Università degli Studi di Milano-Bicocca , 11-12 settembre 2014 - Convegno nazionale AIS ELO, La regolazione dell’economia tra formale e informale, Sessione Istituzioni e Sviluppo __________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ Nuovi contadini, tra innovazione e regolazione di Benedetto Meloni e Domenica Farinella, Università degli studi di Cagliari Riferimenti: [email protected]; [email protected] Bozza provvisoria per i coordinatori 1. Introduzione Il paper si colloca all’interno del dibattito sulla riemersione della questione “contadina” nell’agricoltura europea (Ploeg e Rooij 1999; Ploeg et al. 2000; Ploeg 2008; Johnson 2004; Pérez-Vitoria 2005; Hervieu 2005; Sevilla e Guzman 2006; 2007; Ventura e Milone 2007). L’attenzione è rivolta al ruolo della piccola e media impresa contadina nel generare processi di innovazione territoriale, all’interno di nuove forme di regolazione, basate sulle connessioni socio-organizzative e istituzionali tra imprese e territorio. Il paper ha un taglio teorico-analitico, maturato all’interno di un consistente lavoro empirico in corso da due anni su progetti di ricerca nazionali (Inea 2013; Ministero per la coesione territoriale 2013; Camera di Commercio di Cagliari 2012, Fondazione Banco di Sardegna 2014-), così come dall’esperienza della scuola estiva di Sviluppo locale “Sebastiano Brusco”, in cui negli anni si è provato a declinare le tematiche dello sviluppo locale in ambito rurale. Nel secondo paragrafo si analizza il riemergere della “questione contadina” e del modello contadino come risposta alla crisi del paradigma della modernizzazione agricola. Nel terzo viene focalizzata l’attenzione sulla multifunzionalità agricola come mezzo per stimolare economie esterne, beni collettivi territoriali e forme di innovazione ed apprendimento nelle imprese. Il quarto paragrafo si sofferma sul ruolo delle specificità territoriali come fattori in grado di generare vantaggi comparati naturali per i territori, proprio a partire dal “radicamento” delle produzioni nel tessuto locale. Si accenna poi brevemente all’architettura delle diverse tipologie di reti territoriali in cui le aziende contadine possono essere valorizzate, sottolineando la centralità della territorializzazione delle filiere e dell’integrazione territoriale. Infine, nelle conclusioni si tirano le somme del ragionamento, provando ad evidenziare similitudini e differenze rispetto a quei fattori che le ricerche sullo sviluppo locale, a partire dagli anni ottanta, hanno evidenziato come centrali per la nascita dei sistemi di piccole imprese manifatturiere a “economia diffusa”. 2. La crisi della modernizzazione agricola e l’emergere dei “nuovi contadini” Dopo una stagione di studi in cui era stata data larga attenzione all’agricoltura e al ruolo dell’azienda contadina nei meccanismi di sviluppo (Daneo 1971; Barberis e Siesto 1974; Mottura e Pugliese 1975; Bolaffi e Varotti 1973; Bertolini e Meloni 1978), la questione rurale è uscita dal dibattito. Scarsa attenzione gli è stata dedicata anche all’interno di quel filone di studi che a partire dalla fine degli anni ’70 e dalla scoperta del modello distrettuale, si è concentrato sui processi di sviluppo endogeno e sui sistemi territoriali di piccola impresa (tra gli altri, Brusco 2007; 2008; Becattini e Sforzi 2000; Becattini et al. 2001; Viesti 2000; Trigilia 2005). Di recente tuttavia la questione rurale sembra più che mai tornare di moda, proprio in risposta alla crisi del modello di modernizzazione agricola, che inizia dagli anni novanta (Mantino 2008; Meloni e Farinella 2014). In sintesi, tale paradigma si è diffuso dal secondo dopoguerra con l’obiettivo dell’industrializzazione e meccanizzazione dell’agricoltura, l’aumento dei volumi produttivi e l’abbassamento dei costi. In particolare esso si caratterizzava per: intensificazione dei processi produttivi; specializzazione settoriale e prevalenza di monocolture su larga scala; standardizzazione e replicabilità delle tecniche di produzione e dei prodotti ed indifferenza spaziale dei prodotti rispetto ai territori in cui vengono coltivati (con la perdita delle specificità e di biodiversità sia ecologica che culturale); aumento della dipendenza delle aziende dagli input industriali e dalle nuove tecnologie; elevata fiducia nella capacità dei sistemi esperti “scientifici” di garantire il controllo sulla natura e sulla produzione agricola, laddove le conoscenze tacite, il sapere diffuso legato all’abilità artigianale, così come le tecniche di produzione di tipo contadino erano viste come un ostacolo al progresso ed espressione di arretratezza; separazione dell’agricoltura dalle altre attività rurali, con la sua riduzione ad attività monofunzionale specializzata ed intensiva, orientata alla produzione di beni alimentari a basso costo. Sul lungo periodo, il paradigma della modernizzazione si è scontrato con i limiti e le contraddizioni che esso stesso aveva contribuito a definire, legati ai costi (sociali, economici ed ambientali) di un’agricoltura che non risponde più al contesto territoriale e alle nuove esigenze sociali che vanno definendosi. Da un lato si assiste all’aumento dei fenomeni di inquinamento ambientale, alla perdita di biodiversità, all’abbassamento della qualità dei prodotti e alla depauperazione dei terreni provocata dallo sfruttamento intensivo; dall’altro si verificano un progressivo impoverimento delle aziende agricole e la diminuzione del controllo sulla filiera produttiva e sul cibo da parte di consumatori e