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D
◆ Debriefing
Processo che favorisce la mobilitazione
delle notevoli capacità di superamento del
vissuto traumatico di un individuo. Il d. può
prevenire efficacemente l’insorgere di disturbi psichici più gravi, ma non deve necessariamente essere effettuato da professionisti del ramo psicoterapeutico o psichiatrico. Spesso è addirittura più indicato
l’intervento di persone provenienti dalla
medesima categoria di quelle coinvolte.
Grazie ad un colloquio con una persona
formata per questo tipo d’intervento, il d.
permette di ridurre le possibili conseguenze nefaste di un avvenimento traumatico a
livello psichico, come l’insorgere della sindrome da stress post-traumatico (PostTraumatic Stress Desease) e altre sindromi collegate. Nel corso del dialogo si affrontano progressivamente fatti, pensieri ed
emozioni al fine ristabilire una migliore
comprensione dell’avvenimento e permettere di reinserirlo nel corso della propria
esistenza.
◆ Déjà vu [ESPERIENZA DI]
Fenomeno psichico caratterizzato dalla
sensazione di aver «già visto» una certa
persona, episodio o scena. Viene considerato come un disordine della memoria, definito variamente come ecmnesia, crisi dismnesica o anche paramnesia. La sensazione opposta è quella del «jamais vu»
(mai visto). Simili a questi due sono tutti i
fenomeni descritti come «déjà entendu»
(già compreso), «déjà éprouvé» (già provato), «déjà fait» (già fatto), «déjà pensé»
(già pensato), «déjà raconté» (già raccon-
tato), «déjà vécu» (già vissuto), «déjà
voulu» (già voluto). Non si tratta di un inganno dei sensi o di una erronea rappresentazione, bensì di una esperienza paradossale del sentimento. Il fenomeno può
essere spiegato come: a) perseverazione
dello stato emozionale di una situazione
precedente; b) associazione degli stimoli
percepiti con ricordi rimossi; c) parziale
somiglianza dell’insieme degli stimoli percepiti con esperienze precedenti.
◆ Deleuze, Gilles
Filosofo francese (Parigi, 1925 - 1995). La
sua riflessione filosofica intrattiene un rapporto diretto con la psicoanalisi e con la
psichiatria critica (fu amico e collaboratore di Felix Guattari, psichiatra vicino alle
correnti della antipsichiatria: molti testichiave sono stati scritti insieme dai due
autori). Nelle sue prime opere gli autori di
riferimento sono gli empiristi inglesi, Spinoza, Kant, Nietzsche, Bergson. Si tratta
di momenti diversi della storia della filosofia che convergono nella critica dell’umanesimo classico. L’empirismo e il
materialismo spinoziano confutano il concetto aristotelico di sostanza; la «molteplicità delle facoltà conoscitive» di Kant e lo
«slancio vitale» di Bergson ridefiniscono
il concetto tradizionale di conoscenza; soprattutto Nietzsche (cui D. dedica nel 1962
uno dei suoi libri più importanti: Nietzsche
e la filosofia) porta a compimento la messa in questione dell’idea di soggetto tradizionale e del suo più autorevole corollario
teoretico, la dialettica di origine hegeliana. La volontà di potenza nietzschiana (e
Delirio
simmetricamente le idee di oltreuomo e di
eterno ritorno) non implica, secondo D.,
una volontà di dominio: piuttosto sembra
spingere verso una liberazione del molteplice e della differenza. Il soggetto classico si frantuma in un pluralità di forze, in
un flusso di energie che si affermano antagonisticamente. La volontà di potenza va
interpretata come azione creativa («principio dell’affermazione multipla, principio
donante, virtù che dona»). Da ciò deriva,
per un verso, una visione della filosofia
come creazione ludica e artistica di concetti, espressamente teorizzata in due opere della maturità: Differenza e ripetizione
(1968) e Logica del senso (1969); per l’altro, una riformulazione della psicoanalisi
e del suo statuto teorico, che trova la più
celebre espressione ne L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972, scritto con
Guattari). Quest’opera, nata nel clima della
contestazione studentesca del ’68, si pone
come superamento del freudo-marxismo
dialettico di Reich e Marcuse e mette sotto accusa il centro teorico della psicoanalisi freudiana, la dottrina dell’Edipo. Il
punto di partenza è la potenza della repressione sessuale attuata dalla cultura contemporanea. Secondo D. e Guattari, la teoria
freudiana è connivente con tale repressione. Freud avrebbe il merito storico di aver
svelato il meccanismo dell’attività inconscia come dimensione «desiderante», eversivo/pulsionale, liberatoria e «affermativa»
nel senso nietzscheano. Tuttavia, la concettualità edipica avrebbe inquadrato la
sessualità sotto «il significato dispotico
della castrazione». Analogo retaggio censorio rispetto al potere del desiderio si osserverebbe in Lacan che, come Freud, sembra incardinare l’inesauribilità della pulsione lipidica nella rete della dipendenza
dall’Altro e dalla Legge paterna. Secondo
D., il desiderio è, al contrario, profondamente «anedipico» e irriducibile — pena
il suo spegnersi — ad alcuna tipologia ge-
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rarchica, compresa quella della mancanza
ontologica lacaniana. La via d’uscita consisterebbe, dunque, nella dissoluzione dell’Edipo come struttura psicosociale della
modernità e nella pratica di una corporeità
diffusa, affermativa e ludica, «senza organi» o limitazioni.
◆ Delirio
Gli autori classici (Kraepelin, Bumke) consideravano il d. un «errore morboso di giudizio che non si lascia rettificare dall’esperienza e dalla critica», ponendo alla base
dello stesso un disturbo cognitivo-razionale. Jaspers, con una definizione che è stata
fatta propria dalla cultura psichiatrica di
questo tempo, afferma che «le idee deliranti sono giudizi patologicamente falsati», poiché «solo là dove si opera con il
pensiero e si esprime un giudizio può insorgere un d.». I tre criteri suggeriti da Jaspers della certezza soggettiva, dell’incorreggibilità e dell’impossibilità del contenuto rappresentano tuttora il punto di riferimento fondamentale per ogni accettabile definizione di d. Jaspers, infatti, afferma che «idee deliranti si chiamano in modo
vago tutti i falsi giudizi che possiedono in
elevata misura — anche se in modo impreciso — le seguenti caratteristiche esteriori: 1) la straordinaria convinzione con
la quale vengono mantenuti, l’impareggiabile certezza soggettiva; 2) il fatto di non
essere influenzati dall’esperienza concreta e da confutazioni stringenti; 3) l’impossibilità del contenuto». Anche la definizione del DSM-IV-R tiene globalmente conto di tali criteri, sottolineando in particolar modo la falsità di contenuto. Per Schneider, ciò che caratterizza il d. non è tanto il contenuto quanto la forma con cui si
esprime. In tal senso, il d. viene definito
come un’idea, o un sistema di idee, caratterizzato da modalità genetiche e formali
assolutamente peculiari, estranee nelle premesse e nelle conclusioni al mondo comu-
175
ne e sostenute da un convincimento acritico. Una prima tipizzazione del d. può essere dipendente dallo stato di coscienza che
lo accompagna. A seconda che vi sia o
meno compromissione dello stato di coscienza, si parla di d. confuso o di d. lucido. Quest’ultimo può essere ulteriormente sottotipizzato per l’aspetto strutturale in
d. sistematizzato, in cui le idee deliranti
appaiono collegate tra loro secondo un sistema di nessi logici; o non sistematizzato, frammentario, costituito da idee elementari, isolate, non articolate tra loro. Secondo i caratteri genetico-formali, la tradizione psicopatologica tedesca ha differenziato il d. primario da quello secondario o deliroide. Il d. primario è «fenomenologicamente qualcosa di ultimo» (Jaspers), incomprensibile e psicologicamente
inderivabile. A volte sorge apparentemente in modo improvviso, ma spesso è preceduto da uno stato d’animo predelirante
(Wahnstimmung), dove perplessità, preoccupazione, terrore dominano il soggetto,
che avverte il dissolversi dei normali punti di riferimento che lo legano al mondo.
