Triora, in latino tria ora, cioè le tre bocche di Cerbero, il terribile cane a tre teste guardiano dell’Ade, posto da Dante a sorvegliare l’ingresso al terzo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i golosi. Un nome, Triora, che ha in se qualcosa di misterioso, di ancestrale. Qui, nel 1587, un gruppo di donne fu accusato di essere responsabile della carestia che aveva messo in ginocchio la comunità. Il processo, condotto dal vicario del vescovo di Albenga, in collaborazione con un Inquisitore di Genova, portò alla tortura di oltre quaranta donne e persino di un fanciullo. Dopo la morte di alcune imputate, in seguito alla ferocia dei tormenti inflitti, il processo venne preso in mano dal Padre Inquisitore di Genova che volle far valere la sua competenza in materia di streghe, derivategli dal suo essere rappresentante dell’Inquisizione di Roma. Alla fine di aprile del 1589 la vicenda si conclude: liberate le tredici superstiti incarcerate, cinque erano morte. Di loro non si seppe più nulla. La caccia alle streghe a Triora è stata simile a moltissime altre in altri luoghi, anche lontani: si scatenava quando un evento drammatico, in genere una carestia, creava forti scompensi in una piccola comunità tale da minacciarne la stessa sussistenza. Se le cause non erano immediatamente ravvisabili, urgeva trovare un capro espiatorio cui attribuire la colpa. Lo si rinveniva, in genere, perlustrando le categorie più “deboli”, magari ai margini della società e impiegate in lavori particolarmente “sospetti”. Le candidate migliori erano loro, le donne. Da sempre il sospetto che il sesso debole sia collegato al demonio e sia da lui utilizzato per tentare l’uomo è molto forte. “Più amara della morte è la donna”, si legge nella bibbia. Guaritrici, levatrici, nubili, zitelle o vedove. Magari vivevano un po’ discoste dal centro abitato. In comune avevano la conoscenza, tramandata oralmente di generazione in generazione, delle virtù delle erbe. Si diceva che sapessero controllare gli elementi naturali, che invocavano usando formule magiche in lingua arcana. A loro si ricorreva per sanare ferite, per guarire dai mali più diversi, per fare innamorare qualcuno, per abortire. Perché loro “sapevano”. Avevano, però, un “peccato originale”. Per le loro pratiche si rivolgevano a qualcosa di “altro” e di “misterioso”, che non era riconosciuto dall’ Autorità. Fosse quella politica oppure quella spirituale della Chiesa. Erano imbevute di religiosità popolare. L’antiqua religio, comunque sia, non erano controllabili. La stregoneria è una delle tante forme di persistenza di culti e credenze precristiani e possiedono tutti gli elementi della sapienza tipica, per esempio, dei druidi. Queste categorie, come altre del resto, durante quasi tutto il medio evo, sono viste con sospetto ma non fanno paura. Ne fanno, e molta di più, gli eretici, che vogliono sovvertire l’ordine sociale predicando contro la corruzione e l’inaffidabilità delle gerarchie ecclesiastiche. Ecco perché, al contrario di quanto si pensa, nei “secoli bui” le streghe sono rare. Ci sono anzi, in questo periodo, condanne ufficiali da parte delle autorità sia ecclesiastiche che politiche contro la superstizione delle streghe: il Primo Sinodo di san Patrizio, documento irlandese del VII secolo, stabiliva la scomunica per chi credesse nell’esistenza delle streghe e, in base a questo, accusasse qualcuno di esserlo. Un altro documento, l’Editto, emanato dal re longobardo Rotari il 22 novembre 643, stigmatizza, all’articolo 197, chi accusa una ragazza o una donna libera di essere una “strigam, quid mascam”, e condanna chi uccide una semilibera o una serva “come se fosse una strega”, a pagare una pena pecuniaria proporzionale al rango della vittima. Ma allora quando l’Europa si popolò di “streghe” portando all’apoteosi il triste fenomeno dell’Inquisizione? Fu alla fine del Medioevo, e il processo segui di pari passo il progressivo disfacimento della società feudale e la crisi dei suoi valori. Allora le “streghe” furono accusate di scatenare le tempeste e invocare la furia degli elementi naturali, di provocare epidemie, dialogare con divinità occulte e di produrre filtri prodigiosi, in grado di guarire ma anche di portare alla morte; di partecipare ai Sabba, di unirsi carnalmente col demonio, divorare carne umana e rapire i neonati per cibarsi del loro sangue e della loro carne. La caccia alle streghe divenne allora un tentativo di ristabilire l’ordine minacciato dai cambiamenti sociali. La figura femminile nel corso del Medioevo è stata tutt’altro che marginale. Le castellane assistevano i mariti negli affari economici e politici, avendo voce in