produttori, a vantaggio degli intermediari della distribuzione. In particolare si aggrava il fenomeno dell’agricultural squeeze, lo schiacciamento verso il basso del reddito agricolo (Ploeg 2006), a causa dell’accresciuta dipendenza delle aziende dal mercato globale, sia per l’approvvigionamento degli input che per la vendita dei prodotti. Così come si accentua il processo di commodificazione dei beni agricoli, ovvero la loro riduzione a merce interscambiabile, fortemente standardizzata e scarsamente differenziata, soggetta a una bassa elasticità della domanda, e quindi destinata ad una elevata competitività di costo, in cui i produttori sono relegati al ruolo di price taker. Le commodity agricole sono diventate sempre più instabili e volatili sul mercato globale, soprattutto con l’intensificarsi dei meccanismi di finanziarizzazione dell’economia, laddove, anche a causa della crisi economica, i costi fissi per le aziende sono cresciuti. Inoltre, l’ingresso della grande distribuzione organizzata (GDO) nella filiera agroalimentare e la conseguente riorganizzazione della filiera che ne è derivata ha comportato una perdita di potere e di informazione da parte dei consumatori finali e dei produttori. Infine, l’attenzione esclusiva, per quanto riguarda gli output, ad aumenti quantitativi di specifici prodotti, ha portato ad un sistema dualista: da una parte un’agricoltura intensiva nelle zone vocate, caratterizzata da elevata industrializzazione e standardizzazione, che ha permesso incrementi produttivi, ma ha causato allo stesso tempo un abbassamento della qualità dei prodotti e una perdita delle loro specificità; dall’altra parte l’emarginazione di tutte quelle variegate agricolture regionali, tipiche di aree più interne, che sono così state investite da fenomeni di marginalizzazione e successivo spopolamento, che hanno eroso la pluralità di culture produttive che aveva caratterizzato il contesto europeo e mediterraneo in particolare. La crisi economica attuale ha esasperato il peso di questi effetti negativi, con ripercussioni profonde su tutto il mondo rurale. Proprio l’agricoltura specializzata, che si riproduce grazie ai meccanismi dei mercati globali, sembra essere messa a dura prova da queste dinamiche. Le aziende di grandi dimensioni, le più dipendenti dal mercato, sono quelle che trovano le maggiori difficoltà, con prezzi instabili e comunque al ribasso e costi d’impresa in aumento. Contemporaneamente, tali pressioni hanno in un certo senso favorito delle forme di resilienza e riorganizzazione del mondo rurale, che sono testimoniate dalla riemersione del modello contadino (Meloni 2014), meno dispendioso in termini di risorse economiche ed ambientali e per questo in grado di adattarsi in modo flessibile ai cambiamenti attuali. Seguendo l’analisi di Ploeg (2008), i nuovi contadini sono un universo molto variegato di piccole imprese agricole, a vocazione artigianale e conduzione familiare, auto-organizzate, che rompono con lo schema dell’agroindustria e della monocoltura intensiva, basando la propria forza sulla massimizzazione della resa del capitale lavoro e ecologico. Queste aziende, attraverso la messa in opera di variegate strategie di diversificazione multifunzionale e di ancoraggio territoriale, realizzano una vera e propria lotta per l’autonomia, attraverso la quale provano a diminuire la dipendenza dal mercato globale, ampliando le fonti di reddito e connettendole, laddove possibile a reti fiduciarie dirette con i consumatori (con varie forme di filiera corta). La diversificazione produttiva si accompagna all’allentamento della dipendenza dai principali mercati di input industriali, fenomeno che è stato anche definito come «fare agricoltura in modo economico» (Reijntjes, Haverkort e Waters-Bay 1992; Ploeg 2000). Questo è possibile anche grazie ad alcuni elementi esterni e di contesto, quali migliori reti di comunicazione, nuove tecnologie flessibili di produzione, poco costose ed adatte alle piccole imprese, in grado di favorire l’innovazione, come nel caso della produzione di energia da fonti alternative che permette all’azienda di affrancarsi dai costi dell’elettricità (Osti e Carrosio 2012) o ancora dei minicaseifici che abbattono le economie di scala e rendono competitiva la piccola produzione artigianale di formaggi. Si tratta questo di un mutamento che aveva a suo tempo permesso l’espansione dei sistemi di piccola impresa manifatturiera, all’interno di un modello di specializzazione flessibile. Lee aziende contadine operano delle diversificazioni anche in termini di output, puntando sulla valorizzazione di specialilty, prodotti fortemente caratterizzati sul piano territoriale e culturale, in grado di distinguersi e di spostare la competizione dal prezzo alla qualità (cfr. par. 4). La diversificazione degli output riguarda poi anche la riorganizzazione dei rapporti all’interno della filiera, con la costruzione di legami sempre più orizzontali con i consumatori, basati su variegate forme di vendita diretta, filiera corta ed alternative food network. La filiera produttiva tende ad essere “localizzata” il più possibile in un’area di prossimità territoriale, pure mediante la costituzione di reti tra le imprese locali che ap2 partengono a differenti momenti della filiera produttiva (ad esempio dalla coltivazione del grano in varietà locali specifiche fino alla sua trasformazione in pasta e pane). La lavorazione e trasformazione in azienda si accompagna quindi sempre alla costruzione di relazioni il più possibile dirette di