5. TOBIA (11 Marzo 2014)

Diocesi di Tortona
CORSO BIBLICO
— Anno pastorale 2013-2014 —
Figure bibliche di speranza e carità
Uomini e donne
che hanno camminato con il Signore
Temi di Teologia Biblica trattati da don Claudio Doglio
e trascritti dalla registrazione da Riccardo Becchi
5. TOBIA (11 Marzo 2014)
Molte sono le prove dei giusti, ma il Signore guarisce!
Tobia: un cammino di trasformazione nella speranza
«Molte sono le prove dei giusti, ma da tutte li libera il Signore» (Sal 33,20). Così recita un salmo affermando la provvidenza di
Dio nonostante le prove dei giusti. La situazione dell’umanità è spesso caratterizzata da dolori e sofferenze; i giusti non
vengono risparmiati da queste sofferenze, non basta infatti un impegno di carità per essere al sicuro delle disgrazie.
Dio ascolta la voce del fedele disperato
La storia che vogliamo rivivere questa sera è la vicenda di due famiglie segnate dalla carità e dalla disperazione. Dalla carità
perché sono due famiglie che vivono l’amore, l’amore del prossimo come servizio dei poveri e l’amore come realtà coniugale e
tuttavia queste famiglie sono gravemente provate, perché la situazione della loro esistenza è segnata da drammi che fanno
perdere la speranza.
Due personaggi – Tobi e Sara – sono persone disperate, non hanno più speranza nonostante abbiano fatto del bene, siano
persone buone, inserite in buone famiglie. Non si aspettano più niente dalla vita e tuttavia il Signore le soccorre e interviene al
di là delle loro speranze, non ascolta la loro preghiera, ma la esaudisce al di là di ogni desiderio e di ogni merito. Il Signore non
fa quello che gli hanno chiesto, ma fa molto di più, fa quello che non speravano potesse succedere, quel che nemmeno
immaginavano. È la storia raccontata dal Libro di Tobia che porta fin dal nome di questo personaggio il segno teologico della
bontà di Dio. Tôb in ebraico vuol dire buono, “Ya” è la forma abbreviata del nome proprio del Signore Yahweh, quindi Tôb-Ya
vuole dire: “Il Signore è buono” e lo dimostra concretamente nella serie delle vicende umane. Tobia è il protagonista che dà il
titolo al Libro, ma è insieme a Tobi, suo padre, e a Sara, sua futura moglie; loro sono personaggi disperati, lui senza saperlo
crea la soluzione per entrambi e la strada per risolvere questi drammatici problemi è un viaggio, un cammino, un cammino di
uscita da sé.
Il simbolo biblico del viaggio
Il viaggio è un altro tema molto caro alla tradizione biblica. La storia di Israele comincia con la chiamata di Abramo, una
chiamata a mettersi in moto, a uscire dal proprio ambiente e andare verso una terra che il Signore conosce, ma Abramo no.
Il coraggio di Abramo che si mette in cammino è la possibilità di realizzare una storia. Così anche Mosè guida un cammino;
lui, ottantenne, ormai desideroso solo della pensione, deve invece cominciare un cammino per guidare il popolo in un viaggio
che non conosce, verso una terra in cui non è mai stato. Così succede anche a Rut, l’Abramo al femminile: è una donna che ha
il coraggio di lasciare la terra, la patria, la casa di suo padre, per andare nella terra del Signore. È quel viaggio che Giona non
vuole fare o fa al contrario perché vuole quello che vuole lui, agisce di testa propria e fallisce.
Il tema del viaggio è molto frequente anche nella narrativa laica, mondiale, perché è un tema affascinante, è il motivo
dell’uomo che esce dal proprio ambiente chiuso per aprirsi al mondo e agli incontri.
La storia di Tobia è un viaggio per ricuperare un tesoro, è la storia di un viaggio e di un ritorno; l’obiettivo è ricuperare un
patrimonio immenso.
Sembra che sia solo una questione economica, sembra che il protagonista faccia questo viaggio per interesse, invece è solo
il movente della storia; dietro c’è molto di più, c’è altro, è un viaggio alla ricerca del vero tesoro che non è quel patrimonio
economico depositato presso Gabaèl a Rage di Media.
