua figlia hanno diritto, ai sensi degli articoli 11 e 13 del codice civile ceco, al risarcimento del danno immateriale subito a causa del decesso del loro rispettivo coniuge e padre. 57. Tale valutazione non può essere rimessa in discussione dalla circostanza, invocata dal governo slovacco, secondo cui tali articoli rientrano in una parte del codice civile ceco e di quello slovacco, che riguarda le lesioni dei diritti della persona ed è autonoma rispetto a quella riguardante la responsabilità civile propriamente detta, ai sensi di tali codici. 58. Infatti, poiché la responsabilità dell’assicurato che risulta secondo il giudice del rinvio, nel caso di specie, dagli articoli 11 e 13 del codice civile ceco trova origine in un incidente stradale ed ha natura civilistica, nessun elemento permette di considerare che una siffatta responsabilità non rientri nell’ambito del diritto nazionale materiale della responsabilità civile cui le direttive summenzionate rinviano. 59. Tenuto conto di tutte le considerazioni che precedono, si deve rispondere alla prima questione che gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva, 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve garantire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime, decedute, di incidenti stradali, qualora tale risarcimento sia previsto, in forza della responsabilità civile dell’assicurato, dalla normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale. Sulla seconda questione 60. Tenuto conto della risposta fornita dalla Corte alla prima questione, non occorre rispondere alla seconda questione. Sulle spese 61. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assi- ⎪ P.18 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore curare tale responsabilità, l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri inmateria di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, quale modificata dalla direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, e l’articolo 1, primo comma, della terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve garantire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime, decedute, di incidenti stradali, qualora tale risarcimento sia previsto, in forza della responsabilità civile dell’assicurato, dalla normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.19 ⎪ SENTENZA CORTE GIUST. UE SEZ. II 10 OTTOBRE 2013 C-306/12 PRES. SILVA BONICHOT SPEDITION WELTER GMBH AVANSSUR SA DE LAPUERTA REL. Assicurazione della r.c. auto - Mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri - Procura a ricevere la notifica di atti giudiziari - Normativa nazionale che subordina la validità della notifica all’esplicita concessione di una procura a riceverla - Interpretazione conforme. DIRETTIVA 2009/103/CE, ART. 21, PARAGRAFO 5 L’articolo 21, paragrafo 5, della Direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, deve essere interpretato nel senso che, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri, è ricompresa la procura a ricevere validamente la notifica degli atti giudiziari necessari ai fini dell’introduzione di un procedimento per risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice competente. Di conseguenza, in una fattispecie come quella di cui al procedimento principale, in cui la normativa nazionale ha ripreso testualmente le disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 5, della Direttiva 2009/103, il giudice del rinvio è tenuto, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi ermeneutici riconosciuti da quest’ultimo, a interpretare il diritto nazionale in un senso che sia conforme all’interpretazione data a tale direttiva dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Sentenza 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GU L 263, pag. 11). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Spedition Welter GmbH (in prosieguo: la « Spedition Welter »), società di trasporti avente sede in Germania, e la Avanssur SA (in prosieguo: la « Avanssur »), compagnia assicuratrice avente sede in Francia, riguardo al risarcimento di un sinistro. Contesto normativo Il diritto dell’Unione 3. Nella direttiva 2009/103 si trovano i seguenti considerando: « (...) (20) Occorre garantire che le vittime di sinistri della circolazione automobilistica ricevano un trattamento comparabile indipendentemente dal luogo della Comunità ove il sinistro è avvenuto. (...) (34) Una persona lesa in un incidente automobilistico rientrante nell’ambito di applicazione della presente direttiva e avvenuto in uno Stato diverso dallo Stato in cui risiede dovrebbe poterrichiedere nel proprio Stato membro di residenza un risarcimento al mandatario per la liquidazione dei sinistri designato per tale Stato dall’impresa di assicurazione del responsabile. Tale soluzione fa sì che un sinistro verificatosi al di fuori dello Stato membro di residenza della persona lesa venga trattato secondo modalità a essa familiari. (35) Un sistema di questo tipo, basato su un mandatario incaricato della liquidazione di sinistri nello Stato membro in cui risiede la persona lesa, non modifica il diritto materiale applicabile alla fattispecie né ha effetti sulla competenza giurisdizionale. (...) (37) È opportuno prevedere che lo Stato membro nel quale l’impresa di assicurazione è autorizzata esiga che l’impresa designi dei mandatari per la liquidazione di sinistri, residenti o ⎪ P.20 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore stabiliti negli altri Stati membri, incaricati di raccogliere tutte le informazioni necessarie in relazione alle richieste d’indennizzo risultanti da tali incidenti e di adottare le misure appropriate per la liquidazione del sinistro in nome e per conto dell’impresa di assicurazione, compreso il pagamento degli indennizzi. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri dovrebbe essere dotato di poteri sufficienti per rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone che hanno subito un danno in seguito a tali incidenti e per rappresentarla dinanzi alle autorità nazionali e, se necessario, dinanzi ai tribunali, compatibilmente con le norme di diritto internazionale privato sull’attribuzione della competenza giurisdizionale ». 4. L’articolo 19 della direttiva 2009/103, rubricato « Procedura di indennizzo dei sinistri », è del seguente tenore: « Gli Stati membri istituiscono la procedura di cui all’articolo 22 per la liquidazione dei sinistri provocati da un veicolo assicurato ai sensi dell’articolo 3. (...) ». 5. A termini dell’articolo 20 di tale direttiva, rubricato « Disposizioni particolari riguardanti il risarcimento delle persone lese in seguito a un sinistro avvenuto in uno Stato membro diverso da quello di residenza »: « 1 Gli articoli da 20 a 26 stabiliscono disposizioni specifiche relative a persone lese aventi diritto a risarcimento per danni a cose o a persone derivanti da sinistri avvenuti in uno Stato membro diverso da quello di residenza della persona lesa e provocati dall’uso di veicoli che sono assicurati e stazionano abitualmente in uno Stato membro. (...) 2. Gli articoli 21 e 24 si applicano soltanto nel caso di incidenti causati dalla circolazione di un veicolo: a) assicurato tramite uno stabilimento situato in uno Stato membro diverso da quello di residenza della persona lesa; b) che staziona abitualmente in uno Stato membro diverso da quello di residenza della persona lesa ». 6. L’articolo 21 della direttiva medesima, rubricato « Mandatario per la liquidazione dei sinistri », così recita: « 1. Ogni Stato membro adotta tutte le misure necessarie affinché ogni impresa di assicurazione che copre i rischi classificati nel ramo 10 del punto A dell’allegato della direttiva 73/239/CEE, esclusa la responsabilità civile del vettore, designi un mandatario per la liquidazione dei sinistri in ogni Stato membro diverso da quello in cui ha ricevuto l’autorizzazione amministrativa. Il mandatario è incaricato della gestione e della liquidazione dei sinistri dovuti a incidenti nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 1. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri risiede o è stabilito nello Stato membro per il quale è designato. (...). 4. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri raccoglie tutte le informazioni necessarie in merito alla liquidazione dei sinistri stessi e prende le misure necessarie per negoziarne la liquidazione. L’obbligo di designare un mandatario non esclude il ricorso diretto della persona lesa o della sua impresa di assicurazione contro la persona che ha causato il sinistro o la sua impresa di assicurazione. 5. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri è dotato di poteri sufficienti a rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone lese nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 1, e a soddisfare interamente le loro richieste di indennizzo. Egli deve essere in grado di esaminare il caso nella o nelle lingue ufficiali dello Stato membro di residenza della persona lesa. (...) ». La normativa tedesca responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.21 ⎪ 7. La direttiva 2009/103 è stata trasposta nell’ordinamento tedesco attraverso il Versicherungsaufsichtsgesetz (legge sul controllo delle imprese di assicurazione, in prosieguo: il « VAG »). 8. A termini dell’articolo 7b del VAG, relativo al mandatario per la liquidazione dei sinistri nel contesto della responsabilità civile per gli autoveicoli: « 1. (...) [L]’impresa di assicurazione designa un mandatario per la liquidazione dei sinistri in tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea e negli altri Stati parti contraenti dell’accordo sullo Spazio economico europeo. In nome dell’impresa di assicurazione, questi tratta e gestisce le domande di risarcimento di danni alle persone e alle cose conseguenti a un sinistro che si è verificato in uno Stato membro diverso da quello di residenza della persona lesa e causato dalla circolazione di un veicolo che è assicurato e staziona abitualmente in uno Stato membro. 2. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri risiede o è stabilito nello Stato membro per il quale è designato. Potrà agire per conto di uno o di diversi enti assicurativi. Egli è dotato di poteri sufficienti a rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone lese e a soddisfare interamente le loro richieste di indennizzo. Il mandatario deve essere in grado di esaminare il caso nella o nelle lingue ufficiali dello Stato per il quale è designato. 3. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri raccoglie, quanto ai sinistri causati da un veicolo assicurato da tale impresa di assicurazione, tutte le informazioni necessarie in merito alla liquidazione dei sinistri stessi (...) ». 9. La Zivilprozessordnung (codice di procedura civile), nella versione applicabile al procedimento principale, prevede, all’articolo 171, relativo alla notifica al mandatario: « La notifica può essere effettuata, con gli stessi effetti giuridici, ad un rappresentante designato con atto negoziale o al rappresentato. Il rappresentante comprova il possesso del mandato con un documento scritto ». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 10. Il 24 giugno 2011, a seguito di un incidente stradale, un autocarro appartenente alla Spedition Welter veniva danneggiato, nella periferia di Parigi (Francia), da un altro veicolo, assicurato presso la Avanssur. 11. La Spedition Welter chiedeva al giudice tedesco adito in primo grado un risarcimento dell’importo di EUR 2 382,89. L’atto di citazione non veniva notificato alla Avanssur, ma al mandatario nominato da quest’ultima in Germania, vale a dire la AXA Versicherungs AG (in prosieguo: la « AXA »). 12. Detto giudice dichiarava la domanda irricevibile in base al rilievo che essa non era stata validamente notificata alla AXA, che non possedeva una procura relativa alla ricezione di notifiche. 13. Avverso tale decisione la Spedition Welter interponeva appello dinanzi al Landgericht Saarbrücken. 14. Secondo il giudice del rinvio, l’esito dell’appello dipende dall’interpretazione da dare alla direttiva 2009/103. La ricevibilità dell’azione proposta dalla Spedition Welter contro la Avanssur dipenderebbe dalla possibilità di interpretare o meno l’articolo 21, paragrafo 5, di tale direttiva nel senso che il mandatario per la liquidazione dei sinistri è abilitato a ricevere le notifiche per conto della resistente nel procedimento principale. In caso di soluzione affermativa, occorrerebbe ancora verificare se tale disposizione della stessa direttiva sia incondizionata e sufficientemente precisa perché la Spedition Welter possa avvalersene per affermare che la Avanssur ha conferito alla AXA una procura a ricevere tali notifiche. 15. Alla luce di queste considerazioni, il Landgericht Saarbrücken ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: « 1) Se l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva [2009/103] debba essere interpretato nel senso che i poteri del mandatario per la liquidazione dei sinistri ricomprendono una procura relativa alla ricezione di notifiche per l’impresa assicurativa cosicché, nell’ambito della causa promossa dal danneggiato contro l’impresa assicurativa al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante da sinistro, può essere effettuata una notifica giudiziale, con efficacia nei confronti dell’impresa assicurativa, al mandatario per la liquidazione dei sinistri da essa nominato. ⎪ P.22 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore Nel caso in cui la prima questione venga risolta affermativamente: 2) Se l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva [2009/103] abbia effetto diretto cosicché il danneggiato vi si può richiamare dinanzi al giudice nazionale con la conseguenza che detto giudice, quando una notifica sia stata effettuata al mandatario per la liquidazione dei sinistri in qualità di “rappresentante” dell’impresa assicurativa, deve ritenere che la notifica sia stata effettuata validamente nei confronti di tale impresa, anche se non è stata rilasciata una procura a ricevere le notifiche e la normativa nazionale non prevede, in tal caso, una procura ex lege, fermo restando che la notifica soddisfa tutte le altre condizioni previste dal diritto nazionale ». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 16. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103 vada interpretato nel senso che tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario per la liquidazione dei sinistri è ricompresa la sua procura a ricevere validamente le notifiche degli atti giudiziari necessari ai fini dell’introduzione di un procedimento di risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice competente. 17. In via preliminare, va ricordato che, per determinare la portata di una disposizione del diritto dell’Unione, occorre tener conto allo stesso tempo del suo tenore letterale, del suo contesto e delle sue finalità (sentenza del 9 aprile 2013, Commissione/Irlanda, C-85/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 35 e giurisprudenza ivi citata). 18. Nella specie, se è pur vero che, secondo il disposto dell’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103, il mandatario per la liquidazione dei sinistri è dotato di poteri sufficienti a rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone lese e a soddisfare interamente le loro richieste di indennizzo, tale disposizione, che fissa in tal modo gli obiettivi di detta rappresentanza, non precisa l’esatta portata dei poteri conferiti a tal fine. 19. In tale contesto, occorre ricordare che la direttiva 2009/103 è intesa a garantire alle vittime di sinistri della circolazione automobilistica un trattamento comparabile indipendentemente dal luogo dell’Unione ove il sinistro è avvenuto. A tal fine, le vittime devono poter far valere nel proprio Stato membro di residenza il diritto al risarcimento nei confronti del mandatario per la liquidazione dei sinistri designato per tale Stato dall’impresa di assicurazione del responsabile. 20. A termini del considerando 37 della direttiva 2009/103, gli Stati membri devono prevedere che tali mandatari per la liquidazione dei sinistri siano dotati di poteri sufficienti per rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle vittime e per rappresentarla dinanzi alle autorità nazionali nonché, se necessario, dinanzi ai tribunali, compatibilmente con le norme di diritto internazionale privato sull’attribuzione della competenza giurisdizionale. 21. Risulta pertanto chiaramente da tali rilievi che il legislatore dell’Unione ha voluto che la rappresentanza delle imprese di assicurazione, quale prevista dall’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103, senza poter mettere in questione il rispetto delle norme di diritto internazionale privato, includesse quella che deve consentire alle persone lese di agire validamente dinanzi ai giudici nazionali per il risarcimento del danno subito. 22. D’altronde, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 25 delle conclusioni, risulta dai lavori preparatori delle direttive che hanno preceduto la direttiva 2009/103, direttive codificate da quest’ultima nel settore delle assicurazioni, che il potere di rappresentanza esercitato da un assicuratore nello Stato di residenza della vittima doveva, secondo le intenzioni del legislatore, comprendere una procura a ricevere la notifica degli atti giudiziari, benché di portata limitata, dal momento che non doveva alterare le norme di diritto internazionale privato sull’attribuzione della competenza giurisdizionale. 23. Conseguente, ed entro tali limiti, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario per la liquidazione dei sinistri è ricompresa la procura a ricevere le notifiche degli atti giudiziari. 24. Escludere tale procura priverebbe d’altronde la direttiva 2009/103 di una delle sue finalità. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 32 delle conclusioni, la funzione del mandatario per la liquidazione dei sinistri consiste proprio, conformemente agli obiettivi di cui responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.23 ⎪ alla direttiva 2009/103, nel facilitare le formalità espletate dalle vittime di sinistri, in particolare nel consentire loro di presentare reclamo nella propria lingua. Sarebbe pertanto in contrasto con tali obiettivi privare tali vittime, una volta espletate le formalità previe direttamente dinanzi al mandatario stesso, e potendo esse esperire un’azione diretta nei confronti dell’assicuratore, della possibilità di notificare gli atti giudiziari al mandatario stesso ai fini dell’esercizio dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice competente secondo il diritto internazionale. 25. Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103 deve essere interpretato nel senso che, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario per la liquidazione dei sinistri, è ricompresa la procura a ricevere validamente la notifica degli atti giudiziari necessari ai fini dell’introduzione di un procedimento per risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice competente. Sulla seconda questione 26. Alla luce della risposta alla prima questione, occorre rispondere alla seconda, con la quale il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se, in una fattispecie come quella di cui al procedimento principale, un privato possa invocare l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103 per giustificare la validità della notifica di un atto giudiziario al mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri ove detto mandatario non sia stato incaricato con atto negoziale di ricevere tale notifica e la normativa nazionale non preveda una procura ex lege in tal caso. 27. Nel contesto del procedimento principale, il giudice del rinvio intende in tal modo chiarire se, alla luce della soluzione fornita alla prima questione, debba, per accogliere la domanda di un privato che invoca l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103, disapplicare le disposizioni di diritto nazionale in forza delle quali il mandatario per la liquidazione dei sinistri non può ricevere la notifica di atti giudiziari in assenza di conferimento di procura con atto negoziale. 28. In proposito occorre ricordare che la questione se una disposizione nazionale, ove sia contraria al diritto dell’Unione, debba essere disapplicata, si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione (sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez, C-282/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 23). 29. Risulta da giurisprudenza costante che, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono tenuti ad interpretarlo quanto più possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE. Tale obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale è infatti inerente al sistema del Trattato FUE, in quanto consente ai giudici nazionali di assicurare, nell’ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolvono le controversie ad essi sottoposte (v., in particolare, sentenze del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, Racc. pag. I-8835, punto 114 e Dominguez, cit., punto 24). 30. Il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio, nei limiti delle loro competenze, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire ad una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima (v., in tal senso, sentenze Dominguez, cit., punto 27 e del 5 settembre 2012, Lopes Da Silva Jorge, C-42/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 56). 31. Orbene, nel procedimento principale è pacifico che l’articolo 7b, paragrafo 2, del VAG traspone letteralmente l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103. Tali disposizioni di diritto nazionale vanno pertanto interpretate conformemente al diritto dell’Unione nel senso che il mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri è abilitato a ricevere la notifica degli atti giudiziari. 32. Alla luce delle suesposte considerazioni, alla seconda questione occorre rispondere nel senso che, in una fattispecie come quella di cui al procedimento principale, in cui la normativa nazionale ha ripreso testualmente le disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103, il giudice del rinvio è tenuto, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo ⎪ P.24 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore insieme ed applicando i metodi ermeneutici riconosciuti da quest’ultimo, a interpretare il diritto nazionale in un senso che sia conforme all’interpretazione data a tale direttiva dalla Corte. Sulle spese 33. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: 1) L’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, deve essere interpretato nel senso che, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri, è ricompresa la procura a ricevere validamente la notifica degli atti giudiziari necessari ai fini dell’introduzione di un procedimento per risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice competente. 2) In una fattispecie come quella di cui al procedimento principale, in cui la normativa nazionale ha ripreso testualmente le disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103, il giudice del rinvio è tenuto, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi ermeneutici riconosciuti da quest’ultimo, a interpretare il diritto nazionale in un senso che sia conforme all’interpretazione data a tale direttiva dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.25 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. 20 FEBBRAIO 2013 N. 4274 SEZ. II PRES. ROVELLI REL. PROTO P.M. CAPASSO Notaio - Negozio di rinuncia all’eredità - Forma - Atto pubblico - Necessità - Scrittura privata autenticata - Nullità - Illecito disciplinare - Sussistenza. L. 16 FEBBRAIO 1913, N. 89, ART. 28 519 C.C. ART. Sussiste la responsabilità disciplinare del notaio ex art. 28, n. 1, l. n. 89/1913, per aver redatto un atto espressamente proibito dalla legge, a seguito dell’effettuazione di rinunzia all’eredità con scrittura privata autenticata e non con atto pubblico, come richiesto dall’art. 519 c.c. FATTO. M.I., notaio in **, proponeva reclamo alla Corte di Appello di Venezia avverso il provvedimento della COREDI per il Trentino Alto Adige, Friuli e Veneto con il quale gli era irrogata la sanzione disciplinare pecuniaria di Euro 1.000,00 per avere autenticato le sottoscrizioni in calce ad un atto di rinuncia pura e semplice all’eredità ex art. 519 c.p.c. anziché redigere l’atto in forma pubblica e, quindi, in violazione dell’art. 519 c.c. e dell’art. 28 legge notarile, sanzionato dall’art. 138, comma 2, stessa legge. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza depositata il 20 dicembre 2011 (e che in ricorso si.afferma notificata il 20 gennaio 2012) riteneva la responsabilità disciplinare del notaio osservando: - che sulla necessità dell’atto pubblico per la rinuncia all’eredità si era già pronunciata questa Corte con sentenza 11 gennaio 2011, n. 444; - che era infondato il motivo di reclamo secondo il quale non potrebbe ravvisarsi nullità per inosservanza della forma solenne in mancanza di espressa normativa al riguardo; la Corte territoriale rilevava che, invece, il divieto era violato perché il notaio aveva ricevuto un atto nullo, tale dovendosi ritenere la rinuncia all’eredità priva del requisito della forma solenne espressamente prescritto dall’art. 519 c.c., non potendosi neppure affermare una incertezza interpretativa in merito alla necessità dell’atto pubblico; - che il reclamo incidentale del P.M. diretto ad escludere le attenuanti generiche riconosciute da COREDI, pur essendo ammissibile, doveva essere rigettato. Avverso questa sentenza M.I. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi (numerati fino al 6 perché dopo il motivo numero tre il motivo successivo è numerato con il numero cinque invece che con il numero quattro). Non hanno svolto attività difensiva gli intimati Ministero della Giustizia, Amministrazione Autonoma Archivi Notarili, Archivio notarile di Udine, Consiglio notarile di Udine Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia e Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine. DIRITTO. 1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 519 c.c. con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. Assume il ricorrente che quando il codice civile impone l’atto pubblico come forma esclusiva, introduce una previsione espressa e che la forma solenne non coincide con l’atto pubblico essendo considerata redatta in forma solenne anche la scrittura privata autenticata. 1.1. Il motivo è manifestamente infondato. Questa Corte ha già enunciato il principio di diritto, secondo il quale, nel sistema delineato dagli artt. 519 e 525 c.c. in tema di rinunzia all’eredità, la quale determina la perdita del diritto all’eredità ove ne sopraggiunga l’acquisto da parte degli altri chiamati, l’atto di rinunzia deve essere rivestito di forma solenne con una dichiarazione resa davanti al notaio o al cancelliere e la successiva iscrizione nel registro delle successioni (Omissis). In coerenza con questo orientamento, si è espressamente escluso che la rinuncia all’eredità possa essere fatta mediante scrittura privata autenticata; in tal senso questa Corte (v. ⎪ P.26 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore Cass., 11 gennaio 2011, n. 444) si è già espressa affermando (in motivazione): « del tutto infondata risulta la tesi in diritto del ricorrente, secondo cui la rinuncia all’eredità può anche essere fatta con scrittura privata autenticata, sia perché contraria alla disciplina di cui agli artt. 519 e 525 c.c., come statuito da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 4846/2003), sia perché atto di notevole incidenza in tema di successione ereditaria, riguardo, in particolare, ai chiamati all’eredità e ai creditori ». Il ricorrente contesta questa interpretazione con argomenti per nulla decisivi: - il verbo « ricevere » che compare nell’art. 519 c.c. può essere riferito anche alla dichiarazione scritta che viene autenticata; - la non coincidenza tra forma solenne e atto pubblico, il principio della libertà di forma, la pretesa equipollenza probatoria tra scrittura autenticata e atto pubblico e una equivalenza delle due forme anche sul piano sostanziale, il fatto che l’accettazione dell’eredità può essere fatta anche con scrittura privata autenticata; - il fatto che per altri atti di eguale importanza non è richiesto l’atto pubblico. Occorre al riguardo osservare che gli atti notarili devono essere stipulati nella forma dell’atto pubblico, come si desume dallo stesso art. 1 della legge notarile così formulato: I notari sono ufficiali pubblici istituiti per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà, attribuire loro pubblica fede, conservarne il deposito, rilasciarne le copie i certificati e gli estratti; solo in casi particolari e su richiesta delle parti, viene utilizza la forma della scrittura privata autenticata. L’atto pubblico è definito dall’art. 2699 c.c. come « il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato »; la caratteristica di atto pubblico attiene ad ogni suo elemento od aspetto, mentre la scrittura autenticata, come risulta dalla disciplina degli artt. 2702 e 2703 c.c. è una scrittura tra privati con la caratteristica peculiare che il pubblico ufficiale ne attesta e certifica la paternità delle sottoscrizioni nonché la data di sottoscrizione senza peraltro attestare che la dichiarazione è stata da lui raccolta, attestando semplicemente che la firma sulla dichiarazione è autentica; la fede privilegiata, in questo caso, copre esclusivamente l’autenticità della firma nonché la provenienza della stessa da determinati ed individuati soggetti, nonché la data delle sottoscrizioni, senza poter in alcun modo inerire al contenuto delle dichiarazioni. È senz’altro corretto affermare che, sotto profili diversi dell’efficacia probatoria, la differenza tra atto pubblico e scrittura privata si è attenuata. Infatti, la l. n. 246/2005, art. 12, comma 1, lett. a), riformulando l’art. 28 legge notarile, ha fatto divieto al notaio, non solo di ricevere, ma anche di autenticare atti espressamente proibiti dalla Legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico e così ha esteso il controllo di legalità del notaio anche sulle scritture private che egli autentica. L’art. 72, comma 3, della legge notarile nella nuova formulazione, ha vietato al notaio di rilasciare alle parti in originale quelle scritture private autenticate idonee a essere riportate nei registri immobiliari o nel registro delle imprese. Tuttavia non può affermarsi che nel nostro ordinamento la scrittura privata e l’atto pubblico siano stati assimilati a tutti gli effetti e il principio di libertà di forma non è applicabile quando, come nella specie, è espressamente prevista la forma dell’atto notarile pubblico. Quanto all’espressione letterale dell’art. 519 c.c. si deve osservare che ciò che il notaio è chiamato a ricevere non è un documento del quale egli autentica la sottoscrizione, ma è una dichiarazione; in altri termini, il notaio deve attestare non già che la firma è autentica (in conformità alla definizione contenuta dell’art. 2702 c.c.), ma che il soggetto comparso davanti a lui ha reso una dichiarazione e di tale evidente differenza è traccia nella stessa legge notarile: l’art. 28 (Il notaro non può ricevere o autenticare atti...), appunto, distingue l’attività del ricevere l’atto dalla diversa attività di autenticarlo. In conclusione non sussistono ragioni per discostarsi dai principi affermati nei richiamali precedenti e il motivo deve essere rigettato. 2. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 e 1325 quanto alla ritenuta nullità della dichiarazione di rinunzia all’eredità non fatta per atto pubblico con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ». Il ricorrente sostiene: che la nullità sussiste, ai sensi dell’art. 1325 c.c., solo quando la forma risulta prescritta dalla legge sotto pena di nullità, mentre nessuna disposizione prevede che la rinuncia all’eredità debba farsi per atto responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.27 ⎪ pubblico sotto pena di nullità; che mentre l’art. 520 c.c. espressamente sancisce la nullità della rinuncia fatta sotto condizione o a termine, sulla si prevede per la rinunzia fatta con forma diversa dell’atto pubblico; inoltre l’art. 525 c.c. nulla dispone quanto alla forma della revoca della rinuncia. 2.1. Il motivo è manifestamente infondato in quanto l’art. 519 c.c. stabilisce che la rinuncia all’eredità deve essere fatta con le formalità ivi previste (che, come detto, non possono essere sostituite da una scrittura privata autenticata) e l’art. 1350 c.c. stabilisce che devono farsi a pena di nullità per atto pubblico o per scrittura privata quelli ivi elencati, tra i quali « gli atti specialmente indicati dalla legge »; nella fattispecie, come detto, per la rinuncia all’eredità è specificamente indicato dall’art. 519 c.c. l’atto pubblico, né ha fondamento normativo e neppure logico l’interpretazione dell’art. 1350, n. 13, c.c., proposta dal ricorrente, secondo la quale nella formula « gli altri atti specialmente indicati dalla legge » dovrebbe ravvisarsi non un rinvio a tutti gli atti per i quali è prevista una determinata forma, ma solo un rinvio agli atti per i quali la forma è prevista a pena di nullità; tale interpretazione, all’evidenza, implicherebbe; la necessità di una doppia previsione di nullità: a quella prevista dall’art. 1350 c.c. dovrebbe aggiungersi una nullità che dovrebbe essere ribadita tutte le volte in cui il legislatore prevede una forma vincolata, conclusione che costituisce l’esatto contrario di quanto si era proposto il legislatore, stabilendo al comma 1 la nullità per tutti gli atti per i quali non è rispettato il requisito di forma previsto nei numeri da 1 a 13. 3. Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 e 1325 in relazione all’art. 28 della legge notarile con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ». Il ricorrente sostiene che l’art. 28 della legge notarile vieta al notaio di ricevere atti « espressamente vietati dalla legge », ma nella fattispecie, secondo il ricorrente, manca il presupposto dell’espresso divieto in quanto la nullità sarebbe riconducibile non ad una norma specifica, ma ad una interpretazione giurisprudenziale costituita da un unico precedente, per giunta successivo all’atto per il quale è stata applicata la sanzione disciplinare. 3.1. Il motivo è manifestamente infondato perché l’atto non era affetto da una nullità virtuale, ossia priva di quella evidenza testuale cui la norma rinvia, ma era affetto da una nullità formale che riguardava, appunto, la forma dell’atto prescritta dalla legge (art. 519 c.c.) a pena di nullità (art. 1350 c.c., n. 13), come, del resto, riconosciuto anche in dottrina che ha affermato che la rinunzia è « un atto negoziale formale ad substantiam actus ». In giurisprudenza già con Cass. n. 3500/1975 si era riconosciuta la nullità della rinunzia senza l’osservanza delle forme dell’art. 519 c.c. seppure con salvezza dell’atto nei rapporti tra i coeredi che avessero posto in essere comportamenti dai quali desumersi con certezza la rinuncia. 4. Con il quarto motivo di ricorso (indicato, tuttavia con il numero 5), il ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione dell’art. 28 della legge notarile con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 » e sostiene che, secondo la dottrina (che non menziona) la previsione dell’art. 28, n. 1, della legge notarile, sanzionerebbe esclusivamente le nullità per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 c.c. e non anche le nullità formali. 4.1. Il motivo è manifestamente infondato e l’affermazione ivi contenuta contrasta con il consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale la prescrizione dell’art. 28, secondo la quale « Il notaio non può ricevere o autenticare atti; 1° se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico », si riferisce non solo agli atti vietati singolarmente e specificamente dalla legge, ma altresì a tutti gli altri atti comunque contrari a disposizioni cogenti della legge stessa, ossia non aderenti alla normativa legale, di ordine formale o sostanziale, per essi prevista a pena di inesistenza, nullità (non solo dall’art. 1418 c.c., comma 1, ma anche dai commi successivi) o annullabilità (Cass., 21 aprile 1983, n. 2745; Cass. 11 novembre 1997; Cass., 1° febbraio 2001, n. 1394). La giurisprudenza richiamata e che qui si condivide è coerente con gli stessi fondamenti della responsabilità disciplinare del notaio che deriva dall’avere tradito, per negligenza, imperizia e imprudenza l’aspettativa del cittadino di ottenere dal notaio un atto che non sia nullo o che presti il fianco a facili impugnazioni; in questo senso deve essere interpretato, quindi, l’art. 28 che, come in dottrina si è efficacemente osservato, non regola la nullità degli atti, ma la responsabilità disciplinare del notaio. ⎪ P.28 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore 5. Con il quinto motivo di ricorso (indicato, tuttavia con il numero 6), il ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione dell’art. 158 della legge notarile in relazione all’art. 333 c.p.c. in relazione alla ritenuta ammissibilità del reclamo incidentale del P.M. con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 » e sostiene che la Corte di Appello non avrebbe dovuto rigettare l’appello incidentale del P.M. ma dichiararlo inammissibile perché l’appello incidentale del P.M. non è previsto da alcuna norma e per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione penale, applicabile al giudizio disciplinare, non sarebbero ammissibili le impugnazioni non espressamente previste; in ogni caso avrebbe dovuto riconoscerlo ammissibile solo limitatamente ai capi investiti dall’appello principale e comunque il Procuratore Generale avrebbe rinunciato all’appello incidentale del P.M. essendo intervenuto chiedendo solo la conferma del provvedimento reclamato. 5.1. Il motivo è inammissibile in quanto sulla statuizione del giudice di appello relativa al reclamo incidentale del P.M. l’odierno ricorrente non è stato parte soccombente nel giudizio di appello perché il reclamo è stato rigettato; pertanto non può impugnare la decisione, mancando l’interesse all’impugnazione e non potendo, dall’impugnazione (manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire), derivare alcun vantaggio al ricorrente. Il motivo e altresì manifestamente infondato: come questa Corte a Sezioni Unite ha già rilevato, « è priva di ogni supporto normativo la tesi del ricorrente, secondo cui la proposizione di reclami incidentali tardivi, nei procedimenti disciplinari a carico dei notai, sarebbe preclusa ai titolari dell’azione (Cass., Sez. Un., 31 luglio 2012, n. 13617). La l. n. 89/1913, art. 158-bis, (ora abrogato, ma qui applicabile ratione temporis) richiamava la disciplina dettata per i procedimenti in camera di consiglio dal codice di procedura civile. Per tali procedimenti non si è mai dubitato, nella giurisprudenza di legittimità, che sia consentita la proposizione di impugnazioni incidentali, anche tardive (cfr., Cass., 20 gennaio 2006, n. 1176), né che siano stabilite limitazioni nelle impugnazioni (nel sistema della procedura civile qui applicabile) per le « parti pubbliche ». La stessa conclusione vale a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, art. 26, nel quale viene fatto ora rinvio al rito sommario di cognizione, anziché, come in precedenza, agli artt. 737 c.p.c. ss. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.29 ⎪ SENTENZA TRIB. TRIESTE 28 OTTOBRE 2013 G.U. PICCIOTTO Sport - Responsabilità civile - Concorso di responsabilità contrattuale e aquiliana - Esclusione. C.C. ARTT. 1218, 1228, 2043, 2049, 2050. A fronte di un evento che sia al contempo inadempimento di un’obbligazione e illecito extracontrattuale, il rimedio invocabile è quello della responsabilità contrattuale, maggiormente specifico rispetto a quello aquiliano. FATTO E DIRITTO. 1. Espone G.M. di essersi iscritto nel mese di ottobre 2008 ad un corso base di arrampicata sportiva per apprendere tecniche di sicurezza in movimento presso la palestra gestita dall’Associazione sportiva dilettantistica Olympic Rock Trieste (d’ora in avanti: Olympic Rock Trieste), in Trieste. A tal fine aveva sempre avuto rapporti con M.E. Il corso si articolava in lezioni di ginnastica e attività teorico-pratica: all’inizio di febbraio 2009, l’attore sostiene di essere stato automaticamente iscritto ad un corso intermedio per approfondimento e miglioramento delle tecniche di sicurezza e di arrampicata, sotto la direzione di C.M. In data 2 aprile 2009, verso le 21.00, stava effettuando con il compagno di corso F.L. attività di arrampicata, secondo il programma preparato dall’istruttore. In particolare otto persone formavano quattro gruppi, di cui un soggetto sulla parete ed uno a terra con il compito di assicurare la corda di trattenuta, secondo il sistema « conetto-secchiello » e moschettone a ghiera. Mentre l’attore si trovava a circa 7 metri di altezza, nella fase di discesa, il compagno di esercizio F.L. non riusciva a compiere la manovra di « sicura », consistente nell’accompagnare la discesa del compagno in parete, mantenendo la mano che tiene la corda verso il basso in modo tale da chiuderne l’angolo e quindi dare corda poco alla volta, per permettere una discesa controllata ed in sicurezza: per tale ragione G.M. cadeva rovinosamente al suolo, su pavimento in parquet in legno non coperto da materassi. 1.1. Veniva soccorso da un compagno, medico, e dopo poco anche dall’istruttore. A causa della sussistenza di forti dolori, il giorno seguente si recava in pronto soccorso dove veniva riscontrato un trauma da precipitazione, sacro-coccigeo, e calcaneare sinistro. All’indagine radiologica si evidenziava la contusione al calcagno, al rachide lombosacrale, TDRC, trauma cranico non commotivo, lieve contrattura della muscolatura paravertebrale. Era prescritto collare ortopedico per sei giorni. Stante la persistenza del dolore al piede sinistro, in data 20 aprile 2009 eseguiva una risonanza magnetica che rilevava una « stria ipointensa a decorso obliquo nei settori basali del calcagno con intenso edema della spongiosa ossea circostante in un quadro da riferire frattura composta ». Seguivano ulteriori controlli ortopedici con diagnosi di cervicalgia e lombosciatalgia, con prescrizioni di riposo assoluto e cicli di magnetoterapia. In particolare, ancora a fine maggio 2009 persistevano la contrazione muscolare al collo ed alle spalle, il dolore al calcagno e le cefalee. Solo nel mese di dicembre 2009 terminavano le cure specifiche. 1.2. Già in data 7 aprile 2009 F.L. aveva denunciato il sinistro alla propria compagnia assicuratrice della responsabilità civile, ammettendo la propria responsabilità. Tuttavia nessuno dei convenuti di persona, né la compagnia assicuratrice di F.L., facevano lo stesso. 1.3. Ha quindi illustrato i profili di responsabilità contrattuale in capo all’Olympic Rock Trieste, con la quale concorrerebbe ai sensi dell’articolo 38 c.c. quella di M.E., soggetto che all’epoca dei fatti rappresentava l’associazione ed agiva in nome e nell’interesse della stessa. Tale responsabilità discenderebbe dall’obbligo contrattuale di garantire con mezzi organizzati idonei l’incolumità fisica degli allievi, organizzando i corsi, vigilando sull’attività degli istruttori e sull’andamento delle lezioni, per fornire un servizio di istruzione ed assistenza qualificato. In particolare sarebbe stata omessa la cautela consistente nel controllo costante delle manovre svolte dall’allievo a terra, incaricato di assicurare, con la tenuta della corda, l’incolumità fisica dell’attore. Altro profilo di responsabilità consisterebbe nel mancato posizionamento a terra di materassini o altro materiale atto a evitare o quantomeno attenuare le conseguenze di incidenti del genere. ⎪ P.30 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore 1.4. Quanto a F.L., la sua condotta sarebbe colposa ai sensi dell’articolo 2043 c.c, per non avere eseguito la manovra di « sicura » in modo idoneo. Del pari, quanto all’associazione sportiva, sussisterebbero profili di responsabilità extracontrattuale per la mancanza di controllo adeguato e costante da parte dell’istruttore sull’operato degli allievi. Sia l’associazione, che il suo rappresentante, avrebbero inoltre dovuto posizionare presidi a protezione di cadute. 1.5. Infine, sostenendo la natura pericolosa dell’attività sportiva di alpinismo, ha addebitato quanto accaduto ai convenuti M.E. e Olympic Rock Trieste ai sensi dell’articolo 2050 c.c. 1.6. Ha chiesto quindi la condanna di tutti i condebitori in solido al risarcimento dei danni nella sfera patrimoniale, consistiti in inabilità lavorativa per sette giorni e di risarcimento delle spese mediche, e nella sfera biologica, con postumi permanenti pari a 7% e danni da inabilità temporanea parziale: il tutto oltre al danno morale ed alla vita di relazione, per complessivi Euro 27.581,92, con personalizzazione nella misura massima del danno biologico. Al riguardo, ha sostenuto di non riuscire più a svolgere le attività sportive e di svago in precedenza abitualmente tenute, e di essere costretto ad indossare ciabatte anche sul lavoro per il fastidioso dolore al tallone, non riuscendo a mantenere la stazione eretta per più di due ore, né sollevare pesi ingenti, né guidare a lungo l’autovettura. 2. Si è costituito F.L. sostenendo la responsabilità di G.M. che, senza aver dato il minimo avvertimento al compagno, si sarebbe lanciato nel vuoto dando inizio la manovra di discesa: l’inaspettato strappo ricevuto determinava l’impossibilità per F.L. di trattenere efficacemente la corda. In ogni caso il convenuto sarebbe stato semplice compagno di corso dell’attore, durante un’esercitazione che era avvenuta sotto la supervisione dell’istruttore, senza che nessun addebito possa essergli mosso: ciò, sia per la grave avventatezza e imprudenza dell’attore ai sensi dell’articolo 1227 c.c., sia per la posizione assorbente di garanzia rivestite dell’istruttore e dell’associazione sportiva sensi degli articoli 1228 e 2049 c.c. In via subordinata ha contestato la quantificazione dei danni e chiesto, ai sensi dell’articolo 2055 c.c., di potersi rivalere nei confronti degli altri soggetti coinvolti nel caso di condanna nella misura delle rispettive responsabilità. 3. Con la medesima comparsa si sono costituiti M.E. e l’Olympic Rock Trieste, contestando il primo l’applicabilità del disposto dell’art. 38 c.c. al caso di specie; la convenuta ha invece sostenuto che all’atto dell’iscrizione l’attore sarebbe divenuto socio dell’associazione, oltre che aderente alla specifica associazione nazionale F.A.S.I. (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana) e titolare di polizza assicurativa: non potrebbe pertanto agire in via contrattuale contro i convenuti stessi. Nel merito, sarebbero stati adottati tutti gli strumenti di prevenzione possibili, ed unico responsabile del sinistro sarebbe il convenuto F.L. 3.1. Lamentano ancora i convenuti che, malgrado la presunta responsabilità dell’istruttore C., lo stesso non sia stato chiamato in giudizio dall’attore e, per l’inconcessa ipotesi di una qualche propria responsabilità in ordine al comportamento dello stesso, hanno chiesto di essere autorizzati alla sua chiamata in causa per esserne manlevati. In conclusione hanno invocato un accertamento di eventuali responsabilità concorrenti. 4. L’istanza di chiamata in causa non è stato autorizzata, non essendo state delineate le ragioni a sostegno della stessa, e non essendo stato possibile valutare il tipo di domanda che si intendeva proporre, e quindi la sua ammissibilità ed opportunità. 4.1. Le domande ed eccezioni non sono state modificate. 4.2. Raccolte le prove parzialmente ammesse, disposta consulenza tecnica medico-legale, sulle conclusioni di cui in premessa la causa giunge quindi la decisione dopo il deposito degli scritti conclusivi e delle repliche. 5. Occorre trattenersi in generale sulla qualificazione della fattispecie. 5.1. Pur prescindendo dal dato assorbente dell’esistenza di un rapporto contrattuale tra G.M. e Olympic Rock Trieste, di cui si dirà oltre, e quindi ferma l’applicabilità del disposto dell’art. 1218 c.c., merita spendere alcune considerazioni intorno alla natura dell’attività praticata nella palestra in cui è avvenuto il sinistro. Esse ritorneranno utili allorché si tireranno le fila di tutti i passaggi necessari per la soluzione del caso, e rispetto ai quali l’indagine causale è solo uno degli elementi responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.31 ⎪ che il giudice deve tenere presenti nel processo risarcitorio, « nella ricerca di chi debba farsi carico di cosa, ed in quale misura », come recentemente evidenziato da attenta dottrina comparatistica. 5.2. È noto il tradizionale insegnamento della Suprema Corte di cassazione, secondo cui costituiscono attività pericolose, ai sensi dell’art. 2050 c.c., non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che comportino la rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, sia nel caso di danno che sia conseguenza di un’azione, sia nell’ipotesi di danno derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla natura dell’attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza (da ultimo, Cass. sent. n. 919/2013). 5.3. Non ignora il giudice il recentissimo arresto di Cass., sent. n. 12900/2012, che ha qualificato come « pericolosa » l’attività svolta da una scuola di alpinismo senza fini di lucro, e, conseguentemente, condannato ex art. 2050 c.c. la scuola al risarcimento del danno, patito da un allievo caduto durante un’arrampicata). 5.3.1. In realtà la fattispecie ivi discussa era molto diversa da quella che viene qui in considerazione. Nel caso deciso dai giudici milanesi e poi giunto in Cassazione, un allievo di un corso di alpinismo per principianti curato da un’associazione privata, altresì sezione del Club Alpino Italiano, durante una scalata organizzata dall’associazione lungo una via ferrata perse l’appoggio del piede sinistro, scivolò per alcuni metri lungo il cavo d’acciaio cui era assicurato e, ruotando nel vuoto, riportò la frattura della caviglia destra nell’urto contro il predellino d’acciaio che serviva per agevolare la salita. 