In tale contesto, nasce e si struttura il d.,
interpretabile come un tentativo di dare un
senso a questa atmosfera enigmatica, «un
punto fisso dove fermarsi e aggrapparsi»
(Hagen). Tra i d. primari si distinguono la
percezione delirante, l’intuizione delirante e la rappresentazione delirante. La prima viene definita come una condizione in
cui a una percezione reale viene attribuito,
senza motivo comprensibile, razionale o
emotivo, un significato abnorme, generalmente nel senso dell’autoriferimento. L’intuizione delirante, invece, si fonda su una
condizione falsa o impossibile, apparentemente non basata su un’alterazione del
significato di un «oggetto» percepito. Nel
primo caso, l’elemento patologico sta nell’alterato rapporto tra oggetto e significato, nell’intuizione delirante l’elemento patologico sta nel suo contenuto. Nella rap-
Delirio
presentazione delirante è un’immagine
mnesica a essere investita da un significato abnorme. La falsità del contenuto è sicuramente più facile da valutarsi nella percezione delirante, poiché sussiste un preciso punto di riferimento esterno sulla percezione del quale esiste un ampio consenso sociale. Più complesso è il giudizio di
falsità o impossibilità di una convinzione
come l’intuizione delirante, in cui non vi è
un chiaro e univoco punto di riferimento
esterno. Schneider considerava le percezioni deliranti di rango superiore rispetto
alle intuizioni deliranti e le considerava tra
i sintomi di primo rango della schizofrenia. I d. secondari, le idee deliroidi (Jaspers) o le reazioni deliroidi (Schneider)
sorgono «in modo comprensibile per noi»
(Jaspers) da uno stato affettivo, da esperienze vissute o da alterazioni dello stato
di coscienza e delle percezioni. I casi più
frequenti sono: a) le interpretazioni deliranti, ossia i tentativi di dare un senso a
esperienze abnormi, ad esempio un fenomeno allucinatorio; b) le elaborazioni deliranti, frutto dell’elaborazione da un d.
primario; c) i d. olotimici, con derivazione
da uno stato affettivo alterato, come i d. di
colpa e di rovina del depresso e di grandezza nel maniacale; d) i d. caratterogeni,
che si sviluppano in personalità psicopatiche.
Attualmente, la distinzione tra d. primari
e secondari non è più accettata. Il confine
della comprensibilità, che sancisce la differenza, appare infatti estremamente variabile nella sua collocazione, essendo in rapporto anche all’approfondimento del paziente ottenuto dal medico e delle capacità di comprensione di quest’ultimo. Già
Bleuler sosteneva che i d. fossero sempre
secondari ad alterazioni dell’umore (olotimia) o a complessi ideoaffettivi (catatimia). La terminologia descrittiva adottata
dal DSM-IV-R parla unicamente di d. congrui o incongrui al tono dell’umore. L’ana-
Delirio
lisi delle tematiche deliranti principali porta all’individuazione di alcune aree tematiche principali, con alto livello di stabilità
e di consistenza, sia attraverso le varie culture, sia attraverso i vari periodi storici.
Esse sembrano fare riferimento ad alcuni
schemi di organizzazione emozionale e
cognitiva relativamente semplici ed elementari e appartenenti più alla specie che
ai singoli individui, come l’integrità corporea, la minaccia proveniente dall’esterno, la perdita, l’affermazione di sé. All’interno di tali tematiche, i contenuti specifici più descritti sono il d. di influenzamento, riferimento, persecuzione, colpa, indegnità, rovina, erotomanico, gelosia, grandezza, somatico e ipocondriaco, mistico e
di negazione. Vengono detti bizzarri quei
d. centrati su fenomeni che la cultura del
soggetto considera totalmente non plausibili (DSM-IV-R). Il d. è riscontrabile in un
gran numero di disturbi psichiatrici tra loro
eterogenei sia su base organica certa sia
cosiddetti funzionali. Il d. è il sintomo patognomonico del disturbo delirante (d. altamente strutturati); è spesso presente nella schizofrenia, nel disturbo schizofreniforme, nel disturbo schizoaffettivo e nel disturbo psicotico breve (nei quali possono
essere presenti tutti i contenuti, ma i più
rappresentati sono i d. di influenzamento,
persecuzione e riferimento); può comparire nei disturbi dell’umore (congrui: colpa, rovina, indegnità, ipocondriaco nella
depressione; di grandezza e di onnipotenza nella mania; incongrui: persecuzione,
influenzamento, riferimento), nei disturbi
organici cerebrali, nel disturbo psicotico
indotto da sostanze e nell’epilessia temporale. L’alterazione del rapporto di realtà
presente nel delirante secondo Jaspers è
essenziale nella genesi del d. anche nell’interpretazione psicoanalitica di Freud,
per il quale il meccanismo fondamentale
alla base del d. sarebbe la proiezione che
consente di elaborare la conflittualità di
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base e di ricostruire un nuovo rapporto con
la realtà. I momenti fondamentali della teoria freudiana sono quindi rappresentati dal
disinvestimento oggettuale, dal ripiegamento narcisistico e dalla ricostruzione del
rapporto con la realtà. Il d. costituisce un
tentativo di guarigione, di ricostruzione del
mondo esterno mediante la restituzione
della libido agli oggetti, resa possibile grazie al meccanismo della proiezione. Secondo la concezione freudiana dell’apparato
psichico così com’è articolata nella prima
topica, il d. ha la significazione di un sintomo, vale a dire di una formazione sostitutiva le cui condizioni di comparsa derivano da un meccanismo comune alla nevrosi e alla psicosi. Se la rimozione consiste nel distaccare la libido dagli oggetti del
mondo esterno, il ritorno del rimosso nella realtà consiste, invece, in un tentativo di
restituzione della libido al mondo esterno.
Il fenomeno delirante è strettamente connesso, secondo Freud, alla paranoia ed è
articolato secondo tempi precisi: la libido,
che in un primo momento è distaccata del
mondo esterno a causa della rimozione, rimane fluttuante, poi giunge a rafforzare per
regressione i diversi punti di fissazione
prodottisi nel corso dello sviluppo psicosessuale, nonché il fantasma del desiderio
omosessuale, rimosso primordialmente
nell’infanzia. L’afflusso della libido omosessuale rappresenta una duplice minaccia:
di rendere nulle le acquisizioni della sublimazione e di essere all’origine di rappresentazioni inaccettabili per la coscienza. Così Freud, a proposito del d., dice:
«ciò che è stato rigettato dall’interno, ritorna dal di fuori». Da questa concezione
freudiana iniziale, appoggiandosi proprio
sul testo di Schreber (Memorie di un malato di nervi, 1903) Lacan ripartirà per
mettere la questione della psicosi e del d.
alla prova della tesi dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Dal punto di vista cognitivo, il delirante sembra difettare
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di metapensiero, cioè di consapevolezza
critica delle proprie convinzioni. Dal punto di vista biologico, esisterebbe un’eterogeneità patogenetica. Il d., infatti, compare in diversi disturbi psichiatrici e meccanismi fisiopatologici differenti e si presenta
spesso in associazione ad altri sintomi (allucinazioni, alterazioni formali del pensiero), risultando quindi difficile la discriminazione della base patogenetica specifica.