Il patrimonio vero è il matrimonio, un gioco di parole, è la scoperta della sposa, è l’incontro con quella ragazza disperata
che recupera speranza e motivo di vita. Tobia ha trovato quel che non cercava, ha ricuperato quel che era andato a cercare, ha
trovato molto di più e ha potuto salvare suo padre. Il ritorno garantisce la salvezza del vecchio Tobi, ma… andiamo per ordine,
ricostruiamo la vicenda che cerco di raccontarvi per sommi capi, lasciandovi come sempre l’incarico e l’impegno di andare a
rileggere il testo biblico.
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A maggior ragione in tempo di Quaresima è un impegno importante quello di ascoltare in modo più abbondante la Parola di
Dio, attivare la preghiera con le orecchie, una preghiera di ascolto, di meditazione, per comprendere meglio che cosa il Signore
ci chiede di fare. Attraverso queste conoscenze qualche parola arriva anche per noi e tocca sul vivo la nostra esistenza.
Tobi, un esempio di fede convinta e vissuta
Dunque, Tobi era un ebreo deportato nell’ambiente assiro, una persona molto osservante. Fin dall’infanzia, dalla giovinezza,
egli è stato fedele alla tradizione del tempio di Gerusalemme e sebbene abitasse nelle regioni del nord dove la popolazione si
era separata da Gerusalemme e andava abitualmente nei santuari eretici – noi diremmo – fatti costruire da Geroboamo dove si
adorava con il nome di Yahweh il vitello d’oro, Tobi non voleva andare a quei santuari, ma solo, controcorrente, facendosi
deridere da quelli del suo ambiente, andava a Gerusalemme, coerente e fedele. Fu tuttavia deportato come tutti gli altri.
Quando gli assiri occuparono la regione della Galilea dove abitava, lui con tutti gli altri fu deportato e venne a trovarsi in
Ninive, la grande capitale assira, quella stessa città a cui è mandato Giona. Tobi si inserisce a vivere in una città pagana, fa
parte di una piccola minoranza emarginata e disprezzata, non gode di nessun favore, di nessun aiuto particolare, non è aiutato
dall’ambiente circostante a coltivare la sua fede. È quindi un uomo coerente, convinto, fedele, resistente, che continua a
coltivare la propria fede nonostante tutto. Ha perso la patria, non ha perso la fede; all’estero si inserisce nella vita sociale e
mette a disposizione le sue capacità, riesce anche a fare carriera, diventa un buon amministratore, diventa un funzionario della
corte assira, viene anche mandato in missioni all’estero dove accumula un patrimonio considerevole che lascia però presso un
parente, un ricco banchiere a Rage di Media: dieci talenti d’argento.
I talenti non sono monete, è una unità di peso; il talento corrisponde a un quintale, quindi un talento è un quintale di monete
d’argento e dieci talenti sono una tonnellata e non si portano in tasca. È pertanto un patrimonio considerevole, voluminoso e
non si può fare un assegno. L’antichità non aveva questi mezzi per cui il trasporto del patrimonio in momenti difficili si rese
impossibile e Tobi dovette lasciare questo tesoro in custodia a un banchiere. Le vie della Media si erano interrotte, problemi
politici internazionali avevano interrotto le comunicazioni; Tobi si ritira a Ninive e tutto quello che aveva guadagnato rimane
dall’altra parte del mondo. Ha perso i soldi, ma non ha perso la fede e continua nella sua religiosità autentica e intensa.
Tobi si impegna al servizio di persone in difficoltà, aiuta quelli che stanno peggio di lui e in particolare ha il desiderio di
dare onorata sepoltura a cadaveri abbandonati per strada.
Una cosa che per noi sembra quasi inimmaginabile era invece una triste realtà del mondo antico. Soprattutto in caso di
violenza da parte dei soldati, le persone che venivano uccise erano abbandonate per strada con la proibizione di seppellirle: che
restassero come esempio deterrente per altri.
Quando capitava che qualche ebreo fosse ucciso e buttato per strada, a proprio rischio e pericolo Tobi si impegnava a
portare via il cadavere, onorarlo con la sepoltura, facendo anche i riti e le preghiere. Parenti e conoscenti lo rimproverano, gli
altri lo deridono. Qualcuno gli dice: rischi, ma non vale la pena; altri gli dicono: sei uno stupido a fare queste cose. Tobi è
uomo di fede e nulla lo fa crollare, rischia e si impegna nella carità.
