Università Iuav di Venezia Dipartimento di Culture del Progetto quaderni della ricerca abitare la città Istanbul Theatrum Mundi unità di ricerca e didattica abitare la città Università Iuav di Venezia - dipartimento di Culture del Progetto Quaderni della ricerca Copyright ©MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] Istanbul Theatrum Mundi unità di ricerca e didattica a cura di Eleonora Mantese via Raffaele Garofalo, 133/A-B 00173 Roma [06]93781065 ISBN 978-88-548-6834-2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. Progetto grafico di Luciano Comacchio - MeLa Media Lab Coordinamento editoriale e impaginazione di Nicola Barbugian I edizione: febbraio 2014 Unità di ricerca: Abitare sociale e collettivo Eleonora Mantese, Nicola Barbugian, Diana Barillari, Andrea Calgarotto, Alberto Cibinetto, Cristiana Eusepi, Alioscia Mozzato, Gundula Rakowitz, Ugo Rossi, Teresita Scalco Indice 10 Istanbul, le chiavi della città Le ragioni di una scelta, Eleonora Mantese 26 Raccontare Istanbul attraverso le istituzioni culturali I casi di SALT e Museo dell’Innocenza, Teresita Scalco 36 Istanbul. Quale modernità? Il piano di Henri Prost per la città, Andrea Calgarotto 46 Novecento sul Bosforo D’Aronco e villa Italia, Diana Barillari 58 Mundus totus exilium est L’esilio dell’architettura. Bruno Taut in Turchia, Gundula Rakowitz 70 La casa ottomana Struttura e psicologia dell’effimero, Nicola Barbugian 86 Istanbul-Karaköy e altri luoghi Appunti per un diario di progetto, Cristiana Eusepi 103 Bibliografia Bosphorus, Istanbul 2007. Foto di Ahmet Polat ISTANBUL LE CHIAVI DELLA CITTÀ L’interesse di ricerca per la città di Istanbul ruota intorno alle molte facce della città composte attraverso ritmi di vita, spazi e ‘capricci’ estetici e politici che determinano la sua complessità ed è, in qualche modo, legato a un’ideale vicinanza con Venezia. Venezia rimane il punto di partenza e di arrivo di ogni nostra ricerca. I dipinti di Gentile Bellini, nel ritratto dello scriba seduto e del colto sultano Mehmet II, accompagnano le nostre intenzioni se non le nostre capacità. Bellini che ‘studia lo studioso’ e lo dipinge è per noi un’attitudine dello sguardo verso la circolazione delle idee. Lo scriba, emblema dell’opera di un fecondo artista veneziano diventa, poi, modello per gli artisti d’oriente. Istanbul e Venezia sono entrambe città-mondo nel senso che racchiudono significati plurimi, compresenze e intersezioni probanti che gli innesti sono salutari, che i sistemi di relazioni che mettono insieme le tre ‘età dell’uomo’ creano una qualità urbana, spaziale e vitale. A Istanbul, come a Venezia, l’individuale e l’universale si apparentano più facilmente che altrove e costruiscono fatti urbani dimostrativi e concreti. Molti dispositivi spaziali della città si sono costruiti, nella storia, a una scala che ha dimostrato un elevato grado di relazione per le persone attraverso i modi di abitare in rapporto agli edifici pubblici e religiosi, agli spazi aperti e alla relazione con il paesaggio, i mari e le lagune. A Istanbul il quartiere con moschea, mercato, bagno, chiosco è un’unità morfologica e di misura che relaziona le persone come avviene a Venezia nelle unità di vicinato interne al sestiere. Palladio crea un rapporto di teatralità urbana che domina il vuoto e raggiunge il territorio dell’entroterra con la stessa forza con cui Sinan costruisce la Moschea di Solimano come elemento di scala territoriale che si sviluppa, invece, negli edifici in modo introverso LE RAGIONI DI UNA SCELTA Eleonora Mantese 11/112 portando ogni funzione all’interno. Palladio e Sinan usano dispositivi spaziali che partono dall’interno e raggiungono l’intero territorio come rileva Howard Burns e richiama Diana Barillari, sottolineando la vicinanza della residenza degli ambasciatori di D’Aronco con la villa veneta. Palladio e Sinan sono coetanei e a Costantinopoli prestò servizio come bailo Marcantonio Barbaro. Istanbul e Venezia sono città primarie e determinanti per il pensiero progettuale di Le Corbusier che, di entrambe, studia la scala delle relazioni tra elementi maggiori e minori, il campo, la chiesa, la gondola, a Venezia, la moschea e la casa a Istanbul. Nel suo voyage utile a Stamboul, le Corbusier mette in evidenza, con gli scritti e gli schizzi, il rapporto tra la casa dell’uomo, connotata dal legno come materiale prevalente e da una sorta di laconico anonimato contrapposto alla rappresentazione in pietra della casa di Allah. È la Moschea verde di Bursa, del resto, che Le Corbusier porta ad esempio dello sviluppo del disegno della pianta di un edificio che procede dall’interno all’esterno. I disegni di Le Corbusier di Istanbul sono marcati dall’attenzione alla duplicità scalare della città e del dettaglio, di elementi maggiori e minori, delle geometrie e delle luci e restituiscono ancora la migliore lezione di architettura e di interpretazione dell’architettura della città e del suo valore urbano. Certo, alla fine, resta prevalentemente una vicinanza mentale e iniziano le differenze enormi che hanno percorso la storia in una direzione che a Istanbul accentua la drammaticità, la grandiosità, la velocità e a Venezia la lentezza, la ripetitività, un senso di sicurezza appagante anche se solo apparente e si spezza immediatamente quando si rapporta con la politica della città e dell’entroterra o ha a che fare con l’acqua che è un altro elemento comune di enorme rilevanza. Come annotava Burckhardt, “Venezia è città della calma apparente e del silenzio politico”. Abbiamo imparato molto da Venezia, il nostro bistrattato sancta sanctorum dell’architettura e della vita. Si potrebbe rimanere ma vorremmo imparare molto anche da Istanbul, non solo per le vicinanze e le similitudini ma per le esplosive contraddizioni in atto. Sono città il cui destino appartiene al mondo e sono realtà molto più vicine di quanto si possa pensare. Basti pensare al legame con il mare, con la cultura e con il commercio. La ricerca sta prendendo un avvio a quello stato di preconoscenza in cui il sapere del singolo si moltiplica in modo esponenziale quando viene condiviso all’interno di una comunità scientifica. Gentile Bellini, Ritratto di giovane scriba turco (1479-80), Boston (MA), Isabella Stewart Gardner Museum 12/112 Teresita Scalco, dottore in Scienze del Design a Venezia, una mente fervida, appassionata e raffinata, una ricercatrice di sostanza, è il validissimo Virgilio che ci ha introdotto in molti aspetti che connotano le attività culturali e pluridisciplinari della città, divenute a Istanbul una marcatura di senso per intere parti della città che possono essere indicazioni per un progetto praticabile a Venezia. Dopo il convegno internazionale Istanbul City Portrait, nell’ambito del ciclo di conferenze ‘Ritratti di città’ all’interno della Scuola di Dottorato di Venezia, curato da Teresita Scalco con Moira Valeri e Marco Vani, la ricercatrice continua il suo studio sulla forza motrice e promotrice delle istituzioni culturali, musei, archivi, centri di ricerca dedicati all’arte e all’architettura in grado di attivare dinamiche virtuose all’interno della città. Il Bosforo con il profilo della città caratterizzato dai centri antichi disposti lungo le sponde e i grattacieli sullo sfondo. 14/112 15/112 Le istituzioni culturali hanno a Istanbul un ruolo attivo nella città. Basti pensare all’importanza assunta dalla Biennale d’Arte arrivata alla tredicesima edizione e alla più recente Biennale del Design. Inoltre, un ruolo importante è assegnato dalla studiosa alla fotografia come strumento di conoscenza e d’interpretazione della complessità della città con l’avvio del progetto Views of Istanbul. Si tratta di una ricerca visuale che raccoglie contributi di fotografi autorali che scrutano aspetti salienti della metropoli. Una parte della ricerca inizia il lavoro di esplorazione intorno alle presenze di architetti europei nella città di Istanbul. Le Plan Directeur d’Istanbul di Henri Prost, architetto coetaneo e amico di Auguste Perret è il primo piano per la città. Prost lavora sulla città, chiamato da Atatürk dal 1936 al 1951. Di questo si occuperà in futuro il dottorando Andrea Calgarotto, cultore di studi su Perret ricercando l’eredità del maestro. L’architetto friulano-gemonese Raimondo D’Aronco è presente a Istanbul con molte opere tra cui la residenza dell’Ambasciata italiana a Tarabya, oggi in stato avanzato di decomposizione ferendo il nostro orgoglio di Patria nel confronto con gli attigui grandi recuperi tedeschi destinati al soggiorno di studio di ricercatori di diverse discipline. La cosa ferisce non poco quando gli studiosi tedeschi rimarcano questa differenza che non è solo incuria e rimpianto per un restauro incompiuto ma per la loro mancata messa in uso per relazioni culturali oggi irrinunciabili. Diana Barillari, docente studiosa di Raimondo D’Aronco, mette in rilievo il ruolo dell’architetto italiano in Turchia e a Istanbul. Gundula Rakowitz guarda alla presenza di Bruno Taut a Istanbul e ai suoi progetti meticci aprendo un nuovo capitolo della sua ricerca sull’apporto mitteleuropeo in Oriente. Un ampio spazio sarà offerto alla ricerca, secondo le indicazioni dello storico e critico Gökhan Karakus, al ruolo degli architetti appartenenti alle minoranze italiane, levantine, greche, armene. Un elenco di nomi compare qui nella foto The Cemetery of Architects del fotografo Tayfun Serttas. Per citare alcune presenze italiane, oltre a Raimondo D’Aronco, Giulio Mongeri, Gaspare e Giuseppe Fossati, Delfo Seminati, Eduardo De Nari, Giacomo Leone, Giorgio Domenico e Ercole Stampa. Tayfun Serttas, Mimarlar Mezarlıgı / Cemetery of Architects 16/112 17/112 Il Corso di Progettazione del primo anno si sofferma nell’anno accademico 2013-2014 su alcuni archetipi di abitazioni tra cui la casa ottomana. La figura di riferimento non può che essere quella dell’architetto turco Sedad Hakki Eldem, dei suoi progetti per abitazioni e grandi istituzioni quali l’Università di Istanbul e sull’eredità lasciata attraverso il lavoro dei suoi allievi. Il lavoro degli studenti è coordinato dalla sottoscritta e da Andrea Calgarotto e guidato, nello studio del tipo della casa yali, da Nicola Barbugian. Gli altri archetipi affrontati dagli studenti per produrre confronti fertilissimi per l’essenza stessa della natura e dei modi dell’abitare, per la misura, per i materiali, per la decorazione, per la struttura costruttiva, sono la casa anglosassone, la casa romana, la casa giapponese. Per questi ambiti gli studenti sono guidati, rispettivamente, da Alberto Cibinetto, Alioscia Mozzato, Ugo Rossi. Nei prossimi mesi gli studenti progetteranno alcune abitazioni lungo il Bosforo in un’area compresa tra un’abitazione, il tipo dello yali o residenza estiva, realizzata nel 1699, e il rudere di un’altra vecchia casa. Scopo di questo seminario è anche la costituzione di un laboratorio di laurea che vede impegnate le persone sopra nominate e Cristiana