vendita con la clientela, che contribuiscono a creare nuovi mercati e circuiti di mercato di beni diversificati, come quello dei nested market (Ploeg, Jingzhong e Schneider 2010). Nelle aziende contadine, il processo produttivo si basa sempre di più su risorse diverse da quelle controllate dall’agroindustria; in questo modo l’autonomia delle piccole imprese si allarga, fino ad arrivare ad un allentamento dell’agricoltura dalla dipendenza diretta dal capitale finanziano e industriale (Ploeg 2008) sia per gli input che per gli output. La diversificazione riguarda spesso settori, prodotti, processi nei quali la grande produzione non è presente. Essa risponde ad cambiamento dei modelli di consumo, ad una domanda in evoluzione, diversificata e comunque in crescita di produzioni agroalimentari specifiche per qualità, naturalità e territorio (Goodman 2003), connesse a pratiche “alternative” al circuito distributivo dominante (alternative agri-food networks), in cui sono importanti l’informazione sul prodotto e sulla sua storia, così come i legami fiduciari che stanno dietro lo scambio (Marsden, Banks e Bristow 2000; Renting, Marsden e Banks 2003; Cavazzani 2009). Contrariamente ad un’azienda imprenditoriale, esclusivamente orientata alla redditività di mercato ed all’efficienza produttiva, l’impresa contadina basa la sua forza sul lavoro vivo e diretto dei diversi membri della famiglia, soprattutto nella misura in cui si ricorre a tecniche di produzione e modalità di organizzazione del lavoro che mettono al centro il sapere pratico e la manualità, e che quindi comportano un minor dispendio in termini di risorse ambientali, ma un maggiore impegno in termini di lavoro vivo. Inoltre, l’azienda contadina riesce a “sopravvivere”, nella misura in cui si regge su una serie di attività e di scambi non direttamente monetizzabili, perché orientati al circuito dell’autoproduzione per autoconsumo, nell’ambito di economie domestiche e di reciprocità che si si snodato su reti più o meno estese. L’insieme di tali economie, basate sostanzialmente sul radicamento territoriale e sul rafforzamento dell’autonomia, contribuisce alla produzione del valore aggiunto (Ploeg 2008) e funziona come una sorta di cuscinetto di salvataggio di fronte agli andamenti instabili del mercato. Un discorso simile può essere fatto per il ricorso alla pluriattività, ovvero l’affiancamento di altri lavori accanto a quello più propriamente agricolo. Il ricorso alla pluriattività contribuisce al superamento della separazione dell’agricoltura rispetto alle altre attività rurali, e favorisce la ricostruzione del legame tra agricoltura e natura. Le aziende contadine quindi si collocano all’interno di nuove forme di regolazione sociale, in cui si ridefiniscono i rapporti tra produzione, territorio e consumo e riaffiora la centralità dell’economia informale e della famiglia, con la sua capacità di attuare strategie adattamento flessibili. Abbiamo qui descritto a grandi linee le caratteristiche del modello contadino, consapevoli che si è oggi in una situazione di transizione. Come sottolinea lo stesso Ploeg (2008), le aziende si caratterizzano per gradi differenti di “ricontadinizzazione”. La transizione è attualmente in corso e si sviluppa in un insieme crescente di soluzioni locali diversificate. Già nel 1999, una panoramica generale del fenomeno (basata su sei paesi europei, Irlanda, Inghilterra, Paesi Bassi, Germania, Spagna e Italia) mostrava come circa l`80% degli agricoltori europei applicasse una o più soluzioni indicate che, nel loro insieme compongono il processo europeo di riemersione del modello contadino (Oostindie, Ploeg e Renting 2002). Pertanto, già alla fine degli novanta oltre la metà degli agricoltori professionali era impegnata (in piccola parte da tempi remoti, per il resto solo di recente) in attività collegate alla riemersione di questo modello. Questo tipo di ricontadinizzazione non rappresenta un ritorno al passato, riguarda al contrario i contadini del terzo millennio (Ploeg 2008): molte aziende optano per soluzioni sempre più orientate a questo modello proprio per rispondere in modo proattivo al rischio di disattivazione (dismissione dell’attività) che negli ultimi anni ha investito moltissimi piccoli produttori, sempre più schiacciati dalla concorrenza globale e dalla diminuzione dei ricavi. 3. Nuovi contadini, multifunzionalità e beni collettivi In precedenza si è messo in evidenza che le aziende contadine praticano diverse tipologie di diversificazione delle attività che creano «nuove forme di eterogeneità» (Oostindie, Ploeg e Renting 2002: 218). Secondo Ploeg e Roep (2003), tale differenziazione può essere realizzata lungo tre direttrici di trasformazione, che individuano i lati del cosiddetto triangolo della multifunzionalità: approfondimento, ampliamento e riposizionamento (deepening, broadening e regrounding). 