Un’opera di carità … non premiata
Un giorno, mentre si preparava per la celebrazione di una festa, organizza il pranzo e manda una buona porzione di cibo a
una povera donna vedova che abitava lì vicino, proprio per aiutare quella famigliola povera a far festa, condividendo quello
che sulla sua tavola era imbandito. Tornando il figlio gli reca la brutta notizia che per strada c’è un pover’uomo ammazzato e
abbandonato. Tobi si alza, non consuma il pasto, esce e – come ha già fatto altre volte – provvede alla sepoltura di quel
pover’uomo.
Secondo le regole giudaiche toccare un cadavere è però contaminante per cui quella festa per lui è andata in fumo, non
mangia il pranzo e non entra nemmeno in casa; si purifica e passa la notte all’aperto proprio per lasciare passare le ventiquattro
ore e non contaminare l’ambiente domestico. Questo pio ebreo è quindi mosso sempre da desideri buoni, da impegno religioso,
fa le cose bene, le fa con cuore, con disponibilità, a rischio della propria vita; si impegna nella carità come servizio e si
impegna nel rispetto delle regole. Non fa solo una cosa, ma riesce a essere coerente sui diversi fronti.
Quella notte, mentre dorme all’aperto sotto un muro di cinta, avviene la disgrazia: il guano dei passeri, che avevano fatto il
nido nel muro, cade sui suoi occhi, lo sterco degli uccelli corrode gli occhi e nonostante siano intervenuti dei medici alla fine
Tobi perde la vista. È una disgrazia e questo lo demoralizza. Lo demoralizza proprio perché è capitato nella piena osservanza
della legge. Lui non ha dormito all’aperto perché faceva caldo in casa, perché voleva divertirsi, ma perché aveva fatto un’opera
buona, perché aveva osservato la legge e – come ricompensa di tutto questo impegno – alla fine della sua vita una disgrazia del
genere lo ha umiliato, gli ha fatto perdere la speranza.
La situazione economica della famiglia peggiora, la moglie Anna deve andare a guadagnare qualcosa. Anziana anche lei,
deve diventare donna di servizio con qualche ora di lavoro in case ricche per guadagnare qualche soldo e mandare avanti la
propria famiglia.
Un giorno il vecchio Tobi sente belare un capretto; l’hanno regalato dei signori ad Anna, ma lui teme che lei l’abbia rubato.
È un po’ ossessionato dalla osservanza religiosa, ha paura che la moglie faccia peccato e continua a insistere: ma siamo sicuri
che non lo hai rubato, ma guarda che lo avrai rubato. La moglie perde la pazienza e gli dice: “Ma guarda come sei ridotto, con
tutto il bene che hai fatto!”.
Questa parola amara della moglie lo distrugge, è il colpo di grazia; quell’uomo che sembrava una roccia adesso è in
frantumi e chiede al Signore di morire. Ecco la situazione tragica di uno che non ha più speranza, non si aspetta più nulla dalla
vita. Tobi nella sua preghiera dice: “Signore, agisci pure come meglio ti pare, però dà ordine che venga presa la mia vita, in
modo che io sia tolto dalla terra e divenga terra, perché per me è preferibile la morte alla vita”.
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Un racconto didattico-sapienziale
Il Libro di Tobia è un testo sapienziale, scritto in epoca tardiva; non è conservato in ebraico, ma solo in greco per cui la
tradizione ebraica non lo considera canonico, ma lo hanno considerato canonico gli ebrei greci di Alessandria d’Egitto e
attraverso la loro tradizione noi cristiani lo abbiamo accolto come libro ispirato. È tuttavia un libro nato nell’ambiente giudaico
come testo formativo, è un racconto edificante nel senso che cerca di edificare le persone che lo ascoltano, vuole trasmettere
degli insegnamenti teologici.
Il Libro di Tobia è opera di uno scriba sapiente di epoca tardiva che ha letto molti libri biblici e capita che faccia riferimenti
a diversi altri libri. Ad esempio la situazione della moglie che rimprovera Tobi allude alla vicenda di Giobbe; un po’ come
Giobbe anche Tobi è stato colpito sebbene fosse buono e onesto e come era capitato a Giobbe anche Tobi sente l’amarezza
delle parole stolte della moglie che lo umiliano.