Eusepi che ha il compito di coordinare la ricerca e di lavorare sull’area di progetto che va da Galata al primo ponte sul Bosforo. Di nuovo vengono messi in gioco temi analoghi ad alcuni nodi irrisolti di Venezia, il progetto portuale, il progetto turistico e il progetto culturale. Nell’area lungo il Bosforo, la complessità si esplicita nella mixité funzionale. Da Galata al ponte sul Bosforo si susseguono parti di città chiaramente riconoscibili e che, via via, diventano familiari anche nella difficile lingua turca. Karaköy, punto di concentrazione dei traghetti per la parte asiatica, Tophane dove l’insediamento di Istanbul Modern introduce alla presenza dell’arte contemporanea, la stazione marittima con presenze molto simili alle grandi navi veneziane ma collocate in luogo adeguato, Besiktas con la grande presenza del palazzo di Dolmabahce e Ortaköy a ridosso del ponte sul Bosforo. Alle spalle di questa parte a mare, la città sale rivelando, attraverso il trasporto funicolare a Kabatas, una vicinanza stretta al nucleo di Taksim Square. Le tradizionali letture tipo-morfologiche servono a capire la formazione delle singole parti ma vanno affiancate a interpretazioni provenienti da molte altre discipline. Le parole chiave si moltiplicano. Una nave cargo all’ingresso del Bosforo, sullo sfondo il profilo della città con i grattacieli del nuovo downtown in secondo piano. Foto Moira Valeri 18/112 19/112 Un collegamento con Becoming Istanbul fa affiorare molte chiavi di lettura meno consuete che aiutano a capire gli immensi flussi e i ritmi incalzanti di una condizione metropolitana. Termini come accumulazione, consunzione, rottura, procrastinazione, glorificazione, desolazione, memoria, silenzio e molte altre parole si legano tra loro restituendo significati multipli ad ogni termine e accentuano la complessità. Istanbul, europea e islamica a un tempo, rappresenta un nodo cruciale di quanto sta avvenendo per gli accenti drammatici che la sua trasformazione in metropoli e la creazione di un’imponente ‘nuova geografia della città’ inducono. La città di Istanbul studiata con sguardo veneziano è dunque il punto di partenza di questa ricerca in cui ogni apporto disciplinare è accolto con molto interesse. Becoming Istanbul, mostra e data base. A cura di Pelin Dervis, Bülent Tanju e Ugur Tanyeli. 20/112 21/112 Piri Reìs, mappa di Istanbul dal Kitab-ı Bahriye (Libro della marineria) di Piri Reìs, XVI secolo 24/112 Piri Reìs, mappa di Venezia dal Kitab-ı Bahriye (Libro della marineria) di Piri Reìs, XVI secolo 25/112 Interno di SALT Beyoglu, foto Iwan Baan (2012) RACCONTARE ISTANBUL ATTRAVERSO LE ISTITUZIONI CULTURALI Nel saggio Dalla ‘città-museo’ al ‘museo-città1, Pippo Ciorra offre una lettura dell’intervento museale – sia esso un edificio ex-novo o una conversione d’uso di un edificio preesistente di carattere storico e/o industriale – come un ingranaggio del sistema urbano in grado di rigenerare intere aree della città. Il progetto museale diviene, così, il tassello di una idea più ampia che travalica i muri dentro i quali si conservano collezioni, realizzano mostre e svolgono attività. Dalla seconda metà degli anni ’90 ad Istanbul, si è assistito ad un proliferare di nuove istituzioni culturali, ma nessuna di queste è stata accompagnata dalla costruzione di un nuovo edificio, quanto piuttosto si è andati nella direzione di recuperare edifici nati per finalità industriali, finanziarie o commerciali, sposandosi dall’asse della peninsula storica di Sultanahmet, verso aree considerate all’inizio degli anni 2000 come periferiche nella parte europea, principalmente lungo l’Haliç (il Corno d’Oro), convertendolo progressivamente in un bacino culturale, grazie all’insediamento di numerose istituzioni culturali, quali la Kadis Has (Università e Museo), Koç Museum, Santralistanbul (Museo e campus universitario), Istanbul Modern. Inoltre epicentro delle attività culturali è la municipalità di Beyoglu (Pera), che arriva fino a Galata, la cittadella medioevale genovese, e Tophane, una delle ex-aree portuali della città. All’interno della giovane geografia museale, la politica museale delle diverse municipalità è ancora frammentata, ma grazie all’iniziativa filantropica di imprenditori privati e fondazioni bancarie si sta delineando un asse, che mi piacerebbe chiamare come il museum mile di Istanbul. Per la singolarità delle loro storie e missioni istituzionali, mi soffermerò su due casi studio: SALT e il Museo dell’Innocenza. I casi di SALT e Museo dell’Innocenza Teresita Scalco 01. P. Ciorra, Dalla ‘città-museo al ‘museo-città, in P. Ciorra, Botta, Eisemnman, Gregotti, Hollein: musei, Electa, Milano 1991. 27/112 SALT SALT è un’istituzione privata poliedrica con due sedi: SALT Beyoglu (inaugurata nell’aprile 2011) e SALT Galata (novembre 2011). Il primo è uno spazio espositivo e walking cinema, lungo Istiklal, e l’altro un centro di ricerca SALT Research, con uno spazio espositivo ‘Open archive’. SALT si pone come una piattaforma per la sperimentazione e valorizzazione di progetti interdisciplinari, volta all’attivazione critica del dibattito sulle discipline del progetto e delle arti. La mostra di battesimo di SALT è stata Becoming Istanbul, curata da Pelin Dervis, Bülent Tanju e Ugur Tanyeli, risultato di un percorso di ricerca in progress dal 2007, che si basa su un databese interattivo, in grado di raccontare la città nel suo divenire, le trasformazioni in corso, che spesso sono delle lacerazioni del suo tessuto sociale ed urbano. Al contempo SALT Galata è la prima istituzione turca che raccoglie archivi relativi all’archi- tettura, design2, arte e dell’Istanbul Biennial, ed è la sede all’archivio-museo dell’Imperial Ottoman Bank3, che conserva un patrimonio inestimabile per gli studi socio-economici della città, tra il XIX e il XX secolo. La definizione progettazione degli spazi di SALT Research, di SANAL Architecture Planning, sottende la missione di questo centro di ricerca, ovvero scostarsi dal classico immaginario delle biblioteche o centri di ricerca, convinti che la conoscenza emerga dall’apertura e scambio dialettico tra le persone. Si guarda alla città di Istanbul per trarne i colori che vengono usati per creare i tessuti delle sedie di Derya Mobylia e di Sadi Özis del 1964, mentre si crea una narrazione tra le colonne dell’atrium, per pensare alla struttura sinuosa dell’Artist Archive, così che l’orchestrazione di questi spazi diventa un veicolo per produrre e dilatare una nuova comprensione del contesto in cui s’inserisce. Ingresso alla mostra Becoming Istanbul, foto Teresita Scalco Interno di SALT Research Galata, progetto di Murat e Alexis Sanal, foto Iwan Baan (2012) 02. Nel 2008, sotto la supervisione di Gökhan Karakus si costituisce il primo Architecture and Design Archive Turkey (ADAT). 03. Realizzata da Alexander Vallaury nel 1980. 28/112 29/112 Il Museo dell’Innocenza più Nel libro-progetto artistico del Museo dell’Innocenza, Orhan Pamuk, ad un primo sguardo, racconta una storia d’amore che si consuma in una casa nella zona di Cihangir di Beyoglu, e più precisamente a Çukurcuma Caddesi, attraverso oggetti d’uso comune, ma anche il quartiere più cosmopolita, della comunità greca, armena ed italiana, caduto in un profondo degrado, dopo i Pogrom del 1955 e del 1964. All’interno del Museo, Pamuk cerca di dar voce, non solo a quella babele di oggetti senza nome, ma anche a quell’atmosfera nostalgica, a quel tempo ormai perduto, dove la belle vie della città pulsava. Per fare questo, Pamuk concepisce insieme libro e museo, come rappresentazioni speculari, di quel specifico frammento storico di Istanbul, con una nuance autobiagrafica, che va dagli anni ’50 agli anni ’90. L’obiettivo di Pamuk è quindi quello di ricordarci che, come nel romanzo, lo spazio del museo è una finzione una sorta di dispositivo per comprendere meglio il tempo, il nostro tempo. “Emanciparsi dal senso del Tempo, trascendere il Tempo: è questa la più grande consolazione della vita”4 Nell’ultima parte del libro ci fa sentire la sua passione per i musei privati o case di collezionisti e intellettuali cosmopoliti europei, per quelle ‘case della memoria’, in cui oltre a preservare gli oggetti, si cerca anche di trasmettere l’alone sentimentale della vita che ha preso vita all’interno degli spazi. Fatto bagaglio di questa cultura, all’interno del suo Museo compie un’operazione in più, solletica non solo la vista, ma anche l’udito: immergendosi nei suoni di Istanbul ci fa sentire la sua ‘voce’, il vento che soffia sul Bosforo, i spezzoni di film e serie televisive turchi degli anni ’70 o dei filmini in 8mm tratti dall’archivio personale della famiglia Pamuk degli anni ’50. Esterno del Museo dell’Innocenza su Çukurcuma Caddesi, foto Innocence Foundation e Retik Anadol 04. O. Pamuk, Il museo dell’Innocenza, Einaudi, Torino 2009, p. 562. 31/112 Vista dell’interno, al primo piano, del Museo, foto Innocence Foundation e Retik Anadol Modello del Museo dello studio Sunder-Plassmann Architekten, foto Johanna Sunder-Plassemann 32/112 Come rappresentare, dare corpo alla vita delle persone all’interno di una città? Come salvare ciò che è scivolato nell’oblio e che rischia di non consegnarsi alla storia o più semplicemente ad una riflessione sul contesto nel quale viviamo? Queste alcune delle domande che rimangono ancora aperte nel mio percorso di ricerca. Conservare, interrogare la memoria del contemporaneo, integrare valori moderni e quindi occidentali, con quelli tradizionali legati alla cultura ottomana, è probabilmente uno dei nodi cruciali più ardui da dipanare - per questo particolamente interessanti -, se s’intende tentare di dare un contributo alle storie delle discipline del progetto in Turchia, ieri come oggi. Mappatura dei musei ed istituzioni culturali ad Istanbul, tratto e rielaborato nel 2012 dalla pubblicazione Mapping Istanbul 34/112 35/112 «La modernizzazione di Istanbul può essere comparata a un’operazione chirurgica tra le più delicate. Non si tratta di creare una città nuova su un terreno vergine, ma di orientare un’antica capitale, in piena evoluzione sociale, verso un avvenire dove la meccanica e forse il livellamento delle fortune trasformeranno le condizioni di vita» H. Prost, Les transformations d’Istanbul, 1947 ISTANBUL. QUALE MODERNITÀ? IL PIANO DI HENRI PROST PER LA CITTÀ L’architetto e urbanista francese Henri Prost1 appartiene a quel gruppo di architetti europei che hanno intrecciato le loro vicende personali e professionali con la città di Istanbul. Nell’ambito del processo di occidentalizzazione varato da Atatürk, è chiamato a guidare le trasformazioni urbanistiche della città sul Bosforo. In questo quadro redige il primo piano urbanistico della città, nell’ottica di trasformare l’antica capitale imperiale in una moderna metropoli capace di competere con le grandi città occidentali. Il primo contatto di Henri Prost con Istanbul avviene durante la formazione accademica, intrapresa nella capitale francese prima all’École spéciale d’architecture e poi all’École des Beaux-Arts. Nel 1905 accompagna Jean Hulot, suo amico e compagno di studi, in un viaggio che tocca Grecia e Turchia. Raggiunge la capitale ottomana nel settembre 1905 e vi rimane fino al gennaio dell’anno successivo. Colpito dallo splendore di Santa Sofia e, allo stesso tempo, dalle sue precarie condizioni di conservazione, decide d’intraprendere, nel quadro dei consueti progetti richiesti agli studenti dell’École durante i loro soggiorni di studio, un progetto di restauro dell’antico monumento che lo impegnerà in accurati rilievi e restituzioni grafiche. Nel 1903, durante un soggiorno a Villa Medici, sede romana dell’Académie de France, conosce Tony Garnier, impegnato nel progetto della Cité industrielle. È probabilmente da questo incontro che Prost inizia a maturare un interesse verso l’urbanistica. Questo interesse lo condurrà, dieci anni dopo, a fondare, con Donat-Alfred Agache ed Eugène Hénard tra gli altri, la Société Française des Urbanistes, assumendo a pieno titolo il ruolo di pioniere della nascente disciplina nella Francia d’inizio Novecento. Gli anni successivi Trasformazione della città e salvaguardia dell’antico Henri Prost, estratto dal piano regolatore di Istanbul (1937). Il disegno evidenzia in maniera sintetica la nuova viabilità prevista e il sistema di parchi e spazi pubblici Andrea Calgarotto 01. Prost nasce a Saint-Denis il 25 febbraio 1874, muore a Parigi il 17 luglio 1959. 