3 L’approfondimento riguarda tutte quelle azioni rivolte ad una maggiore valorizzazione della produzione agricola ed agroalimentare, permettendo un ampliamento del valore aggiunto per unità di prodotto, attraverso, ad esempio, la sostituzione dei fattori di produzione convenzionali, la riorganizzazione della filiera, una migliore cura degli aspetti qualitativi del prodotto, la produzione di nuovi beni (ad esempio nuove colture). Forme di approfondimento sono le innovazioni di prodotto (le produzioni di alta qualità, le specialità regionali, l’agricoltura biologica, ….), e quelle di processo (come la trasformazione in azienda, la vendita diretta e il coinvolgimento dei consumatori nelle attività aziendali). L’ampliamento, si riferisce all’inserimento di altre attività all’interno dell’azienda, accanto a quelle attività non prettamente agricole in azienda che permettono di diversificare le fonti di reddito verso attività di servizio. Esempi significativi di tali attività, remunerate, sono le forme variegate di gestione della natura, della biodiversità e del territorio, la produzione di energia alternative, l’agriturismo, ma anche servizi per le persone, incentrati su attività di cura, assistenza, formazione (agriasili, fattorie didattiche, pet therapy, agricoltura sociale, ecc.), un’ampia gamma di servizi rurali più tradizionali. Sono queste attività tipicamente no-food realizzate all’interno dell’azienda, con lo scopo di rispondere alle nuove esigenze dei consumatori e di fornire nuovi servizi alla collettività. Infine si trovano le attività di riposizionamento, mediante le quali si assiste ad una ricollocazione dei fattori di produzione, che può avere effetti sui costi e sul lavoro. Vi rientrano le attività extra-aziendali di diversificazione del reddito familiare, come la pluriattività, oltre che tutte le pratiche di contenimento dei costi (Ploeg e Roep 2003; Henke e Salvioni 2010) intese alternativamente come strategia di sopravvivenza, come indicatore della capacità di adattamento del settore alle condizioni socioeconomiche correnti, o ancora come mezzi per potenziare l’autonomia aziendale. Queste forme di diversificazione del reddito possono essere simultaneamente presenti nelle aziende, anche se a gradi diversi; la loro combinazione determina il livello di multifunzionalità della singola azienda agricola (Ploeg 2006). Il carattere multifunzionale dell’agricoltura e la consapevolezza che essa assolvesse a funzioni diversificate (centrali nella regolazione delle economie locali), erano degli aspetti molto conosciuti ed in un certo senso “dati per scontati” nelle società rurali. Tuttavia, gli elementi di novità sono oggi costituiti dall’aver posto al centro dell’attenzione l’analisi dei legami esistenti tra queste caratteristiche e la loro relativa intensità (Cairol e Coudel 2005), dal riconoscimento della capacità della multifunzionalità di generare valore aggiunto per le imprese agricole e, allo stesso tempo, produrre beni pubblici, come i servizi agro-ambientali. In passato, la gestione ufficiale dei servizi cosiddetti “agro-ambientali” era in mano ai singoli Stati e a poche organizzazioni professionali preposte, e ciò implicava che nessun altro operatore rurale potesse occuparsi di tali servizi. Nel corso degli ultimi venti anni, in particolare nell’Unione Europea, è stato riscontrato un sempre più ampio riconoscimento del fatto che l’agricoltura, oltre a fornire beni privati, provvede anche alla creazione e alla preservazione di beni pubblici (paesaggio, sicurezza ambientale, biodiversità, benessere degli animali). Riprendendo una definizione dell’OECD (2006), la multifunzionalità ha due caratteristiche fondamentali: l’esistenza di più merci, servizi o prodotti (non solo agricoli) e il fatto che alcuni di questi presentino caratteristiche non commodity (difficilmente commerciabili). Grazie a questo secondo aspetto, si creano esternalità positive e/o beni pubblici. Le aziende multifunzionali quindi, oltre a produrre beni e servizi agricoli, generano e preservano questi beni pubblici. La domanda di tali beni è oggi in forte crescita, per il cambiamento degli stili di vista e di consumo ed è diretta proprio verso la sfera agricola, data la connotazione dei beni in questione – ambientali come il paesaggio e la biodiversità e sociali come la qualità della vita – beni non producibili in un contesto specializzato e intensivo e non importabili, per cui la localizzazione delle imprese conta, assume significato (Ploeg 2008; Henke 2003; Oostindie et al. 2010). Si verifica così uno spostamento di funzioni cui è chiamata l’agricoltura ed un suo riallineamento per incontrare i bisogni in rapido cambiamento della società. Il rapporto tra agricoltura multifunzionale e risorse comuni è andato rafforzandosi ed è stato spiegato anche attraverso la nascita di nuovi segmenti di mercati, i nested market, collegati ai mercati locali, da cui si differenziano per il loro funzionamento (Oostindie et al.2010; Polman et al. 2010). Si tratta di mercati nidificati in ambiti specifici, all’interno dei quali è possibile disporre di risorse prodotte da una relativamente piccola parte di attori locali, ma che sono utilizzate da una porzione più ampia di territorio. Tali risorse comuni (common pool resources, Ostrom 1990) sono presenti sia a monte dei processi produttivi (paesaggi, terre comuni), che a valle (marchi territoriali). Le common pool resources possono essere risorse comuni immateriali, come le conoscenze locali, le competenze tecniche e le reti necessarie per la conversione delle risorse naturali in prodotti di qualità (Polman et al. 2010), ma anche risorse materiali strettamente economiche (ter4 re, foreste, prodotti “distintivi”, come quelli di alta qualità, le specialità regionali, i prodotti biologici, e servizi come l’agriturismo o l’agricoltura sociale). All’interno della risorse comuni immateriali un fattore decisivo del metodo di gestione contadina è l’abilità artigianale, che si connette alle conoscenze tacite e a processi produttivi contestualizzati. In particolare, Ploeg pone al centro della sua analisi il tema delle tecnologie orientate alle competenze che dipendono fortemente