Il riferimento a Giona lo ritroviamo in questa frase in cui Tobi dice: per me è meglio morire che vivere. Là, nella storia di
Giona, era un profeta testardo e ribelle che chiedeva la morte per uscire fuori da quello schema che non gli piaceva; qui è
l’uomo veramente affranto che desidera davvero porre fine all’esistenza, ma lo chiede al Signore, chiede una grazia: di morire
presto.
Un’altra vicenda di disperazione
Contemporaneamente alla dolorosa situazione di Tobi ne viene narrata un’altra ugualmente dolorosa in una città molto
lontana, Ecbàtana, una delle capitali dell’impero persiano, molto più a oriente. Tanto per collocare geograficamente la scena,
Ninive si trova nel nord dell’attuale Iraq, nella zona di Mossul, invece Ecbàtana si trova nella parte meridionale a est dell’Iran
e Rage di Media si trova sempre in Iran, ma nella parte settentrionale. Siamo quindi nel medio oriente, in ambienti stranieri,
lontani, dove vivono piccoli gruppi di ebrei a distanze enormi tra loro.
Anche la storia di Sara è la storia di una famiglia ebraica deportata che si trova a vivere in mezzo ai pagani. La vicenda di
Sara è strana, è una ragazza che è stata data in moglie a sette mariti, ma uno dopo l’altro sono morti nella prima notte di
matrimonio e il narratore spiega da subito il problema; lo spiega con un modo particolare che ha il tono del simbolo. È un
problema demoniaco, c’è il cattivo demone Asmodeo che in qualche modo è geloso di questa ragazza e non permette che
nessuno le si accosti. Quando un uomo tenta di avvicinarsi questo demone lo uccide.
Non possiamo prendere alla lettera questo testo, non possiamo nemmeno spiegarlo con criteri razionalistici, dobbiamo
invece imparare a capire che si tratta di un modo particolare di raccontare dei problemi. C’è un problema di chiusura; la
situazione in cui si trova Sara è un problema di iniziazione al matrimonio e di chiusura che impedisce la realizzazione di una
vita affettiva autentica. Diventa però una tragedia per la famiglia.
Il colpo di grazia viene dato da una serva che, rimproverata da Sara, le si rivolta contro e le dice: “Sei tu che ammazzi i tuoi
mariti, vuoi ammazzare anche me come hai ammazzato loro?”. Lei, sapendo di essere innocente, si sente profondamente
amareggiata, talmente disperata che medita il suicidio. È uno dei rari casi in cui nella Bibbia si parla di questo argomento
doloroso. Sara progetta di impiccarsi, sale nella stanza superiore e fa i suoi calcoli per porre fine a una vita dolorosa, però,
ragionando, comprende che quello che istintivamente le è venuto in testa è una idea folle e sbagliata. È l’affetto per il padre
che la trattiene, perché si rende conto che un gesto del genere aggiungerebbe ulteriore dolore alla sofferenza di quell’uomo.
Rinuncia quindi a fare gesti insani, però anche lei chiede al Signore: “La mia vita non ha più senso, per me è meglio morire che
vivere”. Anche lei chiede di poter morire. In quel medesimo momento la preghiera di tutti e due fu accolta davanti alla gloria
di Dio. Il narratore ci ha permesso di assistere a due drammi lontanissimi nello spazio, ma contemporanei nel tempo. Due
persone si trovano davanti a difficoltà tali da desiderare la morte e quella preghiera disperata, senza speranza, sale al cospetto
di Dio; il Signore ascolta la preghiera, ma non fa quello che è stato chiesto. È molto importante questo particolare: il Signore
ascolta ed esaudisce il desiderio profondo, non dà quello che è stato chiesto concretamente. Nonostante le parole, di fatto quei
due chiedono di vivere, parlano di morte, ma solo per essere liberati da tanta sofferenza. In fondo la loro è una richiesta a Dio
di eutanasia per porre fine a una vita che secondo loro non ha più senso. Chiedono a lui che stacchi la spina, eppure non
desiderano la morte, desiderano la vita. Ritengono però che non sia più possibile vivere in quella condizione, che non ci sia
strada, che non sia praticabile nessuna soluzione e quindi propongono la via che a loro sembra unica. Ciò però che non è
possibile all’uomo è possibile a Dio e il narratore teologo che racconta questa storia ci vuole raccontare proprio della
provvidenza di Dio, come il Signore provvede ai suoi figli: non ha dimenticato né Tobi, né Sara, nonostante i loro problemi.