I dati riguardano soprattutto gli studi sulla
sintomatologia produttiva della schizofrenia, che hanno messo in luce in sottogruppi di pazienti un’iperattività relativa a livello sottocorticale, a livello dei nuclei della base, e un aumento significativo dei recettori D2 nella stessa sede che correla con
la sintomatologia produttiva. L’esperienza clinica ha dimostrato che i bloccanti D2
agiscono in modo quasi specifico sui sintomi positivi della schizofrenia e hanno
un’efficacia terapeutica evidente soprattutto nei d. a insorgenza acuta e subacuta, con
caratteri polimorfi poco strutturati e scarsa fissità temporale, in qualsiasi disturbo
psichiatrico si manifestino; molto minore
è l’efficacia nei d. cronici, come nei disturbi deliranti. La sintomatologia delirante
con le caratteristiche del primo tipo sembrerebbe associata a un’iperattività delle
vie dopaminergiche mesolimbiche, conseguenza di un aumento della densità dei recettori D2 o di un’alterazione del rapporto
funzionale tra sistemi dopaminergici e serotoninergici. Alcune ipotesi chiamano in
causa anche un alterato rapporto funzionale tra i due emisferi cerebrali. Secondo
il modello interpretativo proposto da Pancheri (1993), il d. comparirebbe ogniqualvolta a un’alterazione strutturale o biochimica di base si sovrappone un’alterazione
dell’integrazione temporale per cause organiche o funzionali. Ciò comporterebbe
la percezione delle produzioni dell’emisfero destro come aliene ed esterne. Tale alterazione sarebbe associata a un’iperatti-
Demenza
vità dopaminergica mesolimbica probabilmente per una ridotta inibizione. Dal punto di vista neuroanatomico, i dati sull’epilessia temporale suggeriscono che una sintomatologia produttiva può, con maggiore
frequenza, essere associata a una lesione
focale nella parte mediale profonda del
lobo temporale sinistro. Alla base dell’esordio della schizofrenia, Stevens (1992)
ha ipotizzato una rigenerazione sinaptica
reattiva in regioni del cervello che ricevono proiezioni temporali distrofiche.
◆ Demenza
Secondo il DSM-IV-R, consiste in un disturbo delle funzioni intellettive, acquisito, di natura organica, caratterizzato dalla
compromissione della memoria a breve e
lungo termine e di almeno una delle attività mentali primarie, quali il pensiero astratto, la capacità critica, il linguaggio, l’orientamento spaziale, in assenza di alterazioni
della coscienza, tale da determinare una
significativa compromissione dell’attività
lavorativa e delle relazioni interpersonali.
La prevalenza di sindromi demenziali gravi
risulta pari al 4% nella popolazione di età
superiore ai 65 anni, con un andamento direttamente proporzionale all’età, toccando il 10% nella fascia di età compresa tra
65 e 75 anni e oltre il 20% sopra gli 85
anni. Una sindrome demenziale può essere sostenuta, sotto il profilo eziopatogenetico, da numerose affezioni, la cui incidenza relativa risulta difficilmente precisabile; si ritiene attendibile che oltre la metà
dei casi sia attribuibile al gruppo di d. a
tipo Alzheimer (SDAT), il 15% a d. multinfartuale, il 15-20% a forme miste (in cui
coesistono alterazioni istopatologiche a
tipo Alzheimer e di tipo vascolari) e che il
10-15% riconosca una genesi degenerativa, carenziale, metabolica, endocrina, tossica, infettiva, traumatica, tumorale o da
idrocefalo normoteso. Pur non riconoscendo un definito substrato neuropatologico,
Demenza
si rammenta in tale ambito il deficit cognitivo frequentemente associato a sindromi depressive, talvolta quale espressione
clinicamente prevalente e, in passato, nosograficamente definito come pseudodemenza depressiva. In considerazione del
fatto che talune di queste ultime forme sono
suscettibili di terapia medica o chirurgica
(ad es.: l’idrocefalo normoteso), risultando quindi potenzialmente reversibili, particolare importanza assume un adeguato
approccio diagnostico differenziale sul piano semeiologico e strumentale. Pur in assenza di univoche caratteristiche cliniche
e/o neuropatologiche, vengono classicamente distinte una d. corticale e una d. sottocorticale. Nella prima forma, le lesioni
presenterebbero una localizzazione preferenziale a livello corticale e il quadro clinico sarebbe caratterizzato da precoci alterazioni delle funzioni simboliche, del
pensiero astratto e della funzione mnesica. Nella forma definita sottocorticale, le
alterazioni neuropatologiche sarebbero rilevabili prevalentemente a carico dei gangli della base, del talamo, del tronco rostrale e interesserebbero direttamente o indirettamente le proiezioni destinate alle
aree frontali, mentre il quadro clinico sarebbe contraddistinto da un precoce rallentamento dei processi cognitivi, alterazioni
della personalità con depressione, apatia,
inerzia e rallentamento motorio. Sotto il
profilo eziopatogenetico, le sindromi demenziali vengono classificate in d. primarie (SDAT – Senile Dementia Alzheimer
Type – e primarie di attribuzione non determinata), d. vascolari, d. da malattie prioniche, d. associate a malattie diverse (quali malattie con degenerazione neuronale
primaria, idrocefalo normoteso, traumi cranici, tumori cerebrali, sindromi paraneoplastiche da tumori extracerebrali, malattie endocrino-metaboliche, malattie infettive, disturbi carenziali, malattie autoimmuni).
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Tabella
CLASSIFICAZIONE EZIOPATOGENETICA
DELLE SINDROMI DEMENZIALI
— Demenze primarie (demenza tipo Alzheimer,
malattia di Pick)
— Demenze primarie di attribuzione non determinata (disfasia progressiva primaria, malattia dei corpi di Lewy diffusi, demenza primaria di tipo frontale, degenerazione cortico-basale)
— Demenza vascolare (infarti multipli, stato
lacunare, infarti di confine, malattie dell’aorta
e dei vasi sopraortici, malattia di Binswanger, aneurismi e malformazioni arterovenose, anossia e ipossia)
— Demenze associate a malattie da prioni (malattia di Creutzfeldt-Jakob, kuru, malattia di
Gerstmann-Straussler-Scheinker, insonnia
fatale familiare)
— Demenza associata a malattie con degenerazione neuronale primaria (morbo di Parkinson, corea di Huntington, paralisi sopranucleare progressiva, degenerazione spino-cerebellare, malattia di Halleworden-Spatz, epilessia mioclonica progressiva)
— Demenza da idrocefalo normoteso
— Demenza traumatica
— Demenza da tumori cerebrali o extracerebrali
(sindromi paraneoplastiche)
— Demenze da malattie endocrino-metaboliche
(disfunzioni tiroidee, paratiroidee, pituitarie,
malattie epatiche, uremia, morbo di Wilson,
demenza dialitica)
— Demenza da malattie carenziali (sindrome di
Korsakoff-Wernicke, pellagra, malattia di
Marchiafava-Bignami, deficit di B12 e folati,
malattia di Whipple)
— Demenza da encefalopatie tossiche e da farmaci
— Demenza da processi infettivi e autoimmuni
(criptococcosi, neurosifilide, AIDS, sclerosi
multipla)
Verranno discusse in tale ambito le forme
primarie, quelle ad attribuzione non determinata e le forme vascolari.