5.3.2. La Suprema Corte di cassazione ha messo in rilievo che oggetto del giudizio non era tanto il « corso di alpinismo », ma l’escursione alpinistica organizzata nell’ambito di detto corso, « la prima dopo un’unica lezione teorica e consisteva in un’ascensione per via ferrata lungo una parete verticale lunga circa 200 metri effettuata da un principiante ». Ed in questo contesto la Corte ha ritenuto corretto assumere che la pericolosità dell’attività potesse essere apprezzata in relazione alle specifiche caratteristiche proprie del caso concreto, e ha giudicato condivisibile l’affermazione secondo cui « anche le escursioni alpinistiche più facili presentano elementi di rischio elevato per soggetti sprovvisti o che hanno appena appreso le tecniche di tali escursioni, principalmente quando l’attività viene esercitata per le prime volte ». Inoltre, i giudici di legittimità hanno dato rilievo, ai fini della qualificazione dell’attività come pericolosa, a talune circostanze, definite come « certamente suscettibili di essere valutate ex ante », quali « le descritte caratteristiche dell’ascensione alla luce della considerata inesperienza dell’allievo e dell’unicità della lezione teorica impartita prima dell’escursione alpinistica ». 5.4. Nel caso qui a giudizio, invece, si tratta di un corso di arrampicata sportiva ben strutturato, frequentato da diversi mesi, altamente ripetitivo quanto ad esercizi base, e sorvegliato generalmente nel suo svolgimento da parte del personale istruttore. L’istruttoria disimpegnata ha consentito di accertare come durante i corsi si desse la massima attenzione al corretto svolgimento delle manovre di trattenuta, stimate — a buona ragione — più importanti rispetto alle attitudini all’arrampicata. In particolare venivano impiegati diversi mesi per curare l’apprendimento della trattenuta, e alla fine del primo corso si poteva passare a quello seguente solo dopo un esame. Anche se alcuni testi non sono stati precisi al riguardo di un esame formale, piuttosto che di una valutazione demandata all’istruttore, il passaggio non era automatico, e non tutti venivano giudicati idonei, come lasciava supporre la versione fornita dall’attore. 5.4.1. Elemento di prima valutazione per giudicare l’attitudine degli « allievi » sarebbe quindi proprio la manovra di « sicura », mentre solo secondario sarebbe l’apprezzamento per le tecniche di arrampicata (teste P.). Molto rilevante, sul punto, la precisa deposizione del teste GU. che frequentava lo stesso corso dell’attore e del convenuto F.L.: merita attenta lettura per comprendere come vi fossero controlli continui, anche « a sorpresa » sulla corretta tecnica di « sicura ». Tutti i partecipanti erano stati ritenuti idonei per il corso intermedio, e non più principianti, e svolge- ⎪ P.32 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore vano gli esercizi a loro ormai noti: comunque, alla ripresa del corso dopo l’interruzione estiva, erano state riviste le procedure in questione, « per vedere se si erano conservate le abilità ». 5.5. Ne consegue che in questo caso, a differenza di quello giudicato dalla Suprema Corte di cassazione, il danneggiato aveva un’esperienza che gli consentiva pienamente la partecipazione all’esercitazione, conosciuta e più volte eseguita; ma, soprattutto, lo stesso era a dirsi per il suo compagno. Non vi è quindi un’attività concretamente pericolosa, per ragioni contingenti, o per particolari qualità dei luoghi o dei partecipanti. Tutto era assolutamente uguale agli esercizi normalmente praticati. 5.6. Ed allora, poiché non v’è questione in ordine alla natura dei mezzi adoperati che sono quelli usuali (vedi documenti tecnici acquisiti), occorre prestare attenzione alla natura dell’attività, alla sua eventuale potenzialità offensiva oggettiva, ed al grado di possibilità del verificarsi di un danno, ed agli equilibri economici che contornano la vicenda, oltre che alle caratteristiche dei soggetti coinvolti: tutto ciò per dipanare quel « reticolo di dettagli che compone ogni conflitto », e non abbandonarsi a vuote considerazioni su un nesso di causalità « in the air », come suggerito da attenta dottrina citata, ed arrivare ad un corretto giudizio sulle responsabilità in ordine all’accaduto. 5.6.1. L’attività di palestra, con attrezzistica o senza, comporta in genere l’utilizzo di strutture o mezzi finalizzati all’esercizio fisico. Entrano in gioco diversi elementi fisici, sostanzialmente collegati alle leggi della gravità o della meccanica. Non perciò solo si può ritenere che si tratti di un’attività pericolosa in astratto: è tuttavia indiscutibile che, qualora un soggetto inesperto venga avviato senza adeguata preparazione all’uso di un attrezzo pericoloso e non conosciuto, o ad un esercizio di tal genere, allora in concreto si possa stimare (non dissimilmente da quanto ritenuto dalla Cassazione al punto 5.3.2. di cui sopra) che la specifica attività, alla luce dell’inesperienza dell’allievo e della mancanza di insegnamenti teorici e pratici, possa essere pericolosa. Ciò, si ribadisce, va detto in termini generali, non necessariamente in quelli ristretti e relativi all’applicazione dell’art. 2050 c.c., che nel caso di specie non è possibile, sussistendo rapporto contrattuale tra danneggiato ed associazione sportiva. 5.6.2. Non può, in altri termini, concludersi generalmente ed astrattamente per la natura pericolosa dell’attività in esame, anche in mancanza di qualsiasi dato in ordine al numero di incidenti; anzi, proprio il fatto che si tratti di attività aperta anche ai giovanissimi delle scuole elementari pubbliche (teste R.), lascia fondatamente ritenere che non vi sia un’astratta pericolosità. 5.6.3. Queste considerazioni, astrattamente poco rilevanti in quanto vi è rapporto contrattuale tra G.M. e Olympic Rock Trieste che impedisce l’applicazione della norma di cui all’art. 2050 c.c., rimangono tuttavia utili per la valutazione della misura dell’adempimento, della rilevanza causale del comportamento dei debitori, dell’indagine in tema di corresponsabilità, e di ciò si dirà oltre. 6. Conviene a questo punto, prima di esaminare la posizione dell’Olympic Rock Trieste, passare ad analizzare la condotta di F.L. e il suo apporto causale in relazione all’evento. Il tutto con una fondamentale precisazione: egli potrà essere chiamato a rispondere in via esclusiva del fatto proprio solo nei limiti in cui si ritenga che nessun inadempimento possa essere contestato al contraente Olympic Rock Trieste, e si concluda che la condotta antigiuridica del F. non sia rapportabile a quella dell’Olympic Rock Trieste, secondo lo schema dell’art. 1228 c.c. Ma di ciò si dirà oltre, per coerenza di sviluppo della motivazione. 6.1. È pacifico che F.L. avesse tutte le attitudini per eseguire il tipo di esercizio praticato, da lui disimpegnato molte volte e senza riferite conseguenze negative: aveva passato esami di valutazione, e non era più un esordiente; si trattava di un esercizio routinario, ripetitivo, ormai appreso. È altrettanto pacifico che egli abbia assunto su di sé la responsabilità dell’accaduto (risposta in sede di interpello ai capitoli 27 e 28 della memoria istruttoria di M.E. e Olympic Rock Trieste), per avere sbagliato la manovra di trattenuta in un momento di distrazione. 6.2. Per contro, non è stata assolutamente provata l’esistenza di un fatto imprevisto, come la presunta scelta sconsiderata (eccepita dalla difesa di F.L.) da parte di G.M. di iniziare la discesa all’improvviso: non può quindi ritenersi concorrere un comportamento colposo del danneggiato, responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.33 ⎪ il quale è caduto senza poter fare nulla per evitarlo: come si legge nella verbalizzazione dell’interpello del FL, l’attore è caduto in terra in meno di due secondi, dopo che il compagno qui convenuto aveva perso la presa della corda di trattenuta. 6.3. La responsabilità del convenuto sembra essere quindi pacifica, per avere egli omesso di adottare le opportune cautele, sulle quali confidava l’attore per la riuscita dell’esercizio in sicurezza, e che era in suo potere prestare. Non sussisteva tra le parti alcun vincolo giuridico obbligatorio di tipo contrattuale, ma il dovere generale del neminem laedere imponeva al convenuto di attivarsi per evitare il danno, nei limiti dell’esigibilità, avendo egli ricoperto una funzione fattuale (e non giuridica) (1) di protezione nei riguardi del danneggiato. 6.4. In seguito si trarranno le conclusioni in tema di eventuale corresponsabilità e di ripartizione degli obblighi risarcitori, oltre che di diritto al regresso. 7. Ciò posto, si può tornare ad analizzare la posizione dell’Olympic Rock Trieste. 7.1. È incontestabile l’esistenza di un rapporto contrattuale tra l’associazione e l’attore, ma non certo di natura associativa, come vorrebbe qualificarlo la parte convenuta nella sua concisa eccezione, proposta in comparsa di costituzione e risposta. Sono note le ragioni, anche tributarie, per le quali si tende a far figurare come « associato » colui il quale, a tutti gli effetti, è un cliente che usufruisce dei locali e delle attrezzature dietro esborso di denaro: ciò non può però valere a modificare il rapporto (v. Cass., sent. n. 22578/2012 (2) che dura fin quando si paga la retta mensile, e che non ha alcun serio connotato associativo. Si tratta in realtà di un vero e proprio rapporto contrattuale di erogazione di servizi nel quale, a fronte di una prestazione in denaro, il gestore si impegna ad avviare ad una pratica sportiva, insegnandone la tecnica e, ovviamente, adottando tutti i necessari accorgimenti a tutela dell’integrità fisica del praticante. Alla fine della frequenza del corso cessa il rapporto « associativo ». Che si tratti formalmente di un privato, di un imprenditore, o di un artigiano, tutto ciò sposta poco, ai fini di causa, nel senso che occorre guardare alla sostanza del rapporto. 7.1.1. L’esistenza del vincolo contrattuale esonera dall’indagine sulla possibile esistenza di una responsabilità da contatto sociale, come detto, e dalla concreta qualificazione dell’attività come pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c. Non di meno merita rammentare che lo sport riceve tutela, anche a livello costituzionale, proprio in segno di riconoscimento dei diritti inviolabili delle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità del singolo: a tale riconoscimento si accompagna però il dovere di garantire lo svolgimento della pratica sportiva nel rispetto dei primari diritti della persona, tra cui quello alla salute. Quindi, nel rapporto contrattuale vengono ad assumere rilievo preminente gli obblighi protettivi a carico della parte che eroga la prestazione significativa. 7.1.2. Posto infatti che l’allievo/contraente, fino a prova contraria e comunque fino ad una completa maturità tecnica, non è libero di eseguire attività a piacimento, ma deve praticare gli esercizi suggeriti nel corso secondo le modalità tecniche illustrate, insegnate e controllate, sembra indubbio che tra gli obblighi a carico del contraente/associazione sportiva vi sia anche quello di protezione dell’allievo. Egli deve potersi esercitare venendo ragionevolmente protetto dai rischi connessi sia all’attività, che al luogo in cui è disimpegnata, che all’attrezzatura fornita, indipendentemente dalla natura pericolosa o meno di tale attività. 7.2. Occorre quindi giudicare se Olympic Rock Trieste abbia adempiuto a questa obbligazione di protezione. 7.3. È evidente che nel caso di specie l’attività di protezione e tutela non fosse esperita direttamente ed in via esclusiva dall’istruttore, ma vi fosse solo un controllo, una supervisione indiretta e non constante. Si tratta di quell’attività, alla quale hanno fatto riferimento i testi, apprestata durante l’apprendimento iniziale, e poi durante le verifiche, o in sede di esame per il passaggio al grado di abilità successivo; ma si tratta anche di quei « controlli » improvvisi, che venivano esercitati per non far sentire troppo rilassati gli allievi nella pratica della « sicura ». Tuttavia, una volta appreso l’esercizio, il suo svolgimento veniva del tutto delegato ad un altro allievo, che a terra svolgeva l’attività di sicura. Di fatto, gli atleti che si presentavano a lezione ⎪ P.34 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore venivano smistati o separati in piccoli gruppi, per « allenarsi » sostanzialmente a coppie, sotto la direzione di un solo istruttore. 7.3.1. È innegabile che questo sistema di « allenamento », oltre ad arricchire — fino ad un certo punto — di esperienza l’allievo, comporti sempre per il gestore un sensibile risparmio nell’impiego di personale e di tempo: invece di riservare al solo istruttore/dipendente l’attività di controllo e protezione, di essa viene « investito » un allievo, che viene così ad assumere, oltre ad un ruolo di ausiliario, anche precise responsabilità civili che, altrimenti, avrebbero fatto capo al gestore. 7.3.2. Questa scelta organizzativa consente, quindi, di ottimizzare tempi e costi, e di far praticare esercizi ad un numero maggiore di allievi: non più un singolo istruttore per agevolare fase di risalita e discesa di un singolo atleta, ma tanti « delegati alla sicura » per quanti atleti si esercitano in parete; non, quindi, un impiego diretto di un istruttore per allievo, ma un semplice coordinamento del corso ed un controllo sporadico su tutti gli atleti. Non risulta, inoltre, che vi fosse la possibilità di frequentare la palestra all’infuori della frequenza di corsi con istruttore: il che vuoi dire che non sono state comprovate tariffe particolari per chi volesse allenarsi in coppia e senza istruttore: cosa che di fatto accadeva. 7.4. Olympic Rock Trieste assume in comparsa di costituzione e risposta che la partecipazione di G.M. e F.L. al corso intermedio sarebbe avvenuta « dopo valutazione di idoneità e previa assunzione da parte degli stessi della responsabilità per la sicurezza propria e di tutti gli associati, secondo le precise caratteristiche dell’arrampicata sportiva ». Questa affermazione suona come una conferma della scelta, quanto meno non esclusivamente « formativa », di organizzare l’attività in palestra sfruttando le competenze degli allievi. 7.4.1. Seppure si concorda — alla luce. dell’istruttoria disimpegnata — sulla prima affermazione (valutazione di idoneità), invece non sussiste traccia alcuna dell’assunzione giuridica di una responsabilità da parte dell’allievo nei riguardi degli altri associati. Per meglio dire: non esiste traccia di un’assunzione che sia valsa a riversare solo ed esclusivamente sull’allievo i rischi dell’attività e gli obblighi di protezione nei confronti di altri allievi, identificati o non. Il compagno di esercizio, quindi, ha agito sicuramente sotto la sua responsabilità, dovendo rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c. del proprio operato: ma non perciò solo può dirsi che l’associazione sportiva, che della sua attività si è comunque avvalsa nei limiti sopra espressi, debba andare assolta da responsabilità, sia in via diretta e solidale, sia — come si dirà — in via di regresso. 7.4.2. Non può essere richiamato, al riguardo, il concetto di delega, atteso che non vi è rapporto di impiego o dipendenza tra l’associazione sportiva e l’allievo, ma semmai l’opposto: l’associazione è obbligata alla prestazione di facere, e l’allievo deve solo pagare il corrispettivo. Non vi è poi alcun riconoscimento di mansioni, o percezione di utilità economiche da parte dell’allievo il quale, dopo avere appreso la tecnica, si presta per spirito partecipativo a svolgere un’attività che, altrimenti, dovrebbe essere prestata dall’istruttore stesso. Per quanto importante, l’operazione di trattenuta è innegabilmente meno interessante per l’allievo, che vuole imparare a scalare, e che vive la fase attiva dell’esercizio in modo notoriamente più appagante di quella passiva di ritenuta. 7.4.3. Possono essere però invocati i noti principi in tema di sicurezza sul lavoro, secondo cui la mera designazione ad un servizio di protezione non determina una delega di funzioni, e non è dunque sufficiente a sollevare il designante dalle responsabilità in tema di violazione degli obblighi di contrattuali di protezione. 7.4.4. Si tratta, in altri termini, di uno scarico di mansioni e di responsabilità, gratuito, che solo inizialmente ed impropriamente è giustificato dall’esigenza di insegnare una tecnica (quella di « sicura »), ma che non elimina la responsabilità del debitore, a meno di non provare il caso fortuito o la forma maggiore. Anzi, è questa una scelta organizzativa volta sostanzialmente a contenere i costi di esercizio dei corsi, senza apparente utilità (dopo la fase di apprendimento e perfezionamento) per il partecipante. 7.5. Passando ad esaminare il grado di possibilità del verificarsi di un evento come quello verificatosi, in questo contesto di rapporto contrattuale, non può ritenersi che la disattenzione responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.35 ⎪ dell’allievo costituisca accadimento imprevedibile o non imputabile al debitore, tanto che proprio per evitare la ricorrenza di eventi di questo tipo vi erano continue verifiche degli esercizi. L’evento stesso, inoltre, sarebbe stato evitabile con una diversa organizzazione dei corsi ed una diversa incidenza dell’attività degli istruttori. 8. Queste considerazioni sono sufficienti per fare ritenere comprovata la responsabilità dell’associazione sportiva, in via contrattuale, e quella del convenuto F.L. ai sensi dell’art. 2043 c.c. 8.1. Al riguardo, si opina poi che la corresponsabilità debba essere estesa ai sensi dell’art. 38 c.c. anche a M.E., quale legale rappresentante dell’associazione stessa. È infatti principio tradizionale quello per cui la responsabilità personale di colui che ha agito in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta si riferisce sia ai rapporti negoziali che a quelli extranegoziali (Cass., sent. n. 1037/1969; n. 3579/1971). È poi noto che la responsabilità personale e solidale, ex art. 38 c.c., di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione ma all’attività negoziale (o, anche, extranegoziale) concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa ed i terzi (Cass., Sez. Lav., sent. n. 13946/1991; ma anche recentemente v. sent. n. 25748/2008). Tale responsabilità non concerne, neppure in parte, un debito proprio dell’associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria dell’associazione stessa: ne discende che l’obbligazione, avente natura solidale, di colui che ha agito per essa è inquadrabile fra quelle di garanzia ex lege, assimilabili alla fideiussione; e che chi invoca in giudizio tale responsabilità ha l’onere di provare la concreta attività svolta in nome e nell’interesse dell’associazione, non essendo sufficiente la prova in ordine alla carica rivestita all’interno dell’ente. 8.2. Nel caso di specie non è negata la qualità del legale rappresentante, né il fatto che, in una palestra delle dimensioni come quella della quale si discute (ed in cui la moglie del convenuto, escussa come teste, è a sua volta istruttrice), i corsi vengano organizzati, gestiti e tenuti secondo le disposizioni tecniche e logistiche di chi rappresenta l’ente, accetta le iscrizioni e paga gli istruttori. 8.3. Trattandosi di responsabilità solidale interna, non ha senso una ripartizione di quote di responsabilità nei rapporti tra questi due soggetti, ma solo in quelli tra l’associazione sportiva e il corresponsabile F.L. 9. Venendo ora all’indagine sull’esistenza del nesso di causalità (3) tra la caduta e le lesioni, si ritiene che la prova sia stata raggiunta senza apprezzabile dubbio. In primo luogo una caduta « in piedi » (anzi, su un piede, per poi urtare con la nuca la parete) dall’altezza di circa sette metri è astrattamente idonea a provocare le lesioni successivamente diagnosticate. Né può ritenersi che essersi recati il giorno successivo in pronto soccorso costituisca un elemento incompatibile con la ricostruzione dell’accaduto. Comunque, a sgombrare il campo sono le chiare valutazioni del CTU, espressamente richieste in considerazione delle contestazioni operate dalla difesa di F.L. A pagg. 10 ss. il CTU si trattiene in modo motivato e chiaro sul nesso tra la dinamica dell’incidente e le conseguenze lamentate e successivamente riscontrate. Il CTU ha saputo altresì cogliere la rilevanza di alcuni dimorfismi costituzionali preesistenti al sinistro (concausali rispetto al trauma indiretto al rachide), ed ha osservato come la situazione obiettiva (mancato utilizzo di plantari) sia incompatibile con l’allegazione eccessiva di algie e disfunzioni. Del resto le conclusioni non sono contestate dalle difese tecniche. 10. Se quindi il danno è casualmente collegato all’evento, e la caduta è rapportabile a fatto colposo sia dell’Olympic Rock Trieste che di F.L., occorre ora verificare ai sensi dell’art. 2055 c.c. come debba essere ripartita, all’interno dei diversi rapporti tra debitori, la rispettiva responsabilità, e se vi sia possibilità di regresso, ed a quale titolo. 10.1. Già si è chiarito che nessuna domanda è stata validamente delineata nei riguardi dell’istruttore C., del quale non è stata autorizzata la chiamata in causa. Del pari si è scritto di come non sia stata ravvisata alcuna responsabilità o rilevanza concausale nel comportamento del danneggiato. 10.2. Occorre ora richiamare il rapporto esistente tra l’Olympic Rock Trieste e F.L., per vedere ⎪ P.36 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore se ed in quali termini la prima sia chiamata eventualmente a rispondere del fatto del secondo: e la risposta non può che essere affermativa. 10.2.1. Si è detto di come l’organizzazione dell’attività nella palestra si avvalesse degli allievi per formare coppie di atleti dediti agli esercizi. Eppure il costo della rata mensile della palestra non risulta essere minore o diverso per chi svolga l’esercizio con l’istruttore, rispetto a chi lo esegua con un compagno. È quindi indubbio che l’utilizzo di allievi come « aiutanti » abbia comportato dei « commoda » per il debitore della prestazione istruttiva. Proprio su questa secolare massima di esperienza (« ubi commoda ibi et incommoda ») si fonda la ratio del disposto dell’art. 1228 c.c. (Cass., sent. n. 3776/1971). 10.2.2. Perché si configuri questo tipo di responsabilità per fatto degli ausiliari, l’art. 1228 c.c. impone, tra l’altro, che l’opera svolta dall’ausiliario sia connessa con l’adempimento della prestazione, talché, ove non si accerti che l’attività del terzo abbia determinato o concorso a determinare l’inadempimento o l’inesatto adempimento della prestazione, l’applicazione della norma dovrebbe escludersi ed il debitore non dovrebbe rispondere del fatto dell’ausiliario, appunto perché difetta il nesso di causalità tra l’opera del terzo e l’obbligo del debitore, la cui sussistenza è presupposta dalla disposizione dell’art 1228 c.c. (Cass., sent. n. 2787/1963; poi divenuto insegnamento tradizionale). Nel caso in esame, per le ragioni descritte, è pacifico che il comportamento di F.L. abbia avuto incidenza causale nella determinazione del sinistro: si rinvia ai punti 6 ss. 10.2.3. Quanto al rapporto che deve legare il debitore all’ausiliario, è noto che la norma trova applicazione ogni qual volta il contraente si avvalga, in tutto o in parte, della collaborazione di terzi nelle operazioni preordinate all’esecuzione del contratto, ancorché siano estranei all’azienda del debitore ed al rapporto tra creditore e debitore. Si può quindi sostenere che F.L. fosse di ausilio all’Olympic Rock Trieste, essendo irrilevante che tale aiuto fosse gratuito: quel che invece importa è che nel prestare la propria attività F.L. dovesse obbedire a direttive tecniche ed organizzative dell’associazione e dei suoi preposti (legale rappresentante o istruttori): il tipo, il contenuto, la durata degli esercizi risultata regolare dalle prescrizioni degli allenatori. 10.2.4. Se quindi sussiste un rapporto di ausilio, e se il fatto è ascrivibile a comportamento colposo dell’ausiliario, sussiste perciò solo piena responsabilità del debitore. Infatti è chiaro l’insegnamento della Suprema Corte di cassazione (sent. n. 6053/2010) secondo cui in tal caso l’inadempimento del terzo, del quale il contraente si avvalga per svolgere l’incarico, non costituisce di per sé giusta causa di esonero da responsabilità del contraente stesso, in quanto, ai sensi dell’art. 1228 c.c., questi è responsabile della scelta compiuta e risponde anche del fatto doloso o colposo dei suoi ausiliari, salvo che possa dimostrare il caso fortuito o la forza maggiore, anche con riguardo al comportamento dell’ausiliario. 10.3. Rimane però fermo che la colpa dell’ausiliario può in astratto fondare un’azione di regresso del contraente nei suoi confronti. 11. Tirando le conclusioni di queste premesse, necessarie in considerazione del complesso intreccio di domande e di responsabilità, si deve ritenere che G.M. abbia correttamente agito a tutela del proprio diritto nei riguardi sia del debitore sia di chi ha provocato il danno in via extracontrattuale. Si è trattato di una scelta legittima, ancorché l’attore potesse agire solo nei confronti del debitore. 11.1. Ciò ha determinato la necessità di chiarire i termini delle rispettive responsabilità, ancorché l’attore si possa avvalere della speciale tutela apprestata dall’art. 2055 c.c. a vantaggio dei danneggiati. 12. La domanda di accertamento delle rispettive responsabilità, proposta da F.L. e dall’Olympic Rock Trieste, obbliga ora il giudice ad esaminare la gravità delle rispettive colpe e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, con la precisazione che, nel dubbio, le singole colpe si presumono per legge uguali, ai sensi dell’art. 2055, comma 3, c.c. 12.1. È pacifico che l’evento è direttamente ascrivibile alla condotta colposa di F.L., che ha fatto scorrere la corda senza bloccarla per tempo, non riuscendo più a trattenere la caduta di G.M. Altrettanto pacifico è che l’individuazione di F.L., quale allievo che aiutasse G.M. ad eseguire il suo esercizio, non è stata viziata da culpa in eligendo. Ma se ci si fermasse alla sola valutazione della responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.37 ⎪ gravità della colpa di F.L., ed all’assenza di culpa in eligendo in capo all’Olympic Rock Trieste, si arriverebbe alla conclusione assolutamente ingiusta di porre tutto l’evento a carico di un soggetto terzo rispetto al rapporto contrattuale, e che è stato « usato » dal debitore per organizzare in modo più conveniente ed economico la propria attività di istruzione in palestra. Infatti lo specifico addebito, pure ipotizzato, della rilevanza causale del mancato posizionamento di un materassino sotto la parete, si è rivelato inconsistente: è stato dimostrato per testi che tale materassino avrebbe ostacolato la manovra di « sicura », compromettendo la stabilità dell’atleta a terra; per tale ragione non se ne fa mai uso in nessuna manifestazione, per le scalate accompagnate da terra. 12.1.1. È quindi necessario integrare le valutazioni con il ricorso ad altri parametri. Del resto l’adempimento contrattuale si accerta in termini oggettivi, ma si valuta secondo la misura della diligenza. 12.2. Occorre in primo luogo ribadire la rilevanza del motivo per il quale F.L., in concreto, si è trovato ad operare in una posizione di protezione che, a rigore, non gli sarebbe spettato di ricoprire, ed anzi che contrattualmente era posta a carico dell’Olympic Rock Trieste. E questa ragione si rinviene in una libera, ed anzi ben ponderata scelta organizzativa, di natura eminentemente economica, adottata dal debitore per ridurre i costi ed aumentare l’offerta al pubblico dei suoi clienti. Non è necessario soffermarsi ulteriormente sul concetto, ampiamente descritto ai punti che precedono. Si deve piuttosto qualificare questa scelta come a chiara valenza imprenditoriale, pur ferme le caratteristiche formali del soggetto prestatore. Sembra indubbio che l’associazione sportiva fosse titolare di un’obbligazione di risultato nei confronti degli atleti, e che a suo carico si potesse configurare una responsabilità contrattuale per il servizio reso (o non reso), ma va evidenziato che la logica secondo cui questa responsabilità deve essere traguardata è quella del rischio di impresa. Il contraente, per potersi liberare della sua responsabilità (tanto in sede principale quanto di regresso), avrebbe dovuto provare che la prestazione è divenuta per lui impossibile per una causa estranea ai rischi tipici creati dall’organizzazione della sua attività. La sua prestazione era ed è del tutto particolare, in quanto viene eseguita avvalendosi di una organizzazione di mezzi materiali, di dipendenti, ed addirittura di una serie di ausiliari di vario genere, i quali cooperano tutti quanti a produrre il risultato atteso dal creditore: eseguire in sicurezza la serie di esercizi di arrampicata. Quando — come nella specie — l’inadempimento deriva da cause interne all’organizzazione apprestata (mancanze da parte dei dipendenti o cattivo funzionamento delle macchine o mancanze degli ausiliari), la responsabilità sussiste in termini oggettivi, salva la prova del fortuito o della forza maggiore: ed anzi, proprio ai sensi dell’art. 1228 c.c., anche oltre tale evento, quanto meno nei rapporti con il creditore. 12.3. Se quindi l’Associazione sportiva dilettantistica Olympic Rock Trieste si è avvalsa, per proprio vantaggio economico, dell’operato di un ausiliario, e se l’evento di danno per il creditore si è verificato per fatto colposo di questo ausiliario estraneo al rapporto contrattuale, non può predicarsi un esonero di responsabilità del preponente in sede di verifica della corresponsabilità e di regresso tra condebitori. Una condanna del corresponsabile al rimborso integrale di quanto il contraente abbia pagato a titolo di risarcimento violerebbe le norme dettate dall’art. 2055 c.c. in tema di ripartizione, nei rapporti interni fra i coobbligati, dell’onere di risarcimento: il porre a carico di uno solo di essi, attraverso l’integrale rimborso del risarcimento pagato dall’altro, la totalità dell’onere anzidetto implicherebbe la negazione di qualsiasi colpa dell’altro o di qualsiasi efficienza del suo comportamento nella produzione del danno e, quindi, la negazione del fondamento della sua corresponsabilità. 12.4. Quanto alla misura di tale corresponsabilità, ritiene il giudice che l’analisi dei diversi elementi utili alla valutazione è troppo complessa, in ragione della specificità del caso. Si tratta invero di parametrare l’efficienza causale di un comportamento materiale di una persona fisica con quella connessa a scelte organizzative ed a logiche aziendali: i risultati del ragionamento sarebbero del tutto soggettivi, e dunque opinabili. Si tratta di una situazione di dubbio oggettivo e reale, e non è possibile valutare neppure approssimativamente la misura delle singole responsabilità. Non sussistono chiare evidenze per discostarsi dalla regola finale di natura presuntiva ed ⎪ P.38 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore equitativa, posta dall’art. 2055, comma 3, c.c., secondo cui « nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali ». 13. In conclusione, ferma la responsabilità solidale di F.L. e dell’Olympic Rock Trieste nella determinazione del sinistro, e ferma la responsabilità solidale interna di M.E. nei riguardi dell’associazione di cui è legale rappresentante, nei loro rapporti interni i condebitori sono tenuti in ragione della metà al pagamento di quanto riconosciuto a G.M., con diritto di regresso per la maggior quota eventualmente corrisposta. 14. Venendo alla quantificazione dei danni, si osserva come il danno non patrimoniale subito da G.M. sia caratterizzato da peculiarità che consigliano una minima personalizzazione. Non vi sono infatti esiti permanenti particolarmente invasivi, né risulta comprovata l’impossibilità di svolgere attività lavorativa o di svago o sportiva sensibilmente diversa da quella precedentemente svolta. L’attore non è stato sottoposto ad interventi chirurgici, ancorché il patema per la difficile individuazione delle patologie abbia comportato un apprezzabile disagio. Sussistono quindi elementi per appesantire minimamente e personalizzare il punto medio di danno tabellare e rendere così adeguato il risarcimento a tutte le componenti in autonome di danno (Cass. sent. n. 11950/2013). 14.1. Applicando quindi la tabella aggiornata al 2013, adottata dal Tribunale di Milano, usualmente adottata dal Tribunale di Trieste si ha: • sinistro dell’aprile 2009 in persona di anni 22: • invalidità permanente: 5% pari ad E 8.124,00, comprensivi della componente non patrimoniale non biologica come da tabella: inoltre è riconosciuta una personalizzazione del 10%, secondo equo apprezzamento delle risultanze di cui sopra, per complessivi E 8.936,40; • invalidità temporanea parziale al 75% ad E 120ldie per 6 giorni = E 540,00; • invalidità temporanea parziale al 50% ad E 120ldie per 40 giorni = E 2.400,00; • invalidità temporanea parziale al 35% ad E 120ldie per 40 giorni = E 1.680,00 • per un danno non patrimoniale totale pari ad E 13.556,40. 14.2. Quanto alla domanda di rivalutazione formulata dall’attore, si rileva innanzitutto che alla rivalutazione monetaria, in caso di condanna al risarcimento del danno, il giudice deve procedere d’ufficio, in quanto l’obbligo di risarcimento del danno è debito di valore, non di valuta, e dunque la quantificazione del danno deve essere compiuta in base ai valori monetari al momento della liquidazione. Nel caso di specie, la somma liquidata per il danno non patrimoniale non deve essere rivalutata ad oggi, poiché sono state utilizzate tabelle aggiornate al 2013. 14.3. Per quanto concerne gli interessi, occorre operare una distinzione tra interessi di tipo compensativo, che costituiscono una forma di liquidazione forfetaria della voce di danno data dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto (lucro cessante), e interessi corrispettivi, prodotti di pieno diritto dai debiti di valuta (art. 1282 c.c.). 14.4. La condanna al pagamento degli interessi compensativi, come posto bene in luce dalla Suprema Corte (Cass. SS.UU. n. 1712/1995), richiede che sia allegato e provato il danno da ritardo, con possibilità di far ricorso anche a presunzioni; essi possono essere liquidati in base a valutazione equitativa. Ora, nessuna prova diretta è stata offerta in giudizio circa l’effettivo danno da ritardo, ma considerato che l’attore può essere inquadrato nella categoria dei piccoli risparmiatori,non esercitando attività imprenditoriale né altra attività che implica l’uso di capitali, qualificandosi come dipendente, appare equo liquidare il danno attraverso il riconoscimento degli interessi al tasso legale sulla somma devalutata alla data del fatto e rivalutata anno per anno (cfr. Cass. SS.UU. n. 1712/1995). 14.5. Quanto agli interessi corrispettivi, con la liquidazione giudiziale del danno il debito di risarcimento dei danni da valore si trasforma in debito di valuta, con conseguente applicazione ad esso della relativa disciplina, pertanto sulla somma liquidata in sentenza decorreranno gli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) dalla data di pubblicazione fino al momento del saldo (Cass. n. 24896/2005). 14.6. Congrue le spese di assistenza medica, liquidate in E 3800,92, oltre interessi di legge responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.39 ⎪ dalla domanda al saldo, come da CTU: non luogo a liquidare quelle medio tempore sostenute, per le ragioni espresse dal CTU. 15. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo con sentenza esecutiva, tenuto conto del valore della domanda come riconosciuto, e dell’attività disimpegnata nella fase di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria, nonché del fatto che l’opera prestata è comunque di ordinario pregio, e che i risultati ed i vantaggi conseguiti sono positivi. Salvo il regresso nei termini sopra espressi. 16. Spese di CTU definitivamente a carico dei soccombenti, salvo il regresso nei termini sopra espressi. (Omissis). (1) Né è a discutersi di responsabilità « da contatto sociale », essendo essa configurabile non in ogni ipotesi in cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a terzi, come conseguenza riflessa dell’attività così espletata, ma soltanto quando il danno sia derivato dalla violazione di una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai rischi dell’attività svolta dal danneggiante. (2) Se ne riporta il testo in nota, per non appesantire la lettura: « L’esenzione d’imposta prevista dall’art. 111, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (secondo la numerazione vigente ratione temporis, e corrispondente al vigente art. 148, in virtù della riforma introdotta dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344) in favore delle associazioni non lucrative dipende non dall’elemento formale della veste giuridica assunta dall’associazione, ma dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro. Ne consegue che correttamente il giudice di merito esclude dai suddetti benefici l’associazione sportiva, gestore di una palestra, la quale esiga dalle perso- ⎪ P.40 ne aventi la veste formale di associati un corrispettivo proporzionale all’attività erogata in loro favore, le escluda da tutte le scelte decisive per la vita dell’associazione e preveda la perdita della qualità di associato al cessare della frequentazione della palestra, trattandosi di caratteristiche che equiparano in tutto la suddetta associazione ad un imprenditore commerciale ». (3) Indagine causale che, come già evidenziato, è solo uno degli elementi che il giudice deve tenere presenti nel processo risarcitorio al fine di giudicare « chi debba farsi carico di cosa, ed in quale misura ». responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore A) di dichiarare la mancata esecuzione del SENTENZA CONS. GIUST. AMM. - SEZ. GIUR. giudicato e, per l’effetto ordinare al Ministero 22 GENNAIO 2013 N. 26 dell’Economia e delle Finanze di eseguire il pagamento della somma capitale indicata, oltre gli PRES. VIRGILIO REL. NERI Giustizia amministrativa - Violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione - Obbligo di pagare una somma di denaro - Natura giuridica Sanzione civile indiretta. C.P.A. ART. C.P.C. ART. 114 614-BIS D.LGS. 10 FEBBRAIO 2005, N. 30, ART. 125 L. 22 APRILE 1941, N. 633, ART. 158 L’obbligo di pagare una somma di denaro per la violazione, l’inosservanza o il ritardo nell’esecuzione del giudicato amministrativo non può essere ascritto alla categoria dei danni punitivi, ma deve inquadrarsi tra le sanzioni civili indirette e, conseguentemente, impone al giudice di riferirsi nella sua determinazione anche alla posizione vantata dal ricorrente. FATTO E DIRITTO. 1. La Corte d’Appello di Roma con il decreto in epigrafe indicato, del quale è attestato il passaggio in giudicato con la allegata certificazione della relativa cancelleria, ha condannato il Ministero dell’economia e delle finanze a pagare, in favore dei ricorrenti, la somma ivi indicata oltre interessi legali dalla data del ricorso, a seguito della violazione del termine di ragionevole durata del processo, ai sensi della legge n. 89/2001. 2. A fronte dell’inadempienza dell’Amministrazione, il ricorrente ha chiesto a questo Tribunale: interessi maturati e maturandi secondo il titolo fino al soddisfo. B) stante l’ulteriore pregiudizio derivante dal ritardato pagamento, di condannare il Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare, in proprio favore, l’ulteriore somma, a titolo di risarcimento dei danni da ritardo connessi alla mancata esecuzione del giudicato, quantificata ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza di questo Tribunale (TAR Lazio, Sez. I, 24 ottobre 2012, n. 8476; TAR Lazio, Sez. I, 12 novembre 2012, n. 9265); C) di disporre, fin d’ora, per il caso di ulteriore inerzia dell’Amministrazione, la nomina di un Commissario ad acta, con l’incarico di porre in essere, in via sostitutiva, tutti gli adempimenti contabili e finanziari e di qualsiasi altra natura occorrenti a garantire l’esecuzione del giudicato di cui trattasi, oltre il pagamento delle eventuali ulteriori somme da liquidare ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a.; D) di condannare l’Amministrazione al pagamento delle spese di giudizio; 3. L’Amministrazione si è costituita in giudizio con atto di mera forma. 4. Il ricorso è stato chiamato e trattenuto per la decisione alla camera di consiglio del 24 aprile 2013. 5. Il ricorso merita accoglimento, nei limiti di seguito indicati. Innanzi tutto risulta fondata la prima domanda proposta dai ricorrenti e infatti: A) secondo la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, formatasi nel vigore degli articoli 27, n. 4, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, e 37 della legge 6 dicembre 1071, n. 1034 (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 27 maggio 2010, n. 3383), il decreto di condanna emesso ai sensi dell’articolo 3 della c.d. legge Pinto, ha natura decisoria su diritti soggettivi e, essendo idoneo ad assumere valore ed efficacia di giudicato, vale ai fini della ammissibilità del ricorso per l’ottemperanza; B) nessun dubbio può comunque sorgere oggi, in merito all’esperibilità del giudizio di ottemperanza in una fattispecie come quella in esame, alla luce dell’art. 112, comma 2, lett. c), responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.41 ⎪ c.p.a., secondo il quale l’azione di ottemperanza può essere proposta per ottenere l’esecuzione « delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della Pubblica Amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato »; C) tenuto conto di quanto precede — sussistendo nel caso in esame il presupposto dell’inoppugnabilità per decorso dei termini previsti ex lege, come attestato dalla cancelleria della Corte d’Appello, ed essendo altresì decorso il termine di cui all’art. 14, comma 1, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito dalla legge 28 febbraio 1997, come modificato dall’art. 147 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e dall’art. 44 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, (Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2831) — si deve ordinare al Ministero dell’economia e delle finanze intimato, in quanto preposto al pagamento ai sensi dell’articolo 1, commi 1224 e 1225, della legge finanziaria 2007, di provvedere entro trenta giorni al pagamento delle somme indicate nel decreto in epigrafe indicato. Diverse considerazioni valgono per la richiesta di applicazione congiunta delle misura prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma 4, lettera d), c.p.a. ⎪ P.42 (che prevede la « nomina, ove occorra, un commissario ad acta »), e delle misura prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a. (secondo il quale « salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo »). Quanto alla misura prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a., il Collegio non ritiene di doversi uniformare all’orientamento giurisprudenziale invocato dai ricorrenti (Cons. Stato, Sez. V, 14 maggio 2012, n. 2744; TAR Lazio, Sez. I, 24 ottobre 2012, n. 8476; idem, 12 novembre 2012, n. 9265) — secondo il quale tale misura ha un portata applicativa più ampia che nel processo civile e può trovare applicazione anche nel caso di sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, perché la predetta disposizione non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile (art. 614-bis c.p.c.), della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile — alla luce delle seguenti considerazioni. Innanzi tutto occorre rammentare che, secondo il giudice d’appello (da ul- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore timo, Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 4 settembre 2012, n. 4685), la misura di cui trattasi, comunemente detta penalità di mora o astreinte (in quanto modellata sulla falsariga del corrispondente istituto prevista dall’ordinamento francese) può trovare applicazione se sussistono tutti i tre presupposti stabiliti dall’art. 114 comma 4, lettera e), c.p.a., ossia quello positivo, costituito dalla richiesta di parte, e quelli negativi, costituiti dall’insussistenza di profili di manifesta iniquità e dall’insussistenza di altre ragioni ostative. In ragione di quanto precede, questa Sezione (TAR Lazio Roma, Sez. II, 5 dicembre 2012, n. 9037) ha recentemente prestato adesione al diverso orientamento giurisprudenziale (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 15 aprile 2011, n. 2162; TAR Lazio Roma, Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 10305) secondo il quale non è possibile far ricorso alla astreinte quando l’esecuzione del giudicato consista (come nel caso in esame) nel pagamento di una somma di denaro, facendo leva sui predetti requisiti negativi (costituiti dall’insussistenza di profili di manifesta iniquità e dall’insussistenza di altre ragioni ostative), ossia in ragione della « iniquità della correlata condanna, consistente nel pagamento di una somma di denaro, laddove l’obbligo oggetto di domanda giudiziale di adempimento è esso stesso di natura pecuniaria, ed è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi. Nell’avversata ipotesi, infatti, per un verso, si duplicherebbero ingiustificatamente le misure volte a ridurre l’entità del pregiudizio derivante all’interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato, per altro verso, si determinerebbe un ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore, oltre che della prestazione principale, di quella accessoria » (in tal senso, TAR Lazio Roma, Sez. I, n. 10305/2011, cit.). Quest’ultimo orientamento — a giudizio del Collegio — appare senz’altro preferibile alla luce dei seguenti argomenti, evidenziati dalla più recente giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 3 dicembre 2012, n. 4887), secondo la quale: a) « non sembra utilmente richiamabile un proprium dell’ottemperanza costituito dalla limitata configurabilità di atti non surrogabili nell’esecuzione tramite c.p.a., atteso che dell’istituto della astreinte si discute proprio sino alla nomina del commissario ad acta, la cui attività trasforma l’infungibilità del facere in una surrogazione giudiziale. Nel giudizio di ottemperanza la misura accessoria della astreinte ha quindi la funzione di incentivare l’esecuzione di condanne di facere o non facere infungibile, appunto prima dell’intervento del commissario ad acta, che comporta normalmente maggiori oneri per l’Amministrazione, oltre che maggior dispendio di tempo per il privato »; b) « si impone una considerazione finale a tutela della omogeneità dell’ordinamento e del principio di eguaglianza: qualora il giudizio di ottemperanza sia prescelto dalla parte per l’esecuzione di sentenza di condanna pecuniaria del giudice ordinario (il che frequentemente accade) la tesi favorevole alla ammissibilità della applicazione della astreinte finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso credito a seconda del giudice dinanzi al quale si agisca. In altri termini, il creditore pecuniario dell’Amministrazione Pubblica nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile (ove in base alla pressoché unanime interpretazione, l’istituto del 614-bis c.p.c. è applicabile alle sole condanne ad un facere infungibile), e tanto semplicemente in base ad una opzione puramente potestativi. Per contro, alla luce del principio di eguaglianza, il legislatore è chiamato ad effettuare, a parità di situazioni sostanziali, scelte identiche, ed un regime di tutela differenziato in tanto sarebbe legittimo in quanto rispondente ad un principio di ragionevolezza. Nella specie, non sembra legittima né ragionevole una tutela differenziata offerta al cittadino (ed a scelta meramente potestativa di quest’ultimo) all’interno di un sistema che svolge la stessa funzione esecutiva, ancorché dinanzi a giudici diversi ». A tali argomenti si deve poi aggiungere che, nel caso in esame, la domanda di applicazione della misura prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a., è stata proposta unitamente alla domanda di nomina di un commissario ad acta ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera d), c.p.a., e, quindi, seppure si prestasse adesione all’orientamento secondo il quale la misura della astreinte può trovare applicazione anche nel caso di sentenze di condanna al pa- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.43 ⎪ gamento di somme di denaro, si dovrebbe affrontare il problema della compatibilità di tale misura con la nomina del commissario ad acta. Ebbene, a tal riguardo la giurisprudenza (TAR Piemonte, Torino, Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 1386) ha già avuto modo di evidenziare che la nomina del commissario ad acta, per il caso di persistente inerzia dell’Amministrazione esclude la possibilità di condannare quest’ultima anche al pagamento della astreinte, perché diversamente opinando si corre il rischio di far gravare, ingiustamente, sull’Amministrazione le conseguenze sanzionatorie di eventuali ulteriori ritardi imputabili non ad essa, bensì all’ausiliario del giudice. Tenuto conto delle suesposte considerazioni il Collegio ritiene che non sussistano i presupposti per accedere alla richiesta di applicazione della misura prevista dell’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a., e che si debba piuttosto nominare sin d’ora un commissario ad acta — nella persona del Dirigente responsabile dell’Ufficio IX della Direzione Centrale dei Servizi del Tesoro del Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del Personale e dei Servizi del Ministero dell’Economia e delle Finanze — affinché provveda, in sostituzione dell’Amministrazione, entro il termine di sessanta giorni dalla scadenza del termine di trenta giorni già ⎪ P.44 assegnato al Ministero intimato per provvedere al pagamento delle somme dovute ai ricorrenti, a dare corso al pagamento, compiendo tutti gli atti necessari, comprese le eventuali modifiche di bilancio, a carico e spese dell’Amministrazione inadempiente. Quanto, invece, alle spese del giudizio liquidate con il decreto della Corte di Appello di Roma di cui trattasi, atteso che le stesse, su espressa richiesta del procuratore, dichiaratosi antistatario, sono state liquidate direttamente in suo favore e considerato che, pertanto, si tratta di un credito facente capo autonomamente al detto procuratore, ne consegue che l’unico legittimato a richiedere l’esecuzione del giudicato nella predetta parte è lo stesso procuratore dichiaratosi antistatario il quale, invece, non compare nell’indicazione dei ricorrenti ai fini dell’ottemperanza nel ricorso in trattazione in questa sede. Ne consegue che, nella predetta parte, il ricorso deve essere respinto. Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza principale. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore 2. Per tale ragione va affermata la persiSENTENZA TAR LAZIO ROMA 6 GIUGNO 2013 N. stenza dell’obbligo dell’Amministrazione di ot5644 SEZ. II PRES. TOSTI temperare pienamente alla più volte richiamata sentenza n. 932/2010 ponendo in essere i neREL. QUILIGOTTI Giustizia amministrativa - Condanna al pagamento di una somma di denaro - Violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione - Ricorso all’astreinte - Impossibilità. C.P.A ART. 114 614-BIS C.P.C. ART. Non è possibile far ricorso alla astreinte quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro. FATTO. Con l’atto introduttivo dell’odierno giudizio i ricorrenti riferivano che, a seguito del giudizio di appello svoltosi innanzi a questo Consiglio e in riforma della decisione di primo grado, il comune di Isola delle Femmine era stato condannato al risarcimento del danno in loro favore. Esponevano altresì che l’Amministrazione, dopo la notifica della predetta sentenza, non aveva dato esecuzione alla decisione del C.G.A. e chiedevano pertanto l’ottemperanza alla sentenza in epigrafe indicata. Alla camera di consiglio del 7 novembre 2012 il ricorso passava in decisione. DIRITTO. 1. Con sentenza 23 giugno 2010 n. 932 questo Consiglio, in riforma della sentenza del TAR, condannava il comune di Isola delle Femmine al risarcimento del danno subito dai ricorrenti liquidandolo « nella somma di E 29.704,44, oltre gli interessi anatocistici dal 17 gennaio 2000 » e disponendo altresì la refusione delle spese della consulenza tecnica e di quelle di giudizio. Secondo quanto riferito in ricorso la sentenza è stata notificata all’Amministrazione locale che, tuttavia, è rimasta inerte. cessari atti adempitivi, entro un congruo termine che sembra equo fissare in giorni 60 dalla data di notifica o di comunicazione, in forma amministrativa, della presente sentenza. 3. Parte ricorrente ha chiesto anche la condanna dell’Amministrazione al pagamento di una somma di denaro per il caso di ulteriore ritardo giusta il disposto dell’articolo 114, comma 4, lett. e), c.p.a., a tenore del quale il giudice « salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato ». 3.1. Per la decisione della domanda, giova premettere qualche breve cenno in ordine alla natura giuridica dell’istituto invocato dalla parte. Come è noto la dottrina, prevalentemente di matrice civilistica, distingue: a) L’azione di risarcimento del danno legato all’inadempimento di un’obbligazione (c.d. responsabilità contrattuale) o all’esistenza di un danno ingiusto cagionato da un fatto doloso o colposo ex articolo 2043 c.c. (c.d. responsabilità aquiliana) che deve essere allegato e provato (Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972). b) Le pene private che, per autorevole dottrina, sono quelle minacciate e applicate dai privati nei confronti di altri privati e che trovano la loro fonte o in un contratto — come per le misure disciplinari applicate dall’associazione agli associati o dal datore di lavoro ai lavoratori — oppure in uno status, come nel caso delle punizioni inflitte dai genitori ai figli minori. Con riferimento a tale categoria parte della dottrina ritiene che esse non possano trovare riconoscimento nel nostro ordinamento perché sarebbero in contrasto con il principio di uguaglianza, mentre altri autori, pur sottolineandone il carattere eccezionale, reputano utile tale congegno perché idoneo ad integrare il sistema risarcitorio basato esclusivamente sulla riparazione del pregiudizio effettivamente subito (e tendenzialmente impermeabile a qualsiasi valutazione di tipo sanzionatorio). c) Le sanzioni civili indirette qualificate co- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.45 ⎪ me misure afflittive di carattere patrimoniale previste dalla legge ed applicate dall’autorità giudiziaria. Le sanzioni civili indirette, così come le pene private, presuppongono la violazione di una regola ma le prime si distinguono dalla seconde perché la sanzione viene inflitta dal giudice e non dalla stessa parte privata (come avviene nelle pene private). d) I danni punitivi, che negli ordinamenti di stampo anglosassone hanno lo scopo di punire il danneggiante per un fatto grave e riprovevole aggiungendosi alle somme riconosciute al danneggiato per risarcire il pregiudizio effettivamente subito. In questo caso nel giudizio risarcitorio il giudice, dopo avere accertato l’esistenza di un effettivo pregiudizio subito dal danneggiato, condanna l’autore dell’illecito al pagamento di una somma ulteriore a titolo « punitivo » sia per sanzionare il suo comportamento sia per dissuadere gli altri consociati dal tenere condotte analoghe (la c.d. funzione general-preventiva svolta dalla pena nel diritto penale). Come è noto l’opinione tuttora prevalente esclude che nel nostro ordinamento possano avere cittadinanza giuridica i danni punitivi e conseguentemente la Corte di cassazione ha sempre rigettato le istanze di delibazione delle sentenze straniere che prevedevano una condanna al pagamento di somme di denaro a tale titolo (Cass., 19 gen- ⎪ P.46 naio 2007, n. 1183; Cass., 8 febbraio 2012, n. 1781). 3.2. Recente dottrina ha evidenziato la necessità di rivisitare i tradizionali insegnamenti, perché nel nostro ordinamento esistono già delle previsioni normative che prevedono la condanna al pagamento di una somma di denaro senza collegarla all’accertamento di un danno effettivamente subito: l’articolo 125 d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, ove, oltre al pregiudizio subito dal danneggiato, fa riferimento ai « benefici realizzati dall’autore della violazione » e l’articolo 158, l. 22 aprile 1941, n. 633, prevede di tener conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Inoltre tali previsioni, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, potrebbero generare benefici effetti sul sistema complessivamente considerato eliminando (o fortemente riducendo) la convenienza per il danneggiante a tenere certe condotte: è stato dimostrato, infatti, che il danneggiante a volte assume scientemente la decisione di tenere determinate condotte illecite e dannose perché, in considerazione degli alti costi dei processi e di una certa difficoltà per i soggetti danneggiati ad instaurare i giudizi, è per lui più conveniente risarcire chi intraprende il giudizio piuttosto che rispettare (nei confronti di tutti) la regola imposta dall’ordinamento. 3.3. Venendo al caso di specie, va rilevato che la responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore dottrina discute sulla natura della norma invocata dal ricorrente. Per alcuni autori, infatti, si tratterebbe — così come nel caso dell’articolo 614-bis, comma 1, c.p.c. (« Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento ») — di una forma di risarcimento forfettario e anticipato del danno da quantificare sempre con riferimento all’accertamento di un effettivo pregiudizio subito dal danneggiante. Per altri, invece, la disposizione in questione dovrebbe essere più correttamente ascritta alla categoria dei danni punitivi con la conseguente libertà del giudice di stabilire la somma da pagare senza essere vincolato dal danno subito e subendo. 3.4. A giudizio del Collegio non convince la tesi che riconduce l’articolo 114, comma 4, lett. e), c.p.a., alla categoria dei danni punitivi sia perché, per le ragioni prima esposte, è dubbio che siffatta tipologia di danni possa trovare ingresso nel nostro ordinamento sia perché, anche negli ordinamenti di stampo anglosassone, la condanna a titolo di danni punitivi è limitata ai casi di dolo o colpa grave, laddove la norma in questione nulla prevede al riguardo. Per il Consiglio, invece, la previsione in questione si inquadra tra le sanzioni civili indirette (anche perché in tema di esecuzione di giudicato è pacifico che la posizione è di diritto soggettivo) e conseguentemente permette (ed impone) al giudice di riferirsi nella sua determinazione anche alla posizione vantata dal ricorrente. 4. Alla luce delle considerazioni sino a qui esposte, decorso infruttuosamente tale termine, vista anche la richiesta formulata ai sensi dell’articolo 114, comma 4, lett. e), c.p.a. (che si accoglie esclusivamente nei termini ora specificati), a) l’Amministrazione dovrà corrispondere una somma pari allo 0,5% di quanto dovuto per ogni mese, o frazione di mese pari o superiore a quindici giorni, di ulteriore ritardo; b) agli adempimenti di competenza dell’Amministrazione provvederà, in via sostitutiva, e con oneri a carico dell’Amministrazione intimata, un commissario « ad acta » che il Collegio reputa opportuno nominare nella persona del Prefetto di Palermo o Funzionario da Questi designato. Il Commissario provvederà alla scadenza del termine sopra detto entro il successivo termine di giorni 60 sotto la sua personale responsabilità, anche mediante l’adozione di tutti gli atti necessari per l’assolvimento del mandato e sempre nel rispetto di tutte le norme di legge di rango costituzionale, statale e regionale applicabili nel caso di specie. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nella misura di E 2.000,00 (duemila/00 centesimi) oltre IVA e CP, se dovute. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.47 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 16 DICEMBRE 2013 N. 27996 PRES. ROVELLI REL. PICCIALLI AVVOCATO - Illecito disciplinare - Violazione di norma deontologica - Mero tentativo - Responsabilità disciplinare - Sussistenza. COD. DEONT. FORENSE ARTT. 5, 6, 21 Alla stregua dei doveri di probità e correttezza professionale, è illecita la condotta posta in essere dall’avvocato, che, sebbene non pervenuta alla « consumazione », venga ritenuta chiaramente finalizzata a realizzare un comportamento espressamente vietato dal codice deontologico. FATTO. A seguito di varie segnalazioni di avvocati ed ordini professionali forensi il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano sottopose a procedimento disciplinare il proprio iscritto, avvocato C.A., abilitato al patrocinio in Cassazione, per “ essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza, per avere trasmesso a mezzo posta elettronica ad un numero imprecisato di colleghi... prossimo a 20.000...”, un comunicazione, con la quale proponeva una convenzione annuale dal costo di Euro 1.500,00 oltre IVA, con la quale gli interessati avrebbero potuto ottenere, da uno dei legali dello studio del proponente, la rappresentanza “per una volta avanti all’Ecc.ma Corte di Cassazione in Roma e per una volta presso il Tribunale di Torino, Milano o Roma. I giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte potranno inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei motivi di ricorso per Cas- ⎪ P.48 sazione da loro stessi predisposti”. All’esito dell’istruttoria, nel corso della quale l’incolpato, in relazione all’addebito relativo alle prospettate modalità di proposizione dei ricorsi per cassazione, si era difeso, presentando anche memorie, sostenendo che sul punto il riportato contenuto dell’annuncio fosse frutto di equivoco, in cui era incorsa la società incaricata per la relativa diramazione, con provvedimento del 13 ottobre 2008 il COA di Milano, ravvisata la sussistenza della grave trasgressione disciplinare consistita nell’aver proposto la sottoscrizione di ricorsi di legittimità predisposti da soggetti non muniti del relativo jus postulandi e, tenuto conto delle attenuanti “scuse” presentate dall’avv. C. e della circostanza che la proposta non aveva avuto alcun seguitogli irrogò la sanzione della censura. All’esito dell’impugnazione dell’avv. C., cui non aveva resistito il COA milanese, con sentenza del 26 aprile-29 novembre 2012 il Consiglio Nazionale Forense rigettava il ricorso. Con riferimento al motivo deducente la violazione del principio di corrispondenza tra la contestazione e la motivazione, nel disattenderlo, il COA evidenziava come la menzione nel capo d’incolpazione del violato dovere di probità rendesse irrilevante la mancata indicazione del relativo articolo 5 (oltre al 6, relativo al dovere di correttezza). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore Analogamente priva di rilevanza era la censura deducente la mancata indicazione nel capo dell’art. 21 (relativo al divieto di agevolare in modo diretto o indiretto l’esercizio della professione ai non abilitati), ritenuto violato in motivazione, considerato che la relativa inosservanza era desumibile chiaramente dai fatti enunciati nell’addebito. Escludeva, ancora, il giudice disciplinare che si fosse addebitato all’incolpato una mera, non attuata, intenzione, considerato che era l’offerta in sé a comportare la consapevole violazione dei doveri deontologici in questione. In punto di fatto, il CNF concordava con il COA sull’inequivoca chiarezza testuale della censurata proposta, la cui attuazione si sarebbe tradotta nell’aggiramento, mediante il solo conferimento di procura all’incolpato, dei limiti relativi all’esercizio della professione di legali non abilitati al patrocinio di legittimità. Anche la scelta della sanzione veniva ritenuta adeguata, avendo tenuto adeguato conto, da un lato, della gravità della “molteplice violazione dei doveri di correttezza e probità e della ulteriori regole deontologiche..”, dall’altro del mancato seguito alla proposta e del successivo comportamento dell’incolpato. Avverso tale sentenza l’avv. C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Non ha resistito l’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano. DIRITTO. 1. Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte “illegittimità della decisione Violazione di legge anche sotto il profilo della motivazione su fatto decisivo della controversia art. 360, numero 2 e 5, c.p.c., in relazione agli artt. 5, 6, 21 Codice deontologico ed all’art. 36, comma 6, l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Ordinamento della professione forense). 1.1. Dopo una premessa normativa, con riferimento al contenuto degli artt. 5, 6 e 21 del Codice deontologico forense, si sostiene che la violazione dei doveri di lealtà e correttezza e del divieto di agevolazione dello svolgimento di attività professionale da parte di soggetti non abilitati ricorrerebbe esclusivamente nei casi in cui la condotta si concreti nel compimento di atti processuali. Non essendosi ciò verificato nel caso di specie, in cui non vi era stata la sottoscrizione di alcun motivo di ricorso, conseguente all’eventuale rilascio di procura speciale, l’o- dierno ricorrente sarebbe stato illegittimamente sanzionato per un fatto non rilevante sotto il profilo disciplinare, in quanto costituente al più un mero tentativo di un illecito, che la norma sanzionerebbe solo in ipotesi di ”consumazione del fatto”. Le censure sono prive di fondamento, alla luce della costante giurisprudenza di queste S.U. (v., in particolare, sent. nn. 1904/2002, 10601/2005, 37/2007, 23020/2011), secondo cui il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità e decoro (art. 5 Codice Deontologico Forense), lealtà e correttezza (art. 6 cod. cit.), ai quali l’avvocato deve improntare la propria attività, sia professionale, sia non professionale (v., a tal riguardo l’art. 5, 2), la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare. In particolare, con la citata sentenza n. 10601/2005 è stato precisato che anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto, in quanto lesivo dell’immagine dell’avvocato, costituisce di per sé una scorrettezza, come tale disciplinarmente rilevante. Nel caso di specie, dunque, correttamente il CNF, sulla scorta di un incensurabile apprezzamento dei fatti accertati e di adeguata valutazione degli stessi, alla stregua dei citati doveri di probità e correttezza professionale, ha confermato l’illiceità della condotta posta in essere dall’avvocato C., che, sebbene non pervenuta alla “consumazione”, nel senso preteso dal ricorrente secondo un’improponibile accezione penalistica (richiedente la verificazione di un “evento”), è stata ritenuta chiaramente finalizzata a realizzare un comportamento espressamente vietato dal citato codice deontologico, all’art. 21, n. 2, configurante l’illiceità disciplinare del “comportamento dell’avvocato che agevoli, o, in qualsiasi altro modo diretto o indiretto, renda possibile a soggetti non abilitati o sospesi l’esercizio della professione...”. 1.2. Sotto diverso profilo, si lamenta l’inadeguata valutazione della parola “predisposti” contenuta nella propostaci cui significato non sarebbe univocamente comprensivo della redazione finale dell’atto, bensì limitato alla stesura di una bozza, finalizzata alla definizione responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.49 ⎪ del ricorso, che l’avvocato abilitato, espressamente incaricato dalla parte, avrebbe poi trasfuso nei motivi. La doglianza è palesemente inammissibile, non solo per la chiara attinenza ad un’attività riservata al giudice dei merito, quella della valutazione delle risultanze documentali, nelle quali peraltro il COA ed il CNF si sono attenutigli cospetto di un atto dall’inequivoco tenore letterale, al principio in claris non fit interpretatio, ma anche perché introduce una censura nuova, che non trova riscontro nella linea difensiva dell’incolpato, che aveva, inizialmente dedotto, senza fornire alcun elemento di riscontro, la tesi di un’erronea formulazione del testo dell’offerta da parte della società incaricata della relativa diramazione per via informatica. 2. Con il secondo motivo il ricorrente, in subordine, deduce “violazione di legge — art. 360, n. 2, c.p.c., in relazione all’art. 36, comma 6, l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Ordinamento della professione forense), dolendosi della ritenuta severità trattamento sanzionatorio, che avrebbe dovuto essere limitato a quello minimo dell’ammonimento, tenuto conto che si era trattato di un trasgressione rimasta allo stato di mera inattuata intenzione. Il motivo è inammissibile, deducendo una censura in fatto, relativa all’esercizio di un potere di- ⎪ P.50 screzionale riservato al giudice di merito, in un contesto normativo non prevedente la corrispondenza delle varie sanzioni disciplinari alla tipologia delle violazioni, lasciando così la relativa scelta all’organo disciplinare e demandando al giudice speciale il successivo controllo, con il solo limite, implicito alla natura giurisdizionale di siffatta verifica, di fornire un’adeguata motivazione. A tale compito, nella specie, non si è sottratto il CNF, laddove, come si è accennato in narrativa, ha, da una parte considerato l’evidente notevole gravità, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo, dell’iniziativa, di vaste proporzioni ed assurta ad eclatante notorietà negli ambienti professionali forensi, tendente all’aggiramento delle rigorose norme regolanti lo ius postulandi presso le giurisdizioni superiori, dall’altra la circostanze che la proposta non aveva trovato concrete adesioni esitate in atti giudiziali e del pentimento manifestato dal professionista, che si era “scusato dell’accaduto”. Tale, palesemente equilibrata valutazione, in quanto indenne da lacune argomentative o vizi logici, risulta dunque esente da ogni censura nella presente sede di legittimità. 3. Il ricorso va, conclusivamente, respinto. 4. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, non avendo il COA responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore di Milano resistito all’impugnazione; né si applica l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228/2012, essendo il processo esente dal contributo unificato. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.51 ⎪ ORDINANZA CASS. CIV. 30 GENNAIO 2014 N. 2089 (ORD.) SEZ. VI PRES. DI PALMA REL. BISOGNI DANNI - Procedimento civile - Lite temeraria - Impugnazione manifestamente infondata e strumentale - Obbligo risarcitorio - Sussistenza. C.P.C. ART. 96 Nel caso di impugnazione manifestamente infondata e avente carattere strumentale (essenzialmente volta ad impedire il passaggio in giudicato della pronuncia impugnata), il soccombente deve essere condannato al risarcimento del danno per lite temeraria. FATTO E DIRITTO. Rilevato che in data 5-15 luglio 2013 è stata depositata relazione ex art. 380-bis che qui si riporta: 1. Il Tribunale di Perugia, con sentenza non definitiva del 7 febbraio 2011, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio di S.G. e B.A. 2. Ha impugnato la pronuncia S.G. rilevando che il Tribunale non aveva verificato compiutamente se vi fosse stata rottura definitiva della comunanza di vita e la possibilità di ricostituirla. Ha ritenuto lesivo della sua posizione di cattolico praticante che la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio anticipi l’esito del giudizio rotale di annullamento attualmente in corso. 3. Il reclamo è stato respinto dalla Corte di appello che ha condannato S.G. al pagamento della somma di 6.000 Euro ex art. 96 c.p.c. assumendo il reclamo, consapevolmente in- ⎪ P.52 fondato, un carattere meramente strumentale, al fine di prolungare i tempi del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio e di vanificare le statuizioni della sentenza definitiva emananda nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio. 4. S.G. propone ricorso per cassazione contro la pronuncia della Corte perugina affidandosi a tre motivi di impugnazione con i quali deduce: a) omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.); b) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), violazione dell’art. 101 c.p.c.: mancata realizzazione del pieno contraddittorio, nullità; c) omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., e all’art. 96, comma 1, c.p.c.). 5. Si difende con controricorso B.A. Ritenuto che: 6. Con il primo motivo di ricorso lo S. ribadisce che la pronuncia con sentenza non definitiva della cessazione degli effetti civili lede la sua posizione di cattolico e credente e la relativa prerogativa a che lo scioglimento del matrimonio venga pronunciato esclusivamente dal tribunale ecclesiastico. Ritiene inoltre il ricorrente che la Corte di appello avrebbe responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore dovuto esaminare l’opportunità di una sentenza parziale a fronte delle giustificazioni contrarie, già addotte dall’odierno ricorrente, considerato che l’opposizione da questi spiegata prevedeva anche, nella non voluta ipotesi di accoglimento, che il divorzio venisse semmai dichiarato solo con sentenza, definitiva, all’esito dell’ampia trattazione della causa. 7. Il motivo è palesemente inammissibile quanto alla prima censura perché la stessa non ha alcun fondamento giuridico nella stessa deduzione del ricorrente che la prospetta infatti come vizio di motivazione peraltro insussistente perché dalla motivazione della Corte di appello si evince chiaramente come nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una condizione privilegiata dei cittadini cattolici a ottenere che i giudizi ecclesiastici di annullamento del matrimonio siano decisi preventivamente rispetto ai giudizi civili di scioglimento del matrimonio ex legge n. 898/1970. Né si può ipotizzare la sussistenza di una lesione di legittime aspettative del cittadino cattolico alla definizione della controversia in sede ecclesiastica anziché davanti alla giurisdizione italiana perché la pronuncia del giudice italiano non pregiudica la prosecuzione del giudizio ecclesiastico il cui oggetto non coincide se non indirettamente con quello di divorzio. 8. Quanto alla seconda censura se ne deve riscontrare la palese infondatezza atteso che la decisione del giudice di merito circa la possibilità di una definizione con sentenza parziale di una parte delle domande proposte non dipende da una valutazione di opportunità ma dall’accertamento dell’esaurimento delle attività istruttorie necessarie ai fini della decisione e nella specie la Corte di appello ha ampiamente motivato sul punto rilevando che i coniugi hanno vissuto separatamente dopo l’omologazione della separazione consensuale e che gli stessi hanno manifestato l’intento di porre fine al rapporto coniugale come dimostra la posizione processuale assunta nel giudizio ecclesiastico e in quello civile. 9. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta una lesione del suo diritto di difesa in ordine alla domanda riconvenzionale e a quella autonoma di condanna ex art. 96 c.p.c., basata sulla consapevolezza della proposizione dell’appello, e proposta dalla B. tre giorni prima della udienza, in sede di costituzione nel giudi- zio camerale di impugnazione, e afferma che la Corte non avrebbe potuto pronunciarsi, pena la nullità del giudicato, senza aver dato alla parte, che all’udienza aveva richiesto termine per note, la possibilità di svolgere le proprie difese sull’appello incidentale e sulla domanda endoprocessuale autonoma di condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria. 10. Il motivo va respinto in quanto la censura difetta di interesse quanto alla pronuncia sulla domanda riconvenzionale ed è infondata quanto alla pronuncia di condanna ex art. 96, comma 1, c.p.c. Come ha correttamente rilevato la difesa della controricorrente la domanda di risarcimento del danno derivato dall’aver proposto un gravame nella consapevolezza della sua infondatezza pur costituendo domanda endoprocessuale autonoma non costituisce domanda riconvenzionale e poteva essere proposta dalla odierna controricorrente anche in sede di costituzione all’udienza fissata per la discussione. La mancata concessione di un termine per note non pone dunque in essere alcuna lesione né formale né sostanziale del diritto di difesa pienamente esercitato dall’odierno ricorrente con l’esplicazione delle ragioni poste a base della proposizione dell’appello che escludono per implicito la sua temerarietà. 11. Il terzo motivo del ricorso lamenta il difetto di motivazione in ordine ai presupposti per il riconoscimento del carattere temerario della proposizione del gravame e in merito alla sussistenza e entità del danno liquidato dal giudice di appello. Entrambi i profili sembrano palesemente infondati atteso che è lo stesso ricorrente a indicare la ragione della sua impugnazione e cioè impedire la formazione del giudicato sulla dichiarazione di scioglimento del matrimonio in sede civile prima della pronuncia definitiva sull’annullamento del giudice ecclesiastico. Correttamente il giudice di appello ha rilevato il carattere strumentale di tale impugnazione e l’assoluta mancanza di motivazioni giuridiche che potessero darle fondamento. Per quanto riguarda la sussistenza e entità del danno si richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui all’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria non osta l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale (Cass. civ., Sez. III, n. 17485 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.53 ⎪ del 23 agosto 2011) e deve essere liquidato con riguardo alla lesione dell’equilibrio psico-fisico che, secondo nozioni di comune esperienza (e anche in forza del principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost. ed alla legge 24 marzo 2001, n. 89), si verifichi a causa di ingiustificate condotte processuali. Nella specie il riferimento all’elevata posta morale in gioco giustifica, sinteticamente ma significativamente, la misura del risarcimento pronunciato dalla Corte di appello in considerazione del carattere ostruzionistico delle iniziative processuali del ricorrente intese a conclamare senza alcuna giustificazione giuridica il diritto della B. a una pronuncia che attiene alla sua condizione personale e la cui dilazione viene a pesare negativamente sulla sua serenità e libertà di organizzazione della vita privata. 12. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per il rigetto del ricorso e l’accoglimento delle istanze di condanna ex artt. 96 e/o 91 c.p.c. avanzate nel controricorso. La Corte, letta la memoria difensiva del ricorrente; Ritenuto di poter condividere pienamente la relazione e rilevato quanto al primo motivo di ricorso che ⎪ P.54 la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale che il secondo debba essere necessariamente sospeso a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione (Cass. civ., Sez. I, n. 11020 del 25 maggio 2005; e n. 24990 del 10 dicembre 2010), posto che trattasi di procedimenti autonomi, non solo sfocianti in decisioni di diversa natura e con peculiare e specifico rilievo in ordinamenti diversi, tanto che la decisione ecclesiastica solo a seguito di giudizio eventuale di delibazione, e non automaticamente, può produrre effetti nell’ordinamento italiano, ma anche aventi finalità e presupposti diversi. Né rileva, ha chiarito la giurisprudenza di questa Corte che le norme sul giudizio di delibazione, di cui agli artt. 796 e 797 c.p.c., siano state abrogate dall’art. 73 della legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, giacché tale abrogazione, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, non è idonea a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre 1984 e reso esecutivo con la responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore legge 25 marzo 1985, n. 121), disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici – contengono un espresso richiamo agli artt. 7 96 e 7 97 c.p.c., che pertanto risultano connotati, relativamente a tale specifica materia ed in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 della Costituzione, di una vera e propria ultrattività. Ritenuto quanto alla domanda di condanna ex art. 96, comma 1, c.p.c. relativa alla proposizione del ricorso per cassazione che essa va accolta per le stesse ragioni indicate dalla Corte di Appello e ribadite e chiarite nella relazione sopra riportata che sussistono anche per questo giudizio. La Corte ritiene equa la liquidazione della somma dovuta dal ricorrente in 5.000 Euro. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.55 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. 10 FEBBRAIO 2014 N. 2886 SEZ. LAV. PRES. VIDIRI REL. BUFFA DANNI - Risarcibilità - Stress lavorativo Datore di lavoro - Comportamento illecito Prova - Necessità. C.C. ARTT. 2087, 2043 Le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l’attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo. FATTO. 1. Con sentenza n. 2137 del 19 maggio 2009, la Corte d’Appello di Napoli ha confermato la sentenza del tribunale partenopeo del 5 dicembre 2007, che aveva rigettato la domanda di P.A. (autista dipendente dalla società SEPSA con mansioni di guida di automezzi destinati al trasporto pubblico di persone, su tratte urbane e extraurbane), volta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale da stress lavorativo, subito in ragione del mancato riconoscimento delle soste retribuite – previste dal regolamento n. 3820/85/CEE, nonché dall’art. 14 del regolamento OIL n. 67/1939, e dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge n. 138/1958 – per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e ⎪ P.56 quella successiva e, complessivamente per turno giornaliero, di almeno un’ora. 2. La sentenza impugnata, premessa la distinzione tra, da un lato, l’inadempimento datoriale dell’obbligazione legale relativa alle pause lavorative e, dall’altro lato, il danno risarcibile, ha ritenuto che il lavoratore non avesse allegato in modo specifico il danno subito né le circostanze fattuali su cui la domanda avrebbe trovato supporto, escludendo altresì che il giudice potesse sopperire al difetto di allegazione con i propri poteri officiosi o con il ricorso a presunzioni. 3. Ricorre avverso tale sentenza il lavoratore, con tre motivi, illustrati da memoria. Resiste il datore di lavoro con controricorso. DIRITTO. 4. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043 e 2059 c.c., rilevando di aver chiesto il danno da usura psicofisica e che il danno non patrimoniale può liquidarsi sulla base della loro pura e semplice allegazione ogni qual volta la loro concreta esistenza sia agevolmente desumibile da massime di comune esperienza o da presunzioni semplici, senza necessità che il danneggiato indichi analiticamente in quale forma particolare di sofferenza si sia concretato il pregiudizio o adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale per le responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore ricadute del danno su aspetti extralavorativi e di vita di relazione. Formula il seguente quesito di diritto: “ai fini del risarcimento in via contrattuale ex art. 1218 c.c. o – in subordine – in via extracontrattuale ex art. 2043 c.c., costituisce sufficiente allegazione (a prescindere da quella che poi sarà la prova) di danno risarcibile non patrimoniale ex art. 2059 c.c. quella con cui si lamenta il pregiudizio da usura psicofisica cagionato dall’essere costretto alla guida di automezzi pesanti oltre i limiti temporali fissati dalla legge e dal contratto, senza rispetto delle soste prescritte fra una corsa e la successiva ripartenza, per un totale di un ’ora al giorno in più del consentito e per circa 280 gg. di lavoro all’anno?”. 5. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo al rigetto del ricorso nel merito anziché, semmai, in rito, in relazione all’art. 112 c.p.c. Rileva, in particolare, che il giudice di merito, ove avesse ritenuto il ricorso carente delle allegazioni minime essenziali per ottenere il risarcimento del danno, avrebbe dovuto dichiarare nullo il ricorso anziché rigettarlo; aggiunge che la questione è stata dedotta espressamente nell’atto di appello, ma che la corte ne ha omesso l’esame. Formula quindi il seguente quesito di diritto: “costituisce omessa pronuncia, lesiva del disposto dell’art. 112 c.p.c., il non esaminare ed il non decidere il motivo di censura con cui l’appellante lamenta che, avendo il giudice di prime cure ritenuto insufficienti le allegazioni relative al danno denunciato nel ricorso introduttivo della lite, egli avrebbe semmai dovuto dichiarare nullo il ricorso medesimo anziché rigettarlo nel merito per infondatezza?”. 6. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 156, comma 2, c.p.c., in relazione ai fatti di cui al motivo precedente, formulando il seguente quesito: “viola gli artt. 414 e 156, comma 2, c.p.c., la sentenza che, ritenute insufficienti le allegazioni relative al danno denunciato nel ricorso introduttivo della lite, lo rigetta nel merito per infondatezza invece di dichiararlo nullo?”. 7. Il controricorrente deduce l’inammissibilità del ricorso, per violazione del principio di autosufficienza, non essendo stato riprodotto il testo della sentenza impugnata nella parte rilevante, nonché per inosservanza dell’art. 366- bis c.p.c., atteso che i quesiti formulati non sono idonei a pervenire ad una pronuncia di una regula juris dotata dei caratteri dell’astrattezza, consistendo nella mera richiesta di accoglimento dei motivi; nel merito, si deduce l’infondatezza del ricorso, attesa, in diritto l’inapplicabilità del regolamento comunitario invocato dal ricorrente (riferibile solo alle corse, nel caso non ricorrenti, superiori ai 50 km) e dedotta, in fatto, la fruizione di soste tra le corse (anche in caso di accumulo di ritardo a causa del traffico), rilevandosi inoltre sul piano sostanziale che il preteso diritto alle soste — a differenza di quello ai riposi settimanali ed alle ferie — non ha alcuna copertura costituzionale né fondamento giuridico al di là di eventuali — nella specie mancanti — previsioni legali; sul piano processuale, si rileva l’assenza di allegazione specifica del danno, non corrispondendo a standard sociali riconosciuti la tesi che l’attività di guida, nei limiti dell’orario legale, senza fruizione di soste, sia di per sé fonte di pregiudizio, ed essendo impossibile, in difetto di tali allegazioni specifiche, ogni accertamento del pregiudizio invocato, restando peraltro escluso ogni potere del giudice di sopperire alle carenze attoree. 8. Il primo motivo di ricorso — pur recando un quesito di diritto congruo, riferito, ancorché sinteticamente, alla parte della sentenza impugnata rilevante — è infondato, dovendo distinguersi il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo peraltro quest’ultimo eventuale: la violazione di un dovere non equivale a danno e questo non discende automaticamente dalla violazione del dovere. Secondo i principi generali (artt. 2697 e 1223 c.c.), infatti, occorre l’individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso. 9. In tema, la Corte Costituzionale ha chiarito (sentenza n. 372/1994) che il danno biologico non è presunto, perché, se la prova della lesione costituisce anche prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.57 ⎪ alla quale il risarcimento deve essere commisurato. 10. Nel medesimo senso, questa Corte (tra le tante, Sez. III, Sentenza n. 691 del 18 gennaio 2012) ha affermato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l’attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo. Con riferimento al servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale, Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 14288 del 28 giugno 2011; e Cass., Sez. Lav., Sentenza n. 11727 del 15 maggio 2013 hanno precisato che la mancata concessione del diritto ad un giorno di riposo compensativo (non riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all’art. 36 Cost.) è idonea ad integrare un’ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psicofisica) da fatto illecito o da ⎪ P.58 inadempimento contrattuale, e che questa è risarcibile solo in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della specifica deduzione e della prova. Deve peraltro escludersi che il danno alla salute, concretizzandosi in una infermità del lavoratore, possa essere ritenuto presuntivamente sussistente, dovendo esso essere dimostrato nella sua sussistenza e nel suo nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall’illecito contrattuale (Cass. n. 16398 del 20 agosto 2004; e Cass. n. 14288 del 28 giugno 2011). 11. Tali principi non possono che trovare affermazione con riferimento al c.d. danno da stress (o usura psicofisica) derivante dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie nella guida. Anche tale danno, infatti, si iscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava, pertanto, l’onere della relativa specifica deduzione (e poi prova, anche attraverso presunzioni semplici): il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può dunque prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore medesimo (Sez. Lav., Sentenza n. 4479 del 21 marzo 2012). In altri termini, il carattere non patrimoniale del danno postula una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione, sia con riferimento al tipo di danno configurarle (danno biologico, morale, esistenziale), sia con riferimento ai diversi presupposti rilevanti per ciascuna tipologia di pregiudizio, restando invece esclusa la configurabilità di un danno in re ipsa. 12. Può dunque affermarsi che, nel caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da stress lavorativo, subito in ragione del mancato riconoscimento delle soste retribuite — previste dal regolamento n. 3820/85/CEE, nonché dall’art. 14 del regolamento OIL n. 67 del 1939, e dall’art. 6, comma 1, lett. a), della legge n. 138/1958 — per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e quella successiva e, complessivamente per turno giornaliero, di almeno un’ora, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare il tipo di danno specificamente sofferto ed il nesso eziologico con l’inadempimento datoriale, non discendendo automaticamente tale danno dalla violazione del dovere datoriale e richiedendo il danno non patrimoniale una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione. 13. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, per difetto di autosufficienza. Il ricorrente infatti, che lamenta l’omessa pronuncia del giudice di appello, non precisa — riportando, come sarebbe stato su onere, il relativo punto rilevante dell’atto di appello — cosa esattamente abbia chiesto al giudice di appello, ossia quale tipo di pronuncia abbia domandato, riscontrandosi nella sentenza impugnata riferimenti solo a motivi di appello volti all’accoglimento della domanda nel merito. Il principio di autosufficienza impone la specifica indicazione dei motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe pronunciato: infatti, come evidenziato da Sez. Lav., Sentenza n. 14561 del 17 agosto 2012, nel caso della deduzione del vizio per omessa pronuncia su una o più domande avanzate in primo grado è necessaria, al fine dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, la specifica indicazione dei motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe pronunciato, essendo in tal caso indispensabile la conoscenza puntuale dei mo- tivi di appello. Nel medesimo senso, si è affermato (Sez. III, Sentenza n. 317 del 11 gennaio 2002; e Sez. III, Sentenza n. 3547 del 23 febbraio 2004, nonché altre successive conformi) che la parte che impugna una sentenza con ricorso per cassazione per omessa pronuncia su una domanda, ha l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso, a pena di inammissibilità per genericità del motivo, di specificare quale sia il “chiesto” al giudice del gravame sul quale questi non si sarebbe pronunciato, non potendosi limitare ad un mero rinvio all’atto di appello, atteso che la Corte di cassazione non è tenuta a ricercare al di fuori del contesto del ricorso le ragioni che dovrebbero sostenerlo, ma può accertarne il riscontro in atti processuali al di fuori del ricorso sempre che tali ragioni siano state specificamente formulate nello stesso. 14. Con il terzo motivo, il ricorrente pone i medesimi fatti dedotti nel secondo motivo (relativi al supposto dovere del giudice di dichiarare nullo, anziché infondato, il ricorso ritenuto carente delle allegazioni minime essenziali per ottenere il risarcimento del danno) alla base di una censura di insufficiente motivazione della sentenza impugnata. Il motivo è inammissibile non essendo stato prodotto (né riprodotto nel ricorso per cassazione) il ricorso introduttivo della lite alla cui asserita nullità il motivo fa riferimento e non avendo il ricorrente neppure allegato di aver dedotto il vizio in primo grado al fine di impedirne ogni sanatoria, anche attraverso i poteri autorizzativi del giudice ex art. 420, comma 7, c.p.c., e la condotta processuale tenuta dalle parti nel corso del giudizio. Del resto, la facoltà del giudice di legittimità di valutare direttamente gli atti del processo qualora col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento — facoltà riconosciuta dalle Sezioni Unite, Sentenza n. 8077 del 22 maggio 2012, richiamata dal ricorrente nella memoria illustrativa prodotta — postula infatti pur sempre, come precisato nella stessa pronuncia, che la censura sia proponibile ed in concreto sia proposta in conformità delle regole fissate dal codice di rito. 15. Il ricorso deve quindi essere rigettato. 16. La considerazione della posizione delle parti e dell’oggetto del giudizio da ragione della compensazione integrale delle spese di lite. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.59 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 14 GENNAIO 2014 N. 585 PRES. ROVELLI REL. BUCCIANTE GIUSTIZIA CIVILE - Legge Pinto - Irragionevole durata del processo - Contumace Indennizzo - Diritto - Sussistenza. L. 24 MARZO 2001, N. 89, ART. 3 L’indennizzo per l’irragionevole durata del processo compete anche a chi non si è costituito (o per il tempo in cui non si è costituito), poiché comunque « il contumace è parte del giudizio ». FATTO E DIRITTO. Con il decreto indicato in epigrafe la Corte d’appello di Perugia — nel provvedere anche nei riguardi di altre parti, che non hanno impugnato il provvedimento — ha accolto solo parzialmente la domanda proposta da F.G., intesa ad ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole di una causa civile di divisione ereditaria, rimasta pendente davanti al Tribunale di Frosinone dal 6 dicembre 1976 e ancora in corso presso la Corte d’appello di Roma: l’indennizzo è stato commisurato esclusivamente al tempo successivo al 23 maggio 1994, quando lo stesso F.G. si era costituito in quel giudizio, dopo essere rimasto fino ad allora contumace; è stato inoltre decurtato degli importi corrispondenti sia ai periodi di inattività attribuibili alle parti, quantificati in tre anni e otto mesi, sia alla durata ordinaria del processo, determinata complessivamente in sette an- ⎪ P.60 ni per i due gradi di merito, in considerazione della complessità della controversia. F.G. ha proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi, poi illustrati anche con memoria. Il Ministero della giustizia si è costituito con controricorso. Con il primo motivo di ricorso F.G. lamenta che erroneamente e ingiustificatamente, con il decreto impugnato, l’indennizzo spettantegli è stato limitato, senza alcuna motivazione, al periodo successivo alla sua costituzione nel giudizio presupposto: sostiene che invece si sarebbe dovuto tenere conto anche del tempo in cui era stato contumace (peraltro senza restare inerte, essendo comparsa personalmente nella prima udienza e in varie successive, anche in nome di lui, sua madre, che lo rappresentava in quanto ancora minorenne), poiché né l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, né l’art. 6 della convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva nell’ordinamento interno italiano ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, subordinano il diritto all’equa riparazione alla condizione dell’attiva partecipazione al processo che abbia avuto una durata non ragionevole. Sulla questione posta dal ricorrente, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, si è delineato, un responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore contrasto, per la cui composizione la causa è stata assegnata alle Sezioni Unite. Cass., 12 ottobre 2007, n. 21508; 2 aprile 2010, n. 8130; 10 novembre 2011, n. 27091; 14 dicembre 2012, n. 23153; 21 febbraio 2013, n. 4387, hanno ritenuto che l’indennizzo di cui si tratta compete senz’altro anche a chi non si è costituito (o per il tempo in cui non si è costituito), poiché comunque “il contumace è parte del giudizio”. Invece Cass., 10 luglio 2009 n. 16284; 4 novembre 2009, n. 23416; 19 ottobre 2011, n. 21646, per la particolare ipotesi della successione a titolo universale alla parte originaria, hanno riconosciuto la possibilità per gli eredi di ottenere l’equa riparazione, per il periodo successivo alla morte del de cuius, soltanto ove si siano costituiti in proprio in giudizio, stante altrimenti “la mancanza di una parte processuale attiva, danneggiata dalla violazione del termine di ragionevole durata del processo”. Questo secondo indirizzo, ma con riferimento alla generalità dei casi, è stato anche seguito, con maggiore ampiezza di motivazione, da Cass., 23 giugno 2011, n. 13803; e 21 febbraio 2013, n. 4474, secondo cui “la necessità di una costituzione in giudizio della parte che invoca la tutela della legge a sanzionare l’irragionevole durata è premessa indiscutibile per una ragionevole operatività dell’intero sistema di cui alla legge n. 89/2001, non potendo operare, in difetto di tale costituzione, lo scrutinio sul comportamento della parte delineato dall’art. 2, comma 2, della legge, e non essendo neppure esercitabili i poteri di liquidazione equitativa dell’indennizzo correlati, ragionevolmente, al concreto patema che sulla parte ha avuto la durata del processo” e “solo la parte che abbia, in realtà, attivamente partecipato al processo in quanto costituita può subire quel patema d’animo ovvero quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole della durata del processo e, quindi, assumere la qualità di parte danneggiata (che costituisce la condizione imprescindibile tutelata dalla legge n. 89/ 2001)”, a differenza di “chi ha scelto, consapevolmente, di non costituirsi nel giudizio e, quindi, di disinteressarsi dello stesso, dimostrandosi, in linea potenziale, incurante degli effetti di una possibile decisione negativa nei suoi confronti (ed insensibile ai tempi di svolgimento del processo, che, peraltro, non di rado, pur ri- manendo posizionato solo alla finestra, auspica che si protraggano oltre quella che dovrebbe essere la loro fisiologica durata)”. Tra questi due orientamenti, ritiene il collegio di dover aderire al primo. Si deve convenire con il ricorrente a proposito dell’assenza, nelle disposizioni sia internazionali sia interne che disciplinano la materia, di ogni espressa limitazione, per il contumace, del diritto a ottenere in tempi ragionevoli la conclusione del giudizio, anche se non vi si è costituito: l’art. 6 della convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, attribuisce tale diritto a “ogni persona”, relativamente alla “sua causa”, mentre l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, assicura una equa riparazione a “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale” per effetto della violazione di quel principio. La tutela è dunque apprestata indistintamente a tutti coloro che sono coinvolti in un procedimento giurisdizionale, tra i quali non può non essere annoverata anche la parte non costituita in giudizio, nei cui confronti la decisione è comunque destinata a esplicare i suoi effetti. Risulta pertanto arbitrario escludere il contumace dalla garanzia di “ragionevole durata”, che l’art. 111 della Costituzione inserisce tra quelle del “giusto processo” e demanda alla legge di assicurare, insieme con quelle del contraddittorio, della parità tra le parti, della terzietà e imparzialità del giudice, che certamente competono anche a chi non si sia costituito in giudizio. Nella tradizione giuridica italiana, del resto, la contumacia è sempre stata configurata come un atteggiamento pienamente legittimo, non preclusivo dell’assunzione della qualità di parte, ma ragione anzi di talune specifiche tutele. Anche la contumacia, peraltro, può in ipotesi influire — talvolta positivamente, talaltra negativamente — sui tempi del giudizio, rispettivamente implicando o escludendo, secondo i casi, la necessità di alcune attività processuali. Consiste dunque pure essa in un “comportamento” della parte, valutabile, ai sensi del comma 2 dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, ai fini dell’accertamento della violazione del principio di ragionevole durata. Non è allora condivisibile l’assunto secondo cui la contumacia preclude comunque il riconoscimento del diritto all’equa riparazione, poiché impedisce di applicare il criterio del “comportamento delle responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.61 ⎪ parti”, del quale occorre tenere conto, a norma della disposizione suddetta. Può peraltro accadere che anche la parte costituita in giudizio non abbia tenuto affatto condotte idonee a incidere in qualche modo sulla durata del processo: il che non fa venire meno il suo diritto a essere indennizzata, ove il termine ragionevole sia stato superato, anche se il parametro del suo ”comportamento” risulta in tal caso inutilizzabile. Ugualmente incongruo appare l’altro argomento addotto a sostegno della tesi dell’incompatibilità tra contumacia e diritto all’equa riparazione: la mancata costituzione in giudizio viene considerata come indice univoco di disinteresse all’esito della lite e conseguentemente alla sua durata, la quale pertanto, pur se eccessiva, non potrebbe comportare quel patema d’animo che invece prova chi partecipa attivamente al processo. Si tratta di asserzioni e deduzioni aprioristiche, basate su assiomatici presupposti. La scelta della contumacia può derivare dalle più varie ragioni, anche diverse dall’indifferenza per il risultato e per i tempi della controversia, come tra l’altro la convinzione della totale plausibilità o al contrario della assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in giudizio. L’esito della cau- ⎪ P.62 sa, peraltro, è ininfluente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo, che compete anche alla parte soccombente. Inoltre la durata superiore ai limiti della ragionevolezza del processo fa presumere senz’altro la causazione di un danno non patrimoniale (in questa sede soltanto su di esso si verte) di per sé derivante dall’attesa, prolungata per un tempo esorbitante, di una decisione che comunque incide sulla parte nei cui confronti viene assunta. Non vi è dunque ragione per negare che anche il contumace possa subire quel disagio psicologico, che normalmente risentono le parti a causa del ritardo eccessivo con cui viene definito il processo che le riguarda. La mancata costituzione in giudizio può quindi eventualmente influire sull’an o sul quantum dell’equa riparazione, ma non costituisce di per sé motivo per escludere senz’altro il relativo diritto. Accolto pertanto il primo motivo di ricorso, resta assorbito il secondo, con cui F.G., in via subordinata, sostiene che l’indennizzo avrebbe dovuto essergli attribuito per l’intero periodo successivo alla sua costituzione in giudizio, senza le decurtazioni operate dalla Corte d’appello. Il decreto impugnato deve pertanto essere cassato, nella parte in cui ha provveduto sulla domanda di F.G., con rinvio ad altro giudice, che si designa nella Corte d’Appello di Peru- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore gia in diversa composizione, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.63 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 24 FEBBRAIO 2014 N. 4323 PRES. ROVELLI REL. DI PALMA MAGISTRATO - Responsabilità disciplinare - Sanzione - C.S.M. - Discrezionalità - Obbligo di indicare i criteri - Sussistenza. D.LGS. 23 FEBBRAIO 2006, N. 109, ART. 12 1. La scelta della sanzione disciplinare da irrogare al magistrato che sia incorso in violazioni disciplinari spetta — in mancanza di contrarie previsioni di legge ed in applicazione analogica (analogia juris) del principio desumibile dagli artt. 132 e 133 c.p. — al potere discrezionale della Sezione disciplinare del C.S.M., la quale deve indicare i motivi della scelta compiuta, relativamente, in particolare, alla gravità dell’illecito ed alla capacità o meno dell’incolpato di commetterne altri. FATTO. 