Dio ascolta la preghiera del giusto
Questo racconto serve al teologo narratore per riflettere sulla teologia della retribuzione: perché i giusti soffrono? La sua
risposta è abbastanza semplice: le sofferenze dei giusti sono una prova temporanea, sono una verifica, sono un modo di
purificazione. Se il Signore permette queste situazioni dolorose non dimentica però la persona, continua ad accompagnare la
sua storia e proprio attraverso quelle difficoltà conduce il cammino di ciascuno verso una pienezza di realizzazione. Il progetto
è la vita eterna, cioè la vita piena, realizzata, veramente contenta e questo fine il Signore lo raggiunge. L’autore racconta questa
storia per invitare noi, lettori e ascoltatori, a rinnovare la fiducia nella provvidenza di Dio e a non perdere la speranza.
In fondo Tobi e Sara sono due esempi “negativi”, sono figure di persone che hanno perso la speranza, ma hanno camminato
con il Signore, cioè anche quando vedevano tutto nero e si aspettavano solo la morte, hanno continuato a chiedere al Signore
che fosse lui a intervenire nella loro esistenza e attraverso questa richiesta hanno effettivamente ottenuto un aiuto grandioso
che li ha sorpresi.
Il Signore ascolta la preghiera e manda Raffaele a guarire i due. Rafa-el è uno dei sette angeli della presenza, il suo nome
dice la funzione. “El” è il nome comune che corrisponde a Dio, “rafà” è il verbo “guarire, curare”, quindi Rafael = “Dio cura”,
è la medicina divina, quindi è l’angelo incaricato di intervenire e curare le situazioni dolorose. Sono due malattie diverse, sia
Tobi, sia Sara sono malati, hanno bisogno di una guarigione. Comprendiamo facilmente la malattia di Tobi; il riferimento a
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Sara e al demone Asmodeo ci deve far comprendere qualche altro tipo di malattia; noi oggi diremmo qualcosa di psicologico.
C’è un problema che blocca la persona e che deve essere rimosso; anche Sara ha bisogno di una cura.
La missione del figlio
La storia però umanamente si sblocca attraverso un ricordo. A Tobi viene in mente che ha lasciato dall’altra parte del
mondo quell’enorme capitale e che adesso potrebbe essere utile. Il Signore glielo ha fatto venire in mente, potremmo dire noi
con linguaggio più teologico. È una idea che gli è venuta, è un ricordo. Ormai aveva lasciato perdere quei soldi, si era messo il
cuore in pace; adesso che ne ha bisogno, tenendo conto che avendo chiesto di morire si aspetta di morire da un momento
all’altro, per non lasciare la moglie e il figlio in povertà tenta l’ultima carta: ricuperare il patrimonio.
L’unico però che può andare in una impresa del genere è il figlio. Marito e moglie a questo punto litigano fra di loro, come
spesso capita, perché l’idea di Tobi di mandare il figlio a ricuperare il denaro non piace assolutamente ad Anna che ha paura di
lasciare andare il figlio lontano da casa, in un paese così lontano, per strade pericolose, senza conoscere la via: c’è il rischio di
perdere anche il figlio. I due discutono e arrivano a litigare perché non si capiscono. Lei lo accusa di essere attaccato al denaro:
“Sei pronto a perdere il figlio per ricuperare un po’ di soldi, lasciamo perdere tutto, teniamoci il figlio”.
Eppure in questo discorso così semplice, casalingo, c’è una teologia velata che dobbiamo riconoscere: mandare il figlio o
tenerlo in casa?
Viene in mente un discorso trinitario: nella comunità divina si progetta di mandare il Figlio a ricuperare il tesoro, è
l’umanità perduta, ma c’è il rischio di perdere il Figlio. Meglio tenerlo al sicuro. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio per poter ricuperare quel tesoro che è l’umanità.