1) Demenza di Alzheimer. È una d. primaria, caratterizzata da un’incidenza particolarmente elevata, con una prevalenza variabile tra 100 e 600/100.000 abitanti di
tutte le età, e rappresenta il 55% di tutti i
casi di d. Il disturbo colpisce con maggior
frequenza il sesso femminile, verosimil-
179
mente in relazione alla maggior aspettativa di vita. Fattori di rischio significativi
sono rappresentati dall’età avanzata, dalla
familiarità (nel 5% dei casi è trasmessa con
modalità dominante a dominanza completa, mentre nel 60% viene rilevata una semplice presenza di due individui affetti in
differenti generazioni) e dalla bassa scolarità (verosimile espressione di una minor
riserva biologica sinaptica con una secondaria, più precoce espressione clinica del
disturbo). È stato inoltre evidenziato che
parenti di pazienti con d. di Alzheimer possono avere un’aumentata frequenza di sindrome di Down. Alcuni studi epidemiologici avrebbero indicato tra i fattori protettivi il fumo delle sigarette (e quindi l’assunzione di nicotina); l’assunzione di farmaci antinfiammatori e, nelle donne, l’assunzione prolungata di farmaci estroprogestinici. L’eziopatogenesi è attualmente
sconosciuta, seppur sempre maggiori evidenze cliniche, neuropatologiche e sperimentali supportino il ruolo fondamentale
in tal senso svolto dall’amiloide, un aggregato insolubile di un peptide denominato
proteina beta, che comporta una secondaria degenerazione del soma e una conseguente rarefazione neuronale e sinaptica,
con formazione di filamenti a elica di proteina tau polimerizzata. L’amiloide che si
forma nell’Alzheimer è un aggregato insolubile extracellulare di un peptide di 3942 aminoacidi, la proteina beta, che ha la
proprietà di aggregare spontaneamente in
fibre, proporzionalmente alla sua lunghezza e alla sua concentrazione, e rappresenta la porzione transmembrana della proteina precursore dell’amiloide (APP). L’accumulo di amiloide si verificherebbe per
un’alterata dismissione cellulare di APP,
per una sua aumentata produzione o per
una produzione di beta proteina più lunga
e quindi più polimerizzante. Mediante studi di linkage sono state osservate alcune
alterazioni del gene codificante l’APP, si-
Demenza
tuato sul cromosoma 21, che ne influenzerebbero il metabolismo e quindi il deposito; un ulteriore linkage di una possibile alterazione genica, sottesa al disturbo, è
stato identificato con una porzione del cromosoma 14. Per quanto concerne le forme
di Alzheimer a espressione clinica più tardiva, è stato identificato un linkage con il
cromosoma 19 e, più recentemente, è stata posta una correlazione con un particolare pattern allelico (forma 4) riguardante
l’apolipoproteina E, una proteina carrier
del colesterolo, ricorrente nel 10% della
popolazione normale e nel 40% dei soggetti affetti dalla d. di Alzheimer, sia familiare tardiva sia sporadica, verosimilmente implicata nella dismissione cellulare e
nel catabolismo dell’APP. A livello neuropatologico, l’encefalo appare di peso ridotto e atrofico, con assottigliamento della corteccia cerebrale (più accentuato nella porzione anteriore dei lobi temporali) e
con ampliamento delle cavità liquorali. A
livello microscopico, le alterazioni principali consistono in depositi di amiloide, alterazioni citoscheletriche e rarefazione
neuronale e sinaptica. I depositi di amiloide sono rappresentati da placche neuritiche, composte da una porzione centrale
compatta di fibre di amiloide e circondata
da neuriti in degenerazione con reazione
gliare circostante, placche diffuse, composte da materiale poco strutturato, e infiltrazione di amiloide nella tonaca muscolare delle arterie cerebrali. Le alterazioni
citoscheletriche risultano prevalentemente costituite da accumuli di polimeri di proteina tau (probabilmente iperfosforilata),
aggregata in filamenti a elica, espressione
di un’alterazione della formazione dei microtubuli e fenomeno aspecifico di risposta a una sofferenza neuronale di varia natura. La rarefazione neuronale interessa
prevalentemente gli strati III e V della corteccia frontale e temporale (con una riduzione dell’arborizzazione dendritica) e al-
Demenza
cune strutture sottocorticali, quali il nucleo
basale, il locus coeruleus e il nucleo dorsale del rafe. Proprio la degenerazione di
tali nuclei, ad ampia proiezione corticale,
sarebbe responsabile della diffusa riduzione della concentrazione neurotrasmettitoriale. Clinicamente, il decorso viene distinto in 3 fasi, peraltro caratterizzate da limiti piuttosto indistinti. Nella fase di esordio
si osservano una riduzione degli interessi,
turbe mnesiche e indifferenza, talvolta associate a reazione depressiva; cui seguono
(seconda fase) evidenti modificazioni della
personalità, compromissione sociale, disturbi del linguaggio e delle funzioni simboliche, con un ulteriore aggravamento di
quelle mnesiche. Nella terza fase l’evoluzione peggiorativa diventa ancor più consistente, con un interessamento anche del
contingente mnesico remoto, falsi riconoscimenti, affaccendamento inoperoso, apatia, indifferenza. Ancor più tardivamente
subentrano disturbi motori, con rigidità e
ipocinesia, fino a sfociare in una tetraparesi in flessione; l’exitus avviene in condizioni di marcato scadimento generale,
solitamente per complicanze infettive.
Nella fase iniziale del disturbo è fondamentale la diagnosi differenziale con le cosiddette forme di d. trattabili e quindi reversibili (depressione, ipotiroidismo, forme carenziali, neoplasie, idrocefalo normoteso
etc.). L’EEG è alterato per la presenza di
attività lenta diffusa (che tende a diventare
più evidente con il progredire della malattia), mentre le indagini radiodiagnostiche
evidenziano un ampliamento dei solchi
corticali e delle cavità liquorali, con
un’ipodensità diffusa della sostanza bianca periventricolare. Di particolare ausilio,
al fine di monitorare l’evoluzione del quadro clinico e le conseguenti implicanze medico-legali, risultano i test neuropsicologici, in particolare la Wechsler Adult Intelligence Scale, la Mini-Mental State Evaluation, la Blessed Dementia Scale, le fi-
180
gure di Rey, le matrici progressive di Raven, il Wisconsin Card Sorting Test e il test
di Benton, destinati a esplorare aree di funzionamento frequentemente alterate in corso di morbo di Alzheimer, quali la memoria, il linguaggio, il pensiero astratto, le
funzioni visuo-spaziali e l’attentività. Non
esistono attualmente possibilità di diagnosi
certa in vita: i criteri diagnostici sono quindi fondati sull’esclusione di altre cause di
d. attraverso un protocollo standardizzato
dal National Institute of Communicative
Disorders and Stroke, che prevede una diagnosi di Alzheimer possibile (sindrome
demenziale senza alterazioni di coscienza
o affezioni che possano essere causa di d.),
probabile (sindrome demenziale idiopatica, comprovata sulla base di osservazione
clinica, test neuropsicologici e indagini
strumentali), o definita (diagnosi istopatologica). Non esistono attualmente presidi
terapeutici di comprovata efficacia clinica; si segnalano in tale ambito gli studi
relativi agli inibitori dell’acetilcolinesterasi
ad azione protratta, quali ad esempio la
tacrina, il donepezil o la rivastigmina. Questi farmaci sembrerebbero migliorare la
capacità di performance cognitiva nelle
prime fasi della malattia. Di utile impiego
risultano farmaci sintomatici destinati al
controllo delle alterazioni comportamentali e psichiatriche concomitanti, quali antidepressivi, neurolettici, benzodiazepine
e, soprattutto, gli antipsicotici atipici (clozapina, risperidone, olanzapina). Nelle d.
primarie ad attribuzione non determinata
la disfasia progressiva primaria è caratterizzata da un’afasia non fluente e da afasia
nominum, in assenza di altre disfunzioni
intellettive, a carattere non evolutivo verso la d., se non a distanza di una decina di
anni. Sotto il profilo radiologico, si evidenzia un’atrofia perisilviana dell’emisfero
dominante. La prevalenza è bassa, mentre
risulta assai elevata la familiarità del disturbo; è ignota la patogenesi. La malattia
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dei corpi di Lewy diffusi è caratterizzata
dalla presenza di inclusioni intraneuronali
contenenti determinanti antigenici dei neurofilamenti e ubiquitina, localizzati a livello dei nuclei sottocorticali e degli strati profondi della corteccia temporale, insulare e
del cingolo. Questo tipo di d., sul versante
clinico, risulta associata o meno al morbo
di Alzheimer; nella forma pura si rileva una
maggior frequenza di disturbi psicotici (deliri e allucinazioni) e manifestazioni extrapiramidali di tipo parkinsoniano, in assenza di tremore e con modesta risposta alla
L-dopa. Sotto la classificazione di demenze primarie di tipo frontale sono raggruppate sindromi demenziali non caratterizzate da specifiche alterazioni neuropatologiche a prevalente espressione sintomatologica di tipo frontale (con turbe della
personalità, difficoltà di rapporti interpersonali, apatia o disinibizione, raramente
depressione dell’umore), esordio presenile e familiarità (possibile associazione con
alterazioni a carico del cromosoma 17); nel
corso dell’evoluzione clinica si possono
evidenziare segni temporali (sindrome di
Klüver-Bucy) ed extrapiramidali. La degenerazione corticobasale è caratterizzata da d., acinesia-ipertonia asimmetrica,
aprassia (con fenomeno della «mano aliena»), talvolta accompagnate da tremore, distonie, deficit dell’oculomozione, segni piramidali e mioclonie focali. Sotto il profilo neuropatologico, si rilevano rigonfiamento neuronale, degenerazione della substantia nigra e a livello striatale, con inclusioni tau-reattive nei neuroni, nella glia
e nella bianca sottocorticale, dove è collocata la malattia di Pick.