1. Il magistrato dr. V.P., con ricorso del 24 marzo-2 aprile 2013, ha impugnato per cassazione — deducendo quattro motivi di censura —, nei confronti del Ministro della giustizia e del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura n. 44/ 2013 del 7 febbraio-18 marzo 2013, con la quale la Sezione disciplinare, pronunciando sull’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione nei confronti del dr. V., incolpato dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, lettera q), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, sulle conclusioni del Procuratore generale — il quale aveva chiesto la condanna del- ⎪ P.64 l’incolpato alla sanzione della perdita di anzianità di sei mesi — e del difensore dell’incolpato — il quale aveva chiesto l’assoluzione per insussistenza dell’addebito in riferimento ai ritardi relativi all’anno 2008 e l’assoluzione per scarsa rilevanza del fatto, ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109/2006, in riferimento ai ritardi relativi all’anno 2009 —, ha dichiarato il dr. V. responsabile della violazione ascrittagli, infliggendogli la sanzione disciplinare della perdita di anzianità di un anno. 1.1. Il Ministro della giustizia, benché ritualmente intimato, non si è costituito né ha svolto attività difensiva. 1.2. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso. 2. Il capo di incolpazione addebitato al dr. V., di cui alla citata sentenza n. 44/2013 della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, è così formulato: “[...] incolpato dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, lettera q), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, per avere, mancando ai propri doveri di diligenza e di laboriosità, ritardato in modo reiterato, grave e ingiustificato il compimento di atti relativi all’esercizio delle proprie funzioni di giudice del Tribunale di Taranto, addetto al settore civile. In particolare il Dott. V. ritardava oltre il termine di legge il deposito delle seguenti sentenze civili [...]. Noti- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore zia circostanziata dei fatti acquisita: per i ritardi verificatisi nell’anno 2009 il 6 ottobre 2011; per quelli verificatisi nell’anno 2008 l’11 gennaio 2011”. In particolare, il capo di incolpazione precisa che, relativamente ai ritardi dell’anno 2008, le minute di cinque sentenze risultano depositate con ritardi di 72, 55, 45, 44 e 1.038 giorni oltre i sessanta giorni; relativamente ai ritardi dell’anno 2009, le minute di sette sentenze risultano depositate con ritardi di oltre un anno e sei mesi (2), di oltre due anni (1), di oltre due anni e sei mesi (3), di oltre quattro anni (1). 2.1. In particolare — e per quanto in questa sede ancora rileva —, la Sezione disciplinare a) quanto alla richiesta di sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale promosso nei confronti dell’incolpato per il delitto di concorso continuato in falso in atto pubblico — “per aver alterato, in concorso con un funzionario di cancelleria, la data di deposito delle minute delle ultime sette sentenze indicate nel capo di incolpazione, riportando sui relativi fascicoli una data anteriore a quella di deposito annotata nell’archivio informatico del registro in uso presso il Tribunale civile di Taranto” —, ha escluso il carattere pregiudiziale di tale procedimento penale, relativamente al quale è stato emesso l’avviso di conclusione delle indagini in data 20 dicembre 2011, osservando che il capo di incolpazione del procedimento disciplinare non comprende l’addebito penale, sicché “all’accertamento del fatto costituente illecito disciplinare non è pregiudiziale l’esito del procedimento penale, a nulla rilevando che il falso sia stato contestato, tra l’altro, anche con riferimento alla modifica della data di deposito di alcune sentenze indicate nel capo di incolpazione. Infatti, pur dovendosi ritenere l’astratta possibilità della sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del giudizio penale nel caso di perfetta coincidenza dei fatti materiali [...], nella fattispecie in esame tale possibilità è esclusa dall’assenza di identità dei fatti dedotti nei due procedimenti pendenti nei confronti dell’incolpato”; b) quanto all’eccezione di decadenza dalla promozione dell’azione disciplinare, ha osservato: “[...] come emerge dagli atti (f. 1), il Procuratore generale ha avuto notizia circostanziata dei ritardi maturati tra il dicembre 2008 e il mar- zo 2009 soltanto il 6 ottobre 2010 (e non il 6 ottobre 2011 come, per un evidente errore materiale di battitura, è stato indicato nel capo di incolpazione). Ne consegue che, per l’illecito disciplinare costituito dal ritardo nel deposito di detti provvedimenti, l’azione disciplinare è stata proposta tempestivamente in data 6 ottobre 2011, entro il termine previsto dall’art. 15.1 del d.lgs. n. 109/2006”; c) quanto ad alcune delle giustificazioni dei ritardi contestati, addotte dal dr. V., ha, tra l’altro, affermato: “Quanto, poi, al dedotto gravoso impegno lavorativo, va osservato che non è stata offerta alcuna indicazione dalla quale poter ricavare il carattere di straordinarietà del lavoro espletato negli anni in esame. Né vi sono elementi da quali desumere il carattere elevato del carico di lavoro del Dott. V. Da un lato, infatti, non v’è prova che l’incolpato abbia sostenuto carichi di lavoro sensibilmente maggiori rispetto a quelli riservati ad altri colleghi del Tribunale di Taranto e, per altro verso, non sembra che i numeri affrontati fossero assolutamente non gestibili, come peraltro è dimostrato dal fatto che non risulta che nello stesso periodo altri giudici addetti al medesimo ufficio abbiano raggiunto livelli di ritardo quali quelli ascritti all’incolpato. Tale ultima circostanza induce dunque a ritenere che la causa di quei ritardi debba essere ricercata soprattutto nell’adozione, da parte del Dott. V., di criteri di organizzazione del proprio lavoro del tutto inadeguati alle esigenze del ruolo affidatogli, tanto da determinare, per un rilevante numero di cause, il decorso di un lasso di tempo oggettivamente intollerabile tra la scadenza dei termini di legge e il deposito dei provvedimenti. A ciò va aggiunto che le statistiche annuali in atti non appaiono neppure indicative di un particolare rendimento dell’incolpato, il quale nel periodo in esame ha raggiunto un livello di produttività che non si discosta in modo significativo da quello conseguito da altri colleghi dell’ufficio”; d) quanto alla determinazione della sanzione per l’illecito disciplinare contestato e riconosciuto, ha affermato: “La gravità del fatto ascritto al Dott. V., l’esistenza di una precedente condanna riportata dal predetto magistrato per condotte analoghe, di per sé indicativa del fatto che quel precedente non ha avuto alcuna efficacia emendativa nei suoi confronti, e l’attuale pendenza di altri procedimenti, penali e disci- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.65 ⎪ plinari, nei confronti dell’incolpato, che hanno determinato l’adozione, in data 23 marzo 2012, di una misura cautelare, inducono ad applicare, in coerenza al generale principio di cui all’art. 133 c.p., la sanzione della perdita di anzianità nella misura di anni uno”. DIRITTO. 1. Con il primo motivo (con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b, c ed e), c.p.p. in relazione: alla corretta applicazione dell’art. 15, d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109; violazione dell’art. 111, comma 2, della Costituzione”), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo (FATTO), n. 2.1., lettera b), sostenendo che i Giudici a quibus: a) non hanno considerato che non v’è la prova che la notizia circostanziata dell’illecito disciplinare in questione — trasmessa da Lecce con raccomandata del 27 settembre 2010 — sia stata acquisita dal Procuratore generale in data 6 ottobre 2010, tale data risultando soltanto da una stampigliatura senza sottoscrizione apposta sul fascicolo dello stesso Procuratore generale; b) così facendo hanno violato le regole di diritto circa la formazione, la valutazione e l’onere della prova di cui all’art. 111, comma 2, Cost., nella parte in cui stabilisce che il processo si svolge in condizione di parità delle parti, con l’ovvia conseguenza che nessuna delle ⎪ P.66 parti, nemmeno quella pubblica, può attestare alcunché, al di fuori dei meccanismi di prova apprestati dalla legge; c) hanno omesso di considerare che la tempestività della promozione dell’azione disciplinare, essendo una condizione dell’azione, deve essere provata dall’autorità che la promuove con mezzi idonei, vale a dire con la registrazione della notizia in un registro pubblico, cartaceo od informatico, e con l’attribuzione alla stessa di un numero di protocollo. Con il secondo motivo (con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b, c ed e), c.p.p. in relazione alla corretta applicazione degli artt. 12, 1 e 2 comma, e 5, 2 comma, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, con riferimento all’adeguatezza della sanzione irrogata”), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo (FATTO), n. 2.1., lettera d), sostenendo che i Giudici a quibus hanno irrogato la sanzione della perdita di anzianità al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 109/ 2006, ipotesi del tutto estranee alla fattispecie disciplinare contestata ed accertata, ed inoltre hanno giustificato l’applicazione di detta sanzione con riferimento a procedimenti disciplinari, diversi da quello de quo, e penali per di più non ancora definiti. Con il terzo motivo (con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b, c ed e), c.p.p. in responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore relazione alla congruità della motivazione, illogica ed insufficiente, ed all’esame di documenti decisivi, nonché alla corretta valutazione della prova”) il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo (FATTO), n. 2.1., lettera c), sotto il profilo dei vizi di motivazione, sostenendo che i Giudici a quibus hanno erroneamente valutato la laboriosità dell’incolpato omettendo, in particolare, di considerare sia che l’incolpato, nel periodo considerato, aveva introitato il maggior numero di sentenze rispetto ad ogni altro collega dello stesso ufficio giudiziario, come risulta dalle tabelle allegate al ricorso, sia che lo stesso, cessate le funzioni di giudice delegato al fallimento, non era più incorso in ritardi. Con il quarto motivo (con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b, c ed e), c.p.p. in relazione alla corretta applicazione dell’art. 295 c.p.c.”), il ricorrente critica la sentenza impugnata(cfr., supra, Svolgimento del processo, (FATTO), n. 2.1., lettera a), sostenendo che i Giudici a quibus hanno omesso di considerare che, anche ad ammettere che rilevante ai fini della tempestività del deposito della minuta sia il deposito di quella “definitiva” e non di quella “provvisoria”, tuttavia “ai fini della misura della sanzione da infliggere, la cosa aveva sicura rilevanza; perché non è la stessa cosa tralasciare il lavoro circa le questioni sottoposte, ovvero lavorarci sopra, ed eccedere i termini, per eccesso di scrupolo, non di pigrizia”. 2. Il ricorso non merita accoglimento. 2.1. Il primo motivo è infondato. È noto che, secondo l’art. 15, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 109/2006, “L’azione disciplinare è promossa entro un anno dalla notizia del fatto, della quale il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha conoscenza a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia circostanziata o di segnalazione del Ministro della giustizia”. Come già rilevato, la Sezione disciplinare ha respinto l’eccezione di decadenza del Procuratore generale presso la Corte di cassazione dal potere di promuovere l’azione disciplinare, affermando che, “[...] come emerge dagli atti (f. 1), il Procuratore generale ha avuto notizia circostanziata dei ritardi maturati tra il dicembre 2008 e il marzo 2009 soltanto il 6 ottobre 2010 (e non il 6 ottobre 2011 come, per un evidente errore materiale di battitura, è stato indicato nel capo di incolpazione). Ne consegue che, per l’illecito disciplinare costituito dal ritardo nel deposito di detti provvedimenti, l’azione disciplinare è stata proposta tempestivamente in data 6 ottobre 2011, entro il termine previsto dall’art. 15.1 del d.lgs. n. 109/2006”. Con il motivo in esame, il ricorrente sostiene che i Giudici disciplinari hanno omesso di considerare, da un lato, che non v’è la prova che la notizia circostanziata dell’illecito disciplinare in questione — trasmessa dal Presidente della Corte d’appello di Lecce (anche) al Procuratore generale presso la Corte di cassazione con lettera raccomandata del 27 settembre 2010 — sia stata acquisita dal Procuratore generale in data 6 ottobre 2010, tale data risultando soltanto da una stampigliatura senza sottoscrizione apposta sul fascicolo dello stesso Procuratore generale, dall’altro, che la tempestività della promozione dell’azione disciplinare, essendo una condizione dell’azione, deve essere provata dall’autorità che la promuove con mezzi idonei, vale a dire con la registrazione della notizia in un registro pubblico, cartaceo od informatico, e con l’attribuzione alla stessa di un numero di protocollo. Nella specie, dall’esame diretto degli atti — consentito a questa Corte dalla natura del vizio denunciato che, ove accertato, comporterebbe la nullità del procedimento disciplinare e, conseguentemente per derivazione, dello stesso processo disciplinare e della sentenza impugnata — risulta che, all’estremo superiore destro della menzionata raccomandata del Presidente della Corte d’appello di Lecce in data 27 settembre 2010, è presente un “adesivo” del seguente testuale tenore: “Ministero della Giustizia — Procura Generale della Repubblica Presso la Corte Suprema di Cassazione ROMA ENTRATA - 06/10/2010 09:14 - 0017911”. Orbene — tenuto conto che il predetto “adesivo” è incontestatamente proveniente dall’Ufficio del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, come emerge dalla riprodotta intestazione —, l’applicazione del principio di legalità, che deve informare lo svolgimento dell’azione amministrativa, da fondamento ad una presunzione semplice circa la veridicità delle circostanze ivi indicate, in particolare della data e dell’ora di ricezione della predetta lettera raccomandata da parte dell’ufficio del Procuratore generale presso la Corte di cas- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.67 ⎪ sazione, con la conseguenza che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, è proprio colui che contesta la veridicità di tali circostanze ad essere onerato della prova — anche presuntiva — contraria; ciò, senza contare — sempre in via presuntiva, in assenza di prova contraria — sia che il numero finale (“0017911”) di detto “adesivo” richiama all’evidenza il numero attribuito alla stessa lettera raccomandata nella data medesima al momento della sua protocollatura, sia che la data della sua ricezione, 6 ottobre 2010, è ragionevolmente congruo rispetto al tempo trascorso dalla data della sua redazione, 27 settembre 2010. 2.2. Anche il secondo motivo è infondato. La piana lettura della motivazione adottata dalla Sezione disciplinare, quanto alla determinazione della sanzione per l’illecito disciplinare contestato e riconosciuto, consente di affermare che la stessa si basa su distinte ed autonome ragioni (“La gravità del fatto ascritto al Dott. V., l’esistenza di una precedente condanna riportata dal predetto magistrato per condotte analoghe, di per sé indicativa del fatto che quel precedente non ha avuto alcuna efficacia emendativa nei suoi confronti, e l’attuale pendenza di altri procedimenti, penali e disciplinari [...] inducono ad applicare, in coerenza al generale principio di cui all’art. 133 c.p., la ⎪ P.68 sanzione della perdita di anzianità nella misura di anni uno”), sicché — ove anche, per mera ipotesi, si accedesse al rilievo del ricorrente, di illegittimità del riferimento a procedimenti disciplinari, diversi da quello de quo, e penali, tutti per di più non ancora definiti — la determinazione della sanzione risulterebbe pur sempre adeguatamente sorretta dalle affermate gravità dell’illecito accertato ed esistenza di una precedente condanna disciplinare per condotte analoghe. Ciò, senza contare che la scelta della sanzione da irrogare spetta — in mancanza di contrarie previsioni di legge ed in applicazione analogica (analogia juris) del principio desumibile dagli artt. 132 e 133 c.p. — al potere discrezionale della Sezione disciplinare del C.S.M., la quale deve indicare i motivi della scelta compiuta, relativamente, in particolare, alla gravità dell’illecito ed alla capacità o meno dell’incolpato di commetterne altri, come puntualmente motivato nella specie dai Giudici a quibus, in applicazione dell’art. 12, comma 1, lettera g) del d.lgs. n. 109 del 2006 (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 2336/1989). 2.3. Il terzo ed il quarto motivo sono inammissibili. In particolare, il terzo, perché le censure sono in parte irrilevanti ed in parte generiche. Infatti — a fronte di una motivazione ampia, puntuale e corretta sul piano logico-giuridico, quanto responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore ad alcune delle giustificazioni dei ritardi contestati, addotte dal dr. V., (cfr., supra, Svolgimento del processo, (FATTO), n. 2.1., lettera c) —, il ricorrente si limita a dedurre che i Giudici a quibus hanno erroneamente valutato la laboriosità dell’incolpato omettendo, in particolare, di considerare sia che l’incolpato, nel periodo considerato, aveva introitato il maggior numero di sentenze rispetto ad ogni altro collega dello stesso ufficio giudiziario, come risulta dalle tabelle allegate al ricorso, sia che lo stesso, cessate le funzioni di giudice delegato al fallimento, non era più incorso in ritardi. Tale ultima deduzione è palesemente irrilevante, riferendosi ad un (soltanto) addotto (peraltro doveroso) comportamento del magistrato, rispettoso dei termini di deposito dei provvedimenti, successivo ai periodi considerati dall’illecito disciplinare contestato. L’altra deduzione è palesemente generica, in quanto il ricorrente — alla motivazione, secondo cui “[...] Da un lato [...] non v’è prova che l’incolpato abbia sostenuto carichi di lavoro sensibilmente maggiori rispetto a quelli riservati ad altri colleghi del Tribunale di Taranto e, per altro verso, non sembra che i numeri affrontati fossero assolutamente non gestibili, come peraltro è dimostrato dal fatto che non risulta che nello stesso periodo altri giudici addetti al medesimo ufficio abbiano raggiunto livelli di ritardo quali quelli ascritti all’incolpato [...]” — si limita a contrapporre valutazioni contrarie, senza peraltro specificare adeguatamente gli elementi che fonderebbero i suoi dedotti maggiori carichi di lavoro e la sua maggiore laboriosità in comparazione con gli altri colleghi del Tribunale di Taranto. Anche il quarto motivo è inammissibile, perché la censura non investe la vera ratio decidendi della sentenza impugnata. Infatti, la Sezione disciplinare, quanto alla richiesta di sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale promosso nei confronti dell’incolpato per il delitto di concorso continuato in falso in atto pubblico — “per aver alterato, in concorso con un funzionario di cancelleria, la data di deposito delle minute delle ultime sette sentenze indicate nel capo di incolpazione, riportando sui relativi fascicoli una data anteriore a quella di deposito annotata nell’archivio informatico del registro in uso presso il Tribunale civile di Taranto” —, ha escluso il carattere pre- giudiziale di tale procedimento penale, osservando che il capo di incolpazione del procedimento disciplinare non comprende l’addebito penale, sicché, “pur dovendosi ritenere l’astratta possibilità della sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del giudizio penale nel caso di perfetta coincidenza dei fatti materiali [...], nella fattispecie in esame tale possibilità è esclusa dall’assenza di identità dei fatti dedotti nei due procedimenti pendenti nei confronti dell’incolpato”. A prescindere da altre pur possibili considerazioni conducenti anch’esse ad un esito sfavorevole al ricorrente, la piana lettura del motivo in esame consente di escludere che le censure ivi mosse investano l’esclusione della pregiudizialità di detto procedimento penale in ragione della “assenza di identità dei fatti dedotti nei due procedimenti pendenti nei confronti dell’incolpato” rispetto ai fatti dedotti nel procedimento disciplinare. 3. Nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio, in quanto il Ministro della giustizia non si è costituito né ha svolto difese. Risultando dagli atti che il procedimento in esame è esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1 quater, del testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013). (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.69 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 25 NOVEMBRE 2013 N. 26284 PRES. ROVELLI REL. SALVAGO MAGISTRATO - Responsabilità disciplinare - Tardivo reiterato deposito di sentenze Ritardo ingiustificato - Nozione - Rilevanza. D.LGS. 23 FEBBRAIO 2006, N. 109, ART. 2 2. La non giustificabilità del ritardo costituisce non un ulteriore elemento della fattispecie fonte di responsabilità disciplinare del magistrato che non depositi i provvedimenti nei termini di legge, ma un fatto ad essa esterno, che gravita nell’area delle situazioni riconducibili alle condizioni di inesigibilità, ed è funzionale alla delimitazione degli obblighi giuridicamente determinati sul piano normativo con lo scopo di temperarne il rigore applicativo, allorché, per circostanze specificamente accertate, la sanzione apparirebbe irrogata « non iure ». FATTO. La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza dell’8 febbraio 2013 ha inflitto al Dott. P.G., Presidente della III Sez. penale del Tribunale di Milano, la sanzione della perdita di anzianità di due mesi per avere, quale giudice del Tribunale di Milano addetto all’ufficio GIP depositato nel periodo giugno 2003-marzo 2010 numerose sentenze con gravi ritardi, molte superiori ai 100-200 giorni, in un caso ai 300 giorni, mentre nel caso più grave il ritardo aveva raggiunto i 2.246 giorni. Ha rilevato al riguardo: a) che il ritardo nel deposito appariva grave, ingiustificato e reiterato, soprattutto nel periodo in cui il Dott. G. aveva svolto la funzione di giudice addetto ⎪ P.70 al dibattimento penale, in relazione al quale ben 10 sentenze erano state depositate con un ritardo di circa 3 anni; b) il ritardo era altresì reiterato, riguardando almeno 40 sentenze, nonché grave, perché almeno per la metà dei depositi, superiore all’anno, con una punta di 1.400 giorni; c) che il carico di lavoro e l’indiscussa laboriosità del magistrato non potevano scriminare tali ritardi, per il loro numero, per la loro inidoneità a dimostrare l’incapacità di una diversa e funzionale organizzazione del lavoro, peraltro attestata da due precedenti procedimenti disciplinari per analoghe causali, che tuttavia si erano conclusi in modo favorevole al ricorrente; e perché infine gli stessi erano divenuti una sorta di costante professionale continuata pur dopo le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio. Per la cassazione della sentenza, il Dott. G. ha proposto ricorso per 7 motivi. Il Ministero della Giustizia non ha spiegato difese. DIRITTO. Con il primo motivo, il ricorrente, deducendo violazione degli art. 15, d.lgs. 109/2006, e 108 c.p.p., censura la sentenza impugnata per avere la Sezione disciplinare omesso di concedere nell’udienza dell’8 febbraio 2013 il rinvio richiesto malgrado l’impedimento addotto e dimostrato, che era stato condiviso dal Procuratore generale; e malgrado la decisione di nomina di un responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore nuovo legale che per quell’udienza aveva documentato un legittimo impedimento; per cui non essendo stato concesso il rinvio cui egli aveva diritto, ai sensi dell’art. 108 c.p.p., la sentenza era affetta da radicale nullità. La doglianza è infondata. La giurisprudenza di legittimità ha enunciato al riguardo i seguenti principi che qui giova appena riassumere: a): In tema di giudizio disciplinare dei magistrati ordinari, il dibattimento deve essere sospeso o rinviato, ai sensi dell’art. 496 c.p.p. del 1930 (applicabile in virtù del rinvio operato dall’art. 34, ult. comma, d.lgs. n. 511/1946, e succ. mod.), solo quando l’assenza dell’imputato sia dovuta ad “assoluta impossibilità a comparire (Cass. Sez. Un. n. 11250/ 2003); b) l’applicazione analogica delle norme del processo penale che garantiscono il diritto di difesa dell’imputato, non comporta il necessario accoglimento dell’istanza di rinvio dell’udienza a fondamento della quale sia addotto un impedimento professionale dell’incolpato: occorrendo, invece, a tal fine, che di siffatto impedimento sia dedotto e risulti il carattere assoluto, in relazione alla insostituibilità della persona nell’impegno medesimo; mentre la richiesta di rinvio dell’udienza e la comunicazione della causa giustificatrice dell’impedimento non siano state inoltrate con un anticipo tale da permetterne la tempestiva conoscenza da parte del collegio giudicante. (Cass. Sez. Un. nn. 9848/ 1993; 12665/1993); c) circa la concessione del termine per preparare la difesa, la disposizione di cui all’art. 108 c.p.p. - che lo prevede in favore del nuovo difensore dell’imputato, non è applicabile nelle ipotesi in cui il giudice designi, ai sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p., un sostituto al difensore non comparso la cui istanza di rinvio per contemporaneo impegno professionale sia stata disattesa (Cass. n. 6015/1999); d) Il diniego di termini a difesa previsti dall’art. 108 c.p.p. non può dar luogo ad alcuna nullità - qualificabile a regime intermedio che deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine di cui all’art. 182, comma 2, c.p.p. - allorquando la relativa richiesta non risponda ad alcuna reale esigenza difensiva e l’effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell’imputato non abbia subito alcuna lesione o menomazione (Cass. Sez. Un. pen. n. 155/2011). Nessuno di questi principi è stato tenuto in considerazione nel ricorso, in cui il Dott. G. non ha prospettato neppure di aver documentato una assoluta impossibilità a comparire - di lui e del nuovo difensore - nell’udienza dell’8 febbraio 2013; sicché la (tardiva) richiesta di rinvio per impegni professionali è stata correttamente respinta dalla Sezione con congrua motivazione; e d’altra parte il ricorrente non ha del pari allegato se e quale pregiudizio alla propria difesa sia stato provocato dalla mancata concessione del rinvio e/o del termine a difesa: da cui ha fatto discendere automaticamente, in contrasto con i principi appena menzionati, la nullità assoluta dell’udienza e della sentenza. Con il secondo motivo, il ricorrente, deducendo violazione degli art. 32-bis, d.lgs. n. 109/ 2006, e 18 r.d.lgs. n. 511/1946, si duole che la valutazione dei ritardi sia stata compiuta al lume della nuova, più rigorosa normativa dell’art. 2, d.lgs. n. 109, invece che in base a quella precedente sotto la quale peraltro si erano verificati numerosi depositi delle sentenze; e che era sicuramente più favorevole quanto meno perché richiedeva il profilo della compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario, oltre a quello della scarsa laboriosità. Con il terzo, deducendo violazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 109/2006, censura la sentenza impugnata per avere omesso ogni indagine sulla ingiustificatezza del ritardo pur a fronte della documentazione in atti, nonché del suo interrogatorio, da cui risultava: a) che la sua laboriosità era qualificata indubbia; b) che le funzioni svolte venivano considerate particolarmente impegnative; c) che in quegli anni aveva avuto la produttività più alta dell’ufficio GIP/GUP. Con il quarto rileva che tale omissione si è ripetuta anche per la gravità del ritardo, non essendosi mai affermato che si sia trattato di processi di rilievo, o nei quali siano stati lesi particolari interessi degli imputati; e con il sesto rileva la contraddizione sussistente tra la parte della motivazione in cui si dava atto del disguido in seguito al quale il deposito di una (sola) decisione era avvenuto dopo oltre 2.000 giorni, nonché della laboriosità del magistrato e del modesto numero dei provvedimenti depositati in ritardo. Anche queste censure sono infondate. Il ricorrente non ha anzitutto specificato se e quali condotte oggetto dell’incolpazione si siano esaurite in epoca antecedente all’entrata in responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.71 ⎪ vigore della nuova legge n. 109/2006; sicché deve nel caso trovare applicazione il principio più volte affermato dalle Sezioni Unite, per cui in tema di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati, l’ultrattività della legge anteriore più favorevole è prevista dall’art. 32-bis, comma 2, del d.lgs. n. 109/2006 esclusivamente in riferimento alle condotte poste in essere e compiutamente esauritesi in data anteriore al 19 giugno 2006; mentre alle condotte successive, quand’anche iniziatesi nel vigore della precedente disciplina ma protrattesi oltre la predetta data, si applicano esclusivamente le nuove disposizioni, senza alcuna possibilità di scissione, quanto all’apprezzamento della gravità del fatto, dell’unica condotta permanentemente lesiva dell’interesse tutelato (Cass. Sez. Un. nn. 967/2010; 16557/ 2009). Il tutto non senza rilevare che la Sezione ha esaminato gli addebiti anche al lume della condizione stabilita dall’art. 18, legge n. 511/1946, che gli stessi abbiano comportato la lesione del prestigio dell’ordine giudiziario, accertandone la ricorrenza; ed attenendosi alla giurisprudenza di questa Corte, per cui detta lesione è intrinseca alla condotta stessa del magistrato allorché si tratti di ritardi nel deposito dei provvedimenti, che per il loro numero complessivo abbiano superato ogni limite di ragionevolezza e di giustificabilità. ⎪ P.72 Non è poi esatto che la sentenza non abbia approfondito i presupposti della reiterazione e della gravità dei ritardi, avendo invece rilevato che il magistrato aveva depositato numerose sentenze (che ha indicato) con ritardi superiori al triplo del termine concesso al giudice dalla legge, altre addirittura dopo mille giorni, mentre una “attendeva ancora di essere motivata da oltre quattro anni”: così dando la prova non solo della reiterazione, ma anche della loro gravità per avere considerato sia il numero dei ritardi, sia la loro durata con particolare riguardo a quella superiore all’anno (verificatasi per almeno 20 sentenze), che aveva raggiunto una punta massima superiore a 1400 giorni. Quanto, infine al requisito della ingiustificabilità, la Sezione disciplinare ha dato puntuale applicazione alla giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo cui ai fini dell’integrazione della fattispecie prevista dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. q), la non giustificabilità del ritardo costituisce non un ulteriore elemento della fattispecie, ma un fatto ad essa esterno, che gravita nell’area delle situazioni riconducibili alle condizioni di inesigibilità ed è funzionale alla delimitazione degli obblighi giuridicamente determinati sul piano normativo con lo scopo di temperarne il rigore applicativo, allorché, per circostanze specificamente accertate, la sanzio- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore ne apparirebbe irrogata “non iure”. Ne consegue che, quando i ritardi risultino intollerabili, come può accadere nel caso di superamento del termine di un anno verificatosi nella fattispecie - desunto dalle indicazioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di durata del giudizio di legittimità - la possibilità che essi vengano scriminati si restringe ed è, pertanto, richiesto il concorso di fattori eccezionali e proporzionati alla particolare gravità attribuibile alla violazione (Cass. Sez. Un. nn. 1771/2013; 8409 e 6490/ 2012; 28802/2011). Con la conseguenza che è onere dell’incolpato allegare e provare i fattori assolutamente eccezionali che giustifichino l’inottemperanza del precetto sui termini di deposito, non essendo di per sé rilevante né la laboriosità, né la comparazione percentuale tra i provvedimenti tempestivamente depositati e quelli depositati in ritardo né infine il contenuto e la difficoltà particolare di quelli il cui termine di deposito sia stato ritardato oltre l’anno. Laddove il ricorrente, così come aveva fatto davanti alla Sezione disciplinare, ha insistito esclusivamente sulla propria laboriosità e capacità professionale attestate da numerosi rapporti, di cui la sentenza ha dato atto. E tuttavia argomentando dalla rilevantissima incidenza dei ritardi, nonché dalla loro reiterazione sussistente anche negli anni precedenti a quelli dell’incolpazione, ha ritenuto con apprezzamento di fatto, logicamente e congruamente motivato, che le circostanze evidenziate dal ricorrente denotassero non un problema temporaneo, conseguente ad una sopravvalutazione delle proprie capacità lavorative da parte del magistrato, ma una deficit della ordinaria diligenza nella organizzazione del lavoro e nei tempi di trattazione dei procedimenti: perciò idonea ad integrare l’illecito disciplinare. Con il quinto motivo, il Dott. G. deduce difetto assoluto di motivazione in merito alla consistenza della sanzione irrogata, richiesta dal P.G. proprio in considerazione della sua laboriosità e della sua professionalità nella semplice censura; laddove gli era stata inflitta quella più grave della perdita dell’anzianità senza neppure spiegare le ragioni del dissenso. Con il settimo denuncia illogicità della motivazione laddove la decisione ha tratto da due precedenti procedimenti per il tardivo deposito di sentenze che si erano conclusi con il suo pro- scioglimento proprio per la laboriosità accertata dal CSM, l’imponente carico di lavoro dovuto sopportare e per il carattere eccezionale della situazione in cui versava l’ufficio, per poi utilizzarli come precedenti onde giustificare la più grave sanzione della perdita dell’anzianità. Anche questi motivi sono infondati. Dalla lettura della sentenza impugnata emerge infatti che la Sezione disciplinare, dopo avere evidenziato sia il considerevole numero di provvedimenti depositati in ritardo nonché la durata di detti ritardi “per periodi di oltre tre anni, con punte superiori ai 4 anni” ha dimostrato da un lato che tali comportamenti avevano caratterizzato tutta la carriera del magistrato, iniziando nel triennio 1982-1985 e procurandogli due procedimenti disciplinari tuttavia conclusi con esito a lui favorevole: menzionati non certamente per ricavarne elementi di addebito nei suoi confronti, ovvero per essere rivalutati in senso sfavorevole, ma per dimostrare come egli abbia sempre sofferto di carenze strutturali nell’organizzazione del suo lavoro divenute una costante nel suo percorso professionale sia in occasione di eventi (e di processi) particolari, sia nella normale gestione dei processi penali allo stesso affidati: e ciò tanto allorché aveva svolto funzioni istruttorie, quanto allorché era passato a comporre (ovvero a presiedere) una sezione penale del Tribunale. Ha rilevato dall’altro che tale costante negativa non era cessata neppure in occasione del presente procedimento disciplinare, in conseguenza del quale il magistrato era stato obbligato a presentare un piano di rientro dei depositi, tuttavia rimasto inadempiuto perché buona parte dei provvedimenti erano stati depositati assai dopo la scadenza dei termini indicati nel piano. Sulla base di tali elementi di fatto la Sezione ha quindi concluso nel senso che i fatti oggetto di contestazione erano oggettivamente molto gravi e le omissioni costanti sì da non permettere il contenimento della sanzione nei limiti del minimo edittale, e di rendere necessaria l’applicazione di quella immediatamente successiva. Per cui sotto il profilo del vizio di motivazione denunciato il ricorrente mira inammissibilmente a porre in discussione l’esercizio di tale potere effettuato dalla Sezione disciplinare con l’applicazione della sanzione della perdita di anzianità, adottando, sul punto, una motiva- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.73 ⎪ zione assolutamente immune da vizi logici o giuridici. Nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio, in quanto il Ministero della Giustizia non ha spiegato difese. (Omissis). ⎪ P.74 responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore SENTENZA CASS. CIV. 8 NOVEMBRE 2013 N. 25179 SEZ. VI PRES. SEGRETO REL. LANZILLO anche indipendentemente dalla definitiva ripartizione fra le parti dell’onere delle spese. PROCEDIMENTO CIVILE - Consulenza tecnica d’ufficio - Compenso - Decreto di liquidazione - Successiva emissione della sentenza - Efficacia del decreto - Permane. FATTO. 1. La sentenza impugnata ha ritenuto che la B., per ottenere il pagamento delle sue spettanze, avrebbe dovuto azionare non la sentenza emessa fra le arti, ma il decreto di liquidazione dei compensi, poiché la regolazione giudiziale delle spese, ivi incluse quelle di CTU, si concreta in una statuizione che ha come destinatane solo le parti del processo e non può esplicare alcun effetto nei confronti di un soggetto estraneo al giudizio qual è il CTU, nella sua veste di ausiliario del giudice. La B., pertanto, non aveva alcun titolo per fondare sulla sentenza la domanda di pagamento proposta contro il Ministero. 2. Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 91 c.p.c., d.P.R. 50 maggio 2002, n. 115, artt. 168 e 171, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, la ricorrente assume per contro che i due documenti (decreto e sentenza), congiuntamente considerati, valgono a giustificare la sua domanda, in quanto il primo ha quantificato l’entità del compenso che le spetta, ponendolo provvisoriamente a carico delle parti convenute; il secondo, cioè la sentenza, ponendo tutte le spese processuali a carico del Ministero, le ha conferito il diritto di agire con ordinaria azione di cognizione anche contro quest’ultimo. Richiama i principi per cui il provvedimento di liquidazione delle spese al CTU, “oltre a produrre i propri effetti nei confronti delle parti opponenti e del consulente tecnico di ufficio, dispiega effetti anche nei confronti di tutte le altre parti del giudizio nel quale è stato espletato l’incarico peritale in quanto ognuna può essere potenzialmente gravata secondo il regolamento delle spese da adottare con la pronuncia conclusiva, ai sensi degli artt. 91 ss. del codice di rito” (Cass. civ., 28 giugno 2004, n. 22111, in motivazione). Richiama altresì il principio per cui l’obbligazione avente ad oggetto il pagamento delle spese di CTU grava solidalmente su tutte le parti del giudizio, contro le quali il CTU può agire indifferentemente, qualora il suo diritto sia rimasto insoddisfatto (Cass. civ., 15 settembre 2008, n. 23586). L. ART. 8 LUGLIO 1980, N. 319, 11 Il decreto di liquidazione di cui alla l. n. 319/ 1980, art. 11, ha e conserva efficacia esecutiva nei confronti della parte ivi indicata come obbligata e — finché la controversia non sia risolta con sentenza passata in giudicato, che provveda definitivamente anche in ordine alle spese — ha l’effetto di obbligare il CTU a proporre preventivamente la sua domanda nei confronti della parte ivi indicata come provvisoriamente obbligata al pagamento e solo nel caso di sua inadempienza può agire nei confronti dell’altra, in forza della responsabilità solidale che, in linea di principio, grava su tutte le parti del processo per il pagamento delle spese di CTU e che perdura anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.75 ⎪ Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonché vizi di motivazione, nel capo in cui la Corte di Appello le ha addebitato di avere fondato la sua pretesa esclusivamente sulla sentenza, relativa ad un giudizio di cui non era parte. Fa notare ancora una volta che essa ha chiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo anche sulla base del decreto provvisorio di liquidazione del compenso. Con il terzo motivo lamenta violazione delle norme sull’interpretazione degli atti di parte (artt. 1362 c.c. ss.) ed ancora vizi di motivazione, nella parte in cui la Corte di Appello le ha addebitato l’indebita duplicazione dei titoli sulla base dei quali ha azionato la sua domanda di pagamento. DIRITTO. 2. Deve essere preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal resistente in relazione all’omessa formulazione dei quesiti sui vizi di motivazione, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. L’art. 366-bis è stato soppresso ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69, con disposizione applicabile ai ricorsi proposti contro provvedimenti depositati successivamente alla data dell’entrata in vigore della legge stessa (cioè a decorrere dal 4 luglio 2009: cfr. l. n. 69/ 2009, artt. 47 e 58, cit.). La sentenza impugnata è stata depositata il 20 ⎪ P.76 settembre 2010, quindi alcun quesito doveva essere formulato a pena di inammissibilità. 3. Quanto al merito del ricorso, il resistente incentra le sue difese sulla circostanza che la sentenza del Tribunale di Montepulciano che lo ha condannato al pagamento delle spese processuali, è stata annullata dalla Corte di cassazione e sostituita da altra sentenza in sede di rinvio, che ha definitivamente accolto le sue ragioni, condannando le controparti al pagamento delle spese processuali. Assume che l’accoglimento del ricorso della B. verrebbe a configgere con il giudicato così formatosi e con il principio per cui le spese processuali gravano sulla parte soccombente, e che sul punto si sarebbe creato un contrasto di giurisprudenza fra le sentenze di questa Corte 2 marzo 1994, n. 1022; 4 marzo 2000, n. 2481 ed altre — secondo cui il CTU al quale siano stati liquidati i compensi non può avvalersi delle azioni ordinarie per far valere giudizialmente il suo diritto al pagamento se non in via sussidiaria, cioè in mancanza di ogni provvedimento di liquidazione — e le sentenze 8 luglio 1996, n. 6199; 15 settembre 2008, n. 23586, ed altre, che invece avrebbero deciso il contrario. 4. I motivi di ricorso sono parzialmente fondati, nei termini che seguono. Va premesso che nella specie si pongono e si so- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore vrappongono fra loro due questioni che è opportuno tenere distinte e cioè; a) il problema di accertare se il CTU possa far valere il suo diritto al pagamento esclusivamente sulla base del decreto di liquidazione di cui alla l. n. 319/1980, art. 11 cit., restandogli preclusa ogni altra azione, ed in particolare ogni azione ordinaria di cognizione fondata su provvedimenti diversi, quali le sentenze emesse nel giudizio nel quale il CTU ebbe a prestare la sua opera; b) il problema di accertare se ed entro che limiti il CTU possa far valere la responsabilità solidale delle parti nei suoi confronti, quindi possa agire per il pagamento anche nei confronti della parte vittoriosa, nonostante ogni diversa disposizione del giudice in ordine alla ripartizione fra le parti delle spese processuali. Le sentenze di questa Corte, 2 marzo 1994, n. 1022; e 4 marzo 2000, n. 2481, hanno affrontato solo, e parzialmente, il problema sub a), risolvendolo nel senso che le azioni ordinarie possono essere proposte dal CTU solo in via sussidiaria, cioè solo nei casi in cui non sia stato emesso alcun decreto di liquidazione dei compensi. (Non si precisa fino a quando perduri l’effetto preclusivo). A questo principio si sono uniformate le sentenze emesse nei due gradi di merito del presente giudizio. La giurisprudenza più recente ha affrontato invece specificamente solo il secondo problema. Ha cioè stabilito che in ogni caso le parti sono solidalmente tenute al pagamento delle spese di CTU, nonostante ogni diversa disposizione della sentenza — pur se passata in giudicato — che, risolvendo la controversia, abbia posto le spese processuali, ivi incluse quelle di CTU, a carico di una sola parte (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8 luglio 1996, n. 6199; Cass. civ., Sez. I, 7 dicembre 2004, n. 22962; Cass. civ., Sez. II, 15 settembre 2008, n. 23586): “... la consulenza tecnica d’ufficio è strutturata, essenzialmente, quale ausilio fornito al giudice..., piuttosto che quale mezzo di prova in senso proprio e, così, costituisce un atto necessario del processo che l’ausiliare compie nell’interesse generale superiore della giustizia e, correlativamente, nell’interesse comune delle parti. Da tale intrinseca natura dell’istituto, ed in particolare, dal dato che la prestazione dell’ausiliare è effettuata in funzione di un interesse comune delle parti... che, cosi, assorbe e trascende quello proprio e particolare... discende... che il regime sull’onere delle spese sostenute dal consulente tecnico per l’espletamento dell’incarico e sull’obbligo del relativo pagamento, deve prescindere sia dalla disciplina sul riparto dell’onere delle spese tra le parti che dal regolamento finale delle spese tra le stesse, che deve avvenire sulla base del principio della soccombenza; ma, soprattutto, che l’obbligazione nei confronti del consulente per il soddisfacimento del suo credito per il compenso deve gravare su tutte le parti del giudizio, ed in solido tra loro” (Cass. civ. n. 6199/1996, in motivazione. Conf. Cass. civ. n. 23586/2008 cit.). Premesso quanto sopra se ne è dedotto che “la sussistenza della obbligazione solidale prescinde sia dalla pendenza del giudizio nel quale la prestazione dell’ausiliare è stata effettuata; sia dal paradigma procedimentale utilizzato dall’ausiliare al fine di ottenere un provvedimento di condanna al pagamento del compenso spettantegli. Per un verso, perché siffatto regime processuale è indissolubilmente connesso alla natura di credito vantato dal consulente ed alla comunanza della posizione debitoria delle parti suoi confronti. Per altro verso, perché non si individua alcuna ragione per cui siffatta posizione debitoria (che, come s’è detto, è ontologicamente connessa alla natura del credito) debba rimanere travolta e caducata per effetto o della cessazione della pendenza del giudizio nel quale la prestazione è stata effettuata ed è sorto il credito, ovvero dell’utilizzazione da parte del consulente-creditore ed ai fini del riconoscimento del suo diritto, di un rimedio processuale esterno rispetto al giudizio nel quale la prestazione è avvenuta”. Ha soggiunto che “al consulente d’ufficio non e opponibile la pronuncia sulle spese contenuta nella sentenza che abbia definito il giudizio nel quale aveva esercitato la sua funzione, perché il principio della soccombenza attiene soltanto al rapporto tra le parti e non opera nei confronti dell’ausiliare; le parti di quel giudizio sono obbligate, in solido, nei confronti dell’ausiliare al pagamento del suo compenso; e, per ottenere detto pagamento, l’ausiliare può anche far ricorso al procedimento monitorio ex art. 633 c.p.c. e, addirittura, può adire il giudice civile con una domanda autonoma ed indipendente dal processo in cui ha espletato l’incari- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.77 ⎪ co”: così si esprime Cass. n. 6199/1996, citando come precedenti Cass., 2 febbraio 1994, n. 1022; Cass., 2 marzo 1973, n. 573; e Cass., 9 febbraio 1963, n. 245). Ad essa si è uniformata Cass. n. 23586/2008, cit., la quale ha anche specificato che il CTU può agire per il pagamento in via ordinaria non solo nei casi in cui sia mancato un provvedimento giudiziale di liquidazione, ma anche quando il decreto emesso a carico di una parte sia rimasto inadempiuto. Quest’ultimo principio si riverbera sulla soluzione della prima questione qui prospettata, poiché afferma la proponibilità dell’azione ordinaria di cognizione, in aggiunta all’azione esecutiva fondata sul provvedimento di liquidazione; ma pone al concorso fra le azioni un limite espresso: cioè che il decreto di liquidazione sia rimasto inadempiuto da parte del soggetto ivi indicato come obbligato al pagamento. 