37/112 vedranno Prost impegnato in un’intensa attività di pianificazione che lo consacrerà nel panorama nazionale e internazionale. Tra il 1913 e il 1923, come dirigente del Service Spécial d’Architecture et des Plans de Villes del Protettorato del Marocco, sviluppa i piani regolatori di Casablanca, Rabat, Fez, Meknès e Marrakech2. Tornato in patria, redige il piano territoriale costiero del dipartimento di Var e, dal 1928, il piano direttore per la regione parigina, presentato ufficialmente nel 1934. Oltre a questi progetti interviene a Lione, Metz, Tunisi, Algeri, Valencia e Smirne. Accanto all’attività progettuale, Prost svolge un’intensa azione pedagogica all’Institut d’urbanisme e all’École spéciale d’architecture, che dirige dal 1929 fino alla morte. L’esperienza svolta da Prost negli anni coniuga innovazione e tradizione. Distante da un approccio meramente tecnico verso la disciplina, delineato sul finire del secolo precedente in area germanica, nelle sue opere coniuga tematiche legate al disegno urbano di tipo Beaux-Arts con le tecniche e gli strumenti messi a punto dall’urbanistica moderna, come la zonizzazione. Come il suo coetaneo Auguste Perret, Prost appartiene a quel gruppo di progettisti che nei primi anni del Novecento raccolgono le sfide lanciate dall’epoca moderna senza rinnegare quel patrimonio culturale ereditato dal passato. Questo substrato culturale lo spinge a conciliare, nei suoi progetti, la salvaguardia delle preesistenze ambientali con l’innesto di parti e attrezzature nuove, appropriate all’epoca moderna e capaci di stimolare lo sviluppo delle città. Emblematico di questo approccio è il piano di Rabat dove, anticipando l’idea di ‘città per parti’, conduce un autentico montaggio di parti senza forzarne l’omologazione. L’antica medina, salvaguardata nella sua identità morfologica, è accostata a un nuovo quartiere amministrativo dall’impianto tipicamente europeo. Questo approccio costituisce la base del grande piano per Istanbul, che rappresenta un punto ancora poco esplorato all’interno dell’esigua letteratura consacrata all’autore3. Nel 1935 Prost è chiamato a Istanbul per dare un nuovo volto alla principale città della neonata Repubblica di Turchia4. Alcuni interventi volti a modernizzare la città sul Bosforo, 02. Cfr. R. Cattedra, Nascita e primi sviluppi di una città coloniale: Casablanca, 1907-1930, in «Storia urbana», 53 (1990), pp. 127-179; J.-L. Cohen, Casablanca, banco di prova per l’urbanistica dell’ampliamento (1912-1930), in «Casabella», 593 (1992), pp. 30-37; A. Bertoni, Henri Prost e la città coloniale nel Marocco francese, 1914-1923, in «Storia urbana», 92 (2000), pp. 47-72; M. M’Hammedi, Rabat, un urbanisme colonial français entre utopie et réalité, in P. Chassaigne e S. Schoonbaert (a cura di), L’Urbanisme, des idées aux pratiques. XIXe-XXe siècle, Presses Universitaires de Rennes, Renns 2008, pp. 89-96. 03. Per un bilancio retrospettivo dell’opera di Henri Prost cfr. L. Hautecœur et al., L’Œuvre de Henri Prost: architecture et urbanisme, Académie d’architecture, Paris 1960. Cfr. anche J. Royer, Henri Prost, Urbaniste, in «Urbanisme», 88 (1965), pp. 2-31; L. Hodebert, Henri Prost, in «AMC», 61 (1995), pp. 60-65; J.-P. Frey, Henri Prost (1874-1959): parcours d’un urbaniste discret (Rabat, Paris, Istanbul...), in «Urbanisme», 336 (2004), pp. 79-87. Sul piano per Istanbul cfr. D. Peyceré et al., From the Capital of Empire the Modern City of the Republic. Henri Prost’s Stanbul Plans (1936-1951), catalogo dell’esposizione, Istanbul Research Institute, Istanbul 2010. 04. Già nel 1934 il governo turco invita Prost a partecipare a un concorso per il piano urbanistico della città ma l’urbanista declina inizialmente l’incarico perché totalmente assorbito dal piano direttore per la regione parigina. 38/112 Henri Prost, progetto di restauro di Santa Sofia, pianta prospettica (senza data). Questa pianta appartiene a un ciclo di disegni elaborati tra il 1905 e il 1907 durante la formazione all’École des Beaux-Arts Nella pagina seguente. Henri Prost davanti a una foto aerea del Corno d’Oro prima della costruzione del ponte Atatürk 39/112 sul modello delle grandi capitali europee, sono rintracciabili già nell’Ottocento, durante il regno dei sultani, ma si tratta di interventi sporadici e poco efficaci. Prost redige un piano organico di interventi nella prospettiva di conciliare sviluppo e salvaguardia dell’immagine e dell’identità urbana. «Questa città - scrive - vive di un’attività prodigiosa; realizzare le grandi arterie di circolazione senza nuocere allo sviluppo commerciale e industriale, senza ostacolare la costruzione di nuove abitazioni, è una necessità imperiosa, d’ordine economico e sociale; ma conservare e proteggere l’incomparabile paesaggio, dominato da dei gloriosi edifici, è un’altra necessità tanto imperiosa»5. Da questo programma culturale individua tre temi che costituiscono le ‘dorsali’ del piano: la salvaguardia delle parti più antiche quali depositarie dell’identità cittadina; la completa ridefinizione del sistema infrastrutturale quale ossatura per lo sviluppo della città; la costruzione di un sistema di parchi e spazi pubblici. Il piano di Prost ha realmente aderito ai suoi presupposti iniziali che appaiono, se non propriamente contraddittori, quantomeno ambigui? Quali materiali, strumenti, figure ha impiegato? Quali tracce ha lasciato questo piano nella città attuale? Questi interrogativi tracciano le direzioni della ricerca futura. 05. H. Prost, Les Transformations d’Istanbul, memoria dattiloscritta inedita, Paris, 17 settembre 1947 (T.d.A.). Beyoglu, vista del centro degli affari dal ponte di Galata. Foto di Henri Prost Santa Sofia e, sullo sfondo, il Bosforo. Foto di Henri Prost Tutti le immagini che accompagnano lo scritto sono tratte dal libro L’Œuvre de Henri Prost: architecture et urbanisme, Académie d’architecture, Paris 1960. Nelle pagine seguenti. Henri Prost, piano regolatore di Istanbul, riva europea (1937) 42/112 43/112 44/112 45/112 Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, prospettiva, agosto 1905, archivio privato NOVECENTO SUL BOSFORO D’ARONCO E VILLA ITALIA Genius loci e Modernismo nel progetto di Raimondo D’Aronco per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya sul Bosforo (1905-1906). Diana Barillari Oltre all’edificio che ospitava la sede dell’Ambasciata a Istanbul ovvero lo storico Palazzo di Venezia già sede della Serenissima Repubblica e poi dell’Impero Austro-ungarico, il Regno d’Italia aveva ricevuto in dono dal Sultano Abdülhamid II anche una residenza a Tarabya sulla sponda europea del Bosforo, una località dove si trovavano gli edifici di altre legazioni quali Gran Bretagna Francia e Germania1. Il Ministero degli Affari Esteri commissiona il nuovo edificio a Raimondo D’Aronco2 che dal 1893 lavorava a Costantinopoli e aveva solidi legami professionali con il Sultano, la corte e numerosi ministeri: l’architetto elabora il progetto tra il 1905 e il 1906, conservando alcuni ambienti della costruzione precedente (fabbricato uso cucina, deposito di carbone, servizi sotto la prima terrazza del giardino) e sistemando il giardino posteriore caratterizzato da terrazzamenti e giardini pensili (posti rispettivamente a m. 2, 7, 8,5 e 14 s.l.m)3. Il progetto per l’ex Residenza estiva come quello di poco posteriore per casa Huber (1906) sempre a Tarabya, impegnano D’Aronco a progettare anche il giardino, permettendogli così di confrontarsi con un tema caratteristico dell’architettura realizzata lungo le sponde del Bosforo, che a partire dal XVI secolo ospitava yali, chioschi e parchi destinati alla caccia e a brevi soggiorni estivi da parte del Sultano e della corte. Il modello di riferimento è il palazzo del Topkapi, un piccolo universo acentrato nel quale acqua e vegetazione insieme all’architettura si fondono per creare un armonioso contesto paesistico che può essere confrontato alla cultura delle ville venete. Il piano terra è organizzato intorno al vestibolo d’onore di forma rettangolare situato sull’asse principale nord-sud perpendicolare al fronte strada che prospetta il Bosforo (est). Ripartito da due coppie di colonne che delimitano lo spazio anche a livello funzionale – a nord l’ampio scalone d’onore e a sud un accesso secondario dal giardino – lo spazio del 01. Una radicale revisione dell’edificio venne effettuata dal bailo Andrea Memmo nel 1777. 02. M.Nicoletti, Raimondo D’Aronco e l’architettura Liberty, Laterza Roma Bari 1982; Raimondo D’Aronco architetto, cat. mostra a cura di E.Quargnal e M.Pozzetto, Electa, Milano 1982; V.Freni, C.Varnier, Raimondo D’Aronco l’opera completa, Centro grafico editoriale, Padova 1983; D.Barillari, Raimondo D’Aronco, Laterza, Roma-Bari 1995; D.Barillari, E.Godoli, Istanbul 1900 Architetture e interni Art Nouveau, Cantini, Firenze 1996; D’Aronco “architetto ottomano” 1893-1909, cat mostra a cura di D.Barillari, M. Di Donato, Istanbul Arastirmalari Enstitüsü, Istanbul 2006. 03. Le tavole del progetto si trovano a Udine dove, presso i Civici Musei-Gallerie del Progetto, è conservato l’archivio D’Aronco. 