La missione del figlio è una idea divina combattuta da Anna per interessi egoistici materni, ma incoraggiata da Tobi per
motivi di provvidenza umana economica, tipicamente paterna. I due però non si decidono se non c’è qualcuno che accompagni
il ragazzo.
La provvidenza vuole che appena Tobia esce a cercare qualcuno che possa accompagnarlo incontra Raffaele; non sa che è
uno dei sette arcangeli, è un bel giovanotto, ma un uomo normalissimo che si presenta come Azaria, altro nome simbolico: “il
Signore aiuta”; è lo stesso nome di Lazzaro: Ele-azar – Azar-Ya. Azaria si presenta come un esperto di strade. Tobia gli
chiede: “conosci la Media?”, “Ci sono stato molte volte e conosco tutte le strade”. È un navigatore eccezionale, è colui che
conosce tutte le strade perché è l’inviato di Dio sulla strada dell’uomo come accompagnatore dell’uomo nel suo cammino e la
vicenda di Tobia diventa un paradigma della nostra storia umana: l’angelo di Dio mandato ad accompagnare il cammino
dell’uomo. Dopo mille raccomandazioni il due partono.
La lotta con il pesce
Di tutto il viaggio, che dura molti giorni, essendo centinaia e centinaia i chilometri da percorrere, il narratore racconta solo
un episodio capitato una notte ed è un episodio molto importante.
6,1Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul
fiume Tigri. 2Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzando
dall’acqua tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare. 3Ma l’angelo gli disse:
«Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire». Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. 4Gli
disse allora l’angelo: «Apri il pesce e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili da parte, possono
servire come strumenti di guarigione».
Il ragazzo obbedisce. È una scena particolare, sembra semplicemente una favola, ma deve essere letta con attenzione
simbolica. È una scena notturna, avviene nell’acqua. C’è un giovane solo, al buio, nell’acqua aggredito da un pesce.
Questa lotta notturna nel fiume ci ricorda anche Giacobbe nel fiume Iabbok, pure lì c’è un combattimento. Anche se in quel
caso lo scontro non era con il demonio, bensì con Dio, è però sempre un segno che l’uomo non è isolato nel suo mondo
terreno, ma condizionato da realtà spirituali sovrumane con le quali deve rapportarsi. Riconosciamo in questo testo anche un
riferimento a Giona, ma dovete riconoscere anche un riferimento a qualcosa di molto più antico e importante. Il pesce, animale
acquatico, è figura del caos, è il mostro primordiale, è figura del male, è la bestia che tenta di aggredire l’uomo e di mangiarlo.
Nel cammino, di notte, nell’acqua, c’è la bestia che tenta di afferrarti e di mangiarti. È una figura importante del pericolo: il
male rischia di bloccarti. Mangiare il piede significa impedire di camminare. Se quel pesce gli mangia il piede, il ragazzo non
cammina più, si ferma. È un modo simbolico per indicare come il male può aggredire la persona e togliergli la possibilità di
camminare.
L’angelo gli dice: afferralo, non lasciarlo scappare, dominalo. È un principio della creazione: domina gli animali, gli uccelli
del cielo e i pesci del mare. Devi dominarlo, devi prenderlo afferrarlo e squartarlo. È un riferimento mitologico. Nell’antica
tradizione mesopotamica si narrava di Marduk che all’inizio dei tempi aveva preso il mostro acquatico Tiamat, lo aveva
afferrato per le ganasce e lo aveva squartato; così avviene in modo molto più semplice con un grosso pesce di fiume. Il giovane
Tobia lo afferra, lo squarta e ne tira fuori qualcosa di buono.
Notiamo questo passaggio perché è fine e importante. Dal di dentro del male che ti aggredisce si può tirar fuori qualcosa di
buono. Il fiele, il cuore, il fegato – probabilmente utilizzati come medicamenti magici o pseudoscientifici dell’antichità – sono
diventati semplicemente un simbolo: da un male si può ricavare un bene. La soluzione dei problemi per Sara e per Tobi verrà
proprio da quel pesce, saranno proprio quelle interiora a guarire i due malati.
Una meta inaspettata: il matrimonio
Riprende il cammino e velocemente arriviamo a Ecbàtana. L’angelo parla di questa ragazza che Tobia nemmeno conosceva
e gliene parla così bene da farlo innamorare. Decidono quindi di fermarsi. L’angelo organizza il matrimonio e anziché portarlo
a Rage di Media lo porta a Ecbàtana in Persia perché c’è questa bella ragazza da conoscere.