2.2. La considerazione complessiva della citata giurisprudenza non manifesta quindi un contrasto di principi tale da richiedere la rimessione della questione alle Sezioni Unite. Ed invero, se il principio fondamentale è quello per cui le parti sono solidalmente responsabili del pagamento delle competenze del CTU anche dopo che la controversia in relazione alla quale il consulente ha prestato la sua opera sia stata decisa con ⎪ P.78 sentenza passata in giudicato, indipendentemente dalla ripartizione in sentenza dell’onere delle spese processuali, non v’è alcuna ragione di escludere una tale responsabilità solidale a fronte di un sentenza non passata in giudicato, ma che tuttavia contenga un comando diverso da quello di cui al decreto di liquidazione delle spese. Il decreto di liquidazione di cui alla l. n. 319/1980, art. 11, ha e conserva efficacia esecutiva nei confronti della parte ivi indicata come obbligata e — finché la controversia non sia risolta con sentenza passata in giudicato, che provveda definitivamente anche in ordine alle spese — ha l’effetto di obbligare il CTU a proporre preventivamente la sua domanda nei confronti della parte ivi indicata come provvisoriamente obbligata al pagamento e solo nel caso di sua inadempienza può agire nei confronti dell’altra, in forza della responsabilità solidale che, in linea di principio, grava su tutte le parti del processo per il pagamento delle spese di CTU e che perdura anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, anche indipendentemente dalla definitiva ripartizione fra le parti dell’onere delle spese (Cass. civ. n. 6199/ 1996; n. 22962/2004 e n. 23586/2008, cit.). Va soggiunto che i principi sopra indicati non confliggono con la regola per cui la parte vittoriosa responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore non può essere condannata al pagamento delle spese, come assume il resistente. Resta fermo infatti il diritto della parte vittoriosa che abbia pagato le spese di CTU di rivalersi nei confronti del soccombente, conformemente alla pronuncia giudiziale sulle spese. La responsabilità solidale non influisce, com’è noto, sulla titolarità del debito e sulla misura in cui ogni singolo debitore è tenuto ad adempiere, sulla base dei rapporti interni con i condebitori; solo esclude che l’onere dell’insolvenza di alcuno di essi venga a gravare sul creditore. (Cfr. infatti Cass. civ., Sez. I, 16 marzo 2007, n. 6301; e Sez. II, 21 giugno 2010, n. 14925, per cui “Viola l’art. 91 c.p.c. la disposizione del giudice che pone parzialmente a carico della parte totalmente vittoriosa il compenso liquidato a favore del CTU perché neppure in parte essa deve sopportare le spese di causa”, principio che riguarda per l’appunto il caso in cui la parte vittoriosa venga condannata al pagamento delle spese di CTU in via diretta e definitiva, senza diritto di regresso nei confronti del soccombente). 3. In sintesi, la Corte di Appello si è discostata da questi principi, perché ha ritenuto improponibile l’azione ordinaria di cognizione, in aggiunta all’azione esecutiva, senza avere previamente accertato l’inadempimento della parte obbligata al pagamento sulla base del decreto di liquidazione, sebbene la ricorrente abbia espressamente menzionato nel ricorso tale circostanza. La sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi ai principi sopra enunciati, in forza dei quali è da ritenere che la ricorrente ben poteva proporre la sua domanda di pagamento del compenso nei confronti del Ministero dell’Agricoltura, con ordinaria azione di cognizione, in aggiunta all’azione esecutiva proponibile contro le altre parti in forza del decreto del GI di liquidazione dei compensi, sempre che l’appellante abbia ritualmente dedotto e dimostrato in giudizio l’inadempienza delle parti obbligate. 4. La Corte di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.79 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 7 GENNAIO 2014 N. 61 PRES. ROVELLI REL. SPIRITO PROCEDIMENTO CIVILE - Processo di esecuzione - Creditore procedente - Creditori intervenuti - Decadenza o inefficacia del titolo del creditore procedente - Possibilità dei creditori intervenuti di proseguire l’esecuzione - Sussistenza. C.P.C. ARTT. 493, 629 Nel processo d’esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura, va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento. FATTO E DIRITTO. 1. La vicenda processuale. 1) Con atto di pignoramento notificato in data 11 maggio 1994, la Banca Commerciale Italiana s.p.a. intraprese una procedura esecutiva immobiliare, incardinata presso il Tribunale di Larino, sottoponendo a vincolo un appartamento di T.R. ed P.A. In detta procedura intervenne, con atto depositato il 28 febbraio1996, il Codominio **. Con successivo atto di pignoramento notificato in data 2 giugno 1994, la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. iniziò un’ulteriore procedura esecutiva immobiliare, anch’essa incardinata presso il Tribunale di Larino, sottoponendo a vincolo lo stesso appartamento del T. e della P., ed in più un loro locale adibito ⎪ P.80 a garage. In tale seconda procedura, poi riunita alla prima, intervennero la Telecom Italia s.p.a. e la Banca di Roma s.p.a. Il T. e la P. si opposero alle suddette espropriazioni immobiliari riunite intentate ai loro danni, deducendo, in particolare, l’inesistenza del titolo esecutivo azionato dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., per gravi carenze nella notificazione del decreto ingiuntivo in cui esso consisteva, con conseguente illegittimità e nullità di tutti gli atti di esecuzione, nonché la sopravvenuta carenza di legittimazione della Banca Commerciale, avendo questa ceduto il credito a tale Cofactor, con conseguente nullità di tutti gli atti successivi alla cessione perfezionatasi il 23 maggio 2000. Nel giudizio di opposizione si costituirono la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. e la Banca di Roma s.p.a. (oggi Capitalia s.p.a.), concludendo per il rigetto delle avverse istanze, mentre rimasero contumaci la Banca Commerciale Italiana s.p.a. (oggi Banca Intesa s.p.a.), la Telecom Italia s.p.a. ed il Condominio **. Il Tribunale di Larino, con sentenza del 27 giugno 2006, n. 1017, pronunciata ex art. 281-sexies c.p.c., accogliendo parzialmente l’opposizione, dichiarò, per i riscontrati vizi della notifica del decreto ingiuntivo che ne costituiva il titolo esecutivo, l’inesistenza del diritto della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. a responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore procedere esecutivamente, ma — soltanto in motivazione — respinse le doglianze relative all’altra pignorante Banca Commerciale (poi Banca Intesa s.p.a.) e compensò le spese di giudizio “considerato l’esito globale della lite”. Per quanto qui ancora interessa, la decisione resa da quel Tribunale è argomentata sul duplice rilievo: a) che la notifica del decreto ingiuntivo utilizzato quale titolo esecutivo dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. doveva considerarsi inesistente atteso che l’avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta non riportava alcuna indicazione delle attività compiute dall’ufficiale postale in relazione alla mancata consegna del piego presso il domicilio del destinatario; b) che, quanto alla cessione del credito operata dalla Banca Commerciale Italiana s.p.a. in favore della Cofactor s.p.a., la successione a titolo particolare nel diritto del creditore procedente non aveva avuto effetto sul rapporto processuale che, alla stregua dell’art. 111 c.p.c., applicabile anche al processo esecutivo, era continuato tra le parti originarie, con la conseguenza che l’alienante aveva mantenuto la sua legittimazione attiva (ad causam), conservando tale posizione anche nel caso di intervento del successore a titolo particolare fino a quando non fosse stato estromesso con il consenso delle parti. Avverso detta sentenza il T. e la P. hanno proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi, al quale hanno resistito, con distinti controricorsi, Telecom Italia s.p.a. e Capitalia s.p.a. (medio tempore succeduta alla Banca di Roma s.p.a.). Quest’ultima, inoltre, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. 2) Con il primo motivo — intitolato “errore in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su espresse domande formulate in prime cure dalle odierne parti ricorrenti volte ad ottenere, in conseguenza dell’inesistenza in capo alla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. del diritto ad agire in esecuzione forzata, una declaratoria di illegittimità e nullità di tutti gli atti posti in essere dalla stessa banca, a partire dai suoi atti di precetto e pignoramento immobiliare, e degli atti a questi successivi e consequenziali, ivi compresa la eventuale produzione ipocatastale e delle mappe censuarie e di tutta la documentazione ex art. 567 c.p.c., comma 2, nonché la condanna dello stesso istituto di credito al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., comma 2” — i ricorrenti lamentano, in sintesi, che il Tribunale, pur accogliendo la loro opposizione diretta a far dichiarare l’inesistenza del diritto della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. ad agire in executivis sulla base del decreto ingiuntivo emesso dal Presidente del Tribunale di Foggia, non aveva poi disposto alcunché in ordine alle domande di illegittimità e nullità di tutti gli atti esecutivi compiuti da detto istituto di credito e di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., comma 2, prospettando, altresì, la questione del travolgimento di interventi ed atti del procedimento esecutivo all’esito della caducazione del titolo del procedente. L’esposizione si conclude con i seguenti quesiti di diritto: “Dica la Ecc.ma Suprema Corte adita se è affetta da errore in procedendo, ed in particolare da vizio di omessa pronuncia e di mancanza di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., la sentenza con la quale il Giudice investito di un’opposizione all’esecuzione immobiliare, dopo aver dichiarato l’inesistenza del diritto del creditore procedente di agire esecutivamente per mancanza in capo ad esso di un titolo esecutivo, ometta di pronunciarsi su espresse domande degli opponenti, volte, una, a far dichiarare l’invalidità di tutti gli atti compiuti nel processo esecutivo dallo stesso creditore procedente a partire dal pignoramento e sino alle produzioni ipocatastali, ed un’altra ad ottenere la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 2, di quel creditore procedente al risarcimento dei danni derivanti dalla sua intrapresa esecuzione forzata senza la normale prudenza. Inoltre, dica la Ecc.ma Suprema Corte adita se, a seguito della declaratoria di inesistenza del diritto del creditore procedente ad agire in esecuzione forzata per mancanza di un titolo esecutivo, sono nulli o comunque invalidi tutti gli atti compiuti dal creditore procedente, ed in particolare il suo atto di pignoramento, la sua istanza di vendita e la sua produzione di documenti ipocatastali; e se la invalidità di tali atti travolge gli atti di intervento e quelli successivi compiuti dai creditori intervenuti”. Con il secondo motivo — rubricato “Omessa e, comunque, illogica motivazione in relazione alla compensazione delle spese di giudizio disposta dal Tribunale considerato l’esito globale responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.81 ⎪ della lite” — ci si duole, invece, dell’inidoneità, alla stregua del testo applicabile ratione temporis dell’art. 92 cod. proc. civ., dei giusti motivi in concreto posti dalla impugnata sentenza a fondamento della disposta compensazione, oltretutto in considerazione della totale soccombenza della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., creditrice procedente costituita. La Telecom Italia s.p.a., dopo aver esaustivamente argomentato, nel proprio controricorso, le ragioni della infondatezza, a suo dire, del primo dei riportati motivi, ed essersi altresì affermata assolutamente estranea agli assunti esposti nel secondo, ha concluso per il rigetto del ricorso. La Capitalia s.p.a. (già Banca di Roma s.p.a.), nel suo controricorso, ha invece ampiamente dedotto circa la invocata inammissibilità dell’avversa impugnazione nei suoi confronti, ed in tali sensi ha concluso, chiedendo, inoltre, il rigetto del ricorso in tutti i suoi punti. La Capitalia s.p.a., da ultimo, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., ribadendo tutte le proprie argomentazioni e conclusioni. 3) La III Sezione civile, alla quale è stato assegnato il ricorso, ha pronunciato ordinanza (n. 2240 del 30 gennaio 2013) di rimessione degli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, individuando nella fattispecie la questione di ⎪ P.82 massima di particolare importanza consistente nello stabilire quali siano gli effetti della caducazione del titolo esecutivo, in capo al creditore procedente, sul processo esecutivo in presenza di pignoramenti riuniti e di interventi titolati. Il Primo Presidente ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite. 2. Alcune questioni preliminari. Prima di affrontare il problema sottoposto all’esame delle S.U., occorre sgombrare il campo da alcune questioni già preliminarmente affrontate (e risolte) dall’ordinanza interlocutoria della terza sezione civile per giungere alla rimessione degli atti al Primo Presidente. 1) S’è visto che il primo motivo di ricorso lamenta la nullità della sentenza per omessa pronuncia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c.) in ordine alle domande di illegittimità e nullità di tutti gli atti esecutivi compiuti dalla Banca Nazionale del Lavoro e di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., comma 2, prospettando, altresì, la questione del travolgimento di interventi ed atti del procedimento esecutivo all’esito della caducazione del titolo del procedente. Tale nullità della sentenza per omessa pronunzia, una volta accertata, comporterebbe la cassazione della sentenza con rimessione degli atti al giudice del merito, con impossibilità, dunque, di accede- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore re alla questione individuata dall’ordinanza di rimessione. Tuttavia, la sentenza impugnata, se, per un verso, ha omesso di pronunciarsi esplicitamente sulla domanda di declaratoria di nullità di tutti gli atti esecutivi posti in essere dal creditore (la Banca Nazionale del Lavoro) del quale è stata riconosciuta l’inesistenza del diritto a procedere esecutivamente, per altro verso ha respinto la pretesa dei debitori esecutati del venir meno di analogo diritto anche in capo all’altro pignorante (la Banca Commerciale Italiana). Il che equivale all’implicita affermazione che la validità di quest’ultimo pignoramento riunito sia idonea a fondare da sola la validità di tutti gli atti esecutivi. Si verifica, dunque, l’incompatibilità tra la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato e l’impostazione logico giuridica della pronuncia; incompatibilità, che esclude il vizio di omessa pronuncia (in tal senso, cfr. Cass. n. 20311/2011, n. 10696/2007, n. 16788/2006). Riservando al prosieguo l’esame dell’analoga censura svolta con riguardo alla domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., essendo questa accessoria, è a questo punto possibile procedere all’esame della questione sottoposta alle S.U. 3. La questione e le tesi contrapposte. È possibile sin da ora illustrare che intorno alla questione come sopra evidenziata — questione che, indubbiamente, coinvolge i principi di sistema in tema di esecuzione civile e coinvolge l’assetto stesso della procedura espropriativa, con ricadute di non poco conto sia sotto il profilo giuridico, sia sotto quello pratico/operativo — si sono consolidate e si dibattono in dottrina ed in giurisprudenza due teorie che, in grandi linee, si possono esporre nel senso che segue: A) una, che, sulla premessa che i creditori muniti di titolo esecutivo hanno la facoltà di scelta tra l’intervento nel processo già instaurato per iniziativa di altro creditore e l’effettuazione di un nuovo pignoramento del medesimo bene, fa leva sul fatto che il pignoramento autonomamente eseguito ha un effetto indipendente sia da quello che lo ha preceduto, sia da quello di un intervento nel processo iniziato con il primo pignoramento; sicché, proprio in base al principio di autonomia dei singoli pignoramenti di cui all’art. 493 c.p.c., se, da un lato, il titolo esecutivo consente all’intervenuto di sop- perire anche all’eventuale inerzia del creditore procedente, dall’altro lato, tuttavia, la caducazione del pignoramento iniziale del creditore procedente travolge ogni intervento, titolato o meno, qualora non sia stato “integrato” da pignoramenti successivi; B) un’altra, che, attribuendo rilevanza meramente oggettiva alle attività spiegate per l’impulso e lo sviluppo del processo esecutivo (con totale indifferenza, dunque, rispetto a quale dei creditori muniti di titolo esecutivo le abbia poste in essere), sostiene l’insensibilità del processo esecutivo individuale, cui partecipino più creditori concorrenti, alle vicende relative al titolo invocato dal procedente (anche in mancanza di pignoramento successivo o ulteriore poi riunito) purché il titolo esecutivo azionato da almeno un altro di loro abbia mantenuto integra la sua efficacia. Così definiti gli ambiti del dibattito, si potrà rilevare in seguito che la questione è si di massima di particolare importanza (nel senso, dunque, in cui l’ordinanza della terza Sezione civile l’ha rimessa alle S.U.) ma che, soprattutto, si pone in termini di vero e proprio contrasto giurisprudenziale, benché tra una pronunzia recente ed altre, invece, risalenti nel tempo. È vero, infatti, che (come sostiene la citata ordinanza) tutti gli arresti ai quali si farà riferimento sono stati resi nel vigore della disciplina antecedente alle riforme del 2005 e del 2006, ma è pur vero che il contrasto logico-giuridico tra i due orientamenti ha natura sistematica e prescinde dalle riforme citate, le quali ultime, semmai, conferiscono ulteriori ragioni argomentative alla soluzione scelta. La circostanza non è di poco rilievo ai fini del discorso che si andrà a fare e del taglio che ad esso deve attribuirsi, posto che il compito istituzionalmente affidato alle S.U. si pone, in questo caso, non come mera soluzione di una importante questione sistematica, bensì come composizione di un contrasto evidenziatosi nella giurisprudenza della Corte nomofilattica. Occorre pure precisare che la giurisprudenza che sostiene la prima delle menzionate tesi (travolgimento di tutti gli interventi a seguito della caducazione del titolo esecutivo che regge il pignoramento del creditore procedente) ammette — s’è visto — come eccezione l’ipotesi in cui il pignoramento del creditore pro- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.83 ⎪ cedente sia stato integrato da altri pignoramenti successivi. È proprio l’ipotesi che s’è verificata nella fattispecie in trattazione, in cui si sono susseguiti in ordine di tempo due pignoramenti: il primo, della Banca Commerciale Italiana, che sottoponeva a vincolo il solo appartamento dei debitori esecutati; il secondo, della Banca Nazionale del Lavoro, che sottoponeva a vincolo lo stesso appartamento, oltre una sua pertinenza. La seconda procedura è stata riunita alla prima, con gli interventi della Telecom Italia e della Banca di Roma. Riscontrati i vizi della notifica del decreto ingiuntivo posto a base della procedura introdotta dalla Banca Nazionale, il giudice ha dichiarato l’inesistenza del diritto di quest’ultima creditrice a procedere esecutivamente, respingendo (solo in motivazione) le doglianze relative alla altra banca procedente. Orbene, come ha avuto modo di porre in rilievo l’ordinanza di rimessione, pur volendo aderire alla tesi sub A) si perverrebbe al rigetto del ricorso, siccome la valida azione esecutiva della Banca Commerciale Italiana finirebbe con il salvare anche gli interventi compiuti nella riunita azione della Banca Nazionale del Lavoro. Tuttavia, ammettere la validità di una simile eccezione (salvezza degli interventi in virtù della validità di altro pignoramento riu- ⎪ P.84 nito) alla regola (assoluta autonomia dei pignoramenti) comporta non solo la sua convalida a contrario, ma, soprattutto, la necessità di verificare se la regola stessa ammetta una simile eccezione. 4. Le ragioni fondanti la tesi A) - I precedenti giurisprudenziali. La tesi A), come sopra sinteticamente illustrata, è espressa da Cass. n. 3531/ 2009 (Si tratta della sentenza con la quale si confronta l’ordinanza di rinvio, sia per criticarla (in una parte destruens), sia per ipotizzare una diversa ricostruzione del processo esecutivo (in una parte costruens), quale è desumibile dalla riforma del 2006, della quale Cass. n. 3531/ 09 non ha potuto tener conto ratione temporis), che risulta essere l’ultimo arresto in tema di effetti della caducazione del titolo esecutivo in virtù del quale si era iniziata l’esecuzione forzata e ciò, in particolare, con riferimento ad un processo nel quale siano intervenuti altri creditori titolati. (Nel caso di specie, l’espropriazione forzata era stata instaurata sulla base di un decreto ingiuntivo, poi revocato in sede di giudizio d’appello avverso la sentenza resa sull’opposizione al decreto medesimo. La revoca del decreto ingiuntivo aveva costituito motivo per il debitore per formulare istanza di estinzione del processo esecutivo, nel quale peraltro erano nel frattempo interve- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore nuti altri creditori muniti di titolo esecutivo. Il giudice, rigettando l’istanza di estinzione, aveva dato seguito al procedimento, che era giunto fino alla vendita e conseguente aggiudicazione del bene pignorato, con emanazione del relativo decreto di trasferimento. Il debitore, lamentando la illegittimità della prosecuzione della procedura, aveva rivolto una ulteriore istanza al giudice affinché fosse dichiarata la nullità di tutta l’attività esecutiva posta in essere, ritenendo che la revoca del decreto ingiuntivo (titolo esecutivo) avesse reso inefficaci tutti gli atti esecutivi successivi e che il processo non potesse proseguire neanche per gli altri creditori titolati, non trovando applicazione il principio di cui all’art. 629 c.p.c. Costituitisi pure gli altri creditori, il giudice, ritenendo che il ricorso del debitore fosse da considerarsi come opposizione all’esecuzione avverso la prosecuzione dell’azione esecutiva dei creditori titolati, a definizione di tale giudizio, aveva accolto la tesi del debitore ed affermato che la sentenza di accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo produce un effetto caducatorio ex tunc del decreto ingiuntivo e di tutti gli atti esecutivi successivi, tanto da impedire la prosecuzione del processo anche per gli altri creditori intervenuti con titolo esecutivo. La sentenza in commento, a seguito del ricorso proposto avverso la sentenza resa ex art. 615 c.p.c., ha confermato la decisione del giudice dell’opposizione). La sentenza parte dal presupposto che l’ordinamento, rispetto ad un processo esecutivo iniziato, offre agli altri creditori del medesimo debitore esecutato due possibilità: l’intervento nell’espropriazione in corso o il pignoramento successivo sugli stessi beni già pignorati. In questo secondo caso si avrebbe un pignoramento autonomo rispetto al primo, con effetto anche di intervento nel processo già iniziato. I pignoranti successivi lucrerebbero, così, l’effetto di prenotazione del primo pignoramento ex art. 2913 c.c. Nel raffronto eseguito tra i due istituti, poi, solo nell’ipotesi che il creditore abbia effettuato un pignoramento successivo il processo potrebbe proseguire per lui, qualora venisse meno l’azione esecutiva nel cui esercizio è stato posto in essere il primo pignoramento. Infatti — prosegue la sentenza — se i credi- tori titolati accedono al processo mediante intervento, pur avendo i poteri processuali ex art. 500 c.p.c. e pur essendo necessaria anche la loro rinuncia per l’estinzione ex art. 629 c.p.c. del processo medesimo, non sembrerebbe “... altrettanto logico ravvisare una equivalenza tout court tra titoli esecutivi in seno al medesimo processo, i cui effetti sopravviverebbero diacronicamente al di là ed a prescindere dalle sorti dell’originario titolo esecutivo che vi dette vita...”. Gli effetti dell’intervento vengono dedotti quindi per differenza con il pignoramento successivo, che rispetto al primo avrebbe un effetto cautelare ulteriore. Invero, consentire la prosecuzione del processo agli intervenuti, anche venuta meno l’azione esecutiva del procedente, sarebbe (malgrado ciò potrebbe rispondere, ad avviso della pronuncia in rassegna, “... all’esigenza di garantire una più celere ed economica celebrazione del giudizio — dacché l’azione esecutiva dell’interveniente, paralizzata dalla caducazione del titolo originario, sarà successivamente esercitata in via principale mediante un pignoramento successivo — e garantisca la concorsualità delle esecuzioni individuali, indiscutibile ratio generalis dell’art. 2741 c.c....”) in contrasto con l’art. 493 c.p.c., dal quale, deducendosi il principio di autonomia dei pignoramenti, se ne trarrebbe la conclusione che “... il pignoramento iniziale del creditore procedente, se non integrato da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno, nell’ipotesi di una successiva caducazione...”. Peraltro la Corte, a sostegno della sua opinione, aggiunge la considerazione che l’art. 629 c.p.c. (letto a contrario), nel consentire la prosecuzione del processo per i creditori titolati non rinuncianti, conterrebbe una norma eccezionale (ed ampiamente giustificabile dalla stessa morfologia dell’atto di rinuncia, per sua natura neutra rispetto a qualsivoglia valutazione circa la fondatezza dell’azione esecutiva), dalla quale si ricaverebbe una facoltà per i creditori intervenuti non altrimenti ricavabile dal sistema. Conclude, quindi, affermando che l’intervento è “... non altro che manifestazione di volontà collaterale ed accessoria, da parte del creditore, di partecipare ad un processo che altri ha legittimamente fondato su un proprio titolo responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.85 ⎪ esecutivo e legittimamente iniziato con l’atto inaugurale di quel processo, il pignoramento. Sicché la scelta tra intervento e pignoramento successivo (cui il creditore è legittimato senza condizioni dalla legge) è scelta di rischio, scelta, cioè, che non potrà non tener conto della possibile, futura caducazione del titolo del creditore procedente, rischio tanto più evidente quando tale titolo sia (o sia addirittura già stato) passibile di impugnazione. Senza considerare, ancora, che la mancanza di un qualsivoglia obbligo od onere di comunicazione dell’intervento al debitore comporta che quest’ultimo, esperita vittoriosamente l’azione volta alla caducazione del titolo del creditore procedente, potrebbe, per difetto incolpevole di conoscenza, pur tuttavia trovarsi esposto all’azione esecutiva esercitata dall’interventore ove a questi si ritenesse consentita la prosecuzione dell’azione pur nell’ormai avvenuta caducazione del titolo esecutivo originario...”. Così esposto il tenore di Cass. 3531/2009, occorre innanzitutto verificare se essa effettivamente si muove (come asserisce) in continuità con il pregresso orientamento giurisprudenziale individuato in Cass. nn. 985/2005, 11904/ 2004 e 5192/19999. In realtà queste sentenze appena lambiscono il problema che oggi si dibatte. In particolare, Cass. ⎪ P.86 nn. 985/2005 e 11904/2004, trovandosi a decidere se l’accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo comporti, a prescindere dal passaggio in giudicato o dalla esecutorietà della sentenza di primo grado, la radicale caducazione del decreto e la conseguente inefficacia di tutti gli atti esecutivi compiuti per effetto del provvedimento monitorio, stabilisce che l’accertamento immediatamente esecutivo della pretesa sostanziale fatta valere nel procedimento di ingiunzione, se pure perdura nel corso del giudizio di opposizione, può essere superato dalla sentenza che decide la stessa opposizione, ove questa sia accolta totalmente, dato che la sentenza di accertamento negativo si sostituisce completamente al decreto ingiuntivo (il quale viene eliminato dalla realtà giuridica), con la conseguenza che gli atti di esecuzione già compiuti restano caducati, analogamente a quanto accade nei casi di riforma o cassazione di sentenza impugnata (art. 336, 353, 354 c.p.c.) e di revoca di provvedimento cautelare a seguito di reclamo (art. 669-terdecies c.p.c.), a prescindere dal passaggio in giudicato della medesima sentenza di accoglimento dell’opposizione (in argomento sono richiamate Cass. n. 5192/99, che ha riconosciuto tale effetto immediatamente caducatorio anche alla sentenza parziale che disponga la revoca del decreto ingiuntivo responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore per ragioni di rito e la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’accertamento delle pretese creditorie fatte valere con la domanda contenuta nel ricorso monitorio; nonché Cass. n. 5007/ 1997). Passando, poi, all’altro precedente richiamato (ossia Cass. n. 5192/2999), anch’esso, in realtà, si limita ad affermare che pure da una sentenza parziale, che disponga la revoca del decreto ingiuntivo per ragioni di rito e la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’accertamento delle ragioni creditorie fatte valere con la domanda contenuta nel ricorso monitorio, consegue (senza che si renda necessario attendere il passaggio in giudicato in senso formale della sentenza) la caducazione degli atti di esecuzione già compiuti in conseguenza della originaria esecutività del decreto. (La sentenza spiega che il provvedimento con il quale è stato revocato il decreto ingiuntivo per il motivo che esso non era stato regolarmente notificato si sovrappone interamente al decreto, privandolo ex tunc dell’efficacia esecutiva, come accade in tutti i casi di revoca; la perdita di questi effetti discende direttamente dalla sentenza stessa e non è necessario attenderne il passaggio in giudicato in senso formale). Si può dire, allora, che i precedenti ai quali Cass. n. 3531/2009 dichiara di porsi in continuità si limitano ad affermare la caducazione di tutti gli atti esecutivi compiuti sulla base del titolo divenuto inefficace ex tunc (nella specie, il decreto ingiuntivo revocato). In altri termini essi riguardano le sole conseguenze, sul processo esecutivo, della revoca del decreto ingiuntivo, senza neppure porsi il problema (estraneo alle fattispecie trattate) che qui si dibatte, ossia le complicazioni indotte dall’intervento nell’esecuzione di altri creditori muniti di titolo. 5. Le ragioni fondanti la tesi B - I precedenti giurisprudenziali. Una volta chiarito che la tesi sub A) non trova, in realtà, un preciso aggancio di conformità nella giurisprudenza di questa Corte, è possibile verificare che, piuttosto, la questione, posta esattamente negli stessi termini, è stata già affrontata e risolta in modo affatto opposto rispetto alla scelta operata da Cass. n. 3531/ 2009. Il vero precedente in termini è, infatti, costituito da Cass. n. 427/1978 (rispetto alla quale Cass. n. 3531/2009 dichiara di porsi in consape- vole contrasto), che risulta così massimata: “Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipano più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo invocato da uno dei creditori (sospensione, sopravvenuta inefficacia, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore il cui titolo abbia pacificamente conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, quando si tratti di intervento nel processo esecutivo, occorre distinguere se l’azione esecutiva si sia arrestata prima o dopo l’intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile”. (In precedenza s’era espressa negli stessi termini Cass. n. 2347/1973, la quale risulta così massimata: “Nel procedimento di esecuzione forzata, a cui partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo invocato da uno dei creditori (sospensione, sopravvenuta inefficacia, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore il cui titolo abbia pacificamente conservato integra la sua forza esecutiva”). Effettivamente, questa sentenza si pone in una prospettiva sistematicamente opposta rispetto a quella di Cass. 3531/2009. Se quest’ultima, valorizzando il dato normativo dell’art. 493 c.p.c., configura il processo esecutivo per compartimenti stagni, sì da assoggettare la sorte di ciascun intervento a quella del pignoramento originario al quale esso è collegato, l’altra configura l’esecuzione per espropriazione forzata come un processo a struttura soggettiva aperta, nel quale, accanto al creditore pignorante ed al debitore (suoi originari soggetti), possono entrarvi, quali ulteriori, successivi soggetti, gli altri creditori del debitore esecutato che vi facciano intervento. Nel senso che la situazione attiva di tutti i creditori intervenuti si concreta nel diritto di partecipare alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita o dall’assegnazione dei beni pignorati, ma anche, se muniti di titolo esecutivo, a partecipare all’espropriazione del bene pignorato ed a provocarne i singoli atti. Ecco, dunque, che per Cass. n. 427/1978 il creditore intervenuto, munito di titolo esecutivo, si trova in situazione paritetica a quella del creditore pignorante, perché, al pari di questi, responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.87 ⎪ anch’egli può dare impulso al processo esecutivo, compiendo o richiedendo al giudice il compimento di atti esecutivi; perciò, l’atto di esercizio della propria azione esecutiva da parte di un legittimato è anche atto d’esercizio delle azioni esecutive degli altri legittimati e l’atto compiuto da un legittimato si partecipa agli altri legittimati ed è momento di concretizzazione di tutte le azioni esercitate nel processo esecutivo. Da questa premessa scaturisce la necessaria conseguenza che, se, dopo l’intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene l’illegittimità dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante, non ne deriva la caducazione del pignoramento originariamente valido, ma questo resta quale primo atto dell’iter espropriativo proprio del creditore intervenuto munito di titolo esecutivo, il quale prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante che lo aveva eseguito. Lo sviluppo del percorso espropriativo prosegue, dunque, sull’impulso che gli da il creditore intervenuto esercitando la sua azione esecutiva, sì da essere legittimati anche gli interventi di altri creditori, pur se successivi alla sopravvenuta illegittimità dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante. 6. L’intervento titolato. La soluzione della ⎪ P.88 questione non può prescindere da una corretta definizione dell’intervento del creditore nell’azione esecutiva introdotta da altro creditore con il pignoramento, attraverso le disposizioni che ne regolano legittimazione, modi, tempi ed effetti. Il testo dell’art. 499 c.p.c., precedente alle novelle, si limitava ad affermare che, oltre ai creditori iscritti destinatari dell’avviso ex art. 498 c.p.c., possono intervenire nell’esecuzione gli altri creditori, ancorché non privilegiati. Prima la l. n. 80/2005, poi la l. n. 263/2005 hanno definito la categoria dei soggetti legittimati all’intervento, rendendolo possibile: ai creditori il cui credito sia fondato su titolo esecutivo; ai creditori che, al momento del pignoramento, abbiano eseguito un sequestro sui beni pignorati oppure abbiano un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri o un diritto di pegno; ai creditori che, al momento del pignoramento, siano titolari di un credito in denaro risultante dalle scritture contabili di cui all’art. 2214 c.c. L’art. 500 c.p.c. (con le norme degli artt. 526, 551 e 564, che disciplinano gli autonomi poteri di impulso dei creditori concorrenti) ne regola gli effetti, riconoscendo agli intervenuti, oltre al diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata, non la “possibilità” del diritto a partecipare all’espropriazione del bene pignorato responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore ed a provocarne i singoli atti (secondo la lettera del testo vigente prima delle modifiche apportate dalle leggi su citate), ma, più incisivamente, il diritto a partecipare sia alla distribuzione, sia all’espropriazione del bene con l’annesso potere di provocare i singoli atti espropriativi. Quanto alle facoltà dei creditori tempestivamente intervenuti nell’espropriazione immobiliare, l’art. 564 c.p.c. (sia nel vecchio, sia nel nuovo testo) stabilisce che essi partecipano all’espropriazione dell’immobile pignorato e, se muniti di titolo esecutivo, possono provocarne i singoli atti; analoghe facoltà sono riconosciute dall’art. 566 c.p.c. ai creditori iscritti e privilegiati intervenuti tardivamente, ma muniti di titolo esecutivo. L’immodificato art. 629 c.p.c., in tema di estinzione del processo esecutivo per rinuncia agli atti, prevede che, prima dell’aggiudicazione e dell’assegnazione, la rinuncia debba provenire non soltanto dal creditore procedente, ma anche dai creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo, i quali (come nessuno dubita) possono giovarsi del vincolo apposto sul bene del creditore rinunziante; dopo la vendita, il processo si estingue se rinunciano agli atti “tutti i creditori concorrenti”. 7. La composizione del contrasto. Dalla complessiva lettura e corretta interpretazione di queste disposizioni le S.U. ricavano il convincimento che la giusta ricostruzione da attribuirsi alla vicenda in esame sia quella effettuata da Cass. n. 427/1978 e non da Cass. n. 3531/2009 e che, dunque, la soluzione da scegliere sia quella sopra sintetizzata sub B). Bisogna riconoscere, infatti, che nel sistema (quale il nostro) che accoglie il principio della par condicio creditorum e rifiuta il riconoscimento del diritto “di priorità” al creditore procedente (diritto, invece, riconosciuto nel sistema tedesco), dal citato art. 500 c.p.c. deve farsi derivare che il creditore intervenuto munito di titolo esecutivo si trova in una situazione paritetica a quella del creditore procedente, potendo sia l’uno, sia l’altro dare impulso al processo esecutivo con il compiere o richiedere al giudice il compimento di atti esecutivi. Sia il creditore pignorante, sia quello interveniente (munito di titolo) sono, in buona sostanza, titolari dell’azione di espropriazione che deriva dal titolo di cui ciascuno di essi è munito e che ciascuno di essi esercita nel processo esecutivo. A sua volta, l’azione esecutiva si concretizza in un iter composto di una serie di atti espropriativi compiuti dal creditore o, su sua richiesta, dal giudice, dei quali l’uno presuppone il compimento dell’altro che lo precede. Questo requisito di “completezza” appartiene a tutte le azioni esecutive, parallele e concorrenti, che sono esercitate nel processo esecutivo; ossia, a quella del creditore pignorante ed a quelle dei singoli creditori intervenuti, muniti di titolo esecutivo. Pertanto, l’atto di esercizio della propria azione esecutiva da parte di un legittimato è anche atto di esercizio delle azioni esecutive degli altri legittimati. Ed, in questo senso, correttamente il precedente del 1978 afferma che l’atto compiuto da un legittimato si partecipa agli altri legittimati ed è momento di concretizzazione di tutte le azioni esecutive esercitate nel processo. Ciò, ovviamente, vale anche per gli atti esecutivi compiuti dal creditore pignorante prima dell’intervento c.d. “titolato” ed, in particolare, per il pignoramento. Cosicché, nel momento dell’intervento, il creditore munito di titolo, che è legittimato al compimento dei singoli atti espropriativi, compie atto d’esercizio dell’azione esecutiva e perciò partecipa al pignoramento già da altri eseguito; pignoramento che si pone come indispensabile, primo atto di concretizzazione dell’azione esecutiva in ipotesi spettante anche al creditore intervenuto in forza di titolo esecutivo e necessario presupposto degli atti esecutivi successivi. In questo senso, si diceva prima dell’oggettivizzazione degli atti compiuti nel corso della procedura espropriativa, i quali prescindono dal soggetto che concretamente li ha posti in essere (purché, ovviamente, munito di titolo esecutivo nel momento del relativo compimento, secondo quanto appresso si preciserà) e si compongono in un’unica sequenza che parte dal pignoramento (da qualunque dei creditori posto in essere) per concludersi con la vendita del bene pignorato, cui segue la distribuzione del ricavato. Con quanto sinora detto le SU non intendono rinnegare la tradizionale regola secondo cui nulla executio sine titulo, piuttosto intendono affermare il principio secondo cui: responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.89 ⎪ “nel processo d’esecuzione, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento. Ne consegue che, qualora, dopo l’intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene la caducazione del titolo esecutivo comportante l’illegittimità dell’azione esecutiva dal pignorante esercitata, il pignoramento, se originariamente valido (secondo quanto si preciserà in seguito), non è caducato, bensì resta quale primo atto dell’iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante”. In altri termini, una volta iniziato il processo in base ad un titolo esecutivo esistente all’epoca, il processo stesso può legittimamente proseguire, a prescindere dalle sorti del titolo originario, se vi siano intervenuti creditori a loro volta muniti di valido titolo esecutivo. Dell’atto iniziale del processo (il pignoramento) si avvarranno, peraltro, non solo il creditore intervenuto in forza di valido titolo esecutivo, ma anche ⎪ P.90 gli altri creditori, pur se intervenuti successivamente alla sopravvenuta illegittimità dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante. La regola secondo cui l’esecuzione forzata debba sempre essere sorretta da un titolo esecutivo, benché questo, oggettivamente, possa cambiare, senza perciò determinare interruzioni nell’esercizio dell’azione esecutiva, trova un corrispondente codicistico che concerne proprio titoli esecutivi di creditori diversi: si tratta della successione o trasformazione soggettiva regolata dall’art. 629 c.p.c., in ragione del quale se, prima della vendita, il procedente rinunzia all’esecuzione, il creditore intervenuto munito di titolo può scegliere di continuarla per la sola sua soddisfazione. Qui, insomma, l’esecuzione è iniziata da un creditore e viene continuata da altro creditore, con un fenomeno successorio interno al processo esecutivo. È proprio l’indiscutibile pariteticità di posizioni tra creditore pignorante e creditore titolato interveniente, nonché quella che potremmo definire la interscambiabilità degli atti, nel quadro di completezza dell’azione esecutiva (con tutte le conseguenze delle quali s’è detto), che pone in dubbio la tesi sostenuta dall’arresto del 2009. Tesi (come s’è visto) fondata sul principio di autonomia dei singoli pignoramenti (sancito dall’art. 493 c.p.c.), il responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore quale condurrebbe “alla speculare conclusione che il pignoramento iniziale del creditore procedente, se non integrato da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno, nell’ipotesi di sua successiva caducazione”. Infatti, che, ai sensi dell’art. 493 c.p.c., ciascun pignoramento, tra quelli che hanno colpito il medesimo bene, abbia “effetto indipendente” rispetto agli altri, e, quindi, pur nell’unità del processo, conservi la propria individualità ed autonomia, è principio indiscusso in dottrina ed in giurisprudenza (Per tutte, cfr. Cass. n. 548/ 1973, la quale ne fa conseguire che, nell’ipotesi di pluralità di pignoramenti eseguiti prima dell’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita, le vicende di uno di essi non toccano gli altri, cosicché il processo di espropriazione — ben potendo essere sorretto anche da uno solo dei pignoramenti, per il connotato di fungibilità che ne caratterizza il rapporto — continua a svolgersi validamente fino a che non vengano meno tutti i pignoramenti). Ciononostante, questo principio non consente di farvi conseguire una sorta di subordinazione del creditore titolato interveniente rispetto a quello procedente e che, soprattutto, il primo sia tenuto ad effettuare (invece che l’intervento) un proprio, autonomo pignoramento, al fine di non essere travolto dell’eventuale, infausta sorte del titolo del procedente. In altri termini, la circostanza che il legislatore abbia voluto esplicitamente sancire l’autonomia di ciascun pignoramento caduto sul medesimo bene (così da impedire che le sorti processuali dell’uno non ricadessero sull’altro) non esclude che dalla congerie degli elementi sopra esaminati non possa dedursi anche il principio di autonomia di ciascun intervento titolato rispetto alla sorte del titolo posto a base dell’azione proposta dal creditore procedente. Per altro verso, non pare peregrina l’osservazione contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui l’imporre il pignoramento a qualunque creditore titolato, per evitare il rischio dell’estensione del travolgimento del titolo del procedente, non tiene in adeguata considerazione che proprio tale autonomia dei pignoramenti riuniti, se rende immuni i pignoramenti ulteriori dalla vicenda della caducazione del titolo del pignorante principale, li dovrebbe poi lasciare insensibili anche all’effetto positivo della riunione, ossia all’estensione delle favore- voli conseguenze delle attività che quello ha invalidamente posto in essere, se non compiute e ripetute, stavolta validamente, anche da loro stessi (visto che non è dimostrata la tesi che la riunione giova ma non nuoce ai soggetti dei processi riuniti). Neppure convince l’affermazione (anch’essa contenuta nella sentenza in commento) secondo cui la disposizione dell’art. 629 c.p.c. (che, ai fini dell’estinzione del processo esecutivo, chiede la rinuncia tanto del procedente, quanto degli intervenienti titolati) costituirebbe una norma derogatoria al principio d’autonomia dei pignoramenti sancito dall’art. 493 c.p.c.. Piuttosto che derogare al sistema, la prima delle menzionate disposizioni sembra integrare con coerenza l’altra disposizione di cui all’art. 500 c.p.c. (e tutte quelle che nelle singole espropriazioni disciplinano gli autonomi poteri di impulso dei creditori concorrenti), per configurare un meccanismo processuale in base al quale i creditori titolati intervenuti possono compiere gli atti dell’esecuzione, in luogo del procedente, e proseguire il procedimento anche se quest’ultimo rinunzi agli atti. Le S.U. sono consapevoli che le conclusioni alle quali sono pervenute pongono in crisi quell’autorevole parte della dottrina che ha da sempre attribuito carattere soggettivo agli atti compiuti nel corso del procedimento esecutivo ed, in questo ordine di idee, ha negato l’interscambiabilità degli atti alla quale in precedenza s’è fatto riferimento. Dottrina che, dunque, è pervenuta alle conclusioni che l’azione esecutiva di un creditore titolato, se spiegata in via di intervento, non è in grado di sopravvivere all’interno di una procedura esecutiva nell’ipotesi del venir meno del titolo del procedente, con l’ulteriore assunto per cui il pignoramento successivo tutela incondizionatamente il creditore nell’ipotesi di caducazione del primo pignoramento, facendo salva la procedura esecutiva avviata. Tuttavia, siffatta teoria deve necessariamente essere posta a confronto con un contesto legislativo e processuale profondamente mutato in questi ultimi anni; contesto che vede, per un verso, la progressiva espansione del processo esecutivo rispetto a quello di cognizione (anche in ragione dell’ampliamento del catalogo dei titoli esecutivi con la modifica dell’art. 474 c.p.c.), e, per altro verso, la tendenza legislativa all’anticipazione della qualifica esecutiva del ti- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.91 ⎪ tolo di formazione giudiziale, il quale, a sua volta, è perciò sempre meno dotato del requisito della stabilità. Tutto questo porta a dubitare che l’aggressione esecutiva statale, legittimata dall’azione esecutiva del creditore procedente, debba svolgersi entro i soli confini tracciati dal titolo esecutivo di quest’ultimo. Sembra, piuttosto, corretto supporre (come fa altra dottrina) che il titolo esecutivo del procedente sia bensì fatto costitutivo di questo potere di aggressione esecutiva che si concreta nel pignoramento, ma non anche unico limite che segna interamente ed inderogabilmente i confini dell’esercizio dello stesso, essendo possibile concepire che, con l’avvio processualmente legittimo di una tale aggressione da parte del procedente, si radichi una compressione della sfera patrimoniale del debitore non delimitata dal credito dell’istante e della quale possono beneficiare tutti gli intervenienti, anche in assenza di aggressione esecutiva autonoma: del resto, istituti quali la conversione (art. 495 c.p.c.) e la riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.) dimostrano che, una volta avviata una procedura esecutiva, occorre tener conto di tutti i crediti nella stessa azionati a prescindere dalla portata dell’azione esecutiva del procedente, sì da far risultare la compressione della sfera patrimoniale del debitore modulata in ⎪ P.92 funzione anche dell’interesse degli eventuali intervenienti. Ed allora, ove venga meno il titolo del procedente (titolo che olim ha legittimato l’atto di pignoramento), sembra ragionevole ritenere che il vincolo espropriativo non venga a sua volta caducato a fronte della presenza di altri creditori intervenuti titolati, il cui titolo esecutivo è in grado di legittimare il permanere della compressione della sfera patrimoniale del debitore. Non da ultimo considerando che la riduzione del pignoramento consentirebbe l’adattamento della misura dell’esecuzione in corso al nuovo panorama soggettivo-oggettivo emerso a seguito dell’estromissione del procedente. Questo permanere della procedura esecutiva a vantaggio dei creditori titolati, a seguito della sopravvenuta caducazione del titolo dell’istante, risulta poi funzionalmente congruo allo stesso art. 2913 c.c., che consente di ravvisare nel pignoramento un fenomeno in grado di produrre effetti della cui utilità possono usufruire anche altri creditori che intervengono nella procedura esecutiva (c.d. vincolo a porta aperta), senza tuttavia specificare se gli effetti in parola dipendono strettamente dal permanere dell’efficacia e dalla validità del titolo esecutivo del creditore procedente (titolo in forza del quale il pignoramento è stato originaria- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore mente posto in essere, ovvero siano in grado di manifestarsi a prescindere dalle sue sorti). 