47/112 vestibolo rielabora l’atrio a quattro colonne di Palladio ma allo stesso tempo si allinea alla tradizionale configurazione dell’architettura ottomana, dove allo spazio centrale (sofa) fanno corona le stanze (oda). Questa disposizione spaziale caratteristica dell’abitazione turca ha in D’Aronco un convinto sostenitore, infatti nella casa che progettò per la propria famiglia a Torino (1903) limitò l’uso dei corridoi per fare spazio a una vasta «Hall», un ambiente molto funzionale che aveva potuto sperimentare direttamente vivendo in una abitazione tradizionale a Arnavutköy4. La pratica maturata con l’edilizia residenziale ottomana di yali (le caratteristiche abitazioni lungo il Bosforo) e chioschi gli consentì di approfondire lo studio delle piante, caratterizzate da un nucleo centrale collegato alle stanze secondo un asse longitudinale o trasversale. Il corpo scale in questi edifici viene solitamente addossato a uno dei lati perimetrali e consiste di una doppia rampa con pianerottolo intermedio tra un piano e l’altro. Questa disposizione a partire dal XIX secolo assume una disposizione sempre più rigorosamente simmetrica che trova corrispondenza nei prospetti, caratterizzati dall’alternanza di volumi aggettanti, sostenuti da mensole lignee. Nel tracciare l’evoluzione della casa turca con hayat Dogan Kuban individua nella permanenza del sofa anche nel periodo che segna la massima adesione all’influenza occidentale, un carattere distintivo della committenza ottomana, da un lato attirata dalla modernità ma al contempo contraria a abbandonare il modello distributivo sofa-oda, funzionale a una società con tradizioni e esigenze ben differenziate da quelle europee5. Per un architetto di formazione occidentale e attento all’innovazione quale D’Aronco il sofa svolge funzioni analoghe a quelle di una hall, un elemento di stringente attualità nel dibattito architettonico in corso, in particolare nel mondo anglosassone. Anche quando i palazzi dei Sultani e della corte costruiti lungo il Bosforo – Dolmabahçe, Beylerbey, Küçüksü, Ihlamur, Çiragan – impiegano il linguaggio europeizzante degli stili architettonici e sostituiscono il legno dei rivestimenti con il marmo, le piante conservano la distribuzione tradizionale degli spazi interni, cosicché Dolmabahçe con la sua monumentale facciata di 284 metri in realtà comprende sette unità residenziali distinte. Lo spazio rettangolare del vestibolo caratterizza anche la disposizione dei piani superiori, dove trovano collocazione le sale di ricevimento e rappresentanza al primo piano, e le Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, l’edificio durante i lavori di costruzione, 1906 circa, archivio privato 48/112 04. Il riferimento si trova in una lettera indirizzata all’ingegner Bonelli che era stato incaricato dall’architetto trattenuto a Istanbul di seguire i lavori di costruzione della casa a Torino, Raimondo D’Aronco lettere di un architetto, a cura di E.Quargnal, del Bianco, Udine 1982, p.126. 05. Dogan Kuban, The Turkish Hayat House, Eren, Istanbul, 1995, pp.64-93. 49/112 camere da letto al secondo e terzo. Questi ultimi due piani sono caratterizzati da uno spazio a doppia altezza circondato da una balconata lungo il perimetro, che lascia fluire la luce che arriva dall’abbaino situato sul lato meridionale, creando un suggestivo effetto di dilatazione spaziale. Le tante suggestioni classiche e rinascimentali che la disposizione della pianta rievoca sottolineano il carattere di rappresentanza dell’edificio, accresciuto dalle figure allegoriche quali l’Italia con corona turrita posta sulla fontana dell’ingresso, lo stemma Savoia sulla facciata verso il Bosforo, il bugnato del portale d’ingresso, la trifora centrale archivoltata. La sintonia con l’architettura ottomana è riscontrabile oltre che nell’interpretazione del modello distributivo della pianta, anche nell’utilizzo delle tecniche costruttive, in particolare nella relazione di progetto D’Aronco specifica che «le facciate saranno composte di un’ossatura verticale e orizzontale di travi di quercia e di ossature interne […] Le pareti esterne saranno formate di un rivestimento di tavole di larice spalmate di olio di lino sulle due facce prima della loro posa in opera, e quelle interne di un intonaco applicato sopra listelli di legno»6 Questa ultima indicazione consente di individuare una tecnica comunemente in uso nelle abitazioni in Turchia denominata bagdadi che consiste nella stesura dell’intonaco su un incannicciato o un graticcio di legno. La descrizione dei materiali impiegati per costruire le facciate invece consente di istituire un confronto duplice sia con la tecnica del balloon frame ma anche con l’ossatura portante in montanti e traversi di legno che viene impiegata per le abitazioni tradizionali turche, nella quale l’intercapedine risultante tra esterno e interno viene riempita da mattoni o inerti. Questa tecnica diffusa a seguito delle conquiste ottomane in molti paesi balcanici non si discosta molto dall’opus craticium impiegato in epoca romana, del quale restano interessanti esempi in alcune abitazioni a Pompei. Fino all’altezza del primo piano D’Aronco impiega la struttura in muratura proprio come nella casa tradizionale allo scopo di isolare i piani superiori dall’umidità, mentre per i solai impiega voltine in laterizio su travi in ferro. Le tavole di progetto dell’ex Residenza documentano anche il sistema delle fondazioni composto da pali posti in corrispondenza dei muri perimetrali, un accorgimento indispensabile dato che era necessario consolidare il terreno che si trovava a pochi metri dalla sponda del Bosforo. Raimondo D’Aronco, ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, particolare di una parete con la struttura portante in ossatura di legno e riempimento in mattoni, foto dell’autrice, 2006 06. V.Freni, C.Varnier, op. cit., p. 169. 51/112 La composizione delle facciate lascia trasparire la suddivisione degli interni, in particolare quella orientale rivolta verso il Bosforo, dove grazie agli aggetti, ai cornicioni marcapiano e al rivestimento si può leggere – a partire dal pianterreno – la sequenza di vestibolo, sala di attesa al primo piano e superiormente le camere da letto disposte intorno alla hall a doppia altezza. Sul lato nord l’ampia falda del tetto si piega a formare un triangolo entro il quale viene alloggiato un balconcino, mentre a sud la cornice marcapiano si interrompe per lasciare spazio al grande abbaino che appoggia sullo sbalzo orizzontale della falda del tetto che funge da copertura alla terrazza del primo piano. Se da un lato la decorazione dei prospetti con il rivestimento in liste di legno orizzontali, i pannelli decorati a policromie vivaci posti nella parte interna delle falde del tetto (losanghe, rombi, ovali, rettangoli) i bow-windows e i balconi sporgenti ricordano la tradizionale architettura ottomana, altri elementi ornamentali sono tratti dal repertorio del Modernismo, come le colonnine a sigaro e le superfici decorate con motivo a scacchiera. La modernità che la critica concordemente attribuisce alle architetture realizzate da Raimondo D’Aronco in Turchia tra il 1902 e il 1906 va ricondotta alla personale interpretazione del genius loci che l’architetto effettua anche grazie alla sua felice condizione di abitante di una città cosmopolita. Egli altresì è in piena Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, pianta del piano terra, 1905, Civici Musei di Udine Gallerie del Progetto, archivio D’Aronco Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, pianta del primo piano, 1905, Civici Musei di Udine Gallerie del Progetto, archivio D’Aronco 52/112 53/112 sintonia con una delle linee guida della Scuola di Wagner che secondo Marco Pozzetto si fonda sulla «riconsiderazione critica delle architetture regionali»7. Ma oltre all’architettura del Modernismo e all’influenza della ricca tradizione ottomana, l’ispirazione di D’Aronco sembra guardare oltreoceano. David Gebhard nel 1966 si chiedeva quale fosse il ruolo dell’architettura coloniale americana per le scelte compiute da D’Aronco nel progetto per l’ex Residenza «Non è noto se D’Aronco fosse al corrente dell’avanzatissima architettura americana degli ultimi decenni dell’Ottocento, ma tutta la sua opera mostra una somiglianza più che casuale con le Shingle Houses di H.H.Richardson McKim Mead e White e altri. Poiché l’architettura americana costituì un fattore di influenza sulla scena turca allo scorcio del secolo scorso e all’inizio del Novecento, ci si può domandare, e la risposta è molto dubbia, se essa abbia momentaneamente influenzato l’architettura di D’Aronco» 8 Il rivestimento in legno che viene impiegato negli edifici Shingle Style non costituisce una novità nel mondo ottomano, dove il materiale è in uso da secoli anche nelle parti strutturali oltre che per decorazioni e rivestimenti, ma allo stesso tempo anche elementi quali bow-windows e verande sono largamente utilizzati nelle architetture di yali e chioschi: D’Aronco trova certamente stimoli ma quello che più lo interessa è scoprire affinità e rimandi tra le due culture architettoniche, soprattutto per trarne ispirazione per i suoi progetti. Egli infatti oltre alle influenze americane considera con attenzione i modelli offerti per le architetture dei cottages e vi innesta la tradizione ottomana rivisitata con sensibilità modernista. Nella biblioteca D’Aronco9 si conserva il volume dedicato a Habitations suburbaines (Villas, maisons de campagna, cottages, dépendances…) troisième série10 frutto di una accurata campagna fotografica effettuata da Albert Levy tra Chicago, New York, la costa atlantica per documentare le case realizzate dallo studio McKim Mead e White, William Ralph Emerson, Peabody e Stearns, Joseph Lyman Silsbee, Bruce Price, Henry Hobson Richardson, Cabot e Chandler, Mason e Rice e molti altri. Tra le riviste della biblioteca dell’architetto si trova la 07. La Scuola di Wagner 1894-1012 Idee premi e concorsi, cat. mostra a cura di M.Pozzetto, 2 ed., Nuova Del Bianco Udine 1981, p. 31. 08. David Gebhard, Raimondo D’Aronco e l’Art Nouveau in Turchia, «L’Architettura. Cronache e Storia», 1966, n.134, p. 552. 09. I libri e le riviste che D’Aronco conservò con sé fino alla morte furono da lui destinate per volontà testamentaria alla Biblioteca civica di Udine, dove tuttora si trovano presso la sezione Friuli. La storia di questa collezione è stata studiata da Marzia Di Donato e pubblicata nel catalogo della mostra dedicata all’architetto tenutasi a Istanbul nel 2006. 10. L’architecture Américaine, Habitations suburbaines (Villas, maisons de campagna, cottages, dépendances…) troisième série, Cesar Daly, Paris 1888. 