2) Demenze vascolari. Rappresenta il 15%
di tutte le d., anche se alterazioni neuropatologiche di origine vascolare e a tipo Alzheimer risultano associate in un altro 15%
di quadri demenziali. L’entità della perdita di tessuto cerebrale non risulta sempre
correlabile all’entità clinica del disturbo
Demenza
cognitivo, potendo alcune aree, quali ad
esempio talamo e ippocampo, risultare in
tal senso strategiche. L’esordio è di solito
improvviso, con decorso «a scalini» in relazione agli episodi ictali sottesi. Sul piano sintomatologico, si rilevano confusione notturna, labilità emotiva, turbe cenestesopatiche, declino cognitivo, con ridotta capacità di interazioni ambientali e interpersonali, alterazioni della critica e del
giudizio, disturbi della memoria prevalentemente a breve termine, disorientamento
spazio-temporale, inversione del ciclo sonno-veglia, con fluttuazioni infradiane della capacità di performance. All’esame
obiettivo si possono riscontrare ipertensione arteriosa, diabete mellito, deficit focali
neurologici, segni pseudobulbari e/o extrapiramidali. La TC e la RM encefaliche
permettono di evidenziare aree ipodense/
ipointense, espressioni di lesioni ischemiche. Nella diagnosi differenziale con la
malattia di Alzheimer può risultare utile
l’impiego di apposite scale di valutazione,
quali il Hachinski Ischemic Score. La terapia è rivolta alla prevenzione di nuovi
episodi ischemici, mediante il compenso
degli squilibri cardiovascolari ed endocrini e, laddove indicato, farmaci antiaggreganti o anticoagulanti. Nell’ambito delle
d. vascolari vengono comprese la d. talamica e l’encefalopatia subcorticale arteriosclerotica (malattia di Binswanger): la
prima è caratterizzata da lesioni bilaterali
lacunari talamiche paramediane anteriori
ed espressione sintomatologica rappresentata da un quadro demenziale caratterizzato da apatia, amnesia, rallentamento psicomotorio (sindrome fronto-limbica);
mentre la seconda mostra distruzione mielinica a livello della bianca emisferica (in
particolare temporale e occipitale), con
ialinosi e ipertrofia della parete vasale arteriolare cerebrale, lesioni ischemiche lacunari multiple (gangli della base, talamo,
ponte) e sostanziale rispetto delle fibre a
Depersonalizzazione
U. Il quadro clinico è rappresentato da
compromissione cognitiva, deficit neurologici focali, segni di compromissione bulbare ed extrapiramidale e incontinenza urinaria.
◆ Depersonalizzazione
Esperienza di distacco e di estraneità vissuta dal soggetto nei confronti della propria interiorità psichica (d. autopsichica),
del proprio corpo (d. somatopsichica) o
dell’ambiente esterno (d. allopsichica o derealizzazione). Si tratta di un’alterazione
della coscienza dell’Io. Nella d. autopsichica il soggetto si sente diverso: la propria vita psichica, o alcuni suoi aspetti, evocano un sentimento di estraneità e di non
appartenenza all’Io, che si accompagna a
un sentimento angosciante, sino al timore
di impazzire. Questo si può associare all’esperienza dell’automatismo della propria attività psichica e delle proprie azioni. Nella d. affettiva (presente nella depressione endogena) si ha il «sentimento della
perdita del sentimento».
Nella d. somatopsichica l’individuo prova
una sensazione di estraneità verso il proprio corpo o sue parti, sino a configurare il
delirio nichilistico. Possono essere presenti
sensazioni di cambiamento o trasformazione degli organi. Nella d. allopsichica o derealizzazione è l’ambiente intorno al soggetto a essere sentito come estraneo. Il depersonalizzato, non trovando le parole che
rendano conto del cambiamento che avverte, utilizza delle metafore: «il mondo è diventato freddo», «è visto attraverso un
velo» etc. Si determina un sentimento di
estraneità che colpisce la percezione di sé
e del mondo: il soggetto perde quella qualità del percepito chiamata «familiarità» e
che appare solo in quanto viene a mancare. La d. è stata studiata a partire dai concetti di immagine del corpo (Schilder), di
frontiera dell’Io (Federn), della relazione
d’oggetto (Bouvet), delle patologie del-
182
l’identificazione e del narcisismo (SamiAli, Jacobson). Secondo Lacan essa indica un superamento delle coordinate della
posizione soggettiva. La derealizzazione è
presente in diversi disturbi: dalla schizofrenia, alla depressione, alle psicosi organiche, all’epilessia, all’isteria, all’attacco
di panico, all’affaticamento prolungato.
◆ Depressione
Il termine è utilizzato per descrivere diverse forme di esperienza umana. Il suo
uso è talmente esteso e riferito a così tante forme di sofferenza soggettiva da determinare notevole confusione. La d. intesa come condizione patologica rappresenta uno dei disturbi psichiatrici con cui
più frequentemente gli operatori di salute mentale devono confrontarsi nella loro
pratica quotidiana. Si tratta, infatti, di una
condizione cui va incontro nell’arco dell’esistenza il 5-15% degli esseri umani.
La d. può insorgere del tutto spontaneamente, oppure in seguito ad un evento scatenante. La reazione del soggetto appare,
tuttavia, sproporzionata per intensità e/o
durata rispetto all’evento stesso. È importante tenere presente che non esiste «la
depressione», ma esistono «le depressioni», cioè una varietà di condizioni depressive, che si manifestano in maniera differente, che vengono prodotte da differenti
combinazioni di fattori biologici, psicologici e sociali, che richiedono cure differenti. Questa varietà di condizioni può
essere rappresentata come un «continuum», che porta agli estremi due quadri tipici: da un lato la d. maggiore melancolica e dall’altro la d. minore ansiosa.
1) Distinzioni generali. Nella pratica clinica, incontriamo diversi quadri depressivi che si avvicinano più o meno esattamente all’una o all’altra di queste due condizioni tipiche, ma anche diversi quadri che
presentano caratteristiche intermedie o
miste (che si dispongono, quindi, ideal-
183
mente nei vari punti del «continuum» compresi fra i due estremi).
— La d. maggiore melancolica è caratterizzata dai seguenti aspetti: 1) umore
depresso (il soggetto comunica con le
parole, con la mimica e con il comportamento un vissuto di profondo dolore, abbattimento, prostrazione); questo
vissuto è differente non solo quantitativamente (cioè, per intensità e durata), ma anche qualitativamente (cioè,
per la sua natura) dalla tristezza «normale» cui qualsiasi individuo va incontro nelle situazioni sfavorevoli della sua
esistenza, e, a differenza della tristezza «normale», è insensibile all’incoraggiamento, all’amicizia e all’amore; 2)
marcata riduzione o scomparsa dell’interesse e del piacere per tutte o quasi
tutte le attività (tutto ciò che abitualmente interessa quel soggetto e gli procura piacere — la compagnia del partner e dei figli, la musica, lo sport etc.
— non lo interessa e non gli piace più;
a volte addirittura lo infastidisce); 3)
marcato rallentamento psichico e motorio (il soggetto parla e si muove poco,
lentamente e a fatica); 4) mancanza di
energia e affaticabilità; 5) sentimenti
profondi di inadeguatezza, di inutilità,
di disperazione; nei casi gravi idee deliranti di colpa (il soggetto si incolpa
di atti malvagi o criminosi in realtà mai
commessi) o di rovina (il soggetto è
convinto che lui stesso e i suoi cari siano destinati al fallimento); 6) mancanza di appetito e perdita di peso; 7) disturbo del sonno (insonnia quasi totale
o risveglio mattutino precoce); 8) pensieri di morte e a volte propositi o tentativi di suicidio (sempre assai determinati); 9) variazione diurna della sintomatologia (con peggioramento mattutino).