dalla centralità del lavoro e delle relative abilità: maggiore è la capacità della forza lavoro, migliori sono i risultati produttivi. Contrariamente alle tecnologie meccaniche, nelle quali il lavoro è principalmente un’estensione della macchina, nelle tecnologie orientate alle competenze la manodopera governa il processo di produzione e ciò implica la possibilità di realizzare miglioramenti costanti e cumulativi (Bray 1986). Una competenza è la capacità di (ri)organizzare e coordinare tempo, spazio, manodopera, ausili tecnici, flussi e standard di qualità. Le tecnologie orientate alle competenze presentano caratteristiche diversificate (cfr. anche Rip e Schot 2001; Ventura e Milone 2005). Le tecnologie orientate alle competenze sono un perfetto strumento per l’apprendimento. Ciò non si verifica solo al livello delle unità di produzione coinvolte, ma anche grazie all’aumento delle reti più ampie nelle quali esse sono inserite. Un bell’esempio di ciò è ampiamente documentato in Ventura e Meulen (1994), Ventura (1995), Meulen (2000), Ventura (2001). Questi studi mostrano come i concetti di qualità circolino, si formino reciprocamente e si adattino l’uno all’altro, creando nel loro insieme fiducia, nonché interessi e prospettive condivisi. In altre parole, questi studi esplorano e descrivono la «costruzione sociale della qualità», oltre alla costruzione sociale del mercato (quello della carne chianina, in questo caso, che presenta caratteristiche decisamente differenti da quello della carne anonima). L’approccio alle risorse comuni, quali le conoscenze locali, le competenze tecniche e le reti necessarie, è stato approfondito dalle ricerche sullo sviluppo locale, come “fattori immateriali” dello sviluppo, richiamandosi al paradigma dei Local Collective Competition Goods (Beni collettivi locali per la competitività) (Crouch et al. 2001). Le common pool resources richiedono particolari forme di regolazione (Ostrom 1990), che passano per una sorta di governance ibrida, una combinazione tra incentivi di mercato e meccanismi di coordinamento, socialmente costruita in quanto inserita in un contesto territoriale dato, all’interno di una specifica rete di attori e istituzioni e dai confini permeabili. Anche la produzione di beni pubblici ad uso esclusivo di gruppi specifici (beni club), quali, ad esempio, la vasta gamma delle conoscenze tacite connesse al sistema delle competenze situate, possono essere prodotte, condivise e potenziate attraverso quelle che vengono chiamate comunità di pratica. Si evidenzia così un aspetto centrale dello sviluppo locale, l’importanza della dimensione sociale nella generazione di beni fruibili in modo più diffuso a livello territoriale, come quello della qualità socialmente costruita. Date queste caratteristiche particolari, la formazione di beni e risorse comuni è particolarmente delicata e richiede regole ben precise. La tutela delle terre comuni e delle foreste avrà bisogno di meccanismi e regolativi del tutto differenti da quelli di un qualsiasi bene privato che può essere regolato dal mercato. Sono cioè necessarie diverse forme di pianificazione e coordinamento, che dipendono, oltre che dalle caratteristiche del bene, da altri fattori, come la compresenza di attori diversi (imprese, amministrazioni pubbliche, singoli cittadini). Questo comporta costruire processi di governance, partecipati ed inclusivi. In conclusione le aziende multifunzionali svolgono un ruolo di “connessione” tra le attività produttive e i beni comuni. È stato dimostrato che le produzioni di qualità (e le relative reti) sono spesso legate forme di cooperazione locale, filiere corte, vendita diretta, nested market (Oostindie, et al. 2010), che coinvolgono un numero crescente di attori, appartenenti a sistemi socio-economico-istituzionali diversi, compresi quelli urbani. Quando si parla di agricoltura multifunzionale ci si riferisce ad un’agricoltura capace di porsi attivamente in relazione con il territorio, in grado di adattarsi alle condizioni territoriali e di intraprende peculiari percorsi di sviluppo, di assumere specifiche configurazioni funzionali, a partire dalle caratteristiche delle aree in cui va a inserirsi. La multifunzionalità dell’agricoltura si configura come un concetto site specific, assumendo una declinazione peculiare a seconda del luogo in cui si realizza, fortemente condizionata dal contesto territoriale in cui operano le aziende. 4. Specificità, differenziazione e territorio Nel par. 2 si è sottolineato come l’agricoltura intensiva, ad elevata industrializzazione e standardizzazione, abbia portato all’abbassamento della qualità dei prodotti e una perdita delle specificità, all’emarginazione di molte agricolture regionali fortemente contestualizzate. All’interno del paradigma della modernizzazione agricola, le risorse interne, le specificità dei singoli territori, materiali e immateriali, sono sottovalutate e 5 concepite spesso come ostacolo, non come vantaggio. Gli agro-sistemi locali, ma anche i rapporti sociali, la cultura e le appartenenze locali sono valutati come premoderni, considerati negativi, uno scoglio contro cui si infrange la modernità. Il processo di transizione verso una nuova agricoltura tende invece alla differenziazione e alla realizzazione di nuovi prodotti. I beni localizzati, come quelli agro-alimentari di cui dispongono i territori, sono frutto di pratiche spazialmente circoscritte spesso antiche di secoli, e in questo senso incorporano il risultato di un’agricoltura con forti caratteri