54/112 Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, sezione longitudinale, 1905, Civici Musei di Udine Gallerie del Progetto, archivio D’Aronco 55/112 rivista “Academy Architecture and Annual Architectural Review” (dal 1895 “Academy Architecture and Annual Review”) edita a Londra dall’architetto svizzero Alexander Koch. D’Aronco ne possedeva la serie completa a partire dal 1889 e fino al 1908 poiché fu la prima rivista internazionale a pubblicare i suoi progetti, ben diciassette dal 1892 al 1898. Il sincretismo che Ezio Godoli11 indica come fattore significativo nella metodologia progettuale di D’Aronco, da un lato ne conferma la vocazione eclettica, ma spiega anche quella «inquietudine espressiva» rilevata da Marcello Piacentini che gli consente di operare mettendo a frutto le notevoli doti di fantasia e creatività che caratterizzano le sue opere. La sua propensione al sincretismo si integra agevolmente con quella che Maurice Cerasi definisce la «mentalità agglutinante dell’architetto ottomano» che opera «per giustapposizione di elementi edilizi autonomi»12. In quanto all’eclettismo più che una questione di stile e forma, il termine va inteso come nella connotazione più ampia di un sistema di conoscenza non circoscrivibile al linguaggio architettonico del XIX secolo, poiché si può far risalire all’Ellenismo. E di sintesi e capacità di assimilazione D’Aronco trova molti concreti esempi nella cultura artistica ottomana, dove si intrecciano echi persiani, cinesi, occidentali e naturalmente arabi: il suo spazio creativo a Costantinopoli si allarga oltre i confini del mondo europeo e gli consente di vivere una esperienza che ha pochi confronti con quella di altri protagonisti del Modernismo. Raimondo D’Aronco, l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya oggi, un restauro incompiuto in un contesto che vede invece altre istituzioni culturali straniere molto attive, foto Hilde Lèon 11. E.Godoli, A l’Orient seule l’Architecture Orientale Convient, in Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio «Rassegna», XIX, n. 72, 1997, p. 78. 12. M.Cerasi, Città e architettura nel Settecento, in Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio, «Rassegna», XIX, n. 72, 1997, p. 47. 56/112 Vista dall’interno della Casa Taut a Istanbul verso l’esterno del Golfo del Bosforo, verso quel Zwischenraum dello spazio di mare compreso tra due terre e due mari; foto di H. H. Waechter 1975 MUNDUS TOTUS EXILIUM EST L’ESILIO DELL’ARCHITETTURA Queste sono alcune note parziali. Non prendono in esame l’immensa produzione teoricopratica di Bruno Taut ma cercano di ricostruire il suo progetto architettonico a partire dalla ‘perdita’ di un ubi consistam, di un essere-a-casa. Si apre inoltre un mondo non molto conosciuto nella ricerca, di innesti mitteleuropei sull’architettura turca. Per Ugo di San Vittore l’intero mondo è esilio, lontananza dalla patria celeste. Per Taut, e forse per tutta la diaspora della cultura architettonica, e non solo, la condizione di esilio va rovesciata produttivamente. Potrebbe dirsi che in Taut il progetto dell’architettura coincide con l’abitare l’esilio. Il potere del nazionalsocialismo costringe all’esilio in vari paesi del mondo migliaia di perseguitati soprattutto della Germania e dell’Austria. Tra di loro anche Erich Auerbach, l’autore di Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur1, composto proprio a Istanbul negli anni dell’esilio. “E’ dunque possibile, scrive Auerbach nella Conclusione, e anzi probabile, che mi siano sfuggite molte cose di cui avrei dovuto tenere conto, e che talvolta affermi cosa che è stata contraddetta o modificata da nuove ricerche”. L’esilio impone alla ricerca un carattere di incompletezza, di incertezza, di titubanza, di non definitività destinato a segnare, da quel momento in avanti, tutto il pensiero che nell’esilio si attiva. Bruno Taut, nato nel 1880 a Königsberg, viene nel 1933 incluso nelle liste dei ricercati politici, dopo il suo rientro da Mosca, e sceglie la via dell’esilio in Giappone, dove rimane fino al 1936. Qui si occupa della cultura e dell’architettura giapponese scrivendo tra l’altro Fundamentals of japanese architecture, Tokyo 1936, e Houses and people of Japan, Tokyo 1937. Durante l’esilio giapponese, Taut è costretto a limitare l’attività operativa e si dedica a un importante lavoro di ricerca teorica: le Architekturüberlegungen / Riflessioni sull’architettura. Questo testo, scritto tra il 1935 e il 1936 in sette capitoli, costituisce la prima versione della sua Architekturlehre / Teoria dell’architettura, il suo ultimo testo2. Bruno Taut in Turchia Gundula Rakowitz 01. Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, A. Francke, Bern 1946, trad. it: Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956; in particolare Conclusione, p. 343. 02. Cfr. la rivista «ARCH+» 194, ott. 2009, dedicata a Bruno Taut e alla sua Architekturlehre e in particolare la postfazione di Manfred Speidel, Was ist Architektur? Bruno Tauts „Architekturlehre“, ivi, pp.160-165. 59/112 La sua consapevole discontinuità, ambivalenza e contraddittorietà, proprio in quanto esule, è rinvenibile nella sua grande produzione teorica: sin dai primi scritti, composti ancora in Germania (basti ricordare Alpine Architektur pubblicato nel 1920 con la data però del 1919, con uno scritto dell’amico Paul Scheerbart e Die Stadtkrone del 1919), Taut sviluppa la sua poetica di un’architettura fantastico-utopica e al contempo ‘situata’, aperta da sempre alla ricerca del nuovo attraverso la risignificazione dell’antico. Ed è in questa apertura che possiamo trovare il motivo conduttore della sua poetica, cui restò fedele per l’intera esistenza, ossia la qualità dirompente dell’arte rispetto ai valori tradizionali, innovando il rapporto tra arte e architettura intesa come idea rispetto alla natura. Nel novembre del 1936 Taut si trasferisce in Turchia3, dove viene chiamato per insegnare architettura e assumere la direzione del Dipartimento di Architettura dell’Accademia di Belle Arti di Istanbul e contemporaneamente diventa direttore dell’Ufficio Progetti, che aveva allora anche la funzione di centro per l’architettura, presso il Ministero della Cultura, voluto da Kemal Atatürk nel complesso di iniziative pensate per la modernizzazione del paese4. Per la chiamata di Taut fu decisivo l’intervento dell’emigrato collega architetto Martin Wagner, allora consigliere all’urbanistica a Istanbul. Taut divenne a tutti gli effetti successore dell’architetto austriaco Ernst Egli, al posto di Hans Poelzig che era scomparso poco prima. Si tratta per Taut di un secondo arrivo a Istanbul, visto che già nel 1916 vi si era recato per partecipare al concorso per la Casa dell’amicizia / Dostluk Jurda i cui materiali preliminari erano stati approntati tra il 1914 e il 1916 su commissione dell’Istituto Orientale dell’Università di Berlino da Emilie Winkelmann, la prima donna architetto della Germania, poi esclusa in quanto donna dal concorso indetto nel 1916 e promosso dal Werkbund Tedesco e dalla Associazione Turco-Tedesca, un ambito strettamente dominato da figure maschili5. Dott. Rudolf NUNN / Direttore dell’ / Istituto di Cultura turco-tedesco / e / Prof. Muhtesem GIRAY / Rettore dell’UNIVERSITÀ MIMAR SINAN / sono lieti di invitarLa all’inaugurazione della mostra / BRUNO TAUT / (1880 Königsberg/Pr. – 1938 Istanbul) / e alla conferenza / e / alle relazioni / Durata della mostra: 22 febbraio - 8 marzo 1983 / Università Mimar Sinan / Sala Mimar Sinan 60/112 03. Cfr. Il diario, Istanbul Journal, copia del quale è depositata presso il Baukunstarchiv dell’Akademie der Künste di Berlino, dove Taut registrò gli avvenimenti legati alla sua attività in Turchia dal 10/11/1936 al 13/12/1838. 04. Cfr. Manfred Speidel, Natürlichkeit und Freiheit. Bruno Tauts Bauten in der Türkei, in Bir Baskentin Olusumu, Ankara 1923-1950, Ankara 1995; Bernd Nicolai, Moderne und Exil. Deutschsprachige Architekten in der Türkei 1925-1955, Verlag für Bauwesen, Berlin 1998; Sibel Bozdogan, Modernism and Nation Building. Turkisk Architektural Culture in the Early Republic, University of Washington Press, Seattle 2001; Winfried Nerdinger, Manfred Speidel (a cura di), Bruno Taut 1936-1938, Electa, Milano 2002; Giorgio Gasco, Bruno Taut e il Ministero della Cultura turco. Traiettorie professionali nella Turchia Repubblicana 1936-1938, Tesi di Dottorato presso l’Universitat Politècnica de Catalunya di Barcellona, 2007. 05. Tra i suoi colleghi architetti furono invitati oltre che Bruno Taut e Hans Poelzig, anche Peter Behrens, German Bestelmeyer, Paul Bonatz, Hugo Eberhardt, Martin Elsässer, August Endell, Theodor Fischer, Bruno Paul, Richard Riemerschmid e Walter Gropius (che però non poté partecipare). 61/112 Bruno Taut, già durante i primi mesi dell’insegnamento a Istanbul presso il Dipartimento di Architettura nel 1936, cerca di riformare tutto il piano didattico e la struttura universitaria del dipartimento presso l’Accademia e, contemporaneamente, perfeziona la sua opera teorica. Nel dicembre dello stesso anno presenta una rielaborazione del primo capitolo Was ist Architektur, poi successivamente tutti gli altri sei capitoli nel 1937: Die Proportion, Technik, Konstruktion, Funktion, Qualität, Beziehungen zur Gesellschaft und zu den anderen Künsten. L’opera Architekturlehre fu pubblicata postuma pochi giorni dopo la morte di Taut, il 24 dicembre 1938, a Istanbul, con il titolo in turco Mimarî Bilgisi6. Quest’opera è dunque il testamento architettonico di Taut. In veste di direttore dell’Ufficio Progetti, Taut è in grado di chiamare molti suoi colleghi architetti conosciuti in Germania, tra i quali Franz Hillinger, Wilhelm Schütte e sua moglie Margarete Schütte-Lihotzky, prima donna architetto austriaca a esercitare la professione. Non è in alcun modo ozioso ricordare che Margarete Schütte-Lihotzky, come pure l’architetto Herbert Eichholzer, invitato da Clemens Holzmeister in Turchia, erano membri attivi del movimento di resistenza austriaca contro il nazifascismo che aveva a Istanbul un importante centro di organizzazione: da Istanbul di nuovo a Vienna, per continuare la resistenza. Margarete fu arrestata a Vienna, mentre Eichholzer fu ucciso dalla Gestapo. In qualità di direttore dell’Ufficio Progetti, Taut costruisce grandi architetture pubbliche, tra cui ricordiamo l’Università di Ankara, molti edifici scolastici, architetture di rappresentanza e il catafalco di Atatürk. Nello schizzo per questo suo ultimo progetto del catafalco, eseguito con gessetti di colori verdi, azzurri, gialli-arancioni e rossi, con il nero quasi assente, si manifesta il carattere immaginario progettante dei suoi primi lavori. Una composizione architettonica multicolore, con i pilastri-alberi verdi, i muri come tessuti di fiori e il telo della bandiera, esprime una spontaneità e vivacità anticonvenzionale per il luogo del morto, anzi lo contraddice e lo trasforma in uno spazio cromatico vivibile. 06. Bruno Taut, Mimarî Bilgisi, Güzel Sanatlar Akademisi Nesriyatindan, Istanbul 1938. 