capitolo; le badesse attingevano i frutti ai più alti rami del sapere; le donne del popolo, specie in luoghi appartati come le comunità rurali o montane, erano ciò che restava in vita del paganesimo, eredi di un sapere antico che non conosceva l’ossequio delle autorità, culturali o religiose che fossero. Per questo erano pericolose, per questo furono perseguitate. Per le loro pratiche, inoltre, si ponevano in concorrenza con i medici, che proprio a cavallo del passaggio dal Medioevo all’età moderna, andavano conoscendo un’affermazione sociale ed economica importante. Anche per loro le guaritrici erano una categoria scomoda, da eliminare. A decretarne la “soluzione finale” fu però il Concilio di Trento,(1545-1563). Da allora, sia nei paesi della cosiddetta Controriforma sia di più ancora in quelli che alla Riforma aderirono, quell’Europa che intorno al Mille, come scrisse il celebre cronista Rodolfo il Glabro, si era rivestita di un bianco manto di cattedrali si illuminò dei sinistri bagliori dei roghi. Il ricorso a tale forma di esecuzione era avallato dall’interpretazione di un passo del Vangelo di Giovanni laddove si dice che: “chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi viene raccolto per essere gettato via e bruciato” Fu una sorta di tragico contrappasso, se si considera l’abitudine presso le popolazioni pagane, ma che troviamo ancora oggi come sopravvivenza nel folklore, di ricorrere al fuoco come elemento di purificazione: basti pensare ai roghi accesi dai Celti in occasione della ricorrenza di Imbolc, (inizio Febbraio), passata al Cristianesimo come la Candelora; ai falò di sant’Antonio, alla festa brianzola della Giubiana, nella quale si brucia apotropaicamente un fantoccio che ha le sembianze di un’anziana. Le streghe erano, in definitiva, assieme ad altre categorie, dei “diversi”, soprattutto politici. Non solo donne, ma anche uomini, bambini, animali. Accomunati dal fatto di non appartenere, o aderire, alle categorie “classiche” della società “borghese”. La “streghizzazione” era una strategia attuata dalle “normalità” contro il “diverso”, perseguitato in quanto fuori da ogni controllo, e quindi pericoloso, da parte del potere. Del resto la strega, con la sua corte di spiriti infernali, tante volte rappresentati sui muri delle chiese per terrorizzare la gente, era la quintessenza del ribelle, proprio come il Diavolo, che aveva cominciato la sua malvagia carriera con un atto di insubordinazione contro il Padre Eterno. In genere la Chiesa era abbastanza inerte e tollerante. Tendeva a vivere e lasciar vivere, senza intervenire col pugno di ferro contro le antiche credenze fintanto che esse rimanevano nell’alveo della legalità. Ma c’erano delle eccezioni! Una di esse fu Carlo Borromeo, (1538-1584), arcivescovo di Milano e campione della Controriforma. Nell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, ex Sant’Uffizio, ci sono documenti che rivelano il ruolo di primo piano da lui svolto durante la persecuzione delle streghe nelle diocesi di Como e di Milano. Nel 1569, per esempio volendo applicare rigorosamente i decreti tridentini emanati per sradicare la superstizione, fece processare cinque donne di Lecco con l’accusa di stregoneria. L’anno prima a Dumenza, appartenente al vicariato di Luino, il Borromeo aveva chiesto la cattura di una certa “Domenica di Scappi, stria, ditta la Gioggia, denontiata al officio della santissima Inquisitione per stria notoria”, ne aveva ottenuto la condanna da parte dell’Inquisizione e la consegna al braccio secolare per esser arsa. L’anno prima di morire inviò in Val Mesolcina, in Svizzera, un inquisitore che fece processare e torturare per stregoneria 162 persone. Di queste 11 donne e il prevosto, che non avevano ritrattato, furono arsi sul rogo a testa in giù. L’Inquisizione operò su larga scala in tutto il paese e non solo. Basti pensare che a Palermo, nell’antico Palazzo di Piazza Marina, un tempo sede del Tribunale del Santo Uffizio, si possono ancora veder i solchi lasciati dalle due gabbie appese alla parte alta della facciata, dove per secoli restarono esposte le teste dei baroni che si erano ribellati a Carlo V all’inizio del suo regno, rimasero lì fino all’abolizione dell’Inquisizione, nel 1782, per volontà del viceré Domenico Caracciolo. Fino a quel momento avevano servito da monito per chi si schierava dalla parte degli “infedeli”. Questa è solo una piccolissima parte dell’operato del Santo Uffizio, dal quale dipendeva in modo diretto l’Inquisizione, che tanta parte ebbe nella lotta alle streghe e agli eretici. Ma quella degli eretici è un’altra storia.
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