identitari. Sostanzialmente razze animali, cultivars, vitigni, così come i prodotti che ne derivano, sono frutto di un lungo processo di adattamento tra uomini e territori. Quella razza, quel vitigno piuttosto che un altro, sono andati radicandosi e differenziandosi in un determinato territorio come frutto di una lunga “attività sperimentale di adattamento” (Meloni 2006). È la sperimentazione, a volte secolare, degli agricoltori e allevatori, che ha permesso di selezionare quel determinato vitigno o quella pecora da latte in quella regione. Essi non sono interscambiabili e rappresentano, perciò, un vantaggio comparato naturale. Le diverse comunità territoriali – soprattutto le regioni storiche – continuano anche oggi ad essere “riconoscibili” non solo attraverso le emergenze ambientali o monumentali, ma anche mediante le produzioni agroalimentari; queste individuano quel legame indissolubile tra cibo e alimentazione, che rappresenta una connessione storica, culturale ed economica con i “luoghi” e definisce forme specifiche d’identità. In relazione al rapporto tra luoghi e allocazione di fattori naturali e storici, Becattini osserva: «Così la produzione vinicola, …..non scaturisce, da un’asettica viticultura, collocata qua e là, ma porta, con gli aromi speciali e le forme dei contenitori, definiti gli uni e le altre, pazientemente lungo il corso dei secoli, il segno delle generazioni di viticoltori, insieme a tratti culturali del territorio» (2012: 12). Le specificità e la distinzione (in termini di biodiversità, qualità organolettica dei prodotti, ancoraggio a modalità di produzione artigianale), insieme ai saperi locali, se ben governate hanno lo stesso valore dell’innovazione, perché rappresentano una risorsa per il mercato non disponibile in altri contesti. Recenti ricerche sui sistemi locali agroalimentari (Asso e Trigilia 2010; Casavola 2011; Trigilia 2013) hanno mostrato come «i territori di maggior successo economico devono, nella maggior parte dei casi, la loro migliore posizione soprattutto a ‘vantaggi competitivi naturali’ e a ‘un più lungo connesso saper fare’, che hanno incontrato in epoca più recente una domanda esterna favorevole alle loro vocazioni tipiche. Si tratta di circostanze non riproducibili facilmente altrove e non altrove sostituite da processi, ugualmente robusti, d’ideazione autonoma di prodotti e servizi moderni» (Asso e Trigilia 2010: XX). Il ruolo portante del radicamento territoriale delle produzioni diventa un presupposto di valorizzazione delle stesse. Questi assunti teorici convergono verso una definizione piuttosto chiara dei processi di sviluppo locale contemporaneo: i territori caratterizzati da maggiore competitività sono quelli che, a partire dalle specificità identificazione d’origine, hanno rafforzato innovazione e capacità organizzative: «se è certamente rilevante una storia lunga di accumulazione di saper fare, innescata originariamente sia dalla favorevole natura dei luoghi, sia anche dagli assetti originari dell’organizzazione delle campagne… in nessun caso gli aspetti di successo relativamente più recenti hanno le caratteristiche della mera capitalizzazione su una rendita storiconaturale, giacché elemento decisivo è stato costituito dall’innovazione e organizzazione che si è innestata su quelle condizioni. Le innovazioni sono state varie, ma generalmente più intenzionali che casuali» (Casavola 2011: XX). Un ulteriore fattore che consente ai territori locali non solo di difendersi, ma anche di avvalersi con successo dei meccanismi della concorrenza, non si lega alle singole performance aziendali, ma all’organizzazione e alle relazioni interne al contesto di riferimento, nella cornice di un’economia sempre più relazionale. Una recente ricerca sugli sviluppi in corso in alcune Aree significative di vitalità economica del Mezzogiorno (Trigilia 2013), con riferimento ai sistemi locali dell’agricoltura e agroindustria (Sicilia sud-orientale e nordoccidentale, Oristano, piana di Sibari e area di Crotone, Agro sarnese-nocerino) ha indagato le origini della crescita, la diffusione del cambiamento, l’organizzazione settore a livello locale, l’architettura dei rapporti tra imprese, l’organizzazione per filiera e per territorio, il ruolo delle associazioni di categoria, dei consorzi, delle Organizzazioni Produttori (OP), i tessuti connettivi tra le imprese. Sono emerse tre tipologie di reti: territoriali in senso stretto, di tipo produttivo, di conoscenze e competenze. Le forme di cooperazione tra le imprese possono spaziare da quelle più strutturate di tipo consortile e cooperativo ad altre più lasche di relazione tra clienti e fornitori, imprenditori, tecnici, consulenti e ricercatori. Queste forme di cooperazione sono strategicamente rilevanti, non solo sotto il profilo della loro efficacia nel migliorare le performance economiche delle imprese e la loro capacità di penetrazione sui mercati, ma soprattutto, sotto il profilo dei processi di apprendimento finalizzati all’innovazione, che scaturiscono dall’interazione e dalla cooperazione tra gli attori. 