la violenza respirata

Guerra civile
Centrafrica
l
a violenza respirata
L
a Repubblica Centrafricana cerca la svolta,
ma trova ancora guerra. A fermare gli scontri
tra guerriglieri dell’ex
coalizione Seleka e milizie anti-balaka non sono state sufficienti un rinnovato impegno militare internazionale e una nuova presidente ad interim, Catherine Samba-Panza. L’ex
sindaco della capitale Bangui aveva
già guidato le istituzioni per il dialogo nazionale nel 2003 ed è considerata una personalità super partes; è subentrata a Michel Djotodia
a gennaio, dopo che l’ex comandante di Seleka – cedendo alla pressione dei paesi dell’area – aveva rassegnato le dimissioni durante un vertice a N’djamena. I problemi da risolvere per la nuova amministrazione, però, sono rimasti gli stessi che
avevano paralizzato la vecchia. Emblematica in questo senso l’uccisione a sangue freddo di uno dei deputati del Parlamento provvisorio, Jean-Emmanuel Djarawa, di fronte alla sua casa di Bangui.
«Il livello di violenza che è ancora presente anche all’interno della capitale è preoccupante», racconta
a Il Regno Federica Biondi, dell’organizzazione umanitaria Intersos, che
si trova sul posto. Anche se la forza
multinazionale (6.000 uomini della
missione a guida africana MISCA, oltre ai 2.000 militari francesi dell’operazione Sangaris; l’Unione Europea
ne ha promessi altri 600) è «presente
e visibilissima», prosegue l’operatrice
umanitaria, «in città ci sono combat-
Come procede la crisi:
testimonianze dagli operatori umanitari
timenti e azioni da parte sia dei Seleka sia degli anti-balaka». «Dobbiamo verificare la sicurezza ogni giorno», spiega ancora, raccontando come anche le cliniche mobili, che l’ong
italiana sta attivando, spesso non possano raggiungere alcune zone della
città a causa del riesplodere di scontri, anche mortali. Oltre 1.250 persone, nella sola capitale, hanno perso la
vita tra dicembre e febbraio, una situazione che ha spinto il Parlamento francese a votare il prolungamento della missione Sangaris e lo stesso
presidente transalpino François Hollande a visitare Bangui il 28 febbraio.
Che l’attenzione dell’ex-potenza
coloniale alla questione centrafricana – in un primo momento considerata di relativamente facile soluzione
– sia ora più alta lo dimostra anche il
cambiamento di linea implicito nelle
dichiarazioni del generale Francisco
Soriano, comandante della forza militare mobilitata da Parigi. Il 10 febbraio l’ufficiale ha definito gli anti-balaka «i principali nemici della pace»,
preannunciando di fatto una svolta rispetto a comportamenti come quello
descritto, in un’intervista a Radio Vaticana, da Patrizia Emiliani, medico
volontario all’ospedale delle missioni
cattoliche a Bimbo, non lontano dalla capitale. I peacekeepers internazionali, spiegava a fine gennaio, «hanno
disarmato tutti i Seleka ma non disarmano gli anti-balaka».
Su questa condotta potrebbe aver
inciso anche l’equivoco, durato piuttosto a lungo, sulla natura degli stessi anti-balaka. Presentatisi come mi-
lizie di autodifesa sorte spontaneamente per reazione ai soprusi dell’altro gruppo armato, hanno però arruolato tra i loro ranghi anche «ex
prigionieri e altri criminali», come
ha testimoniato all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di
Bangassou, mons. Juan José Aguirre
Muñoz. Senza contare che a proclamarsi coordinatore politico di questi gruppi – in realtà privi, come i Seleka, di una vera guida unitaria – è
stato Patrice Edouard Ngaïssona, già
ministro dello Sport sotto il presidente François Bozizé, che Djotodia aveva deposto.
Vittime i musulmani
I Seleka, da parte loro, malgrado
gli sforzi per la loro smobilitazione siano stati più evidenti, si sono resi protagonisti di abusi soprattutto nelle zone in cui la forza multinazionale non
ha ancora dispiegato i suoi uomini.
L’effetto delle due minacce contrapposte è stato di aumentare ancora di
più le divisioni all’interno del paese.
A farne le spese, in quest’ultima fase, sono state soprattutto le comunità
di religione musulmana: minoritarie
nella Repubblica Centrafricana, sono state viste dal resto della popolazione – durante il periodo di maggior
potere di Seleka – come complici della coalizione, al cui interno combattevano numerosi mercenari ciadiani
e sudanesi di religione islamica, anche di tendenze radicali.