62/112 B. Taut, Catafalco di Kemal Atatürk ad Ankara, 1938. Gessetti su carta da pacchi, 45x60cm. Museo del Mausoleo di Atatürk, Ankara. Foto M. Speidel 63/112 Taut progetta anche due architetture private, di cui una non realizzata, la casa per il Dott. Nissen, direttore del Dipartimento di Chirurgia della Clinica Cerrah Pass di Istanbul, per la quale fece solo alcuni disegni preparatori. La seconda, sulla quale si intende soffermarsi un momento, è la sua propria abitazione, Casa Taut a Istanbul-Ortaköy sul Bosforo che oggi si presenta parzialmente modificata7. La casa sul Bosforo esprime quel carattere che secondo Auerbach abbiamo definito di ‘incertezza’, di ‘non definitività’ , quasi un desiderio di impeto. La casa diviene un’architettura ‘esiliata’ alla eterna ricerca del rapporto tra mimesis et inventio, tra antico e nuovo, tra materiali tradizionali e strutture costruttive moderne in un contesto pluriculturale che abbraccia, come in un viaggio, il mondo europeo e quello asiatico insieme, per sostare infine, nel mondo turco. La casa si sviluppa come un ‘animale fantastico addomesticato’ su lunghe zampe verticali in cemento armato che nascono dalla natura del terreno inclinato, dal pendio ripido. Le zampe-pilotis sorreggono la piattaforma orizzontale su cui si erge la costruzione della sequenza degli spazi dell’animale composto ‘chimera’. La pianta principale è piuttosto semplice e tradizionale, dall’ingresso laterale un corridoio centrale piegato ad L distribuisce rispettivamente sui due lati le camere e i servizi per sfociare come un fiume nel 07. Crf. Bulent Özer, A Home of the Soul, in «Domus» n. 611, 1980, p.28; Luciana Capaccioli, Bruno Taut. Visione e progetto, Dedalo, Bari 1981, pp.63-64. Esterno e interno di Casa Taut, foto p.65 di B. Nicolai 64/112 65/112 trionfale salone di soggiorno tutto vetrato rivolto al Bosforo: il cuore dell’animale fantastico. Dal grande salone una piccola scala attorcigliata, come una sorta di ‘sinapsi’, porta allo studio dell’architetto al piano superiore la cui pianta è un ottagono irregolare: la testa, un punto di sguardo sul Bosforo con un tetto-cappello a spicchi. E’ stata proprio questa architettura della Casa Taut a diventare recentemente, nel 2012, oggetto di interesse compositivo per l’artista giapponese Aki Nagasaka8. L’artista esegue una reinterpretazione letteralmente u-topica della Casa Taut attraverso l’installazione dell’opera intitolata Project T, T for Taut, che fu esposto al MAK di Vienna nel 20139. Nagasaka toglie la casa dal suo topos e prende in esame solo la parte della casa più esposta verso il mare, la cosiddetta pagoda. Isolando la figura, la ripropone 5+1 volte in forma di modelli di materiali e colori diversi, dalla pietra, al legno al metallo al cristallo ecc., come se stesse sperimentando le teorie del colore di Taut. Nelle singole scene valuta il materiale documentario come parametro reale e sviluppa da idee essenziali dello spazio e dell’architettura forme poetiche. Il carattere della ripetizione astratta della composizione fa emergere il tema della ricomposizione ‘infinita’ dell’esilio dell’architettura, dell’architettura dell’esilio. 08. Aki Nagasaka, nata nel 1980 a Osaka in Giappone, vive e lavora a Londra. 09. Cfr. Il catalogo della mostra presso il MAK di Vienna 23/01-21/04/2013: Christoph Thun-Hohenstein, Simon Rees, Bärbel Vischer (a cura di), Zeichen, Gefangen im Wunder. Auf der Suche nach Istanbul heute in der zeitgenössischen Kunst – Signs taken in wonder. Searching for Contemporary Art about Istanbul, Hatje Cantz, Ostfildern 2013. Aki Nagasaka, Project T, T for Taut, 2012 66/112 67/112 tra ricerca e didattica Interno di una stanza oda (da U. Vogt-Göknil, H. Stierlin, Ottoman Turkey, Benedikt Taschen, 1996, tav.167) Formatasi ai confini con l’Europa, la cultura urbana ottomana è il risultato della fusione e di sintesi di molteplici apporti autoctoni e importanti: sintesi estesa per molti secoli, perlomeno dal XV al XVIII secolo in un’area che va dai Balcani all’Anatolia. In quest’area nascono una particolare forma delle case in legno, la moschea a cupola centrale, un’organizzazione della centralità del mercato, un particolare gusto e ritmo del quotidiano urbano e un’originale concezione dello spazio e del rapporto tra natura e urbanità. L’architettura ottomana si caratterizza per una tipizzazione degli edifici in modelli distinti destinati alle diverse funzioni della città in base alle quali seguono uno specifico codice linguistico. Un insieme di regole in parte scritte, in parte tacite, che possono derivare dalle leggi statali laiche come da usi e costumi tradizionali. Ad esempio l’impossibilità per l’edilizia residenziale privata di emergere in dimensioni e ornamento rispetto all’architettura sacra1. Oggetto del nostro interesse didattico e di ricerca con gli studenti del laboratorio di progettazione è proprio l’indagine sulla casa ottomana intesa come archetipo abitativo. Questa prende forma attraverso un procedimento compositivo analitico per assemblaggio di elementi - le stanze - rigorosi, ripetuti e combinati. Un processo sconosciuto nell’area mediterranea, più familiare al contrario ad un procedimento plastico in cui il disegno dell’insieme plasma le singole stanze ed il perimetro modella lo spazio interno. LA CASA OTTOMANA STRUTTURA E PSICOLOGIA DELL’EFFIMERO L’esperienza didattica del laboratorio di composizione architettonica 1 Nicola Barbugian Maurice Cerasi2 distingue tre fattori che caratterizzano la casa ottomana3. Il primo è il rapporto del tipo con la morfologia urbana, cioè l’assunzione del giardino murato come lotto urbano. La casa non è quasi mai collocata al centro del giardino, anzi, i corpi edificati sono concentrati sul perimetro salvaguardando unità e continuità della corte 01. Per una trattazione approfondita si rimanda a M. Cerasi, La città del Levante: civiltà urbana e architettura sotto gli Ottomani nei secoli XVII-XIX, Jaca Book, Milano 1988. 02. Maurice Cerasi è nato a Istanbul nel 1932. Ha insegnato nelle facoltà di architettura di Milano e di Genova dove è professore ordinario di composizione architettonica. Ha scritto numerosi saggi sui procedimenti progettuali dell’architettura nella costruzione della città: tra questi Giovanni Michelucci (1968) e Lo spazio collettivo della città (1976). 03.M. Cerasi, La città del Levante: civiltà urbana e architettura sotto gli Ottomani nei secoli XVII-XIX, Jaca Book, Milano 1988 p.165 71/112 interna e mantenendo il contatto diretto tra la casa e la via urbana (rafforzato dalla presenza di aggetti sulla strada). Muro di cinta e basamento dell’abitazione sono quindi un unicum che contiene tutti i locali di servizio e le funzioni domestiche (cucina, lavanderia) che si svolgono attorno alla corte. Questo basamento in pietra e muratura è interrotto da poche finestre e dall’ingresso che spesso avviene direttamente dal giardino dell’abitazione. Un secondo fattore è il principio compositivo che assume le stanze come elementi costitutivi, elementi di rigorosa forma geometrica che, aggregandosi, formano insiemi liberi distribuiti senza una precisa corrispondenza con la parte basamentale dell’edificio. Nella casa ottomana non esistono la stanza individuale o quella con precise funzioni, né esistono grandi saloni coperti rappresentativi. L’unità fondamentale della casa ottomana è la stessa nella casa del benestante e nella casa del povero, differisce piuttosto nella ricchezza delle rifiniture o nel numero di singoli ambienti. Nella sua precisa geometria e simmetria la stanza è divisa in entrata e zona living, spesso poste a quote leggermente diverse. I vuoti delle finestre prevalgono sui pieni delle armadiature a parete aumentando il grande senso di leggerezza trasmesso dai rivestimenti lignei. Non sono presenti arredi nel senso occidentale del termine se facciamo eccezione per i lunghi divani bassi fissi che corrono sotto alle finestre lungo le pareti della stanza. Da qui avviene il contatto diretto con la scena urbana in una relazione che porta lo sguardo dall’interno verso l’esterno, superando anche il filtro delle grate che consentivano alla donna di osservare la vita sulla via senza essere vista. Terzo fattore caratterizzante è quello strutturale, il telaio in legno che sostituisce la muratura in pietra o in mattoni. Proprio il telaio ha permesso all’abitazione urbana ottomana di sviluppare i suoi caratteri distintivi che possiamo riassumere in un’aggregazione di spazi interni simmetrici molto aperti su una base parcellaria e muraria necessariamente irregolare e in un relativo disinteresse per la durevolezza e per la rappresentatività dell’architettura domestica. Il telaio tradizionale è composto da elementi verticali molto fitti, distanziati tra loro dai 60 ai 120 centimetri, da travi orizzontali anch’esse fitte e da capriate di copertura. Tutti gli elementi lignei sono di sezione modesta e controventati con piccoli elementi diagonali. La struttura di conseguenza risulta molto leggera riducendo la quantità di materiale utilizzato. Il telaio è poi riempito con mattoni o pietre e rivestito nell’interno della stanza quasi sempre con doghe orizzontali di legno inchiodate direttamente agli elementi verticali in modo da collaborare alla resistenza statica. Questa tecnologia comporta tempi di costruzione molto brevi consentendo, storicamente, veloci ricostruzioni di tessuto urbano anche in seguito a grandi incendi. Case in serie all’esterno del palazzo di Topkapı. Secoli XIX-XX. (da M. Cerasi, op. cit., tav.73) 72/112 A mancare completamente nella casa ottomana è il senso di permanenza. Non si tratta di costruzioni realizzate per tramandare il nome o il patrimonio delle famiglie sulla scena urbana vista la scarsa rappresentatività delle facciate. Le stanze non hanno una specializzazione funzionale né arredi come avviene in una tenda nomade, un’abitazione provvisoria in cui vige l’usanza orientale del letto costituito da un materasso steso a terra durante la notte e messo via di giorno all’interno degli armadi. Un assetto che rafforza la polivalenza degli ambienti e una generale sobrietà d’insieme. Una tipologia abitativa singolare è quella dello yali. Si tratta di residenze estive costruite sulle rive del Bosforo a partire dalla fine del XVII secolo, caratterizzate da una marcata simmetria nell’impianto planimetrico e dalla presenza di alcove a sbalzo sull’acqua nelle quali sedersi per apprezzare il panorama offerto dalla singolare collocazione costiera. Gli studenti del laboratorio hanno affrontato il tema della casa ottomana approfondendo nello specifico il caso dello yalı Köprülü Amcazade collocato nella località di Anadoluhisarı nella costa asiatica, in prossimità dell’attuale ponte Fatih Sultan Mehmet4. La parte aggettante sull’acqua, la sala dei ricevimenti, è oggi l’unica non demolita o modificata nel tempo del complesso commissionato dall’ex governatore di Belgrado Husein Pasa, Gran Visir del Sultano Mustafa II tra il 1697 e il 1702, noto per aver patrocinato le scienze e le arti, oltre che per aver commissionato numerosi edifici. La costruzione dello yalı risale al 1699, si tratta quindi di uno dei più antichi costruiti e sopravvissuti alle demolizioni operate tra il 1930 e la seconda guerra mondiale. La grande stanza ha una pianta a croce, i tre bracci sbalzano parzialmente sull’acqua e costituiscono tre alcove pavimentate in legno, coperte da tappeti e arredate da bassi divani (sedir) che corrono lungo le pareti. Le finestre sono bipartite, quelle superiori sono rimpiazzate da pannelli in legno decorati sui quali salgono i vetri scorrevoli, in questo modo si amplifica nell’individuo seduto nel divano la sensazione di essere all’aperto e di galleggiare sull’acqua. Il sistema di oscuramento è costituito da pannelli che ruotando sull’asse verticale regolano luce e aria proteggendo anche dal riflesso dell’acqua. L’area centrale, pavimentata in marmo e caratterizzata dalla presenza di una fontana, svolge una funzione di anticamera rispetto alle tre alcove nelle quali si svolge la vita sociale dello yalı. Yali Köprülü (1699) a Anadoluhisarı sulla riva asiatica del Bosforo (da U. Vogt-Göknil, H. Stierlin, Ottoman Turkey, Benedikt Taschen, 1996, tav.163) 04. Il ponte Fatih Sultan Mehmet (in turco: Fatih Sultan Mehmet Köprüsü) chiamato anche il “secondo ponte sul Bosforo”, è uno dei due ponti di Istanbul, che attraversando lo stretto del Bosforo collegano l’Europa con l’Asia. L’inagurazione risale al 1973. 