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Fra l’altro Sara e Tobia sono parenti e veniamo a sapere che secondo le regole giudaiche Tobia doveva essere il naturale
marito di Sara, perché – secondo quelle regole matrimoniali difese dalle famiglie ebraiche – c’era una specie di diritto di
prelazione e, a seconda del grado di parentela, la ragazza spettava a questo più che a un altro. Quelli che hanno tentato di
sposarla erano quindi estranei, non era progettato quel matrimonio, sono falliti perché non andavano bene. C’era infatti un altro
matrimonio progettato che adesso si realizza. Se però Tobi non fosse diventato cieco, se non avesse lasciato i soldi là, se non
avesse deciso di mandare il figlio, quei due non si sarebbero mai incontrati. Alla fine della storia uno dice: per fortuna che è
successo questo e quest’altro. Tutte le cose che sembravano negative per fortuna sono successe, perché hanno permesso di far
capitare qualcos’altro che è il tesoro, che è la realizzazione della famiglia, che è la creazione di una relazione d’amore
autentico, grande, profondo. Viene raccontata una storia matrimoniale oggetto della provvidenza di Dio, non una
organizzazione umana, ma un dono di Dio che sorprende i due. Quella sera stessa Tobia vuole sposare Sara.
Il vecchio padre Raguele, che conosceva bene Tobi ed è contento di conoscere adesso il giovane figlio che tanto assomiglia
a suo padre, sapendo che fine hanno fatto i mariti di sua figlia, non avrebbe nessuna intenzione di acconsentire al matrimonio.
Povero ragazzo… non vorrebbe che finisse anche lui in quel modo e tenta così di dissuaderlo. Il ragazzo però è convinto,
deciso e a tutti i costi vuole questa ragazza. Raguele accetta, fanno il contratto e gli sposi salgono nella camera nuziale.
Fidanzamento brevissimo: si sono conosciuti al calar del sole ed è tutto fatto I due in camera pregano e il narratore offre – qui
come in altre parti del libro – degli esempi di preghiera. Troviamo infatti qui una bella preghiera di due sposi che, ministri del
loro matrimonio, offrono al Signore la loro vita insieme. Poi, con una nota molto semplice, il narratore dice:
9,8Poi dormirono per tutta la notte.
Dietro quel “dormire” chiaramente c’è l’indicazione dell’unione sessuale, ma fatta con molta finezza narrativa.
Raguele non è affatto convinto che le cose vadano bene e quindi si affretta a scavare la fossa per il povero Tobia. Pensa: in
città non lo hanno ancora conosciuto, sicuramente domani mattina sarà morto, io lo faccio sotterrare nel giardino e per lo meno
in giro non sanno che è l’ottavo. Cosa era successo? Perché non è successo niente? Raffaele gli aveva spiegato: il cuore e il
fegato bisogna metterli nel braciere. Devono produrre una puzza tremenda: cuore e fegato di pesce, oltretutto per niente
freschi, buttati sul carbone ardente producono un odore nauseante per Asmodeo il quale fugge sicuramente. È un modo
semplice per dire: si può mettere in fuga il diavolo, il male si può scacciare. È la storia di un angelo di Dio mandato ad aiutare
un uomo in cammino perché, tirando fuori dal male qualcosa di bene, possa scacciare il demonio; di fatto i due costruiscono
una famiglia normale.
Al mattino, quando si accorgono che sono tutti e due vivi e vegeti, Raguele provvede di corsa a coprire la fossa per non far
vedere che non aveva nessuna fiducia nella riuscita di quel matrimonio; a questo punto iniziano i festeggiamenti che durano
per molti giorni.
Finalmente Raguele può fare le feste nuziali con ricchi banchetti a cui invita tutti i parenti, gli amici e i conoscenti di
Ecbàtana.
Raffaele per guadagnare tempo va lui da solo a ritirare il patrimonio. Servono molti asini per portare dieci quintali di
argento, si organizza quindi una carovana.