— La d. minore ansiosa è caratterizzata dai
seguenti aspetti: 1) umore depresso (il
Depressione
soggetto è triste e abbattuto, ma la profondità del suo vissuto depressivo è
molto minore che nella forma precedente); tale vissuto, inoltre, è diverso quantitativamente (perché più intenso e duraturo), ma non qualitativamente, dalla
tristezza «normale», e può essere sensibile alle influenze ambientali favorevoli; 2) ansia accentuata, in parte somatizzata (cioè, espressa attraverso sintomi
fisici, come dolori o disturbi a varia localizzazione, di cui il soggetto ripetutamente si lamenta e da cui appare assai
preoccupato); 3) pessimismo, sentimenti
di incapacità e di inutilità (meno profondi rispetto all’altra forma; mancano
sempre le idee deliranti); 4) tendenza ad
autocompiangersi e ad incolpare gli altri delle proprie condizioni (mentre nell’altra forma il soggetto incolpa se stesso); 5) irrequietezza motoria (anziché
rallentamento); 6) astenia e affaticabilità; 7) insonnia (difficoltà ad addormentarsi e fragilità del sonno); 8) irritabilità
e apprensività; 9) disturbi della concentrazione e sensazione di «mente vuota».
Possono esserci pensieri di morte e a
volte anche propositi o tentativi di suicidio (questi ultimi, però, sono in genere «dimostrativi», cioè finalizzati a richiamare l’attenzione degli altri sulle
proprie condizioni). Manca la variazione diurna della sintomatologia (oppure
il soggetto riferisce di sentirsi un po’
peggio nelle ore pomeridiane e serali).
Le d. sono patologie complesse che non
hanno una «causa», ma riconoscono una
serie di «fattori di rischio» che intervengono in misura differente da caso a caso.
Quanto più il quadro clinico si avvicina al
prototipo della d. maggiore melancolica,
tanto più importanti sembrano essere la
familiarità e i fattori scatenanti di natura
biologica; quanto più il quadro clinico si
avvicina al prototipo della d. minore ansiosa, tanto più significativo sembra esse-
Depressione
184
re il ruolo dei fattori predisponenti e scatenanti di natura psicosociale.
La d. può essere associata ad altri disturbi
psichiatrici (schizofrenia, sindromi d’ansia, demenze), essere secondaria ad una
malattia organica, all’assunzione di farmaci o droghe.
2) Terapia. Il trattamento della d. non può
essere lo stesso in tutti i casi, ma deve essere
personalizzato sulla base: delle caratteristiche del quadro clinico; delle informazioni
disponibili circa il ruolo dei vari fattori predisponenti, scatenanti e protettivi nel caso
specifico; delle attuali condizioni fisiche della
persona depressa; della risposta che il paziente ha presentato ad eventuali trattamenti precedenti. In linea di massima quanto più il
quadro clinico si avvicina al prototipo della
d. maggiore melancolica, tanto più centrale
è il ruolo dei farmaci; quanto più il quadro
clinico si avvicina al prototipo della d. minore ansiosa, tanto più importante è il ruolo
delle psicoterapie (tabella 1).
Tabella 1
INTERVENTI TERAPEUTICI NELLA DEPRESSIONE
Farmacoterapia Antidepressivi triciclici (ADT)
Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)
Inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (SNRI)
Antidepressivi specifici noradrenergici e serotoninergici (NaSSA)
Antidepressivi con prevalente attività noradrenergica (NARI)
Inibitori delle MAO (IMAO),
inibitori delle MAO-A (RIMA)
Altri antidepressivi
Psicoterapia
Ad orientamento cognitivo
Ad orientamento interpersonale
Ad orientamento psicodinamico
3) Trattamento farmacologico. Il trattamento farmacologico dell’episodio depressivo, indipendentemente dalla scelta
dell’antidepressivo, prevede tre fasi.
— Fase acuta: l’obiettivo è la risoluzione
dei sintomi depressivi e il ripristino del
funzionamento sociale e lavorativo. Il
dosaggio ottimale del farmaco deve
essere raggiunto nell’arco di 10-12
giorni, iniziando sempre con dosi basse e frazionate durante la giornata. Nell’anziano, devono essere utilizzati dosaggi mediamente inferiori (30-50%).
Allo scopo di evitare precoci sospensioni del trattamento è bene tenere presente che la latenza d’azione degli antidepressivi è variabile tra 7-15 giorni,
e che la remissione della sintomatologia viene generalmente ottenuta nella
4-6a settimana di trattamento. In assenza di effetti collaterali, il trattamento
non dovrebbe essere sospeso prima di
6-8 settimane (risposte tardive).
— Fase di continuazione: mira a ridurre
la probabilità di una ricaduta (cioè, la
ricomparsa dei sintomi dell’episodio
in atto entro i sei mesi successivi alla
remissione) ed utilizza, qualora non
esistano problemi di effetti indesiderati o di compliance, gli stessi dosaggi utilizzati nella fase acuta. La fase
di continuazione deve essere protratta per almeno 4-6 mesi dalla remissione della sintomatologia depressiva.
Nel caso in cui si renda necessario, la
sospensione del trattamento deve essere effettuata sempre in modo graduale (riduzione di circa il 25-30% del
dosaggio/die per settimana) allo scopo di evitare la comparsa di sintomi
da sospensione.
— Fase di mantenimento: ha l’obiettivo di
prevenire l’insorgenza di un nuovo episodio depressivo (recidiva). I candidati al trattamento di mantenimento sono
soprattutto pazienti con un’anamnesi
positiva per tre o più precedenti episodi depressivi, con storia di precedenti
ricadute entro un anno dall’interruzione del trattamento e con episodi depres-
185
Depressione
sivi di notevole intensità e caratterizzati da elevato rischio suicidario. In
questi casi si suggerisce di continuare
il trattamento con lo stesso farmaco utilizzato nella fase di continuazione, per
un periodo superiore ai 12-24 mesi. È
possibile una riduzione a scalare della
dose utilizzata nella fase acuta (fino al
50%).
I dati presenti in letteratura indicano che
circa il 25% dei pazienti depressi non risponde in maniera soddisfacente ai farmaci antidepressivi. Se il paziente non ha risposto del tutto o ha evidenziato una risposta sintomatologica minima alla farmacoterapia dopo 6 settimane, è necessario:
1) riconsiderare la correttezza della diagnosi; 2) rivalutare l’adeguatezza del trattamento (dosaggio, compliance). Nei casi in
cui il trattamento è stato condotto in maniera adeguata sarà utile prendere in considerazione una delle opzioni indicate nella
tabella 2.
Tabella 2
STRATEGIE DA UTILIZZARE NEI PAZIENTI
DEPRESSI CHE NON RISPONDONO AL
TRATTAMENTO ANTIDEPRESSIVO
1.
2.
3.
Sostituzione dell’antidepressivo con un altro
composto di categoria differente (ad esempio, ADT con SSRI)
Potenziamento dell’effetto antidepressivo
mediante l’aggiunta di:
— sali di litio o altri stabilizzanti dell’umore
— ormoni tiroidei
— pindololo
— triptofano
Associazione con antidepressivi della stessa
categoria o di categoria differente (ADT +
SSRI; SSRI + SSRI).
La scelta dell’antidepressivo deve tenere
conto delle caratteristiche del paziente (età,
sesso, condizioni somatiche, altri trattamenti farmacologici in atto, risposta a precedenti trattamenti) e del quadro clinico
(presenza di particolari manifestazioni sintomatologiche, gravità, decorso). È inol-
tre importante una valutazione della tollerabilità (effetti indesiderati, tossicità) dell’antidepressivo da utilizzare. Per tutte le
classi di antidepressivi, spesso l’identificazione del farmaco più appropriato nel
singolo caso richiede vari tentativi successivi. Vanno distinti, in questo senso, come
segue.