75/112 L’interno del divanhane dello yali Köprülü in un disegno prospettico di S. H. Eldem, 1940 Ricostruzione della facciata della sala dei ricevimenti dello yali Köprülü (1699); ricostruzione della pianta. Legenda: a_pavimento in marmo con fontana, b_alcove con sedute, c_stanza principale, d_stanza da bagno, e_hall, f_stanza secondaria, g_ingresso, h_stanze di servizio, i_cucina e bagno; da M. Quigley Pinar, Istanbul, Gateway to Splendour: A Journey through Turkish architecture, A. Ertug, 1986, p.220 Il ridisegno dell’architettura è stato condotto dagli studenti a partire dal prezioso lavoro di Sedad Eldem5 e dei suoi allievi che hanno lungamente affrontato il tema del disegno delle architetture ottomane affacciate sul Bosforo. In particolare proprio lo yalı Köprülü è stato oggetto di studio per Eldem che ne ha ricostruito l’aspetto interno in numerosi disegni6. Da questa architettura attinge in maniera esplicita quando nel 1947 realizza, sempre ad Istanbul, la Taslik Coffee House7 rideclinando a secoli di distanza l’architettura domestica tradizionale. Le informazioni sono state poi confrontate con quelle rinvenute in un dossier curato da Martin Bachmann dell’Istituto Archeologico Tedesco di Istanbul che si è recentemente occupato dello studio delle carpenterie dell’edificio8. Un modello ligneo realizzato da Anita Knipper e Steffen Sauter dell’Università di Karlsruhe ha suggerito una strada da percorrere nella realizzazione dei plastici di studio9. La scelta fatta dagli studenti è stata infatti quella modello dello yali Köprülü, scala 1:50. Studenti: Enrico Fornasa, Maria Concetta Savignano 05. Sedad Hakki Eldem (1908-1988) è stato architetto e docente di progettazione architettonica. Con il suo lavoro ha cercato di rispondere alla sfida di armonizzare tradizione e modernità. S. Bozdogan, S. Özkan, E. Yenal, Sedad Eldem: Architect in Turkey, Butterworth-Heinemann Limited, 1987. 06. S. H. Eldem, Türk Evi (Turkish House) II, Mimar Sinan Üniversitesi, Istanbul 1983, p.190-191; M. Quigley Pinar, Istanbul, Gateway to Splendour: A Journey through Turkish architecture, A. Ertug, 1986, p.220-221. 78/112 07. S. Bozdogan, S. Özkan, E. Yenal, Sedad Eldem: Architect in Turkey, Butterworth-Heinemann Limited, 1987, p.50-53. 08. M. Bachmann, The Amcazade Yalısı in Istanbul. A New Light on Ottoman Carpentry, Proceedings of the Third International Congress on Construction History, Cottbus, May 2009. 09. Ibidem. 79/112 S. H. Eldem, Taslik Coffee House, Istanbul 1947 80/112 di mettere in evidenza le parti strutturali più rilevanti dell’edificio, portando a vista di volta in volta il telaio ligneo delle alcove, piuttosto che l’orditura dei pavimenti. Particolare attenzione è stata dedicata anche alla complessità della copertura, alle volte ribassate che coprono le tre stanze e alla cupola dell’ambiente centrale. I modelli realizzati variano dalla scala 1:50 alla scala 1:20, a seconda della volontà dei gruppi di studio di porre in evidenza determinati dettagli architettonici. Terminata questa prima parte del laboratorio dedicata allo studio della casa ottomana come archetipo abitativo gli studenti, forti delle conoscenze acquisite, gli studenti sono impegnati nell’esercitazione progettuale. All’interno dell’area costiera individuata ricostruendo le preesistenze del complesso dello yalı Köprülü sono chiamati a realizzare un proprio progetto di abitazione unifamiliare. Il loro studio è quindi ora rivolto al compito di conciliare la lezione della casa tradizionale ottomana con l’abitare contemporaneo in una città, Istanbul, che con il procedere delle nostre ricerche mostra ogni giorno nuove e pressanti contraddizioni. modello dello yali Köprülü, scala 1:20. Studenti: Matilde Dufour, Alessandra Pradal 82/112 83/112 modello dello yali Köprülü, scala 1:50. Studenti: Veronica Lazzaro, Riccardo Perazzolo 84/112 85/112 “Tutto attorno c’è molto rumore, e cemento, dappertutto. Ma i cambiamenti di superficie non significano niente: a conoscerla davvero, questa è la Costantinopoli di sempre” O. Pamuk, Istanbul. I ricordi e la città, 2003 ISTANBUL-KARAKÖY E ALTRI LUOGHI La profondità dello sguardo, proposta da Orhan Pamuk, allo spazio delle cose che abitano la città è la prospettiva che accompagna la nostra ricerca verso lo studio e il progetto nella Istanbul contemporanea. Una geografia urbana occidentale e orientale, una storia millenaria, un’orografia complessa, un ‘terreno’ unico ma molteplice, denso di connotazioni. Alcuni anni fa, all’interno di una suggestiva mostra allestita in occasione della X Biennale di Architettura di Venezia1, Istanbul figurava - con Mumbai, San Paolo del Brasile, Città del Messico e altre realtà mondiali - tra le maggiori megalopoli le cui contraddizioni dell’abnorme sviluppo urbano sono imputabili alle dinamiche di una rapida crescita demografica ed economica che intreccia stretti legami con programmi e interessi politici. Oggi, attraversare la città di Istanbul, significa percorrere un territorio abitato da oltre quattordici milioni di persone. Uno sterminato mosaico edificato, configurato attraverso un alternarsi di valli e colline, in cui le anonime costruzioni sono accostate senza un controllo complessivo del disegno dello spazio. I quartieri rappresentano in maniera concreta il modello di sviluppo urbano legato all’immediatezza di un’esigenza abitativa contingente. Il processo di urbanizzazione dei territori agricoli, a partire dagli anni Sessanta, ha prodotto la reiterata realizzazione di quartieri residenziali autocostruiti a bassa densità e di edilizia sociale più compatta di scarsa qualità architettonica. In anni più recenti, quando le aree diventano ‘appetibili’ a seguito della previsione di una importante infrastruttura – come, ad esempio, nel caso lo stadio olimpico nei pressi del quartiere di Ayazma - le operazioni immobiliari vedono sostituire le fatiscenti case con lussuosi appartamenti e centri commerciali perpetuando meccanismi figurativi, aggregativi, di disegno dello spazio aperto in assenza di un progetto generale di città. L’espulsione della popolazione in altri ambiti di espansione urbana non trova soluzione adeguata a soddisfare le rinnovate necessità abitative. APPUNTI PER UN DIARIO DI PROGETTO Immagine a infrarossi, 60x60 Km, realizzata nel giugno 2000. La vegetazione appare in rosso, le aree urbane in verde-azzurro. NASA/GSFC/METI/Japan Space Systems, and U.S./Japan ASTER Science Team Cristiana Eusepi 01. Mostra diretta da R.Burdett, Città. Architettura e Società, X Mostra Biennale internazionale di architettura di Venezia, Corderie dell’Arsenale, Venezia 2006. 87/112 La capacità di Istanbul di mostrare la propria struttura e bellezza, pur non senza contraddizione, si esprime vicino al mare. A Fathi, Fener, Balat e in altri tra i più antichi quartieri residenziali del Corno d’Oro, demolizioni indiscriminate, senza ordine precostituito e, talvolta, nel giro di una notte, continuano a irrompere nel tessuto edilizio esistente snaturando la qualità di un’architettura legata profondamente ai modi di vita dei propri abitanti. È certo che il diffuso degrado di intere parti di città storica suggerirebbe pratiche di recupero e di oculata sostituzione edilizia. La distruzione di innumerevoli case in legno, gli yali, già da qualche tempo, lascia posto all’avanzare di anonime e compatte costruzioni multipiano. Questo diffuso procedere si contrappone alla necessità di assumere il manufatto architettonico quale risorsa in grado di attivare concrete operazioni di recupero degli edifici e articolate trasformazione di parti di città. I quartieri rivolti verso il Bosforo rimangono, tuttavia, i più vivibili e ‘misurati’ con parchi, aree verdi, passeggiate, alcuni tra i monumenti e i palazzi storici di maggior pregio, edifici nuovi, zone commerciali e residenziali. Nel centro antico, il Bosforo è attraversabile a piedi, in automobile e con il tram in pochi punti e minuti. Numerosi traghetti urbani, che intrecciano il proprio percorso con le grandi navi commerciali in transito, congiuntamente alla discussa e una nuovissima linea metropolitana sotto l’istmo, garantiscono una connettività continua tra le diverse sponde, europea e asiatica. Oltre il Bosforo, a est, il profilo della città asiatica con i suoi centri antichi disposti lungo le sponde e i grattacieli sullo sfondo. A nord, la collina di Pera, coronata anch’essa da imponenti edifici che fanno da contrappunto al tessuto compatto del quartiere di Beyoglu, per secoli enclave europea. Qui i genovesi, agli inizi del XIII secolo, edificarono il sistema di fortificazione del quale la torre di Galata è una tra le maggiori reminiscenze. In epoca ottomana l’area si popolò di ebrei, greci e armeni diventando il centro commerciale della città. Una vocazione cosmopolita espressa anche attraverso l’architettura. A ridosso di Grande Rue de Péra, oggi Istiklal Caddesi, vengono, via via, eretti edifici di culto, scuole, hotel, passage commerciali, abitazioni private e palazzi pubblici che ospitano delegazioni di tutta Europa. I francesi furono i primi a costruire i propri palazzi secondo canoni e caratteri occidentali. A partire dalla fine del Seicento, seguono, gli ambasciatori della Repubblica di Venezia, le rappresentanze provenienti da Olanda, Polonia, Prussia e Russia. Molti architetti levantini e stranieri, come è possibile apprezzare attraverso le iscrizioni affisse su numerose facciate, ebbero un ruolo fondamentale nella di costruzione di questa parte di città. Antoine-Ignace Melling, Case signorili e palazzo di Ibrahim Pasa presso l’ippodromo di Istanbul. Incisione da D. Kuban, Istanbul, an urban history: Byzantion, Costantinopolis, Istanbul, Türkiye Bankasi Kültür yayınları, 2010, p.435 88/112 89/112 Antoine-Ignace Melling, Istanbul e il Serraglio da Galata. Incisione da D. Kuban, Istanbul, an urban history: Byzantion, Costantinopolis, Istanbul, Türkiye Bankasi Kültür yayınları, 2010, p.436 90/112 91/112 Risalita al quartiere di Galata e Grande Rue de Péra. Dettagli di cartoline risalenti agli inizi dello scorso secolo. N.