8. Conseguenze applicative. Tutto quanto finora premesso giustifica, dunque, l’affermazione del principio secondo cui la caducazione del titolo posto a base dell’azione esecutiva del creditore procedente non travolge la posizione degli interventori titolati, a prescindere dalla circostanza che dopo il relativo pignoramento ve ne sia stato altro successivo. Tuttavia, siffatto principio è soggetto a precisazioni che qui di seguito devono essere svolte, con l’avvertenza che questo intervento delle S.U. si limita all’enunciazione di canoni “di sistema”, riferiti ai titoli esecutivi di formazione giudiziale, come richiesto dal caso portato all’attenzione dall’ordinanza di rimessione. 1) Innanzitutto va chiarito (come fa il precedente del 1978 (nella vicenda sottostante a questo precedente il creditore aveva effettuato un primo pignoramento sulla base di un decreto ingiuntivo esecutivo. A distanza di circa tre anni egli stesso era intervenuto (così come altri creditori) nel processo esecutivo per diverso credito contro il medesimo debitore, sulla base di altro decreto ingiuntivo esecutivo. All’esito del giudizio d’opposizione, il giudice del merito affermava che, pur risultando estinto il credito di cui al primo decreto ingiuntivo (così come il pignoramento ad esso connesso), restava valido l’intervento effettuato dal creditore in base al secondo decreto ingiuntivo, posto che tale intervento era stato effettuato in un processo esecutivo che, nonostante l’estinzione del pignoramento, era in corso per l’intervento di altri creditori muniti di titolo esecutivo. La Corte di legittimità ha cassato la sentenza, assegnando al giudice del rinvio il compito di accertare se, nella specie, almeno un creditore munito di titolo esecutivo fosse intervenuto nel processo prima del sopravvenire dell’illegittimità dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante sulla base del primo decreto ingiuntivo) che quel principio di fondo non trova applicazione nel caso in cui uno o più creditori, muniti di titolo esecutivo, intervengano nel processo esecutivo dopo che sia stata pronunciata la caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente e, quindi, sia sopravvenuta l’illegittimità dell’azione esecutiva da lui eserci- tata. In questa ipotesi, il pignoramento, relativo a processo nel quale non sia ancora intervenuto alcun creditore munito di titolo esecutivo, diviene invalido e rende illegittima l’azione esecutiva fino a quel momento esercitata. Sicché, non esistendo un valido pignoramento al quale ricollegarsi, il processo esecutivo è ormai improseguibile e non consente interventi successivi. 2) Il principio è da intendersi riferito all’ipotesi di sopravvenuta invalidità del titolo esecutivo derivata dalla c.d. caducazione, dalla quale occorre distinguere le diverse ipotesi di invalidità originaria del pignoramento, sia per difetto ab origine di titolo esecutivo, sia per vizi intrinseci all’atto o per mancanza dei presupposti processuali dell’azione esecutiva. Quanto a questi ultimi, indiscutibile è l’invalidità di tutti gli atti esecutivi posti in essere aseguito di pignoramento invalido per vizi dell’atto in sé o per vizi degli atti prodromici (ove non sanati o non sanabili per mancata tempestiva opposizione), oppure per impignorabilità dei beni od, ancora, per lesione dei diritti dei terzi fatti valere ex art. 619 c.p.c., ecc. sicché venendo meno l’atto iniziale del processo esecutivo viene travolto quest’ultimo, con gli interventi, titolati e non titolati, in esso spiegati. Quanto, invece, al difetto originario del titolo esecutivo, si tratta di situazione che, per un verso, si presta a specificazioni che danno luogo ad una vasta casistica (la quale non può certo essere esaminata in questa sede), ma che, per altro verso, merita le precisazioni che seguono. Fermando l’attenzione sulle ipotesi più frequenti, essa comporta l’inapplicabilità del principio sopra espresso nel caso in cui il titolo esecutivo giudiziale sia inficiato da un vizio genetico che lo renda inesistente o nel caso in cui l’atto posto a fondamento dell’azione esecutiva non sia riconducibile ab origine al novero dei titoli esecutivi di cui all’art. 474 c.p.c., anche quanto ai caratteri del credito imposti dal primo comma, quali risultanti dal titolo stesso. Non è assimilabile alla situazione di mancanza ab origine di titolo esecutivo la situazione che viene a determinarsi quando il titolo esecutivo di formazione giudiziale, che sia astrattamente riconducibile alla previsione dell’art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, “venga meno” in ragione delle vicende del processo nel quale si è formato, cioè sia caducato per fatto sopravvenuto. responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.93 ⎪ Si intende dire che, in tale ultima eventualità, ai fini dell’applicazione del principio di “conservazione” del processo esecutivo in cui siano presenti creditori titolati, non rileva — né occorre verificare, in sede esecutiva e/o oppositiva — se il titolo esecutivo di formazione giudiziale sia venuto meno con efficacia ex tunc ovvero ex nunc, in ragione degli effetti del rimedio esperito nella sede cognitiva. Così, esemplificando, ad infausta sorte sono destinati gli interventi titolati nel caso in cui il creditore procedente abbia azionato un provvedimento non idoneo, nemmeno in astratto, a fondare l’azione esecutiva (quali, ad esempio, la sentenza inesistente o di condanna generica o il decreto ingiuntivo privo di efficacia esecutiva), non anche quando il provvedimento, costituente titolo esecutivo al momento di esercizio dell’azione esecutiva, sia venuto meno per le vicende del processo nel quale si è venuto a formare. In particolare, quanto a tale ultima eventualità, è indifferente se, in caso di sentenza, si sia trattato di impugnazione ordinaria o straordinaria, ovvero, in caso di decreto ingiuntivo, si sia trattato di revoca per difetto dei presupposti ex art. 633 c.p.c., ovvero per accoglimento nel merito dell’opposizione, o, in caso di ordinanza di condanna provvisoriamente esecutiva, si sia trattato di revoca o di modifica per ragioni di ⎪ P.94 rito o di merito, etc. In tutte queste ipotesi, il processo esecutivo iniziato in forza di titolo esecutivo, all’epoca valido, non è travolto in presenza di creditori intervenuti con titolo esecutivo tuttora valido. In conclusione, rileva che l’esecuzione forzata risulti formalmente legittima, anche se, per ipotesi, sia sostanzialmente ingiusta, essendo perciò sufficiente — affinché il creditore intervenuto con titolo non subisca gli effetti del venir meno dell’azione esecutiva del creditore procedente — che esista un titolo esecutivo in favore di quest’ultimo, non anche che sia esistente il diritto di credito in esso rappresentato. 9. Conclusioni. In conclusione, l’originaria mancanza di titolo esecutivo o l’invalidità originaria del pignoramento minano la legittimità stessa dell’esecuzione e la rendono viziata sin dall’origine. Sicché, agli interventi manca lo stesso presupposto legittimante al quale validamente riferirsi. Diverso è il caso in cui l’azione esercitata dal creditore procedente sia originariamente sorretta da un titolo esecutivo e, dunque, l’azione espropriativa sia stata validamente iniziata, ma il titolo fondante sia stato successivamente invalidato. In questo caso, il creditore procedente non potrà più proseguire nella sua azione, ma gli interventori titolati, in forza del principio tempus regit ac- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore tum (che trova applicazione anche in ambito processuale), si gioveranno degli atti (a cominciare dal pignoramento) fino ad allora da lui validamente compiti compiuti. Per quanto riguarda in particolare il titolo giudiziale costituito dalla sentenza di condanna, ritengono le S.U. di aderire a quella dottrina che pone in rapporto la disposizione del comma 2 dell’art. 336 c.p.c. (“La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”) con l’altra dell’art. 629 c.p.c., comma 2 (“Dopo la vendita il processo si estingue se rinunciano agli atti tutti i creditori concorrenti”), per dedurne che, mentre nel caso dell’esecuzione condotta dal solo creditore procedente il sopravvenire del difetto del titolo comporta la decadenza degli atti compiuti sulla base del titolo caducato, nel caso dell’esecuzione compiuta da più creditori concorrenti titolati il venir meno del titolo del procedente comporta la concentrazione sui concorrenti del potere di compiere gli atti ulteriori della procedura. Sicché, ciò che viene travolto è il potere del creditore procedente di compiere ulteriori atti d’impulso, non anche la validità degli atti compiuti, tra cui, soprattutto, il pignoramento. Con le precisazioni sopra esposte può essere accolta la distinzione tra difetto originario e difetto sopravvenuto del titolo del creditore procedente, laddove solo il primo impedisce che l’azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l’estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità. Dato quanto sopra, può dirsi che la scelta del creditore tra l’agire mediante un proprio pignoramento o intervenire nell’azione espropriativa già da altri introdotta non è scelta “di rischio” (come sostiene il precedente del 2009), ma è scelta ponderata in base alla valutazione del titolo del procedente e della regolarità formale dell’atto di pignoramento e del processo cui ha dato luogo. Scelta ponderata che da, pertanto, ragione della stessa esistenza della norma di cui all’art. 493 c.p.c. (che è posta a pilastro della soluzione accolta dall’arresto del 2009 e che potrebbe, altrimenti, apparire superflua alla luce della soluzione oggi prescelta): il pignoramento successivo conserva una sua ragion d’essere proprio in relazione alle ipotesi (che il creditore interveniente ben può prospettarsi ab origine) di inesistenza/nullità/inefficacia originaria dell’atto di pignoramento con il quale il primo creditore ha dato inizio alla procedura esecutiva. È utile per ultimo osservare — lo si accennava già in precedenza — che questa soluzione appartiene al sistema della procedura espropriativa (tant’è che la giurisprudenza di legittimità v’era già pervenuta un quarto di secolo fa) e che le recenti novelle non fanno altro che aggiungere ulteriori spunti argomentativi, dal momento che (come pone in evidenza l’ordinanza di rimessione) esse tendono al recupero d’efficienza del processo esecutivo individuale, attraverso una selezione “a monte” dei soggetti abilitati a prendervi parte, trasferendo nella sede cognitiva ogni questione sulla sussistenza delle condizioni soggettive dell’azione esecutiva e correlativamente ampliando notevolmente il catalogo dei titoli esecutivi, pure stragiudiziali. A queste considerazioni giuridiche devono aggiungersene altre di ordine pratico a sostegno dell’opzione accolta. In primo luogo, l’opposta tesi esprime la preoccupazione che la mancanza di un qualsivoglia obbligo od onere di comunicazione dell’intervento al debitore comporta che questi, esperita vittoriosamente l’azione volta alla caducazione del titolo del creditore procedente, potrebbe, per difetto incolpevole di conoscenza, nonostante ciò trovarsi esposto all’azione esecutiva esercitata dall’interventore ove a questi si ritenesse consentita la prosecuzione dell’azione pur nell’ormai avvenuta caducazione del titolo esecutivo originario. Tuttavia, quella tesi, cosi opinando, non s’accorge di giungere (lo rileva, a ragione, l’ordinanza di rimessione) alla sostanziale svalutazione e vanificazione dell’intervento, finendo per imporre la scelta del pignoramento autonomo, così da evitare il rischio derivante dall’intervento stesso. Il che, comporterebbe l’incontrollata ed insostenibile proliferazione delle procedure esecutive, tutte in via principale, con effetti perversi per l’amministrazione della giustizia e palese violazione del principio di economia processuale, soprattutto in un sistema in cui i titolo esecutivi sono sempre meno caratterizzati dalla stabilità, anche quando di formazione giudiziale. Sicché, è vero che secondo responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.95 ⎪ quella tesi, per un verso, il debitore esecutato, una volta caducata l’azione principale non avrebbe più da temere nulla riguardo agli eventuali interventi, ma è altrettanto vero che il debitore stesso sarebbe esposto ai lievitati costi delle moltiplicate procedure, con il conseguente danno costituito dalla riduzione della somma ricavata e destinabile all’effettivo soddisfacimento dei creditori. Va altresì considerato che, opinando per quella stessa tesi, si finirebbe per assoggettare il creditore intervenuto all’impossibile valutazione della capacità del titolo esecutivo, anche se di formazione giudiziale, di resistere non solo alle azioni avverse, ma anche a tutte le impugnazioni, sia ordinarie che straordinarie. Cosicché, anche sul piano pratico appare giustificata la scelta operata. In conclusione, può essere enunciato il seguente principio: “Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, occorre distinguere: a) se l’azione esecutiva si sia arrestata prima o ⎪ P.96 dopo l’intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto del titolo posto a fondamento del’azione esecutiva del creditore procedente sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l’azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l’estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità”. 10. La decisione sul ricorso in trattazione. S’è già detto in precedenza, quanto al primo motivo di ricorso (denunziante l’omessa pronunzia sulle domande volte a far dichiarare l’invalidità di tutti gli atti compiuti nel processo esecutivo dal creditore e ad ottenerne la condanna ex art. 96 c.p.c.), che la sentenza impugnata se, per un verso, ha omesso di pronunciarsi esplicitamente sulla domanda di declaratoria di nullità di tutti gli atti esecutivi posti in essere dal creditore (la Banca Nazionale del Lavoro) del quale è stata riconosciuta l’inesistenza del diritto a procedere esecutivamente, per altro verso ha respinto la pretesa dei debitori esecutati del venir meno di analogo diritto anche in capo all’altro pignorante (la Banca Commerciale Italiana). Il che equivale all’implicita afferma- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore zione che la validità di quest’ultimo pignoramento riunito sia idonea a fondare da sola la validità di tutti gli atti esecutivi. Si verifica, dunque, l’incompatibilità tra la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato e l’impostazione logico giuridica della pronuncia; incompatibilità, che esclude il vizio di omessa pronuncia. L’implicita affermazione della quale s’è detto costituisce corretta applicazione dei principi sopra enunciati, giacché i creditori intervenuti hanno potuto giovarsi del legittimo pignoramento, nonché di tutti gli atti esecutivi effettuati dalla Banca Commerciale Italiana. Risulta implicitamente rigettata anche la richiesta risarcitoria ex art. 96 c.p.c., avendo il giudice motivato circa la compensazione delle spese di lite; sì da far ritenere l’implicita esclusione, nel caso di specie, del presupposto richiesto anche per la condanna di Banca Nazionale del Lavoro, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2. Quanto al secondo motivo (denunziante l’omessa o illogica motivazione circa la disposta compensazione delle spese di lite), basti dire che il giudice del merito ha esercitato il suo relativo potere discrezionale, motivando in relazione al complessivo esito della lite. Il ricorso deve essere, dunque, respinto. La complessità delle questioni trattate consiglia l’intera compensazione tra tutte le parti delle spese sopportate per il giudizio di cassazione. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.97 ⎪ SENTENZA CASS. CIV. 20 GENNAIO 2014 N. 999 SEZ. III PRES. BERRUTI REL. CIRILLO RESPONSABILITÀ CIVILE - Responsabilità aquiliana - Responsabilità da cose in custodia - Differenze - Sussistenza - Effetti. C.C. ARTT. 2043, 2051 L’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere. FATTO. 1. V.E. conveniva in giudizio il Comune di Sorrento, davanti al Tribunale di Torre Annunziata, Sezione distaccata di Sorrento, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti ad una caduta dovuta al manto stradale sconnesso e dissestato. Costituitosi il Comune, il Tribunale rigettava la domanda 2. Avverso tale pronuncia proponeva appello la V. e la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 19 febbraio 2007, rigettava l’appello, confermava la sentenza impugnata e compensava integralmente le spese del grado. Osservava la Corte territoriale che l’attrice aveva chiesto in primo grado la condanna ai sensi dell’art. 2043 c.c., sicché non poteva essere proposta per la prima volta in appello la diversa domanda fondata sull’art. 2051 c.c., richiedendo i due tipi di responsabilità l’accertamento di elementi di fatto diversi. Ciò premesso, la Corte, richiamati alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità, dichiarava ⎪ P.98 che l’attrice non aveva dimostrato la sussistenza dei fatti costitutivi posti a fondamento della domanda, in particolare in relazione alla natura di insidia o trabocchetto costituita dal manto stradale. Nella specie, infatti, era risultato che la V. stava camminando su di una strada dissestata e che era caduta a causa di un tombino il cui coperchio era malfermo; non sussisteva, quindi, una situazione “oggettivamente pericolosa creata colposamente dalla P.A.”, in quanto l’appellante avrebbe potuto “facilmente evitare la prevedibile situazione di pericolo con l’adozione della più elementare accortezza”. La situazione dei luoghi imponeva un’andatura particolarmente prudente, magari evitando di transitare per quella strada e, comunque, evitando “di camminare sul tombino che, ad un controllo visivo, appariva malfermo e mobile”. 3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli propone ricorso la V., con atto affidato a sei motivi. Resiste il Comune di Sorrento con controricorso. DIRITTO. 1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c. Rileva la ricorrente che la sentenza, dopo aver affermato che la domanda proposta ai sensi dell’art. responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore 2051 c.c. sarebbe nuova, perviene poi al rigetto della domanda sul presupposto che non vi sarebbe una domanda nuova. D’altra parte, l’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza (inciampo su di un tombino malfermo) non costituisce domanda nuova rispetto a quella originariamente proposta (inciampo su manto stradale dissestato), sicché la sentenza d’appello avrebbe dovuto correttamente riformare quella di primo grado. 2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c, omessa o insufficiente motivazione circa profili fondamentali e decisivi per la controversia, oltre a inadeguato ed incongruo apprezzamento delle circostanze evidenziate dalla prova testimoniale. Dall’istruttoria svolta — ed in particolare dalla deposizione della teste S. — risulterebbechiaramente che l’instabilità del tombino che ha causato la caduta non era visibile né prevedibile per un passante che transitava per la strada, il che dimostrerebbe in modo chiaro l’erroneità della ricostruzione operata dal giudice d’appello. 3. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. Rileva la ricorrente che la domanda da lei proposta in primo grado non era fondata in via esclusiva sul principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., perché in essa si era evidenziata, in modo generico, “soltanto la precisa responsabilità del sinistro a carico dell’ente comunale convenuto, per legge tenuto alla regolare manutenzione, ordinaria e straordinaria, del locale manto stradale cittadino”; la domanda, quindi, si fondava su entrambi i titoli di responsabilità (artt. 2043 e 2051 c.c.). Pertanto non sarebbe esatta l’affermazione della Corte napoletana secondo cui la domanda basata sull’art. 2051 c.c. non era stata proposta; e comunque il giudice, a prescindere dal nomen iuris, ha il potere-dovere di attribuire la giusta qualificazione giuridica all’azione proposta. 4. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., omessa o insufficiente motivazione circa profili fondamentali e decisivi per la controversia, oltre a incongruo apprezzamento delle circostanze evidenziate dalla prova testimoniale. A norma dell’art. 2051 c.c., infatti, il custode è responsabile salvo che provi il fortuito. Nella specie, il Comune di Sorrento non avrebbe provato tale circostanza, indispensabile ai fini dell’esonero dalla responsabilità. Risulterebbe pacificamente, anzi, la condotta colposa del Comune nella tenuta della strada in questione, perché è evidente che la presenza di un tombino sconnesso determina una colpa, almeno concorrente, di chi è tenuto alla manutenzione della strada. 5. Col quinto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. Rileva la V. che la sentenza impugnata sarebbe errata anche se si ritenesse applicabile nella fattispecie l’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c. La più recente giurisprudenza di legittimità, infatti, ha depurato l’interpretazione di detta norma dalle figure della insidia e del trabocchetto, ed ha posto in risalto che l’utente della strada è tenuto soltanto a dimostrare il danno ed il nesso di causalità, perché sulla pubblica amministrazione grava comunque un obbligo di mantenimento delle strade in buone condizioni. 6. Col sesto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), n. 4) e n. 5), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c., in relazione all’omissione della CTU nonostante la sua indispensabilità. Si rileva, al riguardo, che la CTU era stata ritualmente chiesta fin dal primo grado e che il giudice, anche d’appello, ne avrebbe erroneamente rifiutato l’ammissione. DIRITTO. 7. Per ragioni di economia processuale conviene procedere innanzitutto all’esame dei motivi primo, terzo e quinto, i quali pongono problemi fra loro connessi Le censure, già sopra esposte, sono così riassumibili: 1) la sentenza impugnata avrebbe errato nel ritenere che la domanda configurata ai sensi dell’art. 2051 c.c. fosse nuova rispetto a quella originaria, ai sensi dell’art. 2043 c.c., poiché i fatti prospettati nell’atto di citazione erano riconducibili ad entrambe le fattispecie ed il tipo di addebito mosso al Comune di Sorrento era, nella sostanza, il medesimo; 2) ai sensi dell’art. 2051 c.c., il Comune era tenuto, per andare esente da responsabilità, a provare l’esistenza del caso fortuito, cosa che non ha in alcun modo dimostrato; 3) anche inquadrando la fattispecie nell’ipotesi regolata dall’art. 2043 c.c., la ricor- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.99 ⎪ rente avrebbe comunque fornito la prova dell’esistenza di una colpa in capo al Comune convenuto, il quale doveva essere condannato anche a prescindere dall’esistenza dell’obbligo di custodia. L’esame di tali censure impone di seguire un rigoroso iter logico che, attraverso i necessari richiami alle precedenti pronunce di questa Corte sull’argomento, consenta di pervenire alla soluzione. 7.1. Occorre innanzitutto affermare, quanto al profilo della novità della domanda proposta ai sensi dell’art. 2051 c.c. rispetto a quella di cui all’art. 2043 c.c., che questa Corte ha già da tempo posto in luce come l’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia sia intrinsecamente, per così dire, diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere. Ciò in quanto “l’applicabilità dell’una o dell’altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d’indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 c.c., nella quale ⎪ P . 1 0 0r e s p o n s a b i l i t à il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito” (così la sentenza 6 luglio 2004, n. 12329, richiamando un orientamento ancora più risalente). In altre parole, mentre l’azione ai sensi dell’art. 2043 c.c. comporta la necessità, per il danneggiato, di provare l’esistenza del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel caso di azione fondata sull’art. 2051 c.c. la responsabilità del custode è prevista dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito. Ne consegue un’ovvia differenza in ordine ai temi di indagine ed al riparto dell’onere della prova, perché nel primo caso il danneggiato dovrà attivarsi a dimostrare qualcosa, mentre nel secondo sarà il danneggiante a doversi attivare. Tale approdo giurisprudenziale è stato in seguito ribadito da questa Corte (v. sentenze 23 giugno 2009, n. 14622; e 20 agosto 2009, n. 18520). E da tanto si trae la dovuta conseguenza per cui, una volta proposta in primo grado una domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c. — fondata, ad esempio, sulle figure dell’insidia e del trabocchetto, ancorché impropriamente richiamate — non è consentito alla parte in grado di appello fondare la medesima domanda sul- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore la violazione dell’obbligo di custodia, perché ciò verrebbe inevitabilmente a stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate. Dando per pacifica tale conclusione, la giurisprudenza più recente ha esplicitato in modo ancora più chiaro che la domanda fondata sull’art. 2051 c.c. può non essere considerata nuova rispetto a quella fondata sull’art. 2043 c.c. — e, quindi, improponibile in appello — solo se l’attore abbia “sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli” (sentenze 21 giugno 2013, n. 15666; e 5 agosto 2013, n. 18609). Con la importante precisazione, però, che la regola probatoria di cui all’art. 2051 c.c., più favorevole per il danneggiato, “in tanto può essere posta a fondamento dell’affermazione della responsabilità del convenuto stesso in quanto non gli si ascriva la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione ordinario della responsabilità originariamente invocato dall’attore” (così la sentenza n. 18609/2013). 7.2. Tali affermazioni, nitide al punto da non richiedere ulteriori spiegazioni, consentono di affrontare la prima delle tre contestazioni sopra riassunte, pervenendo a dichiararne l’infondatezza. La ricorrente, infatti, si limita ad affermare che la domanda da lei proposta in primo grado poteva essere inquadrata in entrambe le diverse fattispecie di responsabilità civile, ma non fornisce alcuna prova al riguardo, anche ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. Né nel primo né nel terzo motivo, infatti, è specificato quale fosse il tenore della domanda originaria, sicché questa Corte non è in condizioni di valutare se l’affermazione della Corte napoletana circa la novità della domanda di cui all’art. 2051 c.c. — del tutto corretta in linea di principio — sia da ritenere errata in relazione al caso concreto. La censura relativa al profilo della novità della domanda è, pertanto, infondata. 8. Occorre, a questo punto, affrontare i profili di possibile violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c. sopra riassunti. A questo proposito, è bene prendere le mosse dalle affermazioni con- tenute nella sentenza impugnata (già riportate nella parte in fatto) secondo cui dall’istruttoria è risultatoche la V., insieme ad altri pedoni, stava camminando in fila indiana su di una strada dissestata e che era caduta a causa di un tombino il cui coperchio era malfermo; non sussisteva, quindi, una situazione “oggettivamente pericolosa creata colposamente dalla P.A.”, in quanto l’appellante avrebbe potuto “facilmente evitare la prevedibile situazione di pericolo con l’adozione della più elementare accortezza”. È bene ricordare che questa Corte, anche in relazione all’ipotesi di responsabilità gravante sul custode, ha affermato che il comportamento colposo del danneggiato può — secondo un ordine crescente di gravità — atteggiarsi come concorso causale colposo, valutabile ai sensi dell’art. 1227, primo comma, c.c., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode (v. sentenza 12 luglio 2006, n. 15779). Si è riconosciuto, cioè, che nel concetto di caso fortuito può rientrare anche la condotta della stessa vittima, la quale può interrompere il nesso eziologico esistente tra la causa del danno e il danno stesso (v., fra le altre, le sentenze 22 aprile 2010, n. 9546; e 24 febbraio 2011, n. 4476). Tali principi valgono, a maggior ragione, ove il fondamento giuridico della responsabilità del danneggiante venga rinvenuto nell’art. 2043 c.c., come la Corte d’appello ha fatto nel caso di specie richiamando le figure dell’insidia e del trabocchetto. Alla luce di queste premesse, la sentenza impugnata, pur contenendo qua e là alcune “imperfezioni”, resiste alle censure prospettate. Ed infatti, poiché la V. stava transitando su di una strada dissestata (fatto pacifico) — tanto dissestata, anzi, che i pedoni procedevano in fila indiana — è evidente che a suo carico gravava un onere massimo di attenzione. Ciò non può spingersi, come osserva non correttamente la sentenza impugnata, fino al punto di pretendere dall’utente la scelta di transitare per un’altra strada — essendo evidentemente nel potere-dovere del Comune chiudere il passaggio ove il medesimo sia impraticabile — ma comporta l’onere della massima prudenza in quanto la situazione di pericolo è altamente prevedibile. Ed è proprio il concetto di prevedibilità che toglie forza ai motivi di ricorso ora in esame: in una strada dissestata è del tutto ragionevole l’esistenza di un tombino malfermo e mobile, sic- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.101 ⎪ ché la caduta in una situazione del genere può ricondursi anche alla esclusiva responsabilità del pedone, ovvero non si deve ritenere di necessità “cagionata dalla cosa in custodia” (per riprendere la formula dell’art. 2051 c.c.). Dal che deriva, in conclusione, il rigetto del primo, terzo e quinto motivo di ricorso. 9. Gli ulteriori motivi di ricorso rivestono un’importanza marginale e sono infondati quando non addirittura inammissibili. Ed infatti il secondo ed il quarto motivo, entrambi formulati in termini di vizio di motivazione — oltre a non contenere il prescritto momento si sintesi, necessario trattandosi di ricorso soggetto, ratione temporis, al regime dell’art. 366-bis c.p.c. — si risolvono in un tentativo di ottenere da questa Corte una nuova valutazione del merito delle risultanze istruttorie, oltrepassando i limiti del giudizio di legittimità. Ciò è di tutta evidenza in relazione al secondo motivo; quanto al quarto, esso in realtà propone una censura che sembra piuttosto di violazione di legge che non di vizio di motivazione, e valgono al riguardo le osservazioni già fatte quanto ai motivi primo, terzo e quinto. In riferimento al sesto motivo, infine, il Collegio osserva che — anche trascurando le ragioni di inammissibilità conseguenti alla genericità del quesito di diritto ed alla ⎪ P . 1 0 2r e s p o n s a b i l i t à formulazione in modo tale che non è dato comprendere con certezza di quale CTU si lamenti il mancato svolgimento — la decisione circa la necessità o l’opportunità di ammettere una consulenza tecnica spetta al giudice di merito; e comunque, ove si tratti della CTU medica finalizzata all’accertamento dell’entità dei danni riportati dalla V. (v. ricorso, p. 2), è del tutto ovvio che la Corte d’Appello, in presenza di una domanda risarcitoria infondata, abbia escluso l’ammissione di uno strumento processuale nella specie superfluo. 10. In conclusione, il ricorso è rigettato. In considerazione delle modifiche, non sempre univoche, della giurisprudenza di questa Corte sull’argomento, si ritiene conforme ad equità compensare integralmente le spese del giudizio di cassazione. (Omissis). civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore Osservava la Corte territoriale, per quanto SENTENZA CASS. CIV. 20 DICEMBRE 2013 N. 28612 ancora di interesse in questa sede, che non poSEZ. III PRES. MASSERA REL. teva condividersi la valutazione compiuta dal giudice di primo grado circa il carattere fortuito CIRILLO TRASPORTI - Responsabilità del vettore - Limite - Caso fortuito e forza maggiore - Fattore del tutto estraneo - Natura. C.C. ART. 1693 La presunzione di responsabilità ex recepto può essere vinta solo dalla prova specifica della derivazione del danno da un evento positivamente identificato e del tutto estraneo al vettore stesso, ricollegabile alle ipotesi del caso fortuito e della forza maggiore. FATTO. 1. La società Groupe Chegaray Paris, Assurances Maritimes et Transport, nonché la SIACI (Societé intercontinentale d’assurance pour le commerce e l’industrie), nella qualità di cessionari del credito, convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Genova, la s.p.a. Ferrari, chiedendo il risarcimento dei danni pari al valore della merce consistente in gioielli - da loro consegnata alla convenuta e poi oggetto di rapina dopo che la medesima era stata affidata a tale M.D., autista e guardia giurata, per il trasporto in (...). Costituitasi la società convenuta il Tribunale, dopo aver acquisito gli atti del procedimento penale ed aver assunto testimonianze, rigettava la domanda. 2. Avverso tale pronuncia proponevano appello entrambe le società attrici e la Corte d’appello di Genova, con sentenza dell’8 giugno 2007, in riforma di quella di primo grado, condannava la società Ferrari al pagamento della somma di Euro 73.019,44, oltre interessi, in favore della Groupe Chegaray Paris e della somma di Euro 63.778,52, oltre interessi, in favore della società SIACI, nonché al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio. della rapina, ai fini dell’art. 1693 c.c., e ciò per le ragioni delle quali in seguito si dirà. 3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova propone ricorso la Ferrari s.p.a., con atto affidato a due motivi. Resistono con un unico controricorso la SIACI e la Groupama Transport, quest’ultima nella qualità di successore della Groupe Chegaray Paris, Assurances Maritimes et Transport. In seguito, la SIACI ha conferito mandato ad un diverso difensore. La società ricorrente e la società SIACI hanno presentato memorie. DIRITTO. 1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., motivazione omessa o insufficiente su un profilo decisivo della controversia. Secondo la società ricorrente, la Corte di merito sarebbe incorsa in diversi errori di valutazione del fatto. In particolare, la motivazione sarebbe insufficiente e contraddittoria sui seguenti punti: 1) credibilità della versione dei fatti fornita dall’autista M., che la sentenza sembra non condividere; 2) presunta agevolazione del fatto delittuoso, che sarebbe derivata dalle modalità del trasporto, senza che la pronuncia abbia tenuto conto della sicura presenza di un complice; 3) mancata vigilanza armata della merce, circostanza inesatta perché il M. era armato, ma non ha potuto far nulla contro tre rapinatori; 4) presunta conoscenza, da parte della società ricorrente, delle condotte illecite tenute dal consegnatario delle vetture, circostanza non rispondente al vero. 2. Col secondo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1693 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. Osserva la ricorrente che la sentenza impugnata sarebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del vettore ex recepto. A norma dell’art. 1693 c.c., la presunzione di responsabilità a carico del vettore può essere vinta solo attraverso la dimostrazione che il danno è derivato da un evento, positivamente responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.103 ⎪ identificato, del tutto estraneo al vettore stesso, come la giurisprudenza ha ribadito anche in relazione all’ipotesi della rapina. Tale principio è stato applicato dalla giurisprudenza di legittimità in modo differente a seconda delle diverse fattispecie. In particolare, la società ricorrente osserva che la rapina in questione è stata compiuta da una banda di criminali, con precisione da veri ”professionisti”, mentre il trasporto era stato organizzato con tutte le cautele, in modo tale da escludere le soste ed il rischio conseguente di assalti; i conducenti erano due e il M. si era messo in viaggio dopo aver dormito; le vetture erano dotate dei migliori sistemi di allarme all’epoca esistenti, e l’autista era una guardia giurata dotata di armi; le modalità della rapina, infine, erano tali da impedire ogni possibilità di difesa e di reazione, sicché nessun addebito di negligenza poteva essere mosso al vettore. 3. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono privi di fondamento. 3.1. La giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni affermato che l’art. 1693 c.c. pone a carico del vettore una presunzione di responsabilità ex recepto, che può essere vinta solo dalla prova specifica della derivazione del danno da un evento positivamente identificato e del tutto estraneo al vettore stesso, ricollegabile alle ⎪ P . 1 0 4r e s p o n s a b i l i t à ipotesi del caso fortuito e della forza maggiore (v., tra le altre, le sentenze 14 luglio 2003, n. 10980; 14 novembre 2006, n. 24209,; 21 aprile 2010, n. 9439; 17 giugno 2013, n. 15107; e 15 novembre 2013, n. 25756). La valutazione dell’evento in termini di evitabilità e di caso fortuito è compito che spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivata. Seguendo tali criteri, è stato affrontato lo specifico problema del furto e della rapina e dei limiti entro i quali tali eventi possono scagionare il vettore da ogni responsabilità. Si è detto, ad esempio, che il mero fatto che il vettore sia stato aggredito con violenza alla persona non è evento di per sé scriminante, dovendosi accertare la sua diligenza nel prevedere la possibilità di una rapina e nel predisporre i mezzi per evitarla (sentenza 8 agosto 2007, n. 17398, a proposito di una rapina avvenuta in ora notturna ed in area di sosta isolata); allo stesso modo, è stato escluso l’esonero di responsabilità del vettore in relazione al furto consumato su di un automezzo lasciato incustodito all’interno di un’area portuale (sentenza n. 15107/ 2013 cit.), nonché in relazione alla rapina in danno di un container parcheggiato in ora notturna in zona incustodita (sentenza 27 marzo 2009, n. 7533). Questa giurisprudenza merita integrale conferma nella sede odierna, tenen- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore do presente che il trasporto dei gioielli costituisce un’attività che impone di per sé particolari forme di cautela, perché chi la svolge non può non mettere nel necessario conto l’eventualità di una rapina. Sicché il vettore è tenuto, al fine di ottenere l’esonero dalla responsabilità, a dimostrare l’effettiva natura di caso fortuito in riferimento ad un evento che - di per sé - non ha tale connotato. 3.2. La Corte genovese ha fornito una motivazione pienamente adeguata in ordine alle ragioni per le quali ha escluso che potesse, nella specie, ricorrere l’ipotesi del caso fortuito. Essa ha rilevato che, anche volendo attenersi alla versione dei fatti fornita dall’autista M., questi aveva parcheggiato la vettura, contenente i gioielli già caricati, all’interno di un cortile chiuso e dotato di cancello, adiacente alla propria abitazione, e tanto già la sera prima della partenza. Alle ore 3 del mattino successivo, egli era andato in cortile per partire ed era stato affrontato da tre rapinatori armati i quali lo avevano costretto a salire a bordo della sua auto con la propria madre, dopo aver disinserito i sistemi di allarme, e lo avevano poi condotto verso la periferia di (omissis) dove si erano impossessati dei gioielli, allontanandosi a bordo di un’altra vettura. La Corte ha osservato che il comportamento tenuto dal vettore nell’organizzazione del trasporto non era stato conforme al grado di diligenza e prudenza imposto dal rilevante valore della merce. Nel caso in esame, infatti, il M. non aveva vigilato il carico durante la notte, compito che si sarebbe potuto svolgere facilmente con l’ausilio di una guardia giurata armata. Oltre a ciò, il comportamento della società Ferrari si era segnalato per la “deplorevole inerzia”, poiché essa si era servita per l’abituale affidamento delle proprie vetture ad un’autorimessa il cui gestore era stato indagato per ricettazione, nonché trovato in possesso dei duplicati delle chiavi delle vetture; e, pur avendo subito, pochi giorni prima del fatto, il furto di una vettura gemella a quella poi oggetto della rapina in esame, la società non si era preoccupata neppure di sostituire le relative chiavi. 3.3. La sentenza, quindi, ha posto in luce una serie di negligenze imputabili alla società oggi ricorrente, tramite l’operato dell’autista M. che è stato materialmente vittima della rapina: 1) aver caricato i gioielli la sera prima della partenza, lasciandoli dentro una vettura, sia pure blindata, all’interno di un cortile protetto da un muro facilmente scavalcabile, in una zona isolata; 2) aver dormito (il M. ) fino alle ore 3 del mattino senza lasciare nessuno a guardia del mezzo, dovendosi intendere il richiamo contenuto nella sentenza alla necessità che un’altra persona armata, come una guardia giurata, vigilasse la vettura mentre il M. riposava; 3) non aver percepito, da tutta una serie di elementi indicati alla p. 15 della sentenza, che le vetture di dotazione aziendale non erano affidate in buone mani, tanto più che un furto su di una vettura gemella era avvenuto circa due settimane prima, sicché il momento era, evidentemente, critico ed esigeva una cautela ben maggiore. 4. Si tratta, com’è agevole intuire, di considerazioni del tutto logiche e ben motivate, senza contraddizioni e senza lacune. A fronte di simile motivazione, le censure contenute nei due motivi di ricorso si risolvono - soprattutto quella di vizio di motivazione - in una sostanziale richiesta di nuovo esame del merito. Non è esatto, ad esempio, dire che la sentenza impugnata non abbia dato credito alla versione dei fatti fornita dall’autista M. (v. pag. 6 del ricorso); la sentenza, invece, ha osservato che, anche ipotizzando che essa fosse del tutto veritiera, ciò non consentiva di escludere la responsabilità del vettore. La circostanza, evidenziata nel ricorso, secondo cui la rapina fu resa più semplice dalla presenza di un complice non toglie solidità alla motivazione della sentenza, nella quale la Corte genovese ha proprio evidenziato che il vettore doveva essere in uno stato di massima allerta, per il fatto che la persona alla quale venivano consegnate le vetture era risultato indagato per ricettazione; in altre parole, la presenza di un complice era tutt’altro che imprevedibile. Quanto, poi, alla circostanza per la quale il viaggio era stato organizzato in modo da evitare le soste, si tratta di un dato non significativo, perché la stessa ricorrente precisa che la destinazione finale era la (...), luogo evidentemente non tanto lontano rispetto alla città di **, da dove il viaggio doveva avere inizio La sentenza, quindi, resiste alle censure sia di violazione di legge che di vizio di motivazione. 5. In conclusione, il ricorso è rigettato. A tale pronuncia segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.105 ⎪ ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali. A tal fine, si precisa che la liquidazione tiene conto del fatto che, pur risultando i due controricorrenti assistiti da due diversi difensori nel momento della decisione, il controricorso era originariamente unico. (Omissis). ⎪ P . 1 0 6r e s p o n s a b i l i t à civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore SENTENZA CASS. PEN. 12 bre 2009 al 13 novembre 2009 per esecuzione di NOVEMBRE 2013 14 GENNAIO pena, dal 28 aprile 2010 al 13 dicembre 2010 per 2014 N. 1219 SEZ. IV PRES. applicazione di misura di sicurezza detentiva). Assunto, quindi, quale parametro di riferiZECCA REL. ESPOSITO PROCEDIMENTO PENALE - Ingiusta detenzione - Riparazione Criteri - Uniformità pecuniaria. C.P.P. ARTT. 314 E 315 Alla riparazione per ingiusta detenzione deve essere assegnato un valore compensativo della perdita della libertà, prescindendo da ulteriori possibili conseguenze di natura economica derivanti dalla stessa privazione: perciò, il ristoro deve avvenire omogeneamente per tutti gli individui, tramite un criterio rispondente ad un’uniformità pecuniaria di base. FATTO. 1. Con ordinanza in data 23 aprile 2012 la Corte di Appello di Palermo accoglieva parzialmente (domandati Euro 150,000,00, ritenuti Euro 44.640,00) l’istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione proposta da V.S. Costui era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal 29 giugno 2009 al 13 dicembre 2010 nell’ambito di un procedimento che lo aveva visto indagato per i delitti di rapina aggravata e detenzione e porto di armi, conclusosi con sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto. La Corte territoriale riteneva che il V. non avesse dato causa alla custodia cautelare subita, poiché le accuse nei suoi confronti si erano fondate su un riconoscimento non confermato in sede dibattimentale; escludeva, altresì, il diritto all’indennizzo in relazione ai periodi per i quali risultava altro titolo di detenzione (dal 1° otto- mento quello aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art. 315, comma 2, c.p.p., e il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 4, lett. e), c.p.p., avuto riguardo alla durata della carcerazione ingiustamente subita, e considerate, nell’ambito di una valutazione complessivamente equitativa, la personalità del V., desumibile dai numerosi precedenti penali a suo carico, e le precedenti esperienze carcerarie sofferte in espiazione di condanna, riduceva la misura giornaliera dell’indennizzo da Euro 235,82 (rivenienti dal c.d. calcolo nummario) a Euro 180,00. La Corte territoriale, richiamandosi a una massima di esperienza basata sull’id quod plerumque accidit, riteneva nel caso concreto sussistente una “minore afflittività della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una persona la cui immagine sociale è già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con l’ambiente carcerario rende meno traumatica l’ingiusta detenzione”. 2. Con ricorso per cassazione il ricorrente deduce illogicità della motivazione in ordine alla determinazione del quantum liquidato. Osserva che la Corte avrebbe dovuto motivare specificamente sulle circostanze e sugli elementi indicativi di una minore afflittività nella privazione ingiusta della libertà personale e non limitarsi a mere presunzioni non adeguatamente provate e logicamente motivate; rileva che la pregressa esperienza carceraria può comportare, contrariamente a quanto genericamente desunto in via astratta e presuntiva, anche una maggiore intensità della sofferenza patita; deduce, altresì, l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di riconoscimento della somma spettante per interessi moratori. Con ulteriore motivo osserva che erroneamente la Corte aveva determinato la durata della detenzione in giorni 248, poiché da un corretto calcolo si perveniva a un totale di 264 giorni di carcerazione. 3. L’Avvocatura Generale dello Stato ha presentato memoria difensiva, insistendo per la responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.107 ⎪ declaratoria d’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso. DIRITTO. 4. Al fine di fornire una risposta adeguata alla censura formulata con il primo motivo di ricorso occorre richiamare per grandi linee la struttura e il fondamento dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione. Esso, disciplinato agli artt. 314 e 315 del codice di rito in sintonia con i principi affermati in materia dall’art. 5, comma 5, della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, è stato introdotto a seguito dell’intervento della sentenza della Corte cost. n. 1/1969, con la quale era stato demandato al legislatore ordinario il compito di specificare se tra i casi di “riparazione degli errori giudiziari” richiamati dall’art. 24, ultimo comma, della Costituzione dovesse farsi rientrare anche l’ingiusta carcerazione preventiva. Con lo strumento della riparazione si è consentita la proposizione di una istanza d’impronta essenzialmente civilistica e di natura indennitaria, perché riconnessa a un atto giudiziario legittimo, dinanzi a un organo che esercita la giurisdizione penale, e ciò in ragione della contiguità del diritto vantato con il procedimento volto all’accertamento dei reati. Il richiamo contenuto nell’art. 315, ultimo comma, c.p.p., alle disposizioni in materia di ripara- ⎪ P . 1 0 8r e s p o n s a b i l i t à zione dell’errore giudiziario, accompagnato dalla clausola di compatibilità, rende evidente la comune matrice delle due discipline. Come evidenziato dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite, altro tratto caratteristico dell’istituto è il carattere equitativo della liquidazione dell’indennità, connessa alla delicatezza della materia e alle difficoltà per l’interessato di provare nel suo preciso ammontare la lesione patita, fattori che hanno indotto il legislatore “a non prescrivere al giudice l’adozione di rigidi parametri valutativi, lasciandogli, al contrario — s’intende, entro i confini della ragionevolezza e della coerenza — ampia libertà di apprezzamento delle circostanze del caso concreto” (Cass., S.U. n. 24287 del 9 maggio 2001, rv. 218975). La richiamata decisione del giudice di legittimità è pervenuta a ritenere corretto un criterio di calcolo, da allora costituente parametro generale in giurisprudenza per la liquidazione dell’indennità, che tiene conto del rapporto tra il termine massimo di custodia cautelare e la durata della detenzione effettivamente patita, avendo come punto di riferimento la maggior somma liquidabile a norma dell’art. 315, comma 2, c.p.p., la quale resta limite invalicabile per la determinazione giudiziale dell’entità della riparazione. Il criterio di base enunciato appariva utile al civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore fine di sottrarre la determinazione dell’indennizzo a un’eccessiva discrezionalità del giudice e garantire in modo razionale una uniformità di indirizzo, ma non impediva la considerazione delle conseguenze di natura economica, familiare e personale cagionate al richiedente dall’ingiusta privazione della libertà. Sulla scorta di tali linee fondamentali d’indirizzo questa Corte, in un primo periodo della sua elaborazione, è giunta a negare che l’indennizzo potesse costituire “la risultante di un metodo composito che assommi i criteri aritmetici (rapporto tra il tetto massimo di indennizzo di cui all’art. 315, comma 2, ed il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 4, lett. c), c.p.p.) ed i criteri equitativi (che tengono conto sia della durata della custodia cautelare, sia delle conseguenze personali e familiari derivate dalla privazione della libertà), in quanto i predetti parametri aritmetici individuano il massimo indennizzo liquidabile relativamente a tutte le conseguenze personali e familiari patibili per ogni giorno di detenzione, che non può essere corretto in aumento facendo riferimento al criterio equitativo” (così Cass., 29 aprile 2003, n. 28334, rv 225963). Questo orientamento, che assumeva il criterio del calcolo aritmetico come limite massimo della complessiva valutazione, risulta, però, superato nella successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, con ripetute decisioni conformi, ha chiarito che “i parametri aritmetici individuano soltanto di norma o, se si vuole, soltanto tendenzialmente il massimo indennizzo liquidabile relativamente a tutte le conseguenze personali e familiari patibili per ogni giorno di ingiusta detenzione, libero essendo il giudice di discostarsene, sia in meno sia in più, e non solo marginalmente... dando però di quel discostarsi... congrua motivazione e ciò, ancora una volta, per far apprezzare, in una valutazione equitativa, l’equità” (Cass., Sez. IV, 8 luglio 2005). Nelle successive pronunce della giurisprudenza di legittimità si legge, in applicazione del criterio enunciato, che il parametro medio giornaliero può essere sensibilmente superato rispetto agli standard, purché non si sfondi il tetto massimo della somma erogabile normativamente previsto (in tal senso Cass., Sez. IV, n. 34857/2001, rv 251429, Cass. n. 10123 del 17 novembre 2011, Rv. 252026). 