Finite le feste nuziali la ragazza deve abbandonare casa e anche questo è un dispiacere. Finalmente i genitori sono riusciti a
sposarla, ma adesso che sono contenti perdono la figlia e sono disposti a perderla. La benedicono, e la salutano invocando dal
Signore ogni benedizione. È un atto di fiducia, è il cammino nuovo che viene intrapreso da questa coppia.
Il ritorno e la guarigione di Tobi
Naturalmente Raguele dà a Sara una buona parte del patrimonio, è figlia unica e quindi caricano altri asini e animali da
soma con tutto quello che possono portare. Tobia – che era partito da solo con il cagnolino – ritorna con una carovana carico di
soldi, tanti beni e soprattutto con la moglie: è quello il vero tesoro ricuperato. Prima di arrivare a casa Raffaele fa correre il
ragazzo per precedere gli altri.
C’è però ancora il fiele del pesce e quello serve per gli occhi di Tobi; quelle squame biancastre che si sono formate sugli
occhi sono intaccate del fiele, vengono portate via. Il vecchio Tobi apre così gli occhi, rivede la luce e vede suo figlio, “luce
dei miei occhi – lo chiama – finalmente ti rivedo”. Non solo riottiene il figlio, ma ricupera il patrimonio e Tobia ha trovato
questa splendida moglie e…. vissero tutti felici e contenti. La storia termina con il riconoscimento dell’opera di Dio perché
Tobi, generoso, dice al figlio: “Metà di quello che hai ricuperato dobbiamo darlo ad Azaria, è stato un uomo veramente valido,
ci ha fatto un servizio enorme; se non fosse stato per lui non avremmo quello che abbiamo”. È il riconoscimento di Dio, è la
riconoscenza per ciò che il Signore ha fatto.
Dio va oltre le attese dell’uomo
A questo punto Azaria scopre le carte e si rivela: “Sono l’angelo Raffaele. Quando tu, Tobi, e tu, Sara, chiedevate al
Signore di morire, io sono stato incaricato di accontentarvi, ma di accontentarvi come piace a Dio, non dandovi la morte, ma
dandovi una soluzione dei problemi al di là delle vostre attese; non l’avreste mai più immaginato quando, tempo fa, facevate
quella preghiera. Allora ricordatevene, ringraziate sempre il Signore e abbiate rispetto della provvidenza di Dio, imparate ad
accettare quello che viene dalla vita fidandovi della provvidenza di Dio. A lui rendete grazie, lui solo adorate.
Il Libro termina con un cantico di lode, di ringraziamento e una breve sintesi.
Gli anziani Tobi e Anna muoiono felici accompagnati dal figlio, dalla nuora, dai nipoti. Prima di morire Tobi prevede la
distruzione di Ninive e dice: allontanatevi di qui, mettetevi in salvo da un’altra parte, i profeti l’hanno detto, Naum l’aveva
previsto: Ninive sarà distrutta, non incorrete anche voi in questa distruzione.
Tobia con la sua famiglia trasportano quindi tutto il loro patrimonio a Ecbàtana e così anche l’altra famiglia riottiene la
figlia, anche quella ha nuovamente tutto il patrimonio arricchito, anche Raguele e la moglie terminano in pace i loro giorni,
diventano tutti vecchi, vedono i figli dei figli: “Così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore. La tua sposa come vite feconda
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nell’intimità della tua casa, i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa”. Quella che sembrava una storia di
disperazione è diventata una storia di speranza e il racconto delle vicende di Tobia ci insegna a uscire da noi. La strada che il
Signore ci chiede di fare è un cammino di uscita, di afferrare il male che tenda di dominarci e di dominarlo. Non chiudiamoci
nel nostro problema, non chiudiamoci nei nostri ghetti, nelle nostre piccole realtà, non impegniamoci solo a conservare quel
poco che abbiamo, troviamo invece nella fede il coraggio di uscire, di metterci in cammino, di aprire strade nuove dove il
Signore ci offre soluzioni inaspettate e grandiose, al di là di tutte le nostre attese. La speranza è tendere verso il progetto di Dio
che noi nemmeno immaginiamo ed è molto più bello di quello che noi possiamo prevedere. È il cammino di Quaresima, è il
cammino di tutta la vita; coraggio, ci mettiamo in cammino pronti a lasciarci sorprendere dalle meraviglie di Dio. Buon
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