— Antidepressivi triciclici (ADT). Gli
ADT sono tuttora i farmaci maggiormente utilizzati nel trattamento della d.
maggiore melancolica. Inibiscono il
reuptake della serotonina, della noradrenalina, e in minor misura della dopamina a livello sinaptico. L’efficacia
dei diversi ADT è sostanzialmente
equivalente sul piano terapeutico. Alcuni ADT (amitriptilina, trimipramina)
possiedono una maggiore attività sedativa, probabilmente legata alla maggiore attività á1-adrenolitica e antistaminica, e possono essere utilizzati nei
quadri depressivi dove prevale la componente ansiosa e/o l’insonnia. Gli
ADT presentano alcuni effetti collaterali frequenti e fastidiosi (tabella 3),
possono abbassare la soglia di convulsività, causare riduzione della pressione arteriosa e turbe della conduzione
cardiaca (blocchi di branca e A-V),
aumento di peso e sono pericolosi in
casi di sovradosaggio. Tali effetti sono
legati prevalentemente al blocco dei recettori colinergici centrali e periferici,
dei recettori á1-adrenergici e istaminergici. Gli ADT sono controindicati nell’ipertrofia prostatica, nel glaucoma ad
angolo chiuso, nell’infarto del miocardio recente e nei gravi disturbi della
conduzione cardiaca. Devono essere
utilizzati con cautela nei pazienti con
gravi epatopatie, nei pazienti epilettici
e negli anziani.
— Inibitori delle Monoaminossidasi
(IMAO). Malgrado la loro efficacia antidepressiva, gli IMAO attualmente sono
Depressione
poco utilizzati, soprattutto per la loro
scarsa tollerabilità e maneggevolezza.
Questi farmaci inibiscono in modo irreversibile i sistemi enzimatici deputati al
catabolismo delle amine biogene
(MAO-A e MAO-B), aumentandone le
concentrazioni intracellulari. Il ripristino dell’attività si avrà solo quando l’enzima è nuovamente sintetizzato, il che
comporta la necessità di un wash-out di
7-8 giorni prima di poter intraprendere
altre terapie. Inoltre, tali farmaci non
possono essere associati ad altri antidepressivi e ad alimenti ad alto contenuto
di tiramina (formaggio stagionato, fegato, salsiccia, pesce affumicato, vino
rosso, estratto di lievito), in quanto la
sua mancata inattivazione intestinale
può determinare gravi crisi ipertensive.
Una nuova classe di IMAO è rappresentata dagli inibitori reversibili delle
MAO-A (RIMA), il cui capostipite è la
moclobemide. È un farmaco dotato di
una migliore tollerabilità e maneggevolezza, anche se l’efficacia antidepressiva sembra essere minore.
— Inibitori Selettivi del Reuptake della
Serotonina (SSRI). Sono farmaci antidepressivi, di più recente introduzione
che agiscono selettivamente sul sistema serotoninergico. L’efficacia antidepressiva è sovrapponibile a quella degli ADT e sostanzialmente equivalente tra i vari composti inclusi in questa
classe. La latenza di azione degli SSRI
è di 7-8 giorni. Rispetto agli ADT sono
meglio tollerati, in quanto quasi totalmente privi di attività anticolinergica,
adrenolitica e antistaminica a livello sia
centrale sia periferico. Gli effetti collaterali più frequentemente riferiti sono
la nausea, il vomito, la diarrea, l’irritabilità, i tremori, l’insonnia, la cefalea,
le vertigini, la diminuzione della libido e l’anorgasmia. La tollerabilità degli SSRI li ha resi più facili da assume-
186
re ed ha aumentato l’aderenza del paziente alla terapia, rendendoli appropriati per i trattamenti a lungo termine.
— Inibitori del Reuptake della Serotonina e della Noradrenalina (SNRI). Gli
SNRI sono una nuova classe di antidepressivi il cui capostipite è la venlafaxina, utilizzata al dosaggio giornaliero
di 75-150 mg/die. La venlafaxina presenta una ridotta incidenza di effetti
collaterali per la scarsa affinità con i
recettori colinergici muscarinici, istaminici e á-adrenergici. Un aspetto peculiare della sua azione sarebbe rappresentato da una rapida induzione di una
down-regulation dei recettori b-adrenergici, che determina un più rapido
inizio dell’effetto antidepressivo. Gli
effetti indesiderati più sovente riportati sono nausea e vomito, cefalea, vertigini e insonnia.
— Antidepressivi Specifici Noradrenergici
e Serotoninergici (NaSSA). Capostipite dei NaSSA è la mirtazapina, che agisce potenziando la trasmissione noradrenergica attraverso il blocco degli
autorecettori á2-adrenergici e quella
serotoninergica attraverso un meccanismo post-sinaptico di stimolazione dei
recettori 5HT1 e di inibizione di quelli
5HT2 e 5HT3. Ha inoltre, elevata affinità per i recettori H1-istaminici, che
ne condiziona il profilo degli effetti
collaterali (tabella 3).
— Antidepressivi a prevalente attività noradrenergica (NARI). In questa categoria rientra la mianserina, dotata di una
marcata azione adrenolitica e antistaminica, che spiega la sua spiccata attività ansiolitica e sedativa. È consigliata in dose unica serale. Utile sopratutto nel trattamento delle d. ansiose, specie se resistenti al trattamento con ADT,
e nei soggetti anziani. A questa categoria appartiene anche la reboxetina,
attiva sui recettori sia á1 - sia b-adre-
187
Depressione
nergici. Possiede un buon profilo di tollerabilità, non presenta interferenza con
il sistema del citocromo P-450 e, pertanto, è più maneggevole se utilizzata
in associazione ad altri farmaci. Non
dà sedazione né sonnolenza, e sembrerebbe possedere un effetto «risocializzante».
Tabella 3
EFFETTI INDESIDERATI DEGLI ANTIDEPRESSIVI
Triciclici (ADT)
Bocca secca, stipsi, ipotensione ortostatica, sedazione, aumento di peso, disturbi della sfera sessuale (eiaculazione ritardata, impotenza, anorgasmia),
tremore alle mani, tachicardia sinusale, ritenzione
urinaria, disturbi della sfera cognitiva.
Inibitori delle Monoaminossidasi (IMAO)
Stati di eccitamento, insonnia, irritabilità, ipotensione, disturbi della sfera sessuale, ittero, alterazioni epatiche (aumento delle transaminasi), tremori,
cefalea, vertigini
Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina
(SSRI)
Nausea, vomito, diarrea, irritabilità, tremori, insonnia, cefalea, vertigini, diminuzione della libido,
anorgasmia
Inibitori del Reuptake della Serotonina e della Noradrenalina (SNRI)
Nausea, vomito, vertigini, cefalea, insonnia
Antidepressivi Specifici Noradrenergici e Serotoninergici (NaSSA)
Bocca secca, sedazione, sonnolenza, aumento dell’appetito, incremento ponderale
Antidepressivi a prevalente attività Noradrenergica
(NARI)
Sedazione, sonnolenza, cefalea, vertigini, tremori,
discrasie ematiche (agranulocitosi), alterazioni della
performance psicomotoria e cognitiva
4) Interazioni farmacologiche degli antidepressivi. Gli antidepressivi sono coinvolti in numerose interazioni farmacologiche.
Infatti, sono metabolizzati da vari isoenzimi del sistema microsomiale epatico P-450
(CYP) di cui possono essere anche inibitori competitivi, determinando effetti farmacologici additivi o sinergici con il risultato di un aumento nell’azione dell’uno
o dell’altro farmaco. I pazienti a rischio di
interazioni farmacologiche sono soprattutto quelli con patologie mediche in trattamento con più di un farmaco, in particolare quelli che inibiscono molteplici vie metaboliche; gli anziani e i soggetti debilitati; i soggetti con epatopatie e/o nefropatie.