4.1. Tanto premesso, e ritornando alla que- stione che costituisce specifico argomento della censura svolta dal ricorrente, va evidenziato che, con riferimento al tema della determinazione dell’indennizzo nei confronti di soggetto che abbia riportato precedenti condanne e abbia già subito in passato la restrizione carceraria, sono da registrare due orientamenti difformi in seno alla giurisprudenza di questa Corte. Secondo un primo indirizzo (Cass. Sez. IV, n. 23124 del 13 maggio 2008, Cass. Sez. IV n. 3467 del 22 giugno 2010), è legittimo operare una riduzione sulla somma giornaliera computata quale frazione aritmetica di quella massima liquidabile per legge, data la più tenue afflittività della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una persona la cui immagine sociale sia già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con l’ambiente carcerario rende meno traumatica l’ingiusta privazione della libertà. Secondo altro orientamento (Cass., Sez. IV, n. 9713 del 27 ottobre 2009 e altre, Cass., Sez. III, n. 17404 del 20 gennaio 2011), deve riscontrarsi vizio motivazionale laddove il giudice di merito riduca l’ammontare dell’indennizzo in forza di una generica presunzione. In proposito si evidenzia (si veda l’ultima pronuncia citata) che “il richiamo di precedente esperienza carceraria quale fattore di riduzione della misura del diritto alla riparazione introduce sia classi diverse di dolore per un medesimo fatto ingiusto e nocivo, sia anche un fattore di disuguaglianza tra cittadini che non appare conforme a fondamentali precetti costituzionali”. Si sottolinea, pertanto, che “una automatica e generalizzata riduzione della somma determinata secondo il c.d. criterio nummario o aritmetico o criterio base per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti condanne e precedenti detenzioni, rende la valutazione equitativa priva di una adeguata e logica motivazione”. 4.2. Il Collegio ritiene questo ultimo indirizzo più persuasivo oltre che più aderente ad una lettura costituzionale della intera struttura dei diritti del singolo, nonché ad una ragionata adesione ai principi della carta Europea dei diritti. Ravvisa, pertanto, il denunciato vizio nella motivazione della Corte territoriale che, sul presupposto giuridicamente e naturalisticamente indimostrato della minore afflittività responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.109 ⎪ della detenzione in ragione delle pregresse condanne e delle conseguenti esperienze carcerarie sofferte dal ricorrente, opera una consistente quanto inspiegata diminuzione dell’importo giornaliero assunto a parametro dell’indennizzo. Si deve in proposito sottolineare che l’ingiusta detenzione incide sulla libertà personale, diritto di rango costituzionale egualmente inviolabile per qualsiasi individuo. La limitazione di tale bene primario è idonea a compromettere le manifestazioni e le facoltà costituenti espressione della persona in sé considerata e integra essa stessa il pregiudizio, intrinseco nel fatto lesivo e non valutabile in termini di utilità economica, che l’istituto della riparazione mira (solo) a indennizzare. In essa, inoltre, è sempre insita una quota di incidenza nell’ambito sociale e familiare. Ne discende che alla riparazione deve essere assegnato, anzitutto, un valore compensativo della perdita della libertà, prescindendo dalle ulteriori possibili conseguenze (ad esempio sul piano economico) derivanti dalla stessa privazione, le quali integrano aspetti negativi riflessi della lesione, specifici e eventualmente diversificati per ciascuno. La distinzione può essere immediatamente colta laddove si consideri che, inteso nel suo aspetto fondamentale e ineludibile, il pregiudizio connesso alla privazione ingiusta della libertà non ⎪ P . 1 1 0r e s p o n s a b i l i t à necessita di prova: il vulnus, infatti, è nella stessa ingiusta limitazione del bene fondamentale. Necessitano di prova da parte del richiedente, invece, gli ulteriori effetti pregiudizievoli della stessa privazione (in tal senso Cass., Sez. IV, Sentenza n. 10690 del 25 febbraio 2010, rv. 246424). Di conseguenza, con riferimento all’indicato aspetto essenziale della compromissione, legato alla natura strettamente personale del bene primario che ne è oggetto, il ristoro non può che essere considerato, almeno nel suo nucleo essenziale, in modo omogeneo per tutti gli individui, in conformità al principio costituzionale di uguaglianza. Da ciò la necessità di far ricorso a un criterio rispondente a un’uniformità pecuniaria di base, come avviene in altri settori del diritto attinenti ai diritti fondamentali (si pensi ai criteri di liquidazione del danno alla salute, inteso come diminuzione dell’integrità fisica, effettuato mediante il ricorso a tabelle che uniformano la quantificazione ai soli parametri dell’entità della lesione e dell’età), proprio perché la limitazione della libertà personale incide direttamente sulle prerogative della persona in sé considerata, su un valore umano nella sua concreta dimensione, a prescindere da ogni conseguenza di carattere economico o, comunque, riflessa. A tal fine può soccorrere il criterio aritmetico di civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore calcolo dell’indennizzo elaborato dalla giurisprudenza. 5. Quanto esplicitato non implica che ai fini della determinazione dell’indennizzo non possano essere tenuti in considerazione, mediante incremento del parametro aritmetico di base, fattori diversi, ove ne sia dimostrata l’esistenza, quali i pregiudizi incidenti sull’attività lavorativa, sulla vita di relazione, sulle attività economiche o sull’immagine, peraltro nella misura in cui tale considerazione non si risolva in un non codificato risarcimento del danno. In tal senso si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte, affermando che l’art. 314 c.p.p., con il richiamo alla custodia cautelare subita, intende anzitutto garantire l’indennizzo per il danno derivante dalla mera privazione della libertà personale e delle dirette conseguenze di questa privazione sul piano delle attività e dei rapporti personali”, con la conseguenza che “il parametro giornaliero va dunque ad esse commisurato” e che ”le ulteriori conseguenze vanno invece separatamente considerate e indennizzate nel limite del tetto massimo previsto” (Cass., Sez. IV, Sentenza n. 10690 del 25 febbraio 2010, rv. 246424). Il diverso coefficiente di quantificazione dell’indennizzo correlato alla differenza tra restrizione carceraria e restrizione domiciliare, poi, è ragionevolmente collegato alla certa minore afflittività strutturale della restrizione domiciliare quale è regolata dalle norme che la prevedono. D’altra parte va rilevato che il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto in ogni caso alla cognizione della Corte di legittimità, la quale può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non certo sindacare la sufficienza della somma liquidata a titolo di riparazione. L’illogicità del criterio di liquidazione utilizzato dal giudice del merito, pertanto, si coglie laddove, come nel caso in esame, in relazione a un prolungato periodo di ingiusta detenzione, sia disposto un abbattimento consistente del computo aritmetico dell’indennizzo in forza di una generica presunzione, che si assume fondata sull’id quod plerumque accidit, la quale individua quale termine di partenza per il ragionamento presuntiva l’esistenza di precedenti condanne e di pregresse esperienze car- cerarie del richiedente. Ciò in considerazione di quanto si è detto riguardo alla natura del bene compromesso e alla sua stretta inerenza alle prerogative fondamentali individuo, rilievo che assume più evidente consistenza ove si consideri che costituisce fatto notorio, come si evince dai ripetuti interventi legislativi atti a contrastare il sovraffollamento nelle carceri e dalle sollecitazioni che al riguardo ci provengono dalla Corte Europea, la situazione in cui versano le strutture di detenzione, ove spesso si registrano condizioni non adeguatamente rispettose della dignità umana. Va rilevato, inoltre, che attribuire automaticamente un effetto di riduzione della entità dell’indennizzo alla condizione carceraria pregressa in situazioni, quale quella in considerazione, di restrizione protrattasi per un consistente periodo di tempo, contrasta con la logica anche per la valenza non univoca della reiterata limitazione, poiché, come è stato osservato, “l’esistenza di precedente esperienza carceraria può avere sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza”, dato che il cumulo del periodo di detenzione ingiusta con quello di restrizione giustificata già patita potrebbe essere indicativo, in ragione del protrarsi della sofferenza, di una intensificazione della stessa e tale da ingenerare effetti ulteriormente pregiudizievoli, connessi al più prolungato allontanamento dal consesso sociale e alle maggiori difficoltà di reinserimento e di recupero delle normali attività. Alla luce delle considerazioni svolte la giustificazione della riduzione dell’indennizzo sulla scorta della presunta assuefazione al regime restrittivo appare, quindi, al contempo, contrastante con i principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà sociale e non conforme ai canoni della logica. 6. Passando al profilo di censura concernente la mancata applicazione degli interessi sull’importo liquidato, si evidenzia l’infondatezza dello stesso alla luce del principio giurisprudenziale in forza del quale “in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, gli interessi al tasso legale sulla somma attribuita all’istante - non già moratori, bensì corrispettivi — vanno riconosciuti, se richiesti, dal passaggio in giudicato del provvedimento attributivo, atteso che solo da tale momento il credito — avente responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.111 ⎪ natura non risarcitoria può ritenersi certo, liquido ed esigibile” (Cass., Sez. III, n. 45706 del 26 ottobre 2011, rv. 251595). 6.1. Deve rilevarsi, infine, la fondatezza del secondo motivo di ricorso. Dal calcolo relativo ai periodi di carcerazione a diverso titolo indicati nel provvedimento, infatti, è possibile evincere una durata della detenzione sofferta di qualche giorno maggiore rispetto a quella per la quale l’indennizzo è stato liquidato. Deve essere emendato, pertanto, l’errore relativo al computo dei giorni di carcerazione in relazione ai quali va determinato l’indennizzo. 7. I profili di illegittimità della motivazione evidenziati giustificano l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo esame al giudice di merito, che provvederà, altresì, alla correzione dell’errore materiale sopra evidenziato. (Omissis). ⎪ P . 1 1 2r e s p o n s a b i l i t à civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore SENTENZA CASS. PEN. 23 MAGGIO 14 NOVEMBRE 2013 N. 45648 SEZ. III PRES. LOMBARDI REL. GRILLO RESPONSABILITÀ PENALE - Atti persecutori - Stalking - Condotta penalmente rilevante Ripetizione della condotta - Sussistenza. C.P. ART. 612-BIS Integrano il delitto di atti persecutori, di cui all’art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di minaccia o di molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice. La reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tali ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita. FATTO. 1.1. Con sentenza del 25 maggio 2012 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa il 3 novembre 2011 dal Giudice dell’udienza Preliminare del Tribunale di Velletri nei confronti di U.G., im- putato dei delitti di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), con la quale lo stesso era stato condannato, con la continuazione tra i due reati, alla pena complessiva di anni quattro di reclusione oltre alle pene accessorie di legge ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile costituita, concedeva le circostanze attenuanti generiche e, per l’effetto, rideterminava la pena complessiva in anni due e mesi due di reclusione, contestualmente revocando l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e confermando nel resto anche con riferimento alle disposte statuizioni civili. 1.2. A fondamento di detta decisione la Corte territoriale ribadiva la configurabilità del reato di atti persecutori sia sulla base delle condotte reiteratamente poste in essere dall’U. dopo l’11 giugno 2010 (data nella quale la persona offesa rimetteva la querela con riferimento alle condotte pregresse), sia in relazione al comprovato stato di ansia procurato dal detto imputato alla donna per via delle minacce e pedinamenti fatti nei suoi confronti. Ancora, con riferimento al reato di cui al capo A), la Corte riteneva sussistente il reato anche in presenza di condotte reciproche di tipo molesto o intimidatorio o aggressivo o petulante. Ed infine, escludeva l’effetto estintivo del reato de quo in relazione alla intervenuta rimessione della querela (peraltro dovuta al timore di ritorsioni da parte dell’U., atteso il suo carattere collerico e violento), rilevando come in prosieguo l’atteggiamento persecutorio fosse continuato attraverso le condotte descritte dalla parte offesa nella successiva querela sporta in data 18 ottobre 2010 e relativa a due episodi avvenuti, rispettivamente, il 17 settembre e il 18 ottobre 2010. Quanto, poi, al reato di violenza sessuale, ne ribadiva la configurabilità sulla base della versione fornita dalla donna ai Carabinieri nella immediatezza del fatto, versione che la Corte riteneva credibile. Veniva, di contro, riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di minore gravità e le circostanze attenuanti generiche originariamente negate dal G.U.P. 1.3. Per l’annullamento della detta sentenza propone ricorso l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando nove motivi che qui si espongono succintamente. Con il primo viene denunciata la manifesta illogicità della motivazione in punto di qualificazione della con- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.113 ⎪ dotta nello schema dell’art. 612-bis c.p. Con il secondo motivo la difesa deduce inosservanza dell’art. 597 c.p. per avere la Corte rimesso in discussione l’intera condotta del reato di atti persecutori, richiamando episodi travolti dalla intervenuta rimessione della querela e per i quali si era formato il giudicato. Con il terzo motivo viene dedotta inosservanza dell’art. 152, comma 1, c.p.p., e violazione del principio del favor rei rilevando che, a seguito della intervenuta rimessione della querela per gli episodi antecedenti all’11 giugno 2010 (data di rimessione della querela), la condotta antecedente non poteva più avere alcuna rilevanza anche in presenza di reati permanenti o abituali, se non per le condotte successive purché oggetto di separata ed autonoma querela. Con il quarto motivo la difesa lamenta inosservanza della norma penale (art. 612-bis c.p.) deducendo che, a seguito della intervenuta rimessione della querela, la condotta punibile doveva circoscriversi soltanto agli episodi successivi all’11 giugno 2010 ed oggetto della querela del 18 ottobre 2010. Con il quinto motivo la difesa lamenta analogo vizio in relazione alla non ripetitività degli atti di molestia inidonei a concretizzare l’ipotesi delittuosa contemplata nell’art. 612bis c.p., essendo insufficienti due soli episodi come, invece, erroneamente ritenuto dalla Corte territo- ⎪ P . 1 1 4r e s p o n s a b i l i t à riale. Con il sesto motivo la difesa lamenta l’inosservanza degli artt. 50 e 612bis c.p. con riferimento alla reciprocità delle condotte, inidonea, diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, ad integrare il reato. Con il settimo motivo la difesa lamenta — con riferimento al reato di atti persecutori — mancanza di motivazione in ordine agli elementi costitutivi del reato, per avere la Corte omesso di argomentare in ordine alla conseguenze psico-fisiche ingenerate sulla donna dal comportamento dell’imputato. Con l’ottavo motivo la difesa deduce analogo vizio con riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di violenza sessuale, per avere la Corte distrettuale espresso un giudizio di attendibilità nei riguardi della vittima in termini superficiali. In ultimo, con il nono motivo, la difesa si duole di carenza della motivazione con riferimento al criterio di graduazione della pena per il delitto di violenza sessuale a fronte della riconosciuta circostanza attenuante del fatto di minore gravità, avendo la Corte preso a base una pena eccessiva. DIRITTO. 1. Il ricorso è parzialmente fondato nei termini e limiti qui di seguito precisati. 2. Il primo motivo afferisce ad una pretesa contraddittorietà tra la decisione di primo grado e quella di appello in ordine alla descrizione della con- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore dotta e, in particolare, in ordine alla indicazione degli episodi integranti il reato contestato al capo A): a giudizio del ricorrente, infatti, mentre la condotta accertata dal Tribunale riguarderebbe tre distinti episodi, uno dei quali (quello relativo al periodo gennaio-febbraio 2010) estinto per sopravvenuta rimessione della querela e gli altri riferibili, rispettivamente, al 17 settembre e 18 ottobre 2010, quella accertata dalla Corte distrettuale riguarderebbe non solo i detti episodi ma anche altri non tenuti in considerazione dal Tribunale. La censura non è condivisibile e risulta, anzi, manifestamente infondata in quanto la Corte territoriale ha preso in considerazione ai fini della conferma del giudizio di colpevolezza unicamente i due episodi verificatisi il 17 settembre e 18 ottobre 2010 denunciati dalla donna con la querela del 18 ottobre 2010, dopo che la precedente querela (avente per oggetto non solo i fatti del gennaio-febbraio 2010, ma anche altri di minore rilevanza) era stata rimessa dalla persona offesa D.M. l’11 giugno 2010. 3. Il secondo motivo riguarda la presunta violazione dell’art. 597, comma 1, c.p., per avere la Corte territoriale rimesso in discussione un punto della decisione sulla quale si era, a giudizio del ricorrente, formato il giudicato, in quanto non sottoposta a gravame. Si tratta di un rilievo infondato perché la Corte territoriale ha preso a base della conferma del giudizio di colpevolezza unicamente i fatti non coperti da giudicato, senza alcuna rivisitazione di episodi antecedenti all’11 giugno 2010 (se non in termini di mero ricordo storico avulso da qualsiasi statuizione). La norma processuale indicata dal ricorrente non ha, quindi, subito alcuna errata interpretazione avendo il giudice distrettuale rispettato il principio del tantum devolutum quantum appellatum in piena coerenza con le regole interpretative affermate al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte. Nessun peggioramento della posizione processuale dell’imputato è ravvisabile nella motivazione della Corte, né la descrizione delle precedenti condotte (ivi compresi alcuni episodi non tenuti in conto dal G.U.P.) ha comportato una decisione sfavorevole per l’imputato. 4. Altrettanto inesatta la tesi di difensiva enunciata nel terzo motivo circa la pretesa violazione dell’art. 152, comma 1, c.p.p., in quanto la sentenza si riferisce essenzialmente alle condottesuccessive all’11 giugno 2010 e, più esatta- mente, a quelle oggetto della seconda querela sporta dalla D., dopo che la precedente rimessione non aveva sortito alcun effetto deterrente nei riguardi dell’imputato che aveva proseguito imperterrito nelle proprie condotte molestatrici ed intimidatorie. Sicché, fermo l’effetto estintivo della rimessione per le condotte pregresse, il giudizio della Corte è rimasto circoscritto soltanto a quelle condotte per le quali era stata proposta autonoma querela successiva alla precedente. Il riferimento del ricorrente ai reato permanente è del tutto improprio, posto che, versandosi in tema di reato abituale, la Corte ha tenuto distinte le varie condotte, occupandosi unicamente di quelle sottoposte al suo vaglio a seguito dell’appello proposto dall’imputato. I principi contenuti nelle massime evocate dal ricorrente sono stati, quindi, puntualmente ed esattamente applicati dal giudice distrettuale: invero, poiché la rimessione della querela costituisce una causa estintiva del reato (ex art. 152 c.p.) essa opera per i fatti precedenti, ma non per quelli successivi, con la conseguenza che nel caso di reato permanente o abituale (come nella specie) non è preclusa, pur in presenza di un effetto estintivo per le condotte pregresse, la proposizione di altra querela per le condotte susseguenti non comprese nella rimessione, suscettibili, pertanto, di formare oggetto di una nuova indagine e dunque non sottratte alla cognizione del giudice: il che è esattamente avvenuto nel caso in esame. 5. Per ragioni sostanzialmente analoghe va ritenuto infondato il quarto motivo. 6. Con riferimento al quinto motivo, la censura non può essere condivisa: il concetto di reiterazione della condotta contenuto nel comma 1 dell’art. 612-bis c.p. denota la ripetizione di una condotta una seconda volta, ovvero più’ volte con insistenza. Se ne deduce, dunque, che anche due sole condotte in successione tra loro, anche se intervallate nel tempo bastano ad integrare sotto il profilo temporale la fattispecie per quanto riguarda l’aspetto materiale (in termini Sez. V, 21 gennaio 2010, n. 6417, Oliviero, rv. 245881). Secondo la difesa del ricorrente il precedente giurisprudenziale testé citato privilegia una interpretazione letterale del termine in contrasto con la ratio legislativa, apparendo preferibile un concetto di reiterazione che abbia quale presupposto ad una serialità di comportamenti. E la riprova di ciò il ricorrente la responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.115 ⎪ trae dalla relazione al Disegno di legge n. 1440/08 A.C. in cui è lo stesso legislatore a parlare — ai fini della configurazione della nuova figura delittuosa — di “molestie assillanti”. Tale affermazione pecca di troppa assolutezza, posto che in tutti i progetti di legge riguardanti l’introduzione del reato di atti persecutori si parla soprattutto di reiterazione della condotta, senza riferimento né all’arco temporale in cui tale reiterazione deve svilupparsi, né ad un concetto numerico delle azioni illegali. 6.1. Peraltro se il legislatore avesse voluto riferirsi al termine “assillante” per evidenziare la ripetitività delle condotte, avrebbe ben potuto adoperare tale espressione che certamente contiene in sé un riferimento temporale più esteso, ma, soprattutto, attiene alle conseguenze cagionate alla vittima più che al dato della sequenza temporale. 6.2. La Corte territoriale, oltre a sottolineare come il significato della parola reiterazione comportasse una ripetizione della condotta anche se limitata a due sole volte, ha ben evidenziato le conseguenze cagionate sulla psiche della vittima sottoposta ad una situazione di stress e di ansietà persistente non disgiunta dalla paura per la propria incolumità e per l’incolumità del figlio (emblematica la citazione di un episodio riguardante la comparsa dell’U. nel cam- ⎪ P . 1 1 6r e s p o n s a b i l i t à po di calcetto in cui giocava il figlio minore della persona offesa intimorita da tale sgradita visita). 6.3. Orbene la correlazione delle due condotte (costituenti, peraltro, prosecuzione ideale di una condotta perdurante nel tempo iniziata nel lontano 2009 subito dopo la decisione della D. di interrompere la relazione extraconiugale con l’imputato e non cessata neanche dopo la rimessione della querela) con le perverse conseguenze subite sul piano psichico dalla D. soprattutto dopo che costei aveva cercato per “ragioni familiari”, come da lei stessa definite, di stemperare la sequenza continua di disturbi nei suoi confronti in vario modo arrecatile, costituisce la riprova della esatta configurabilità del reato di atti persecutori in cui l’elemento costitutivo sul piano materiale non è dato solo dall’elemento tempo, ma dall’evento in termini di pregiudizio alla persona da porre in stretta correlazione con il dato della ripetitività: in altri termini, una condotta che fosse circoscritta ad una serie di atti di disturbo, non seguita dall’evento-danno sulla persona non integrerebbe la fattispecie, così come non la integrerebbe una condotta tale da provocare un senso di paura o di stress non preceduto o caratterizzato da una ripetitività dell’azione. Quel che è da escludere è l’equivalenza del concetto di reiterazione con la serialità: civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore né la definizione concettuale di reato abituale data dalla dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte alla espressione “atti persecutori” vale ad escludere che due sole condotte di identica natura siano bastevoli per la configurabilità del reato. 7. Anche il motivo riguardante la erronea applicazione della legge penale per avere la Corte confermato il giudizio di responsabilità (e la qualificazione della condotta) nonostante la reciprocità delle condotte disturbatrici o insolenti o petulanti o aggressive, non è fondato. 7.1. Sostiene la difesa che la ricerca da parte della donna, in più occasioni, di un contatto con l’U., si pone in posizione antinomica con il concetto di atti persecutori che presuppone una vittima alla merce del suo stalker ed impossibilitata, quindi, a reagire: secondo l’interpretazione del ricorrente, la ricerca da parte della donna del contatto in via autonoma e persino dopo che da parte dell’U. veniva posta in essere una condotta minacciosa o aggressiva, dimostrerebbe, da un canto, la inoffensività della asserita condotta persecutoria descritta dalla D. sulla sua psiche e, dall’altro, una sua capacità reattiva in termini anche di indipendenza, incompatibile con il concetto di stress enunciato dalla norma incriminatrice. 7.1. Come affermato da una recente decisione di questa Corte, la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Sez. V, 5 febbraio 2010, n. 17698, Marchino, rv. 247226). 7.3. Alla base di tale decisione milita la considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell’agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d’ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l’incolumità propria o di soggetti vicini, op- pure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita. 7.4. Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali termini tali condotte “persecutorie” vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali condotte maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la quale si riferisce invece ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all’autore dei comportamenti intimidatori o vessatori. 7.5. Il termine reciprocità non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612-bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l’idea di una vittima inerme alla merce del suo molestatore ed incapace di reagire. Anzi non è neanche da escludere che una situazione di stress o ansia possa generare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura come reato di evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all’art. 612 c.p. qualificato come reato di pericolo, pur costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie. 7.6. Ora nel caso in esame la Corte territoriale ha escluso che si versasse in una situazione di reciprocità, pur avendo dato atto di alcuni episodi in cui la donna avrebbe affrontato l’imputato con fare aggressivo, tale, però, da non incidere sulla sua situazione di stress rimasta responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.117 ⎪ inalterata ed, anzi, accentuatasi con il trascorrere del tempo e l’intensificarsi dei comportamenti intimidatori dell’U. Non può, quindi, parlarsi nell’ambito della vicenda in esame, di reciprocità quanto meno nel senso inteso dal ricorrente, avendo la Corte escluso che le due parti agissero ad armi pari (emblematico l’accenno della Corte ai tentativi operati in modo anche energico dalla D. per far desistere il suo ex amante dall’idea di diffondere le fotografie che la ritraevano in pose sexy in vista di un tentativo di recupero della pace familiare e di un riavvicinamento al proprio coniuge — vds. pag. 6 della sentenza impugnata). 8. Anche il settimo motivo non può trovare accoglimento in quanto la Corte territoriale ha adeguatamente motivato in ordine al verificarsi dell’evento, ricordando come la D., al colmo della disperazione, quando aveva ripresentato la querela in data 18 ottobre 2010, aveva fatto riferimento allo sconvolgimento della propria vita quotidiana e di quella dei suoi familiari, soprattutto del figlio minore ed ancora alla assunzione di psicofarmaci quali coadiuvanti del sonno perduto. 8.1. La tesi del ricorrente secondo la quale mancherebbe in atti la prova del danno psichico subito dalla D. e conseguentemente la decisione della Corte sarebbe sostanzialmente priva di motivazio- ⎪ P . 1 1 8r e s p o n s a b i l i t à ne sul punto, è errata. Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte “Ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori — e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti — abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Sez. V, 10 gennaio 2011, n. 16854, C, rv. 250158). 8.2. Ciò premesso, in linea generale il giudice territoriale ha fatto riferimento alle dichiarazioni rilasciate dalla donna ai carabinieri in una situazione di evidente stress emotivo (determinato anche dall’inseguimento della donna ad opera dell’U. con la propria auto): vero è che non è stata accertata attraverso una consulenza o perizia medica la patologia ansiogena riferita dalla D. alla P.G.: ma non va dimenticato che la persona offesa è stata ritenuta, a ragione, dalla Corte distrettuale credibile e che le sue dichiarazioni sono state civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore anche rafforzate — per quel che riguarda la ripetizione di alcune condotte minacciose o vessatorie — anche da testi vicini per ragioni di amicizia tanto alla persona offesa quanto all’imputato. L’accordata credibilità mai posta in discussione dal giudice di appello e sostanzialmente non contestata dal ricorrente che ha solo prospettato una diversa qualificazione delle proprie condotte, ha consentito alla Corte territoriale di affermare che la D. è credibile tanto quando ha parlato di condotte ripetute nel tempo di tipo intimidatorio o altrimenti vessatorio, tanto quando ha descritto drammaticamente, ma senza enfatizzazioni di sorta — come ricorda il giudice di merito — il proprio stato di ansia e di paura: dati, questi, che ben possono essere ricavati dalle dichiarazioni della vittima oltre che dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e persino dalla condotta dell’imputato quale comportamento astrattamente idoneo a causare l’evento anche in relazione al contesto spaziotemporale in cui la condotta è stata posta in essere (Sez. V, 28 febbraio 2012, n. 14391, S., rv. 252314). 9. Palesemente infondato anche l’ottavo motivo riferito alla manifesta illogicità della motivazione in punto di conferma della responsabilità anche per il reato di violenza sessuale, in quanto il giudice distrettuale ha adeguatamente spiegato perché la D. dovesse essere ritenuta credibile quando ha riferito ai Carabinieri avvicinatisi alla sua auto, l’episodio del bacio, con il labbro ancora sanguinante e con l’U. accostato al finestrino dell’auto in termini tali da richiamare l’attenzione dei Carabinieri. La Corte ha motivatamente escluso che il sangue al labbro potesse avere attinenza con condotte diversamente qualificabili, rilevando, invece, come il racconto della donna nella immediatezza del fatto avesse un preciso aggancio ad una violenza sessuale subita attraverso il contatto forzoso delle labbra dell’imputato con le labbra della vittima (vds. pag. 7 della sentenza impugnata). 9.1. È quindi da escludere che tale condotta possa ritenersi assorbita nel reato di atti persecutori avendo invece conservato una propria autonomia in relazione alle dichiarazioni della D. che ha escluso che in quella circostanza l’U. proseguisse con atti di disturbo nei suoi confronti, evidenziando, invece, come il gesto del bacio violento dovesse ritenersi una azione autonoma dell’imputato tendente soltanto ad importunarla sessualmente (il che è poi avvenuto come constatato dai Carabinieri). Peraltro l’oggettività giuridica dei due reati sub a) e b) è diversa, avendo per oggetto il reato di cui all’art. 612-bis c.p. il bene giuridico costituito dalla libertà morale e il delitto di cui all’art. 609-bis stesso codice il bene giuridico costituito dalla libertà individuale: il che osta ulteriormente all’assorbimento come richiesto dal P.G. di udienza. 10. Va, invece, ritenuto fondato l’ultimo motivo afferente al trattamento sanzionatorio che la Corte ha determinato — per quanto riguarda la pena base per il reato più grave di cui al capo A) — in misura consistente, seppure non coincidente con il massimo edittale, con motivazione inadeguata: invero il mero riferimento alla particolare intensità del dolo in termini di pervicacia (che sembra però riferirsi più agli atti vessatori che al gesto sessuale) non può considerarsi un parametro di valutazione sufficiente, tanto più in considerazione della limitata offensività della azione sul piano della libertà sessuale, che ha indotto la Corte a riconoscere la circostanza attenuante del fatto di minore gravità e della situazione di incensuratezza alla base della concessione delle circostanze attenuanti generiche. 11. Si impone, sul punto, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma per la rivisitazione del trattamento sanzionatorio alla stregua delle considerazioni espresse da questa Corte. Per il resto il ricorso deve essere rigettato. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.119 ⎪ SENTENZA CASS. PEN. 15 OTTOBRE 2013 20 GENNAIO 2014 N. 2295 SEZ. VI PRES. MILO REL. PAOLONI RESPONSABILITÀ PENALE - Cessione di sostanza stupefacente - Concorso di circostanze - Recidiva - Attenuante lieve entità Bilanciamento. C.P. ART. D.P.R. 99 9 OTTOBRE 1990, N. 309, ART. 73, COMMA 5 La declaratoria di incostituzionalità di una norma penale incide fin dalla sua originaria vigenza, ponendo in essere una eccezione in materia penale in grado di travolgere il giudicato stesso (fattispecie relativa alla pronuncia della Corte costituzionale, la quale con sentenza n. 251/2012 ha espunto dall’ordinamento il divieto di prevalenza delle attenuanti nel giudizio di bilanciamento comparativo delle circostanze del reato per i fatti definibili di piccolo spaccio di droga). La fattispecie prevista dal comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, così come modificata dall’art. 2, comma 1, lett. a), d.l. n. 146/2013, costituisce un’autonoma ipotesi di reato e non più una circostanza attenuante e di conseguenza non sono più applicabili, nei suoi confronti, i criteri di bilanciamento delle circostanze previste dal comma 4 dell’art. 69 c.p. FATTO. 1. Con sentenza del 27 aprile 2012, resa all’esito di giudizio abbreviato subordinato all’espletamento di perizia chimica sulla sostanza stupefacente oggetto di reato, il Tribunale di Torino ha dichiarato il cittadino nordafricano A.D. responsabile dell’ascritto reato di concorso in illecita vendita di una dose di cocaina commesso il **. Condotta criminosa ritenuta univocamente dimostrata in base al servizio di osservazione diretta dell’e- ⎪ P . 1 2 0r e s p o n s a b i l i t à pisodio criminoso da parte degli agenti di polizia operanti e alle dichiarazioni del terzo acquirente. Per l’effetto il Tribunale, concessa al prevenuto (”trattandosi di semplice spaccio in strada senza impiego di particolari risorse”) l’attenuante del fatto di lieve entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, L.S., stimata equivalente alla contestata recidiva qualificata ex art. 99, comma 4, c.p., lo ha condannato alla pena di quattro anni di reclusione ed Euro 18.000,00 di multa. In particolare il Tribunale ha espressamente escluso — così respingendo specifica richiesta del difensore dell’imputato — la possibilità di elidere l’incidenza sanzionatoria della recidiva (annoverando l’A. ben sette precedenti penali per reati in materia di stupefacenti) e di formulare, quindi, un più favorevole bilanciamento delle circostanze del reato, stante il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sancito dall’art. 69 comma 4 c.p. (come sostituito dalla l. n. 251/2005) per imputati attinti da recidiva reiterata. 2. Giudicando sull’impugnazione del difensore dell’A., imperniata sul solo trattamento sanzionatorio e segnatamente sulla concessione delle circostanze attenuanti innominate e sulla disapplicazione della contestata recidiva (onde uniformare la pena alla concreta modesta offensività del fatto criminoso), la Corte di Appello di Torino civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore con sentenza in data 12 ottobre 2012 ha confermato la decisione di primo grado. In motivazione la Corte territoriale, dando atto della non accolta istanza difensiva di differimento della discussione del gravame in attesa della decisione della Corte costituzionale sulla questione di legittimità dell’art. 69, comma 4, c.p., connessa a fatti reato qualificabili ex art. 73, comma 5, L.S., ha — per un verso — ritenuto l’imputato immeritevole delle attenuanti generiche (straniero irregolare e privo di lecita attività lavorativa). Per altro verso la Corte ha rilevato l’inesistenza dei presupposti per disapplicare, ai fini sanzionatori regolati dall’art. 69, comma 4, c.p., la recidiva qualificata, poiché i numerosi precedenti penali dell’A. per reati analoghi a quello ascrittogli costituiscono ineludibile indice della sua pericolosità sociale e del maggior disvalore del suo illecito contegno. Evenienze che giustificano il più severo trattamento sanzionatorio previsto dal combinato disposto degli artt. 69, comma 4, e 99, comma 4, c.p., preclusivo di un giudizio di bilanciamento della pur riconosciuta attenuante ex art. 73, comma 5, L.S. in termini di prevalenza rispetto alla rediva plurireiterata. 3. Con ricorso personale l’imputato ha impugnato per cassazione avverso la sentenza di appello, deducendo l’erronea applicazione degli artt. 73, comma 5, L.S., e 69, comma 4, c.p., in riferimento alla ritenuta rilevanza sanzionatoria della recidiva qualificata. Incongruamente, sostiene l’A., la Corte torinese non ha accolto l’istanza di rinvio del difensore in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., riferibile a fatti di piccolo spaccio di droga qualificati lievi ai sensi del citato art. 73, comma 5, L.S., sollevata proprio dal Tribunale di Torino. Questione che il giudice delle leggi ha deciso (sentenza Corte cost. n. 251/2012 del 5 novembre 2012), dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, L.S., sulle aggravanti e sulla recidiva. Di tal che ben avrebbe potuto e dovuto, stante la palese minima offensività del contegno antigiuridico dell’imputato, la Corte di Appello determinare, anche mantenendo fermo il giudizio di significatività della recidiva, la pena in misura ben inferiore rispetto a quella inflitta al ricorrente. 4. Il ricorso è fondato e va accolto in ragione dello ius superveniens, suscettibile di incidere in favorem rei (art. 2, comma 4, c.p.) in punto di trattamento sanzionatorio, a seguito della citata decisione della Corte costituzionale n. 251/2012, che ha espunto dall’ordinamento il divieto di prevalenza delle attenuanti nel giudizio di bilanciamento comparativo delle circostanze del reato per i fatti definibili di piccolo spaccio di droga. 4.1. Come noto, il giudice delle leggi è pervenuto alla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p., valutando il divieto di prevalenza dell’attenuante speciale del fatto di lieve entità sulla recidiva ex art. 99 comma 4 c.p. irragionevole e lesivo dei principi di uguaglianza davanti alla legge e di proporzionalità della pena ed evidenziando come la recidiva reiterata rifletta i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, che -pur pertinenti al reato- non assumono nella individualizzazione della pena una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo, operando il principio di offensività non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti influenti sulla pena e sulla sua finale determinazione (”Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali dei commi 1 e 5 dell’art. 73 L.S. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di lieve entità, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per ipotesi di minima offensività penale, esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena verso l’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato”). 4.2. Non vi è dubbio che nella vicenda processuale riguardante il ricorrente A. l’abrogato divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, L.S., sulla recidiva qualificata, vigente all’epoca dell’impugnata decisione di appello, ha inciso in consistente misura sulla responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.121 ⎪ pena detentiva (quattro anni di reclusione) inflitta all’imputato per un episodio criminoso (vendita di una sola dose di cocaina) di cui le due conformi decisioni di merito hanno affermato la limitata gravità e offensività, tanto da inquadrarlo nella casistica della “lieve entità”, cioè di minima offensività secondo le indicazioni delle Sezioni Unite di questa S.C. (Cass. S.U., 24 giugno 2010, n. 35737, P.G. in proc. Rico, rv. 247911). È di tutta evidenza, quindi, che il previgente divieto ex art. 69, comma 4, c.p., di bilanciamento delle circostanze del reato in termini di possibile prevalenza delle attenuanti (comuni o speciali) sulla recidiva, ha svolto decisiva incidenza nel determinismo della sanzione inflitta all’A., stabilita in base alla cornice edittale delineata dall’art. 73, comma 1, L.S. 4.3. L’illegittimità parziale della pena inflitta all’A., riveniente dall’effetto abolitivo del divieto di cui all’art. 69, comma 4, c.p., correlato all’attenuante speciale del fatto di lieve entità sancito dalla sentenza n. 251/2012 della Corte Costituzionale (cfr., in tema di sopravvenuta incostituzionalità dell’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11-bis, c.p.: Cass., Sez. VI, 17 novembre 2010, n. 40836, Nasri, rv. 248533; Cass., Sez. II, 11 febbraio 2011, n. 8720, Idriz, rv. 249816; Cass., Sez. I, 15 marzo 2011, n. 16292, Cortez e altri, rv. 249968), im- ⎪ P . 1 2 2r e s p o n s a b i l i t à pone l’annullamento in parte qua dell’impugnata sentenza di appello con rinvio ad altra sezione della stessa Corte territoriale per un nuovo giudizio in punto di trattamento sanzionatorio applicabile al ricorrente A. Al riguardo è appena il caso di osservare, come di recente ribadito da questa stessa S.C., che il principio generale per cui la declaratoria di incostituzionalità, incidente fin dalla sua originaria vigenza sulla norma penale eliminata dall’ordinamento, rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici in corso con effetti invalidanti assimilabili all’annullamento (Corte cost. sentenza n. 127/1996), rinviene una eccezione in materia penale sino a travolgere lo stesso giudicato (art. 30, comma 4, l. 11 marzo 1953, n. 87: ” quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”). Se detto principio è pacificamente applicabile alle sole disposizioni penali sostanziali, deve convenirsi che nella nozione di norma penale sostanziale, “intesa come disposizione che correla la previsione di una sanzione ad uno specifico comportamento e che stabilisce una differenza di pena in conseguenza di una determinata condotta”, può sussumersi ogni ipotesi o situazione in cui “sia stabilita una sanzione penale per un aspet- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore to dell’agire umano, essendo indifferente -da questo punto di vista — che la norma disciplini un autonomo titolo di reato o una circostanza” del reato (in questi / termini Cass., Sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, P.M. in proc. Harizi, rv. 253084). 4.4. Né può sottacersi, infine, che la latitudine del giudizio di rinvio cui è chiamata la Corte di Appello di Torino ex art. 627 c.p.p. in ordine all’intero trattamento sanzionatorio applicabile all’imputato è vieppiù ampliata — in ragione della cogente applicabilità degli artt. 2, comma 4, c.p., e 129 c.p.p. — dalla ulteriore novella normativa sopravvenuta alla presente decisione di legittimità e al deposito della relativa motivazione, produttiva comunque dei medesimi effetti pratici rescissori della pena già applicata al ricorrente. Novella costituita dal decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, che con l’art. 2, comma 1, lett. a), ha modificato l’art. 73, comma 5, L.S., qualificando i fatti riconducibili nell’area della lieve entità come fattispecie autonoma di reato e non più come circostanza attenuante speciale, avuto riguardo (oltre che alla univoca relazione di accompagnamento del decreto legge) alla specifica clausola di riserva o sussidiarietà (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) che scandisce la nuova disposizione (in tal senso già Cass., Sez. VI, 8 gennaio 2014, ric. Cassanelli). Sulla scia delle argomentazioni sviluppate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 251/2012 sui referenti applicativi dell’art. 69, comma 4, c.p., in tema di reati riguardanti sostanze stupefacenti il legislatore di urgenza, intervenuto — tra l’altro — anche sulla pena detentiva edittale massima della fattispecie ex art. 73 L.S. (ridotta da sei a cinque anni di reclusione), ha inteso risolvere in radice ogni possibile questione interpretativa in tema di bilanciamento delle circostanze (attenuanti e aggravanti) connotanti il “nuovo” reato, essendo evidente che la qualificazione della fattispecie prevista dall’art. 73, comma 5, L.S., come autonoma ipotesi di reato (e non più come circostanza attenuante) rende inapplicabili i criteri di bilanciamento dell’art. 69, comma 4, c.p., anche ad altre eventuali circostanze (attenuanti o aggravanti) che caratterizzino la nuova fattispecie. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.123 ⎪ SENTENZA CASS. PEN. 4 DICEMBRE 2013 25 FEBBRAIO 2014 N. 9091 SEZ. V PRES. MARASCA REL. PEZZULLO RESPONSABILITÀ PENALE - Diffamazione - Espressioni gravemente infamanti - Diritto di critica - Limite della continenza Esclusione. C.P. ARTT. 51, 595 Il limite della continenza nel diritto di critica ex art. 51 c.p. è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Il riconoscimento del diritto di critica tollera giudizi anche aspri sull’operato del destinatario delle espressioni, purchè gli stessi colpiscano quest’ultimo con riguardo a modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce, ma non consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o modi di essere della persona che finiscano per prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione di discredito in termini generali della persona criticata. FATTO. 1. Il Giudice di Pace di Lanciano condannava A.V. e V.F. alla pena di euro 800,00 di multa ciascuno ed i medesimi in solido al risarcimento dei danni in favore di I.S., parte civile, per il delitto di cui agli artt. 110 e 595 c.p. per avere in concorso tra loro, in qualità di consulenti di parte, offeso la reputazione della I., consulente grafologa del P.M., affermando nell’elaborato prodotto all’udienza dei 15 ottobre 2008, nel procedimento penale n. 1193/2005, che la predetta I., con il suo elaborato “infarcito di macroscopici errori concettuali, ⎪ P . 1 2 4r e s p o n s a b i l i t à operativi ed addirittura lessicali” dequalificava la scienza grafologica e l’ateneo di Urbino presso cui aveva conseguito il titolo. 2. A.V. e V.F. proponevano appello avverso tale sentenza ed il Tribunale di Lanciano, con sentenza del 26 aprile 2012, li assolveva in quanto non punibili per aver esercitato un proprio diritto, operando nella fattispecie la scriminante di cui all’art. 51 c.p. Il Tribunale, in particolare, pur dando atto che gli apprezzamenti oggetto di contestazione si presentavano estremamente negativi dell’operato altrui, evidenziava, che tali espressioni, tuttavia, erano in rapporto di logica funzionalità con l’incarico svolto, che era quello di fornire elementi di valutazione in contrapposizione ad altro elaborato peritale e che, in tale contesto, trattandosi di espressioni contenute nell’elaborato depositato agli atti del fascicolo e non altrimenti divulgato, ovvero fatto oggetto di esternazioni ulteriori rispetto allo stretto ambito dell’incarico, poteva ritenersi la scriminante di cui all’art. 51 c.p. 3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso, ai soli effetti civili, I.S., parte civile, lamentando la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, che, da un lato, dà atto del carattere lesivo ed offensivo delle espressioni contestate e, dall’altro, dà atto della civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore non gratuità di esse, in quanto inserite in un contesto di contrapposizione ad un altro elaborato peritale, quantunque il semplice contesto processuale sia inidoneo a far ritenere sussistente la causa di non punibilità. Inoltre, sostiene la ricorrente, illogica si presenta l’affermazione secondo cui non vi sarebbero state ”esternazioni ulteriori” dell’elaborato, come se tale elemento fosse necessario per la configurazione di una diffamazione punibile. Infine, la ricorrente si duole dell’erronea applicazione, ai sensi dell’art. 606, lett. b), c.p.p., della scriminante di cui all’art. 51 c.p., atteso che il riferimento agli errori lessicali e alla dequalificazione della scienza grafologica e dell’ateneo di Urbino è indubbiamente mirato ad attaccare la professionalità e la personalità della ricorrente, superando il limite della continenza. DIRITTO. Il ricorso è meritevole di accoglimento. 