6 In particolare le imprese contadine necessitano di essere inserite all’interno di un sistema di reti territoriali che favorisca la circolazione della conoscenza e l’integrazione sia di tipo verticale (coinvolgimento tra imprese di una stessa filiera produttiva, che operano all’interno dello stesso territorio), che orizzontale (tra imprese che appartengono a filiere differenti, per stimolare complementarità, sinergie ed esternalità positive). In questo senso, la capacità di ripensare le filiere agroalimentari in relazione ai territori di riferimento diventa strategica e bisogna ideare politiche pubbliche rivolte a sostenere processi di “riterritorializzazione” delle filiere agroalimentari, che permettano di qualificarle lungo due direzioni della distinzione e differenziazione. Come si è già sottolineato, i processi produttivi ed i prodotti sono l’espressione di conoscenze tacite, saperi diffusi localizzati, che hanno sempre una natura “pratica”, “esperienziale”, legata cioè al costante scambio tra l’uomo ed il suo ambiente circostante, all’interno di un’economia che non soltanto è relazionale (si nutre cioè dei rapporti tra gli attori sociali presenti sul territorio), ma è anche culturalmente significante. In questo senso non soltanto più una filiera agroalimentare è “radicata” in un territorio, maggiore è la sua capacità di creare “valore”, ma essa rappresenta un vero e proprio bene collettivo locale, che rende possibile l’aumento della competitività con strumenti nuovi rispetto al passato, spostando la concorrenza dal costo ad una qualità legata al territorio. Se filiera agroalimentare, identità e territorio sono intrinsecamente legati, ne deriva una nuova attenzione a tutte quelle filiere “territoriali”, che esprimono le specificità identitarie di un territorio e ne inglobano i saperi locali; su di esse passa infatti la possibilità di progettare delle solide strategie di differenziazione sia del territorio nel suo complesso che delle imprese al suo interno (Farinella e Meloni 2014). L’attenzione all’organizzazione di filiera è quindi un mezzo per mettere in rete quei beni specifici e non replicabili altrove, di cui i territori dispongono, trasformandoli in vantaggi competitivi comparati (Porter 1990), laddove in un discorso tipicamente modernizzante le “caratteristiche” territoriali sono spesso state viste come vincoli, espressione di arretratezza. Ripartire dalle specificità territoriali e costruire “filiere” attorno ad esse, significa fare attenzione alle componenti immateriali dei processi locali, provando a generare un circolo virtuoso tra know-how tradizionale e stimoli all'innovazione, con la “messa in squadra” di risorse, saperi, competenze, solitamente latenti e poco conosciute (Becattini e Rullani 1993). L’attenzione alle filiere territorializzate permette poi di costruire sul territorio quei tessuti connettivi che producono economie esterne e che stimolano l’evoluzione dei territori verso la forma dei distretti rurali ed agroalimentari (Cecchi 2002; Idda, Furesi e Pulina 2002; Iacoponi 2000; Fabiani 2000; Pacciani 2003; Cavazzani, Gaudio e Sivini 2006; Meloni 2014b). 5. Conclusioni La rilevanza della dimensione locale e relazionale nella promozione dell’innovazione nelle piccole e medie imprese, anche contadine, si fonda sul riconoscimento che qualunque fenomeno di trasferimento tecnologico è sempre un processo sociale di produzione, comunicazione, condivisione di conoscenze, a più dimensioni, che comporta la riorganizzazione e creazione di nuove connessioni. Così la piccola e media azienda contadina multifunzionale svolge attività di approfondimento e ampliamento, sfrutta il più possibile le risorse locali e le rafforza attraverso l’introduzione selettiva di specifici elementi di innovazione, le quali passano attraverso conoscenza situata e reti territoriali, che trasformano conoscenze tacite in conoscenze esplicite (Nonaka 1994). In questo contesto è possibile parlare di una tecnologia localizzata, costruita sui fattori locali (ovvero la specificità) che si riflette poi in una “costruzione sociale della qualità” localizzata (Ventura e Milone 2005). In un suo saggio, Beccattini (2001) aveva sottolineato la difficoltà di assimilare l’organizzazione dell’azienda agricola alla forma distrettuale: quelle “condizioni” che favoriscono i distretti industriali verrebbero meno nell’impresa agricola, nella misura in cui questa è protesa esclusivamente agli obiettivi interni e all’utilizzo razionale e completo della sua forza-lavoro. L’impresa agricola, centrata sul principio di autosufficienza aziendale, avrebbe la necessità di integrare verticalmente al proprio interno le operazioni produttive; diventerebbe quindi difficile quella suddivisione progressiva del lavoro e dei processi produttivi in fasi distinte che è alla base della costituzione spaziale dei distretti (Becattini e Sforzi 2002) e della complementarità tra le piccole aziende di una stessa area. Tuttavia, proprio i fattori di mutamento, di cui si è provato a dare conto in questo saggio, che stanno attraversando la “base” del mondo rurale e le sue pratiche, modificano profondamente il quadro delineato dall’affermazione di Becattini. Per questo, le condizioni economiche e sociali che spiegano la nascita e la trasformazione di economie locali contadine sono probabilmente non dis7 simili da quelle che le ricerche sullo sviluppo locale, a partire dagli anni ottanta, avevano messo al centro della loro analisi sulla nascita delle piccole imprese manifatturiere a “economia diffusa”, così come le spiega Bagnasco (1988). Come si è sottolineato lungo il saggio, sono le condizioni economiche generali esterne che favoriscono la riemersione del modello contadino. Le aziende contadine appartengono spesso a settori nei quali la grande impresa non è molto presente, soprattutto produzioni agroalimentari di qualità, a forte connotazione territoriale. Oggi esiste una domanda in crescita di questo tipo di beni sui mercati