Özlü, C.Gratien, Producing Pera: A Levantine Family and the Remaking of Istanbul, in (sito web) Ottoman History Podcast, n.90, 2013. 92/112 93/112 A partire dal 1936 e per circa vent’anni, il piano di riordino di Henri Prost disegna il quartiere di Beyoglu progettando lo spazio pubblico - piazza Taksim e il parco circostante, i collegamenti con il ponte di Galata e la città antica - ma anche palazzi, teatri, scuole, sale espositive e recuperi di edifici esistenti. L’ordine prefigurato intende perseguire una relazione dialogica tra progetto architettonico e città. Un atteggiamento nettamente contrapposto alle politiche edilizie che contraddistinguono l’attuale evoluzione urbana. Tra gli esempi più eclatanti, ricordiamo gli sventramenti di piazza Taksim per realizzare un ennesimo centro commerciale e quelli lungo Tarlabasi Caddesi per costruire edifici direzionali e commerciali di discutibile disegno architettonico. In questo contesto, valgono forse ancora troppo poco le mirabili operazioni di recupero, trasformazione e valorizzazione di alcuni edifici ad opera di Fondazioni o singoli privati che, attraverso un’intensa attività culturale, intendono divulgare una rinnovata ‘cultura della città’. L’ambito di sperimentazione progettuale del Laboratorio di laurea si inserisce all’interno di questa scena urbana. La riva di Karaköy - che si estende tra un alternarsi di edifici e spazi pubblici dal ponte di Galata a Ortaköy non lontano dal primo ponte che collega l’Europa all’Asia - è in stretta connessione con il tessuto edilizio dei quartieri alti. Alle spalle dell’imponente Palazzo della Banca Ottomana che domina piazza Karaköy, la struttura regolare, intervallata da ampi spazi pubblici, del tessuto edilizio residenziale e commerciale. Oltre, l’Istanbul Modern, realizzato all’interno di un grande deposito, la stazione Marittima, un ampio giardino su cui affacciano la moschea di Nusretiye, una antica fonderia ottomana e un konak, palazzina a Tophane, oggi sede della Mimar Sinan, Università di Belle Arti di Istanbul. In stretta relazione con questo sistema edificato, le abitazioni che definiscono il quartiere di Cihangir. Nell’intera area di progetto si mischiano mercati, banche, musei e gallerie di arte antica e moderna, chioschi, edifici religiosi di differenti culti, abitazioni modeste e palazzi di sultani, depositi, approdi di traghetti e grandi navi, mentre gli abitanti sono espulsi dalla vita di questi luoghi. I milioni di turisti che visitano la città ogni anno, rappresentano un ulteriore motore propulsivo allo sviluppo economico ed edilizio urbano. Questo lascia prevedere la realizzazione di nuove strutture ricettive che, affiancando il considerevole numero di hotel e mall commerciali esistenti, potrebbero contribuire a compromettere il delicato equilibrio del tessuto storico. Taksim Tarlabasi BEYOGLU Cihangir BOSFORO Karaköy ÜSKÜDAR ponte di Galata SULTANAHMET MAR DI MARMARA Istanbul allo sbocco del Corno D’Oro. Sulla sinistra la penisola di Sultanahmet collegata alla riva di Karaköy attraverso il ponte di Galata. Da qui si estende l’ambito oggetto di interesse del Laboratorio di Laurea, Università Iuav di Venezia - DPC, 2014 Elaborazione grafica a cura di Andrea Calgarotto 94/112 La riva lungo il Bosforo si estende tra un alternarsi di edifici e spazi aperti in stretta connessione con i quartieri alti. Demolizioni indiscriminate continuano a irrompere all’interno di questo tessuto edilizio snaturando la qualità di un’architettura legata ai modi di vita dei propri abitanti. In questo contesto si inseriscono rari esempi di recupero e di oculata sostituzione edilizia. Riva di Karaköy e vista di alcune abitazioni nel quartiere di Cihangir. 96/112 97/112 Lungo la banchina del porto turistico di Karaköy, ogni giorno, migliaia di passeggeri e numerose navi provenienti dai diversi porti del Mediterraneo, da Bari, da Napoli, da Genova e da Venezia, popolano le rive del Bosforo. Quando è sera, ciò che resta di questo quotidiano frenetico vagabondare è lo sguardo giudicante di distratti viaggiatori. Per Edmondo De Amicis arrivare a Istanbul dal mare, per avvicinare la città attraverso il riconoscimento delle sue molteplici sfaccettature, è una vera apparizione: “Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi; dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa, bisognava girare sopra se stessi; e giravamo, lanciando da tutte le parti degli sguardi fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava“2. Istanbul, per noi, resta un luogo difficile da evitare. Oggi, come in passato, è una città che può scatenare forti reazioni. È questa l’intensità di approccio alla ricerca e al progetto che, all’interno del Laboratorio di laurea, intendiamo proporre e perseguire. Da qui, l’avvicinamento alla disciplina architettonica incentra la propria attenzione su un’idea di progetto fondata sulla relazione che lega i manufatti alla lettura della città – delle sue stratificazioni, del suo corpo fisico e dell’identità dei singoli luoghi – alle scelte soggettive di ogni singola proposta. Da una parte le specificità morfologiche, il sistema di segni e di figure, dall’altra l’atmosfera che connota un luogo e l’innesto di un progetto attuale che non ambisca a contrasti riconoscendo il carattere specifico derivante dalla storia e dalla peculiare topografia della città. Questo ‘diario di bordo’, un breve racconto che accompagna la presentazione del Seminario Istanbul Theatrum Mundi3, suggerisce i percorsi e le chiavi di apertura allo studio. L’approdo dei traghetti a Karaköy, in secondo piano la banchina del terminal marittimo delle grandi navi. Foto di Moira Valeri 98/112 02. E. De Amicis, Costantinopoli, Einaudi, Torino 2007, pp.16-17. 03. Seminario a cura del gruppo di ricerca ‘Abitare’- DCP, Abitare la città - Istanbul Theatrum Mundi, Università Iuav di Venezia, Cotonificio Santa Marta, Venezia gennaio 2014. 99/112 Immagine satellitare della città di Istanbul con lo stretto del Bosforo che mette in connessione Mar di Marmara e Mar Nero. 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Varnier, Raimondo D’Aronco l’opera completa, Centro grafico editoriale, Padova 1983. _L’architecture Américaine, Habitations suburbaines (Villas, maisons de campagna, cottages, dépendances…) troisième série, Cesar Daly, Paris 1888. _D. Barillari, Raimondo D’Aronco, Laterza, Roma-Bari 1995. _D. Kuban, The Turkish Hayat House, Eren, Istanbul, 1995. _D. Barillari, E. Godoli, Istanbul 1900 Architetture e interni Art Nouveau, Cantini, Firenze 1996. La casa ottomana _G. Goodwin, A History of Ottoman Architecture, Thames and Hudson, Londra 1971. _S. H. Eldem, Türk Evi (Turkish House), Mimar Sinan Üniversitesi, Istanbul 1983. _S. Bozdogan, S. Özkan, E. Yenal, Sedad Eldem: Architect in Turkey, Butterworth-Heinemann Limited, 1987. _M. Cerasi, La città del Levante: civiltà urbana e architettura sotto gli Ottomani nei secoli XVII-XIX, Jaca Book, Milano 1988. _U. Vogt-Göknil, H. Stielin, Ottoman Turkey, Benedikt Taschen, 1996. _E. Kortan, L’architecture et l’urbanisme turc par les yeux de Le Corbusier, Boyut, 2005. Autori Eleonora Mantese Docente di Composizione architettonica e urbana del Dipartimento di Culture del progetto dell’Università IUAV di Venezia. Membro del collegio docenti del Dottorato di ricerca in Composizione architettonica della Scuola di Dottorato di Venezia. Ha ottenuto molti premi e segnalazioni per concorsi e progetti di architettura. La sua ricerca è attualmente rivolta ai modi e alle forme dell’abitare e agli studi sulla città e il progetto. Vive e lavora a Venezia. Teresita Scalco European MA in Storia dell’Architettura (Università di Roma Tre, 2006) e PhD in Scienze del Design all’Università Iuav, 2013, con la tesi dal titolo Integrating design and museum studies. Learning from Istanbul. È stata visiting researcher all’Istanbul Bilgi University SALT ad Istanbul. È stata co-curatrice, con M. Valeri e M. Vani, del convegno ‘Istanbul City Portrait’, 2012, ed è co-editor dell’omonima guida (Compositori Editore, 2014). Dal 2002 lavora presso l’Archivio Progetti. Andrea Calgarotto Architetto e dottorando in Composizione architettonica presso l’Università IUAV di Venezia con una tesi sul pensiero e l’opera di Auguste Perret. Collabora alla didattica e alla ricerca presso la stessa università. Svolge attività progettuale partecipando a concorsi nazionali e internazionali. Vive e lavora tra Vicenza e Venezia. Diana Barillari Docente di Storia delle tecniche dell’architettura del Dipartimernto Ingegneria e Architettura dell’Università di Trieste. Ha al suo attivo studi e ricerche su Raimondo D’Aronco, l’architettura orientalista, l’architettura del modernismo mitteleuropeo e del Movimento Moderno. Le ricerche privilegiano la relazione tra architettura, tecnica, struttura con particolare riguardo allo sviluppo dei nuovi materiali e la ricerca di una forma espressiva. Gundula Rakowitz Ricercatrice in Composizione architettonica e urbana del Dipartimento di Culture del progetto dell’Università Iuav di Venezia. Dottore di ricerca in Composizione architettonica e membro del collegio docenti dello stesso dottorato della Scuola di Dottorato di Venezia. Tra i temi di ricerca, affrontati in molte ricerche ministeriali, partecipando a convegni nazionali e internazionali, si segnala: composizione architettonica nel suo carattere pluriscalare, Zwischenraum, mimesis et inventio. Vive e lavora tra Venezia, Vicenza e Vienna. Nicola Barbugian Architetto e dottorando in Composizione architettonica presso l’Università IUAV di Venezia con una tesi sulla figura di Antonio Sant’Elia. Collabora alla didattica e alla ricerca presso la stessa università. Ha collaborato alla Collezione Farnesina Design presso il Ministero degli Affari Esteri a Roma. Svolge attività progettuale partecipando a concorsi nazionali e internazionali. Vive e lavora tra Padova, Venezia e Roma. Immagine pp. 68-69. Antoine-Ignace Melling, Padiglione di Bebek. Incisione da D. Kuban, Istanbul, an urban history: Byzantion, Costantinopolis, Istanbul, Türkiye Bankasi Kültür yayınları, 2010, p.438 Immagine pp. 110-111. Una nave lascia il Bosforo in direzione del Mar di Marmara. Foto di Moira Valeri Cristiana Eusepi Dottore di ricerca in Composizione architettonica – Università IUAV di Venezia. Docente a contratto in Composizione architettonica e urbana. Tutor al Dottorato di Composizione architettonica-Iuav. Ha partecipato a numerose ricerche universitarie incentrate sul tema dell’abitare collettivo. Attualmente è titolare di un assegno di ricerca dal titolo New Ways of Housing and Working: una mappatura geo-politica e una relazione architettonica interscalare, Iuav-DCP. Vive e lavora a Venezia. Finito di stampare nel mese di gennaio del 2014 dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma 1
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