Le più significative interazioni degli ADT
si possono avere con i farmaci anticoliner-
gici e sedativi con potenziamento delle rispettive azioni, e con gli IMAO, per il rischio di sindrome serotoninergica. Significativa sembra essere anche l’associazione con la clonidina, per un’inibizione dell’effetto anti-ipertensivo di quest’ultima,
con l’efredina e con tutti i farmaci ad azione á-adrenolitica. Alcuni FANS e alcuni
anticoagulanti possono dare fenomeni di
spiazzamento e quindi determinare un aumento dei livelli plasmatici degli ADT. Per
gli SSRI è controindicato l’uso in associazione con alcol, sedativi, antistaminici,
anticolinergici, IMAO e triptofano (per il
rischio di sindrome serotoninergica), propanololo, teofillina, digossina, warfarin
(aumento del PT), cimetidina (aumento del
first-pass effect). In particolare, per la fluo-
Depressione
xetina cautela deve essere utilizzata nell’associazione con gli ADT, i neurolettici
butirrofenonici e fenotiazinici, la carbamazepina, l’acido valproico, le benzodiazepine ossidate come diazepam e alprazolam,
per l’inibizione del CYP2D6 e il conseguente aumento dei livelli plasmatici.
5) Tossicità da sovradosaggio. Tutti gli
ADT sono considerati farmaci a elevato
indice di tossicità letale. L’intossicazione
acuta da sovradosaggio accidentale o volontario interessa particolarmente il cuore
e il SNC, con la possibile comparsa della
triade caratterizzata da coma, convulsioni
e gravi aritmie. Gli effetti cardiaci sono
rappresentati dalla fibrillazione o flutter
atriale o ventricolare, dal blocco A-V completo o incompleto, da ritmi ectopici, da
asistolia. Un indicatore clinico precoce di
intossicazione è il prolungamento dell’intervallo QRS oltre i 100 msec. Gli effetti a
carico del SNC, includono agitazione psicomotoria, stato confusionale, disartria,
convulsioni, paralisi respiratoria e coma.
Altri sintomi legati all’attività anticolinergica periferica sono l’areflessia pupillare
e la midriasi, l’iperemia sclerale, la cute
secca e iperemica, la diminuzione delle secrezioni mucose, la ritenzione urinaria e
la paralisi intestinale. Il salicilato di fisiostigmina è il farmaco di scelta per il controllo dei sintomi dovuti all’azione anticolinergica degli ADT. In caso di convulsioni generalizzate è indicata la somministrazione endovenosa di diazepam. Per il
controllo delle aritmie cardiologiche sono
indicati il propanolo e la lidocaina. Il trattamento deve essere sempre effettuato in
un’unità di terapia intensiva. Nell’intossicazione da IMAO e RIMA i sintomi più
frequentemente descritti sono l’agitazione
psicomotoria, gli stati confusionali, i fenomeni allucinatori, la violenta cefalea,
l’ipertermia, l’alterazioni pressorie, le convulsioni, il trisma e il coma. Gli SSRI sono
farmaci a basso indice di tossicità acuta e i
188
pochi casi ad esito letale descritti in letteratura riguardano soggetti che avevano assunto l’SSRI con altri farmaci e/o con dosi
elevate di alcol. Una condizione tossica
acuta, talora ad esito letale, descritta in
pazienti che assumono un SSRI contemporaneamente ad altri farmaci dotati di attività serotoninergica (ad esempio, altri
SSRI o IMAO) è nota come «sindrome serotoninergica». Questa è caratterizzata da
crampi addominali, meteorismo, diarrea,
ipertermia, tremori, disartria, mioclonie,
euforia, collasso cardio-circolatorio, ipertensione, tachicardia, stato confusionale
fino al coma.
6) Psicoterapia. Le psicoterapie oggi utilizzate nelle d. sono essenzialmente di tre
tipi:
— le psicoterapie ad orientamento cognitivo si propongono di identificare e
correggere gli schemi mentali della
persona (visione negativa di se stesso,
del mondo e del futuro) che possono
aver contribuito a produrre la condizione depressiva;
— le psicoterapie ad orientamento interpersonale mirano a identificare e correggere i problemi nelle relazioni interpersonali attuali che possono aver
precipitato la condizione depressiva;
— le psicoterapie ad orientamento psicodinamico si propongono di ricostruire
gli eventi e i conflitti di vecchia data
che possono aver predisposto l’individuo alla depressione.
Le psicoterapie ad orientamento cognitivo
e interpersonale sono più brevi e la loro efficacia è documentata dalla ricerca. Le psicoterapie ad orientamento psicodinamico
sono più lunghe e la loro efficacia non è al
momento documentata scientificamente.
Psicoterapie e farmaci non dovrebbero essere visti come antagonisti, ma piuttosto
come compatibili e complementari. I farmaci sono rapidamente efficaci sulla sintomatologia depressiva, mentre gli interventi
189
psicoterapici possono aiutare i pazienti a
modificare quegli aspetti dei modi di pensare e di relazionarsi agli altri che li rendono vulnerabili alla depressione.
◆ Deprivazione
[→ Privazione].
◆ Derealizzazione
Perdita del senso di realtà e del contatto
che abitualmente ognuno ha con la propria
esperienza, realizzatasi tra le persone e le
cose del proprio ambiente. La sensazione
soggettiva che ne deriva è che l’ambiente
circostante sia irreale o insolito, sensazione di una realtà che cambia. Alla d., spesso presente nella schizofrenia, talvolta si
accompagna la depersonalizzazione, in cui
il soggetto non coglie più se stesso come
presente nella vita quotidiana né nell’interazione con gli altri. La manifestazione di
tale fenomeno ha carattere episodico e può
verificarsi anche in soggetti normali, in
presenza di un particolare stato di affaticamento. La d. va distinta dal dereismo,
inteso come attività mentale non concordante con la logica o l’esperienza. Ciò induce una frattura con i dati di realtà secondo la modalità di pensiero magico, che
attende la soluzione dei problemi da riti,
gesti, nonché formule, invece che dalla sequenza dei nessi causali.
◆ Didattica [ANALISI]
Trattamento psicoanalitico cui si sottopongono coloro che vogliono svolgere la professione di psicoanalista. Dopo un’esperienza di autoanalisi Freud nel 1912 formulò la
convinzione secondo la quale, non essendo
possibile praticare l’attività analitica se non
si accede alla conoscenza del proprio inconscio, è necessario che chi si propone di diventare psicoanalista si sottoponga a
un’analisi didattica. Circa la natura di tale
analisi Freud, pur sostenendola, tenne una
posizione molto prudente, ritenendo che,
Difesa
l’analisi didattica per motivi pratici, può
essere soltanto incompiuta, in quanto ha
come scopo unico quello di portare il didatta a stabilire se il candidato possa o non
possa essere ammesso alla formazione completa. Secondo Freud tale funzione sarebbe
assolta solo se porta l’allievo al sicuro convincimento dell’esistenza dell’inconscio.
Istituzionalizzata nel 1922 dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale, l’a.d. ha
trovato il suo più convinto sostenitore in
Ferenczi, per il quale era necessario che un
analista venisse analizzato prima di essere
«assalito» dal paziente. L’a.d. viene completata con l’analisi di controllo o supervisione, dove un analista in formazione rende conto a un analista più esperto del proprio modo di condurre i trattamenti. La supervisione può essere diretta quando, attraverso opportuni mezzi tecnici, come lo specchio unidirezionale, il supervisore osserva
direttamente il lavoro del terapeuta in formazione, come accade di frequente nella
formazione dei terapeuti della famiglia; indiretta quando, attraverso relazioni orali o
scritte, il supervisore controlla il lavoro del
terapeuta in formazione e in particolare il
suo controtranfert.
◆ Difesa [MECCANISMO DI]
Termine psicoanalitico che indica processi dinamici e inconsci mobilitati dall’Io per
far fronte a stati d’ansia o di stress generati dal conflitto tra le due istanze contrapposte dell’apparato psichico: l’Es, che tende all’appagamento immediato delle pulsioni, e il Super-Io, depositario di valori
morali che avrebbero lo scopo di ripristinare l’equilibrio intrapsichico, regolare
l’autostima e modulare l’angoscia escludendo dalla coscienza ciò che è ritenuto
inaccettabile. Si tratta, dunque, di funzioni fondamentali per operare quell’ideale
compromesso fra pulsione e coscienza
morale di cui Freud per primo, nel 1894,
nella sua opera Neuropsicosi di difesa, si