1. Va innanzitutto evidenziato che le censure relative al fatto che il giudice di appello avrebbe dapprima dato atto dei carattere “offensivo” delle espressioni utilizzate dall’A. e dalla V. nel proprio elaborato e, quindi, contraddittoriamente, avrebbe valutato l’ambito in cui tali espressioni si collocavano, al fine di ritenere operante la scriminante ex art. 51 c.p. non appaiono condivisibili. Ed invero, va richiamato in proposito quanto evidenziato da questa Corte, secondo cui la scansione del procedimento logico-giuridico da seguire in tema di accertamento della punibilità dell’imputato a titolo di diffamazione implica in primo luogo la valutazione diretta a stabilire se il contenuto della comunicazione rivolta a più persone rechi in sé la portata lesiva della reputazione altrui, che costituisce il proprium del reato contestato e una volta stabilito il concorso degli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, l’attenzione del giudicante può spostarsi sull’apprezzamento della linea difensiva volta a giustificare il fatto sotto il profilo della scriminante di cui all’art. 51 c.p., e quindi sulla verifica di sussistenza dei noti requisiti di verità, interesse alla notizia e continenza (Sez. V, n. 41661 del 17 settembre 2012). Della scansione così descritta pare aver tenuto conto il giudice di appello che ha, innanzitutto, correttamente evidenziato la natura lesiva dell’altrui onore delle espressioni oggetto di contestazione. Se, infatti, il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 595 c.p., è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente ad incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (Sez. V, n. 5654 dei 19 ottobre 2012), le espressioni oggetto di contestazione sono obiettivamente pregiudizievoli della reputazione della persona offesa, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati (Sez. V, n. 43184 del 21 settembre 2012). 2. Fondata si presenta, invece, la doglianza della ricorrente relativa alla non corretta applicazione da parte del giudice di appello della scriminante di cui all’art. 51 c.p. e tale valutazione assorbe l’esame degli ulteriori vizi di illogicità della sentenza impugnata denunciati in relazione a tale applicazione. La scriminante di cui all’art. 51 c.p., così come accennato nella sentenza impugnata, è riconducibile nella fattispecie in esame all’esercizio del diritto di critica, volto, in considerazione della natura e finalità dello scritto (consulenza di parte), contenente le espressioni contestate, alla confutazione delle argomentazioni svolte nell’avversa consulenza del P.M. Ora, il diritto di critica (nelle sue più varie articolazioni ossia di critica politica, giudiziaria, scientifica, sportiva etc.), espressione della libertà di manifestazione del proprio pensiero, garantita dall’art. 21 Cost., così come dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si traduce proprio nell’espressione di un giudizio o di un’opinione personale dell’autore, che non può che essere soggettiva. L’accertamento della scriminante in questione, come detto, richiede, tuttavia, in linea generale la verifica della sussistenza dei tre requisiti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità: la verità, l’interesse alla notizia e la continenza (Sez. V, n. 45014 del 19 ottobre 2012), ma proprio con riferimento a tale ultimo requisito la motivazione della sentenza impugnata si presenta difforme da una corretta applicazione dei principi giuridici applicabili in materia. Il giudice di appello, infatti, pur richiamando correttamente il con- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.125 ⎪ solidato indirizzo della S.C., secondo cui il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è essenzialmente quello del rispetto della dignità altrui, non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale, anche mediante l’utilizzo di argomenta ad hominem (Sez. V, 28 ottobre 2010, n. 4938), tuttavia non trae corretta conseguenza da tali principi con riferimento al caso esaminato. Se da un lato, il contesto nel quale la condotta diffamatoria si colloca può e deve essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica (Sez. V, n. 28685 del 5 giugno 2013), dall’altro va considerato che non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale. Va, infatti, ricordato che il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (Sez. 5, n. 29730 del 4 maggio 2010, imp. Andreotti, rv. 247966). Il riconoscimento del diritto di critica tollera in altre parole giudizi anche aspri sull’operato del destinata- ⎪ P . 1 2 6r e s p o n s a b i l i t à rio delle espressioni, purché gli stessi colpiscano quest’ultimo con riguardo a modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce; ma non consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o modi di essere della persona che finiscano per prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione di discredito in termini generali della persona criticata (Sez. V, n. 15060 del 23 febbraio 2011). Sulla base dei principi appena indicati deve concludersi che, nel caso in esame, le espressioni oggetto di contestazione, pur considerando il contesto ”acceso” nel quale si inseriscono (consulenza di parte volta a confutare le argomentazioni contenute nella consulenza della I.), superano senz’altro il limite della continenza del diritto di critica, presentandosi inutilmente umilianti del soggetto criticato. Invero, l’affermare che l’elaborato della I. è infarcito di macroscopici errori addirittura lessicali e costituisce espressione di dequalificazione della scienza grafologica e dell’ateneo di Urbino presso il quale la I. ha conseguito il titolo, si traduce in un attacco alle qualità della I. medesima non funzionale al contesto di “aspra confutazione” di natura tecnica, nel quale le affermazioni si collocano ed assumono connotazioni non consentite di discredi- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore to in termini generali della persona criticata. Il ricorso per le ragioni esposte va, dunque, accolto e la sentenza impugnata va annullata agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.127 ⎪ SENTENZA CASS. PEN. 13 FEBBRAIO 2014 27 FEBBRAIO 2014 N. 9699 SEZ. IV PRES. BRUSCO REL. DELL’UTRI RESPONSABILITÀ PENALE - Infortuni sul lavoro - Posizione di garanzia incombente su più titolari - Obblighi di protezione - Sussistenza. C.P. ART. 590 In tema di infortuni sul lavoro dovuti a violazione di norme cautelari, il datore di lavoro può trasferire la propria posizione di garanzia ad altri, ma la delega deve risultare in modo certo. Diversamente, se in concreto vi sono più titolari della posizione di garanzia (quale il capo cantiere, oltre al datore), gli obblighi di protezione incombono su entrambi i destinatari. FATTO. 1. Con sentenza resa in data 9 febbraio 2012, il tribunale di Palermo, Sezione distaccata di Bagheria, ha condannato D.S. ed D.E. alle pene, rispettivamente, di venti giorni e di due mesi di reclusione, in relazione al reato di lesioni personali colpose commesso, in cooperazione tra loro e in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai danni di I.S., in **. Ai due imputati erano state contestate le colpevoli omissioni concernenti il rispetto delle norme in materia di sicurezza nei cantieri edili e nella vigilanza circa il ricorso delle condizioni di sicurezza del lavoro nel cantiere dagli stessi gestito in (...) (quale datore di lavoro, il D.S., e quale direttore dei lavori e capo cantiere il D.E. ), per effetto delle quali il lavoratore, ⎪ P . 1 2 8r e s p o n s a b i l i t à I.S., cadendo da un ponte alto circa quattro metri, si procurava lesioni personali guaribili in oltre venti giorni. Con sentenza resa in data 22 marzo 2013, la Corte d’Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del tribunale, ha disposto la riduzione della pena inflitta a carico di D.E., determinandola nella misura di un mese di reclusione, confermando nel resto la decisione del giudice di primo grado. Avverso la sentenza d’appello hanno personalmente proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati. 2.1. D.S. censura la sentenza d’appello per violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la corte territoriale omesso di rilevare la legittimità (negata dal primo giudice) dell’impedimento del proprio difensore nel corso di un’udienza del procedimento di primo grado, nonché per aver trascurato la nullità della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del primo giudizio. Sotto altro profilo, il ricorrente si duole dell’errore in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’omettere di rilevare l’avvenuta preposizione, da parte dell’imputato, di un institore in propria vece ai fini della vigilanza sull’adozione delle condizioni di sicurezza nel cantiere, trascurando di rilevare l’avvenuto trasferimento a carico dello stesso della posi- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore zione di garanzia erroneamente attribuita a proprio carico. 2.2. D.E. censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione per avere la corte territoriale omesso di rilevare la legittimità (negata dal primo giudice) dell’impedimento del proprio difensore nel corso di un’udienza del procedimento di primo grado, nonché la nullità della notificazione dell’atto di citazione relativa al primo giudizio. Sotto altro profilo, il ricorrente si duole della mancata acquisizione di alcuna prova in relazione alla circostanza concernente l’assunzione di una specifica posizione di garanzia in capo all’imputato con riguardo alla vigilanza circa la sicurezza delle condizioni di lavoro nel cantiere de quo. Da ultimo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in favore dell’imputato, nonché in relazione alla mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. 2.3. Con memoria pervenuta in data 17 gennaio 2014, il difensore degli imputati ha insistito per l’accoglimento dei ricorsi. DIRITTO. 3. Entrambi i ricorsi — congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione dei temi dedotti dai ricorrenti — sono infondati. Preliminarmente, rileva il collegio come le questioni di natura rituale introdotte dagli imputati (concernenti il mancato rilievo, ad opera del primo giudice, della pretesa legittimità dell’impedimento del relativo difensore nel corso di un’udienza del procedimento di primo grado, nonché della nullità della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del primo giudizio) appaiano del tutto prive di pregio, avendo la corte territoriale correttamente evidenziato — con motivazione completa ed esauriente e altresì immune da vizi d’indole logica o giuridica — come il difensore degli imputati, nell’occasione dagli stessi in questa sede dedotta, oltre ad aver solo tardivamente rappresentato la sussistenza dell’alternativo e concomitante impegno professionale asseritamele gravante dinanzi ad altra autorità giudiziaria, avesse integralmente omesso di documentarne il ricorso, con la conseguente legittimità del provvedimento giudi- ziale di diniego del rinvio dell’udienza in questa sede avversato. Allo stesso modo, del tutto correttamente, sul piano giuridico, la corte d’appello ha riconosciuto la ritualità della notificazione del decreto di citazione relativo al giudizio di primo grado in relazione a entrambi gli imputati, avendo evidenziato come il procedimento di notificazione nei riguardi di D.E. fosse giunto a buon fine in data 10 giugno 2009 mediante la notificazione del ridetto decreto a mani della moglie convivente con l’imputato, là dove, con riguardo a D.S., il procedimento si fosse legittimamente perfezionato ai sensi dell’art. 161, comma 4, c.p.p. (mediante consegna dell’atto al difensore), risultando dagli atti come l’ufficiale giudiziario notificante avesse in precedenza univocamente attestato l’avvenuto trasferimento dell’imputato dal domicilio originariamente indicato presso altro luogo sconosciuto, attraverso l’insieme delle informazioni assunte in loco. Sul punto, vale evidenziare come la corte territoriale si sia correttamente allineata all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (che il collegio qui condivide e riconferma) ai sensi del quale l’impossibilità della notificazione al domicilio eletto che ne legittima l’esecuzione presso il difensore di fiducia, secondo la procedura prevista dagli artt. 161, comma 4, e 157 comma 8-bis, c.p.p., può essere integrata anche dalla temporanea assenza dell’imputato, al momento dell’accesso dell’ufficiale notificatore, senza che sia necessario procedere ad attestata verifica di una vera e propria irreperibilità, così da qualificare come definitiva l’impossibilità alla ricezione degli atti nel luogo dichiarato o eletto dall’imputato, considerati gli oneri imposti dalla legge a quest’ultimo, ove avvisato della pendenza di un procedimento a suo carico, e segnatamente l’obbligo, ex art. 161, comma 4, c.p.p., di comunicare ogni variazione intervenuta successivamente alla dichiarazione o elezione di domicilio, resa all’avvio della vicenda processuale (Cass., Sez. V, n. 22745/2011, rv. 250408; Cass., Sez. VI, n. 42699/2011, rv. 251367; v. altresì Cass., Sez. Un., n. 28451/2011, rv. 250120). Quanto alla doglianza sollevata da D.S. in ordine al preteso trasferimento, ad altro preposto, della posizione di garanzia ad esso spettante in ragione della qualità di datore di lavoro del prestatore infortunato, è appena il caso di rile- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.129 ⎪ vare come lo stesso imputato abbia integralmente omesso di allegare il ricorso del benché minimo presupposto idoneo a giustificare l’eventuale valido ricorso di tale trasferimento (e segnatamente di uno specifico atto di delega formalmente e sostanzialmente legittimo ed efficace, siccome dotato dei corrispondenti requisiti a tal fine indispensabili), valendo al riguardo il principio generale (consolidato dalla costante giurisprudenza di questa corte di legittimità), in forza del quale, in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento (anche finanziario: v. Cass., Sez. VI, n. 7709/2007, rv. 238526), fermo restando, in ognicaso, l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (Cass., Sez. IV, n. 39158/2013, rv. 256878; Cass., Sez. IV, n. 38425/2006, rv. 235184). Parimenti priva di fondamento deve ritenersi la censura avanzata da D.E. in ordine alla pretesa man- ⎪ P . 1 3 0r e s p o n s a b i l i t à cata acquisizione di alcuna prova in relazione alla circostanza concernente l’assunzione di una specifica posizione di garanzia a suo carico (con riguardo alla vigilanza sulla sicurezza delle condizioni di lavoro nel cantiere de qua), essendo rimasta incontestata l’avvenuta attribuzione allo stesso del duplice ruolo di direttore dei lavori e di capo cantiere. Sul punto, è appena il caso di richiamare, a conferma della correttezza della decisione dei giudici di merito, l’orientamento di questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (Cass., Sez. IV, n. 9491/2013, rv. 254403). Sotto altro profilo, in modo del tutto pertinente la corte territoriale ha fatto riferimento, nel caso di specie, al vigore del principio generale ai sensi del quale, in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano (come nel caso di specie) più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitarle ad ognuno dei titolari di tale posizione (Cass., Sez. IV, n. 18826/2012, rv 253850; Cass., Sez. IV, n. 46849/2011, rv. 252149). Da ultimo, devono essere integralmente disattese le censure avanzate da D.E. in relazione al mancato riconoscimento, in proprio favore, delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., avendo la corte territoriale a tal fine correttamente evidenziato, con motivazione congruamente e logicamente argomentata, l’incidenza ostativa dei diversi precedenti penali dell’imputato (anche per gravi reati) e atteso 1 assoluto difetto di alcuna allegazione di natura argomentativa o probatoria a fondamento dell’asserito ricorso dei presupposti per 1 applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. in questa sede per la prima volta invocata dall’imputato. 4. Al riscontro dell’infondatezza di tutti i motivi di doglianza avanzati dagli imputati segue il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.131 ⎪ SENTENZA CASS. PEN. 7 NOVEMBRE 2013 11 FEBBRAIO 2014 N. 6370 SEZ. III PRES. FIALE REL. MULLIRI RESPONSABILITÀ PENALE - Infortuni sul lavoro - Responsabile servizio manutenzione - Scelte gestionali - Responsabilità - Assenza. D.LGS. 9 APRILE 2008, N. 81, ARTT. 80, 86 E 64 Il responsabile del servizio manutenzione ed il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro. Pertanto non sono colpevoli dei reati in materia di contravvenzione e sicurezza del lavoro ex d.lgs. n. 81/2008. FATTO. 1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato Con la sentenza impugnata, gli odierni ricorrenti sono stati condannati, il L., alla pena di 1.500 E e, l’E., a quella di 2.000 E, di ammenda per avere, nella loro qualità di Dirigente del Settore Manutenzione edifici del Comune di Caivano — competente, tra l’altro, alla effettuazione di manutenzione presso la scuola elementare “Mameli” di Caivano — omesso di provvedere alla manutenzione dell’edificio scolastico in questione, in particolare, degli impianti elettrici nonché di altre specifiche parti dell’edificio (per umidità, tinteggiatura, crepe, segnaletica di sicurezza, apertura delle finestre... ecc. ecc.). Va precisato che la carica amministrativa in ragione della quale gli odier- ⎪ P . 1 3 2r e s p o n s a b i l i t à ni ricorrenti sono stati imputati è stata ricoperta, dal L., a far data dal 10 maggio 2009 e, dall’E., negli anni precedenti. Le accuse scaturiscono da una ispezione — originata da una segnalazione anonima — espletata il 14 maggio 2009. 2. Motivi del ricorso Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso, personalmente, deducendo: L. 1) violazione di legge e vizio di motivazione. Si ricorda, infatti, che quello contestato (artt. 80, 86, 64, d.lgs. n. 81/2008) è un reato “proprio” che, cioè, può essere ascritto esclusivamente al soggetto che assume la qualifica di “datore di lavoro”. Tale figura viene individuata, dall’art. 2, d.lgs. n. 81/2008, nel “dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui ... sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale... e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa ». Orbene, nella specie, è da escludere che il L. fosse in suddetta condizione, soprattutto, perché non possedeva una autonomia gestionale, decisionale e/o di spesa. Il termine “dirigente” del servizio Manutenzione, infatti, non deve trarre in inganno, essendo egli del tutto privo di poteri decisionali e di spesa ovvero di budget o fondi finanziari ai quali attingere. Inoltre, come provato civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore in udienza, mediante attestazione rilasciata dal segretario generale del Comune di Caivano, dal 2 marzo 2004 al 27 ottobre 2009, la qualifica di datore di lavoro era attribuita — in virtù di delibera della giunta comunale del 2 marzo 2004, all’ing. D.A.F. e, sul punto, la sentenza nulla dice. In ogni caso, si ricorda il precedente di questa S.C. in base al quale « il responsabile del servizio manutenzione ed il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro » (Sez. IV, 28 aprile 2011, Miilo, rv. 250709); 2) violazione dell’art. 18, comma 3, d.lgs. n. 81/2008, perché la disposizione in esame precisa che gli obblighi previsti in capo a pubblica amministrazione e p.u. « si intendono assolti da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne abbia l’obbligo giuridico ». Si fa notare che, per l’appunto, il L., sebbene fosse in carica solo da una decina di giorni al momento dell’ispezione, ha — come dimostrato in giudizio — fatto tutto quanto in suo potere per attivare i soggetti competenti ad intervenire; 3) nullità della sentenza per inesegibilità della condotta omessa. Come spiegato anche in giudizio dal ricorrente, i ritardi nell’adempimento delle prescrizioni imposte dagli ispettori non sono ascrivibili al L., bensì, agli altri organi comunali. A tal fine, si ricorda anche altro precedente di legittimità (Sez. III, gennaio 2008, rv. 239279) in base al quale, « l’inottemperanza da parte del contravventore alle prescrizioni di regolarizzazione impartite dall’organo di vigilanza a norma del d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, costituisce una condizione di punibilità. Ne consegue che è onere del giudice accertare se il contravventore abbia omesso di ottemperare alla prescrizione per negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di norme regolamentari ovvero se sia stato impossibilitato a ottemperare per caso fortuito o per forza maggiore ». E. 1) nullità della sentenza per totale estraneità dei ricorrente. Si fa, infatti, notare che, all’E., non risulta essere stata mai mossa alcuna con- testazione. Si ripropongono, quindi, gli stessi argomenti di cui al primo motivo di L.; 2) nullità della sentenza impugnata perché in materia di contravvenzioni alla sicurezza sul lavoro, trovano applicazione le disposizioni in tema di prescrizione ed estinzione del reato la cui applicazione costituisce — secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale — una vera e propria condizione di procedibilità per l’esercizio dell’azione penale. Orbene, nella specie, non essendo mai stata rivolta all’imputato alcuna prescrizione cui ottemperare entro un certo termine, egli era nell’impossibilità di adempiervi. I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata. DIRITTO. 3. Motivi della decisione I ricorsi sono fondati perché tale è il primo motivo, comune ad entrambe le doglianze, ed il suo accoglimento risulta assorbente rispetto ai restanti argomenti difensivi. Ricordandolo in estrema sintesi, la sentenza impugnata fonda il proprio giudizio di responsabilità muovendo dalla premessa che la successione dei soggetti nella carica non ha escluso la responsabilità di alcuno dei due. Inoltre, quanto all’E. — che ha ricoperto il ruolo di dirigente più a lungo — pur prendendo atto delle obiettive e documentate difficoltà finanziarie del Comune invocate dalla difesa dell’imputato, la sentenza conclude che, a fronte di ciò, egli avrebbe dovuto prendere la — impopolare ma necessitata — decisione di chiudere la scuola, visto l’evidente rischio cui erano esposti — soprattutto — gli alunni (causa fili elettrici scoperti e penzolanti fuori). Anche per L., pur riconoscendo la brevità di tempo dell’incarico ricoperto, si evidenzia il ritardo notevole con cui egli ha adempiuto alle prescrizioni impostegli dagli ispettori (ben oltre il termine concessogli). Le argomentazioni predette non sono né convincenti né corrette ed offrono il fianco a molteplici obiezioni quali, ad esempio, per quel che attiene a L., il non avere, la sentenza, minimamente replicato alla obiezione difensiva secondo cui, nel periodo incriminato, dal 2 marzo 2004 al 27 ottobre 2009, in virtù di delibera della giunta comunale del 2 marzo 2004, la qualifica di datore di lavoro era stata attribuita a persona diversa dall’imputato (I’ing. D.A.F.). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.133 ⎪ Quanto, poi, all’E., non è priva di pregio anche l’ulteriore obiezione, contenuta nel suo primo motivo, circa l’assenza, nei suoi confronti, di qualsiasi contestazione visto che, come sottolineato anche dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. III, 11 gennaio 2008, Pirovano, rv. 239279), — dal momento che, in materia antinfortunistica, l’inottemperanza da parte dei contravventore alle prescrizioni di regolarizzazione costituisce una condizione di punibilità — ne consegue che è onere del giudice accertare se il contravventore abbia omesso di ottemperare alla prescrizione per negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di norme regolamentari ovvero se sia stato impossibilitato a ottemperare per caso fortuito o per forza maggiore. Nella specie, difficilmente si può negare che l’E. non ha ottemperato perché mai avvertito, visto che l’8 giugno 2009, quando fu redatto il verbale di prescrizioni, non ricopriva più alcun incarico essendogli subentrato il L. I suddetti rilievi — cui potrebbero sommarsene altri di segno analogo ove si analizzassero anche i motivi successivi al primo — sono tuttavia, superati da quello, assorbente, che, come dimostrato (e non negato neppure nella decisione impugnata), sia il L., che l’E., pur avendo una qualifica “dirigenziale”, erano del tutto sforniti di poteri di spesa. ⎪ P . 1 3 4r e s p o n s a b i l i t à Il vizio della sentenza impugnata risiede nell’avere operato una sorta di equazione tra la posizione apicale ricoperta dagli imputati e la addebitalità ad essi dei mancato approntamento dei lavori di messa in sicurezza e ristrutturazione dell’edificio scolastico “Mameli” di Caivano trascurando, però, di considerare se, a tale posizione corrispondesse o meno anche una effettiva disponibilità di risorse finanziarie. Come giustamente ricordato dai ricorrenti, questa S.C. (Sez. IV, 28 aprile 2011, Miao, n. 23292, rv. 250709) ha già avuto modo di sottolineare, sia pure con riferimento ad imprese di grandi dimensioni, che il soggetto responsabile per la mancata adozione di misure di sicurezza non può essere individuato, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice. Occorre, infatti, un accertamento puntuale, ed in concreto, circa la effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità, all’interno dell’apparato strutturale, onde non incorrere nel rischio di ascrivere all’organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri che abbiano anche piena ed esclusiva autonomia di spesa. Di qui, il principio enunciato nel precedente civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore giurisprudenziale — citato dal ricorrente L. — cui questo Collegio ritiene di allinearsi, secondo cui, in tema di posizioni di garanzia in materia antinfortunistica, « il responsabile del servizio manutenzione ed il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro ». Nel caso che occupa, è la stessa decisione impugnata a dare atto delle ampie prove fornite dagli imputati per dimostrare la impossibilità di fronteggiare il problema per la disastrosa situazione economica del Comune di Caivano e per non avere, essi, mai avuto a disposizione somme di denaro assegnate a titolo di piano economico di gestione. Tanto è valido l’argomento che il provvedimento impugnato lo supera in modo incongruo ascrivendo agli imputati la mancata adozione di una misura (la chiusura dell’istituto scolastico) che, di certo, non rientrava nelle loro competenze, bensì, di quelle del preside e che, comunque, a tutto concedere, rappresenta contestazione di una condotta ulteriore e diversa rispetto a quelle per le quali gli imputati sono stati rinviati a giudizio e giudicati. Come anticipato, si impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto contestato non è ascrivibile agli imputati. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.135 ⎪ SENTENZA CASS. PEN. 19 SETTEMBRE 2013 25 FEBBRAIO 2014 N. 9194 SEZ. IV PRES. BRUSCO REL. CIAMPI RESPONSABILITÀ PENALE - Medici chirurghi - Lesioni colpose - Conoscenza delle conseguenze delle lesioni - Consapevolezza. C.P. ART. 590 Non è possibile, nel caso di lesioni colpose astrattamente riconducibili a responsabilità medica, che la mera conoscenza delle conseguenze subite in esito al trattamento terapeutico costituisca consapevolezza dell’esistenza del reato perché difetta ancora, nella persona offesa, la consapevolezza della circostanza che il medico ha violato le regole dell’arte medica cagionando le lesioni. FATTO. 1. Con sentenza in data 14 giugno 2012 la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Monza dei 20 settembre 2011, appellata da M. S., dichiarava non doversi procedere nei confronti dello stesso perché l’azione penale non poteva essere iniziata per tardività della querela. 2. Il M., in qualità di medico curante del minore R.C., nato il 18 luglio 2003, era stato tratto a giudizio per il reato di lesioni colpose in danno del medesimo in relazione alla ritardata diagnosi di sordità. La Corte territoriale in particolare riteneva che la querela presentata dai genitori dei minore in data 29 ottobre 2007 era da ritenersi tardiva in quanto i medesimi erano venuti a piena conoscenza del difetto genetico del loro figlio sin dal giugno-luglio dei 2006. 3. Avverso tale deci- ⎪ P . 1 3 6r e s p o n s a b i l i t à sione propone ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Milano. Il PG lamenta la violazione dell’art. 124 c.p. e la manifesta illogicità della motivazione. DIRITTO. 4. Il ricorso è fondato e deve conseguentemente essere accolto. Va anzitutto premesso che l’accertamento svolto dal giudice di merito sulla tempestività, o tardività, della querela involge anche un accertamento di fatto che, se condotto con corretti criteri logico giuridici, si sottrae al controllo di legittimità. Nel caso in esame l’accertamento di fatto condotto dal giudice di merito non è posto in discussione; con il ricorso si contesta invece la correttezza dei criteri utilizzati dal giudice di merito per individuare il momento iniziale del decorso del termine per la proposizione della querela che, per giurisprudenza costante, coincide con quello in cui il titolare del diritto di querela viene a completa conoscenza del fatto reato nei suoi elementi costitutivi di natura oggettiva e soggettiva. Questa conoscenza non può essere limitata, come sostanzialmente ritiene la sentenza impugnata, alla sola consapevolezza dell’esistenza di conseguenze della patologia che ha riguardato la persona ma deve quanto meno estendersi alla possibilità che, su questa patologia, abbiano influito errori dia- civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore gnostici o terapeutici dei medici che hanno seguito il caso. Diversamente difetterebbe la consapevolezza dell’astratta esistenza di un’ipotesi di reato che non si realizza solo con il verificarsi di un evento materiale ma richiede che la persona offesa abbia coscienza, sia pure sommaria, della violazione di regole cautelari nel trattamento della patologia e dell’influenza causale di questa violazione sull’evento dannoso verificatosi. In questo senso va interpreta la giurisprudenza di legittimità (compresa quella richiamata nella sentenza impugnata) dalla quale si evince che il termine inizia a decorrere quando la persona offesa abbia la piena cognizione di tutti gli elementi di natura oggettiva e soggettiva che consentono la valutazione dell’esistenza del reato (v. in questo senso, Cass., Sez. IV, 7 aprile 2010, n. 17592 del 7 aprile 2010, rv. 247096; Cass., Sez. IV, 30 gennaio 2008, n. 13938; Cass., Sez. III, 19 dicembre 2005, n. 3943, Decurione, rv. 233483; Sez. V, 19 dicembre 2005, n. 5944, Ambrogio, rv. 233846; 6 febbraio 2003, n. 11781, Blangero, rv. 223909; Sez. II, 24 luglio 2002, n. 29923, Battistuzzi, rv. 222083; Sez. V, 20 gennaio 2000, n. 3315, Prando, rv. 215580). Orbene non è possibile, nel caso di lesioni colpose astrattamente riconducibili a responsabilità medica, che la mera conoscenza delle conseguenze subite in esito al trattamento terapeutico costituisca consapevolezza dell’esistenza del reato perché difetta ancora, nella persona offesa, la consapevolezza della circostanza che il medico ha violato le regole dell’arte medica cagionando le lesioni. Nel caso in esame la Corte territoriale si è limitata all’accertamento della consapevolezza dell’esistenza degli esiti della malattia senza indagare funditus se i querelanti fossero a conoscenza degli errori diagnostici e terapeutici ipotizzati e senza verificare se questa conoscenza sia intervenuta solo dopo l’espletamento della consulenza medico legale di parte. 5. Consegue alle considerazioni svolte l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata alla Corte d’appello di Milano (per nuovo esame) cui è rimesso anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.137 ⎪ SENTENZA CASS. PEN. 12 FEBBRAIO 2014 27 FEBBRAIO 2014 N. 9695 SEZ. IV PRES. BRUSCO REL. IANNELLO RESPONSABILITÀ PENALE - Nesso causale - Accertamento dell’elemento costitutivo del reato - Elevato grado di credibilità razionale. C.P. ART. 40 Il giudizio di alta probabilità logica non definisce il nesso causale in sé e per sé, ma piuttosto il criterio con il quale procedere all’accertamento probatorio di tale nesso, il quale, diversamente da quanto accade per l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto, dotato di un elevato grado di credibilità razionale. FATTO. 1. Con sentenza del 18 ottobre 2012 la Corte d’Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva, per insussistenza del fatto, S.A. dal delitto p. e p. dagli artt. 590, commi 1 e 2, e 583, comma 2 n. 1, c.p., a lui ascritto per aver cagionato, per colpa medica consistita nella esecuzione di inappropriata manovra (c.d. manovra di Kristeller) sulla paziente C.F. durante il parto, il distacco intempestivo della placenta e le conseguenti gravissime lesioni riportate dal bambino: fatto avvenuto in **. Premetteva la Corte doversi dare per acquisito, sulla scorta dell’istruttoria espletata nel giudizio di primo grado, che: - le lesioni gravissime riportate dal bambino sono state direttamente causate ⎪ P . 1 3 8r e s p o n s a b i l i t à da un distacco intempestivo di placenta; - l’imputato ha effettivamente eseguito durante il parto la manovra suddetta, ha cioè esercitato una o più spinte sull’addome della partoriente con la mano prima e poi con il braccio sebbene non risultasse che la testa del bambino avesse già impegnato il canale del parto, e dunque in un momento in cui quella manovra non era consigliabile; - la partoriente non presentava alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura medica come possibile causa, in alternativa ad eventi di natura traumatica, del distacco di placenta. Ciò premesso i giudici d’appello osservavano tuttavia che tale ultima circostanza “determina che la probabilità che si verifichi un distacco intempestivo di placenta si attesta intorno allo 0,5%” e che pertanto “non potendo stabilirsi con un grado di certezza ma soltanto con un elevato grado di probabilità logica che, in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato, non può affermarsi al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato per il reato oggetto di contestazione”. Pervenivano pertanto alla pronuncia assolutoria per la ritenuta mancanza di prova certa di un nesso di causalità tra la condotta civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore dell’imputato e le lesioni personali gravissime riportate dal bambino. 2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione le parti civili, deducendo violazione di legge e mancanza e contraddittorietà della motivazione. Deducono in sintesi che, con motivazione erronea e contraddittoria, la Corte d’Appello, pur avendo dato atto della mancanza nel caso concreto di ipotizzabili fattori causali alternativi associati al parto (quali ipertensione in gravidanza, pluriparità, pregresso parto cesareo, rottura prematura della membrana, trombofilia congenita o acquisita, etc.), ha omesso di individuare la condotta dell’imputato (ossia la pur accertata esecuzione di manovra di Kristeller) quale unico possibile antecedente causale dell’evento lesivo. Rilevano che, a giustificazione del proprio convincimento sul punto, i giudici hanno fatto uso di una erronea nozione di nesso causale, contrastante con quella ormai acquisita in dottrina e giurisprudenza, in particolare a seguito della sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002. DIRITTO. 3. Il ricorso si appalesa fondato e merita accoglimento nei sensi di cui in dispositivo. Emerge evidente dai passaggi della motivazione sopra riportati l’errore concettuale in cui incorre la corte di merito e la conseguente contraddizione in termini rappresentata dall’esclusione del nesso causale che in realtà — proprio in forza degli elementi fattuali dati per certi nella stessa sentenza e dell’elevata probabilità logica assegnata al ragionamento che da essi per via induttiva consentiva di risalire alla spiegazione causale ipotizzata — risultava già implicitamente accertato. È la stessa Corte d’Appello invero a evidenziare, peraltro del tutto correttamente alla stregua delle emergenze processuali di cui si da conto in motivazione, che i fatti accertati consentono di stabilire “con un elevato grado di probabilità logica” che “in difetto di esercizio della pressione sull’addome della partoriente da parte dell’imputato, il distacco di placenta non si sarebbe verificato”. Ebbene la Corte non si è avveduta che proprio tale rilievo in sé implica l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento richiesto, ai sensi dell’art. 40 c.p., per l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, di tal che la successiva considerazione contenuta in sentenza secondo cui, su tali premesse, a tale affermazione non è possibile pervenire (nella pur certa sussistenza dell’elemento soggettivo: colpa medica ravvisabile nella esecuzione della descritta manovra in mancanza delle condizioni che soltanto l’avrebbero consentita), rappresenta nient’altro che una contraddizione in termini. 3.1. In proposito, è il caso di rammentare che, secondo i principi affermati nella sentenza Franzese (Sez. Un., n. 30328 del 10 luglio 2002, rv. 222138), al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre un duplice controllo: posta in premessa una spiegazione causale dell’evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto, occorre successivamente verificare, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, l’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata. Bisogna cioè verificare — sulla base delle evidenze processuali — che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa omessa o al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell’evento, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non si sarebbe verificato, oppure sarebbe avvenuto molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore intensità lesiva. Appare chiaro pertanto che il giudizio di elevata probabilità logica non definisce il nesso causale in sé e per sé (che, sul piano sostanziale, resta invero legato alla rigorosa nozione dettata dalla teoria condizionalistica recepita nel nostro ordinamento dall’art. 40 c.p., sia pur temperata dai correttivi della c.d. causalità umana) ma piuttosto il criterio con il quale procedere all’accertamento probatorio di tale nesso causale, il quale (criterio), non diversamente da quanto accade per l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto (positivo o negativo che sia) dotato di un elevato grado di credibilità razionale. Per dirla secondo efficace definizione dottrinale “la probabilità logica alla quale è interes- responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.139 ⎪ sato il giudice non è quella del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione del caso, bensì attiene ai profili inferenziali della verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè alla luce delle emergenze del caso concreto”. Per converso, e in ciò sta probabilmente l’equivoco in cui è incorsa la Corte territoriale, ai fini della prova giudiziaria della causalità, decisivo non è il coefficiente percentuale più o meno elevato (vicino a 100 o a 90 o a 50, etc.) di probabilità frequentistica desumibile dalla legge di copertura utilizzata; ciò che conta è potere ragionevolmente confidare nel fatto che la legge statistica in questione trovi applicazione anche nel caso concreto oggetto di giudizio, stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi, di tal che, in presenza di un elevato grado di credibilità razionale dell’ipotesi privilegiata, ben può ritenersi consentito per la spiegazione causale dell’evento fare impiego di leggi o criteri probabilistico — statistici con coefficienti percentuali anche medio — bassi; per contro, ove la valutazione degli elementi di prova acquisiti non consentano di assegnare — ad es. per l’impossibilità di escludere ragionevolmente nel caso concreto l’intervento di fattori causali diversi — un elevato grado di credibilità razionale alla spiegazione causale ipotizzata, quest’ultima non può ⎪ P . 1 4 0r e s p o n s a b i l i t à essere affermata anche se riconducibile a leggi di copertura dotate di frequenza statistica tendenzialmente pari a 100. L’errore della corte territoriale sta dunque nell’aver presupposto che il criterio di elevata probabilità logica, nel quale si sostanza il ragionamento induttivo inferenziale circa la sussistenza del nesso causale (e l’esclusione di altri ipotizzagli fattori) possa o debba esprimersi in termini percentuali e, correlativamente, l’aver riferito ad esso, intendendolo come fattore che osta alla credibilità razionale del risultato cui esso conduce, la percentuale di frequenza statistica assegnata ad altri fattori in astratto ipotizzabili (nel caso concreto la percentuale dello 0,5% che, in mancanza di alcuno dei fattori di rischio individuati dalla letteratura come possibile causa del distacco di placenta, quest’ultimo possa nondimeno verificarsi per cause naturali). Ed invece, come è stato affermato in dottrina, la probabilità logica “ha come carattere fondamentale (quello) di non ricercare la determinazione quantitativa delle frequenze relative di classi di eventi, ma di razionalizzare l’incertezza relativa all’ipotesi su un fatto riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (o di prova) disponibili in relazione a quell’ipotesi”. La probabilità logica, dunque, come criterio di civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore giudizio per la ricostruzione del fatto nel caso concreto, è un concetto che non designa una frequenza statistica, ma piuttosto “un rapporto di conferma tra un’ipotesi e gli elementi che ne fondano l’attendibilità”. Né può essere diversamente, posto che — come è stato sottolineato — mentre le leggi di copertura riguardano classi di dati, la certezza processuale richiesta si riferisce al caso concreto. Mentre dunque è spesso possibile disporre di un risultato statistico per la legge di copertura che si ritiene governare il fenomeno, è quasi sempre impossibile riferire questo dato al caso concreto da accertare perché la sua non riproducibilità ne fa un evento unico che non tollera inquadramenti statistici su base percentuale. Insomma le percentuali statistiche possono valere a delimitare l’ambito di applicazione della legge scientifica e possono essere utili come punto di partenza per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso concreto. Avendo peraltro esse un’efficacia esclusivamente prognostica, porle a base o a contenuto del ragionamento probatorio circa la sussistenza del nesso causale nel caso concreto rischia di trasformare tale giudizio in una valutazione ex ante, mentre la causalità va sempre accertata ex post con riferimento all’evento concretamente verificatosi. Con riferimento invece al grado di inferenza probatoria richiesto a supporto del giudizio di fatto sulla spiegazione causale nel caso concreto “non è sensato cristallizzare in precise entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare... considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle premesse del ragionamento causale”. Su tale piano probatorio-processuale “può solo richiedersi che il grado di conferma sia alto, o elevato”, senza che in ciò possa vedersi un vulnus del principio di legalità, “dovendo la stessa determinatezza delle fattispecie essere interpretata in rapporto al problema concreto da risolvere”. Del resto, non è fuor di luogo rammentare che non ad altro può tendere un giudizio di verità o certezza processuale, restando invece fuori delle possibilità dell’esperienza umana — che è pur sempre una esperienza storica e rela- tiva — l’obiettivo della certezza assoluta o verità materiale. In proposito avvertiva oltre cinquant’anni fa autorevole dottrina che “la pretesa di conseguire una verità totale o assoluta... è fuori delle reali e concrete possibilità umane e può essere concepita o come realtà divina, oppure come estremo limite tendenziale, astratta creazione dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico). La verità alla quale l’uomo può aspirare e della quale vive, come verità umana, appunto, è di necessità parziale e (o) relativa, concretamente (storicamente) condizionata ed implica limitazioni e scelte, compiute più o meno coscientemente. E dentro tale limite si mantiene sia che si tratti di verità scientifica, empirica o storica”. Conseguentemente “nel campo dell’esperienza giuridica... non ha senso una verità che stia fuori dalle istituzioni giuridiche che la storia umana ha foggiate, e se codesta verità si qualifica giuridica, per essere collegata al tipo di esperienza a cui va riferita, non vuoi dire che si tratti di una (finta) verità, rispetto ad una (astratta) verità (vera), bensì dell’unica verità che si può (e si deve) aspirare a realizzare in quel campo di esperienza. Sulla base di queste considerazioni, è lecito affermare che i limiti posti all’indagine del giudice si traducono in metodi di ricerca (della verità), in altrettanti canoni e precetti tecnici di metodologia ermeneutica...”. 3.2. Alla luce delle considerazioni che precedono appare pertanto evidente come nella specie null’altro o nulla di più poteva pretendersi, per giungere alla conferma, con elevato grado di credibilità razionale, dell’ipotesi causale prospettata nel capo d’imputazione, se non proprio quel giudizio di elevata probabilità logica che la Corte d’appello ha chiaramente espresso e che pertanto di per sé ben poteva portare, a conferma peraltro della sentenza di primo grado, all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato. Né può dubitarsi che tale giudizio di elevato grado di probabilità logica non sia correttamente e coerentemente formato sulla base delle evidenze probatorie che la stessa Corte d’Appello pur non manca di evidenziare, quale in particolare: a) l’accertata genesi ipossica della encefalopatia neonatale che ha colpito il piccolo nato nelle condizioni descritte; responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.141 ⎪ b) l’accertata errata adozione di manovra ostetrica (manovra di Kristeller) in condizioni che non la consentivano, nel senso appunto di renderla estremamente pericolosa per il bambino (in ciò come detto dovendosi ravvisare in dubbio profilo di colpa medica consistita nella grave inosservanza di protocollo medico); c) l’accertata mancanza di altri ipotizzabili fattori causali, associati alla gravidanza o al parto. In tale contesto, essendo l’unico antecedente accertato dell’evento dannoso l’esecuzione della detta errata manovra ostetrica, in presenza di una legge di copertura che certamente la indica come idonea a cagionare l’evento in forza di una elevata probabilità statistica, una volta accertata la mancanza nel caso concreto di altri fattori causali noti nella letteratura e ragionevolmente ipotizzabili, congruo e logicamente persuasivo (ossia, per l’appunto, dotato di elevata probabilità logica) è il ragionamento che coordinando tali evidenze e rapportandole alla detta legge di copertura conduce al risultato dell’affermazione (della prova) della responsabilità penale dell’imputato: risultato al quale dunque si addice in tali condizioni il giudizio di elevato grado di credibilità razionale. Il fatto che la letteratura scientifica dia conto dell’esistenza di una percentuale dello 0,5% di casi in ⎪ P . 1 4 2r e s p o n s a b i l i t à cui il distacco di placenta si riscontri per cause naturali non meglio precisate, distinte dei fattori associati prima indicati (ed esclusi nel caso concreto), non assume rilievo sul piano del ragionamento probatorio e, dunque, della elevata probabilità logica (la quale resterebbe tale anche se mancasse tale dato statistico), ma semmai sul piano della valutazione della validità scientifica della legge indicata a copertura della ipotizzata spiegazione causale. Appare evidente tuttavia che trattasi di un dato pressoché insignificante e certamente inidoneo a revocare in dubbio la teoria scientifica della spiegazione causale ipotizzata nella specie: ossia quella secondo cui l’evento dannoso sia da ricondurre causalmente alla errata manovra ostetrica, tanto più che non viene nemmeno precisato se il dato statistico (dello 0,5%) riferito a cause non meglio precisate si riferisca anche ad ipotesi in cui risultava eseguita la detta manovra ostetrica. 3.3. Fuori luogo è al riguardo il richiamo al principio dell’oltre il ragionevole dubbio. Questo infatti segna il limite del ragionamento probatorio, non il requisito di validità della legge scientifica di copertura. Rappresenta nient’altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale con cui il giudice ricollega, sulla civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore base delle prove raccolte, il fatto concreto alla ipotizzata spiegazione causale. Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica ed in grado pertanto di supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l’evento possa essere stato determinato da una causa diversa. Invocare pertanto il principio dell’oltre il ragionevole dubbio per determinare la validità della legge di copertura, significa confondere il piano processuale con quello sostanziale.Né ad una diversa conclusione sul punto può indurre la modifica introdotta dall’art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell’art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio”. Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, tale novella non ha avuto sul punto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell’imputato. La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l’impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso, tra le ultime pronunce, Sez. V, n. 10411 del 28 gennaio 2013, Viola, rv. 254579, la quale ha precisato, in senso evidentemente conforme all’impostazione sopra accolta, che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità; cfr. anche in tal senso Sez. 1, n. 41110 del 24 ottobre 2011, Javad, rv. 251507). 4. In accoglimento del ricorso, deve pertanto pervenirsi all’annullamento della sentenza impugnata. Trattandosi tuttavia di ricorso della sola parte civile e quindi di controversia di natura esclusivamente risarcitoria, si impone il rinvio degli atti al competente giudice civile, ai sensi dell’art. 622 c.p.p. (Omissis). responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.143 ⎪
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