locali e internazionali, favorita anche dalle reti di comunicazione telematiche. Inoltre, l’introduzione di nuovi metodi di produzione più flessibili, legati alle innovazione tecnologiche prodotte dalla microelettronica e dalle macchine a controllo numerico ha avvantaggiato anche le piccole aziende contadine, così come era avvenuto per quelle manifatturiere. Sono diventate economicamente sostenibili piccole produzioni segmentate, grazie all’applicazioni di tecnologie elastiche e poco costose, che permettono di avere piccoli impianti di trasformazione collocati all’interno della azienda, che garantiscono innovazione tecnica, aumento di produttività e del valore aggiunto (si pensi ai mini-caseifici, ai sistemi di imbottigliamento, alle macchine per trasformazione di pasta e pane conserve…). Esistono, come si è visto, condizioni endogene a numerose aree specializzate di produzione, dove convivono aziende di dimensioni differenti, che si caratterizzano per saper assolvere a funzioni plurime e diversificate, con forme specifiche di integrazione. In particolare, l’attenzione della ricerca sociale per la multifunzionalità è determinata da alcune caratteristiche peculiari che l’attività agricola tradizionale svolge in forme differenziate territorialmente (forte legame che lega le imprese con il territorio, l’utilizzo della risorsa terra, la dispersione delle aziende sul territorio, il ruolo dei processi biologici nella produzione, i vincoli strutturali della produzione) (Velazquez 2003). I sociologi, in relazione all’origine e al rafforzamento queste forme differenziate di impresa, sono portati a focalizzare le diversità presenti nelle società locali, facendo attenzione alle variegate forme di famiglia agricola (autonoma, piccolo proprietaria, affittuaria), che combinano fonti di reddito mutevoli e complementari (agricolo e non). Le tradizioni specifiche, gli assetti storici presenti nei territori sono importanti, e le ricerche mostrano che spesso contadini e commercianti non dovevano inventarsi una rete di conoscenze e rapporti, al contrario utilizzavano i mercati locali esistenti, in cui contavano le relazioni fiduciarie e comunitarie (Inea 2013). Endogeno richiama poi una vocazione naturale, un’idea di possibilità dell’attivazione, un’ampia accettazione sociale, una continuità culturale. In sostanza si fa strada l’idea che ci sono risorse nascoste nel patrimonio culturale di una società locale che possono attivarsi se riconosciute, come già suggerito da Hirschman (1958). Probabilmente in ogni società locale ci sono più risorse di quanto di solito non pensiamo, ma il punto è che non tutte sono risorse per qualsiasi circostanza (Bagnasco 1988). Similmente è possibile percorrere anche per le imprese contadine i processi che hanno contribuito al riemergere dell’economia informale: essi esprimono il tentativo degli attori sociali di recuperare autonomia a fronte dell’invadenza del mercato, ma rinviano anche a strategie familiari di adattamento, in cui si intessono nuove forme di economia, basate sull’autoproduzione e su un lavoro che non passa per logiche di mercato. Siamo in presenza di produttori autonomi che offrono beni e servizi per il mercato, ma lo fanno in specifici contesti attraverso un lavoro svolto “fuori” dal mercato. Queste economie informali in agricoltura sono sempre esistite e si combinano in vario modo con l’economia formale. Negli ultimi 150 anni, l’aumento della produzione è stato associato allo sviluppo tecnologico ed alla grande organizzazione. Oggi questa tendenza si interrompe. Come si è già sottolineato, le nuove tecnologie, diventa possibile una produzione più sostenibile, non ancorata alle economie di scala, al gigantismo aziendale ed alla verticalizzazione aziendale. C’è poi un ulteriore aspetto. L’azienda contadina riesce meglio dell’impresa imprenditoriale, perché mette in campo una serie di pratiche, legate al lavoro dei membri, alla produzione per l’autoconsumo, alle reti di reciprocità, alle variegate forme di multifunzionalità’ che nel complesso creano un valore reale che, pur non essendo immediatamente visibile, entra in circolo nell’azienda e la rende più stabile. Al contrario, l’azienda agricola imprenditoriale resta imprigionata nella remunerazione di fattori produttivi che passano esclusivamente per il mercato (in particolare il lavoro) e questo comporta un incremento dei costi che la spinge fuori mercato. Queste sono ragioni che hanno portato alla crescita del settore contadino a spese delle aziende imprenditoriali. Qui si incontrano: ruolo centrale della famiglia e della comunità nei processi combinatori, vecchie economie rurali, domanda di beni di consumo e di servizi diversificati, l’impresa minore adotta processi di produzione innescati in relazioni familiari e comunitarie, produzione per l’autoconsumo e per il mercato, innovazione che si combina le conoscenze locali situate, necessaria per la conversione delle risorse in prodotti di qualità. 8 Questi elementi segnalano inversioni di tendenza rispetto al processo di modernizzazione: differenziazione piuttosto che specializzazione funzionale. Territorializzazione ed integrazione multifunzionale ed a rete piuttosto che standardizzazione e settorializzazione. Bibliografia Asso P.F., Trigilia C. (2010), a cura, Remare controcorrente. Imprese e territori dell’innovazione in Sicilia. Roma, Donzelli. Bagnasco A. (1988), La costruzione sociale del mercato, Bologna, Il Mulino. Barberis C. e Siesto V. 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