In molte località, la fuga della milizia ha coinciso con quella dei musulmani stessi. Così è stato, ad esempio,
Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
165
a Bouca, nell’Ovest del paese. Suor
Angelina Santagiuliana, delle Figlie di
Maria missionarie, all’inizio di febbraio è stata testimone della loro partenza dalla città, semidistrutta da quando, cinque mesi prima, un migliaio
di case erano state incendiate durante gli scontri. «Il tentativo della Chiesa è stato quello di lavorare per una
coesione sociale – racconta la religiosa – ma visto che non è stato possibile
ci siamo impegnati per far sì che i civili musulmani che avevano deciso di
partire potessero farlo senza che nessuno sparasse sui convogli». La stessa
rabbia è esplosa in altre parti del paese, compresa Bangui, dove, nota Federica Biondi, «buona parte della popolazione di religione islamica è fuggita o è nei campi» destinati agli sfollati. Tra loro, dice ancora l’operatrice
umanitaria, «ci sono persone in attesa
di essere rimpatriate: non sono solo i
musulmani centrafricani a essere state vittime di questa situazione, ma anche quelli di altri paesi, in particolare
i ciadiani», spesso identificati semplicisticamente con gli ex–ribelli.
Gli episodi di violenza contro i
musulmani hanno fatto crescere la
preoccupazione della comunità internazionale e delle organizzazioni per
i diritti umani: Amnesty international a metà febbraio ha esplicitamente parlato di «pulizia etnica», così come l’alto commissario ONU per i rifugiati, Antonio Guterres, che ha anche definito la situazione centrafricana «una catastrofe umanitaria di proporzioni indicibili». Più cauto è stato
l’arcivescovo di Bangui, mons. Dieudonné Nzapalainga, che, pur avendo
parlato, per alcuni scontri di questi
mesi, di «scene che ricordano il genocidio in Ruanda», ha sempre respinto l’idea che la contrapposizione stia
avvenendo su base etnica e religiosa.
Il presule ha anche negato che gli anti-balaka possano essere definiti «milizie cristiane», come pure sono stati
considerati da molti mezzi di comunicazione.
Al centro del cristianesimo, ha ricordato mons. Nzapalainga (nella
sua casa abita da mesi il principale
imam del paese, Oumar Kobine Layama), ci sono valori come «ospitalità, accoglienza, dialogo». Oggi i religiosi li praticano soprattutto nei con-
166
Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
fronti dei numerosi musulmani che,
su tutto il territorio, chiedono di potersi rifugiare nelle chiese e nei conventi per passare la notte al sicuro.
A evitare che l’emergenza fosse ancora più grave, giudica suor Angelina Santagiuliana, ha probabilmente
contribuito la presenza sul territorio
«di molte etnie diverse: se fossero state solo due o tre la situazione sarebbe
esplosa già da molto tempo». Di fronte all’insicurezza che ancora domina,
anche la comunità internazionale sta
cercando soluzioni, almeno a Bangui. «All’interno dei quartieri – riferisce Federica Biondi – si stanno organizzando dei “santuari”, con dormitori pubblici dove le persone possono
riunirsi per la notte e dove la sicurezza è garantita anche dalle forze internazionali».
Difficile normalizzazione
La popolazione cerca però, per
quanto possibile, di tornare a un’esistenza ordinaria: quelli che ancora hanno una casa, prosegue l’operatrice di Intersos, durante il giorno –
quando è meno rischioso spostarsi –
«rientrano nelle zone dove ci sono le
loro abitazioni per cercare di riprenderne possesso e per ricominciare
una vita normale». Su questo influisce anche l’inizio della stagione delle
piogge: da un lato mette a rischio di
allagamento molti campi per sfollati,
dall’altro offre l’occasione di «riattivare il settore agricolo, in modo che
i centrafricani non dipendano da aiuti esterni e possano contare su un’autoproduzione». Nella stessa direzione va lo stanziamento, da parte delle Nazioni Unite, di 26 milioni di dollari, per promuovere la coesione sociale offrendo opportunità di lavoro a
350.000 persone nelle regioni centrali e occidentali.
Dare alla popolazione i mezzi per
rientrare nelle proprie case, o in un
ambiente non ostile, potrà avere anche conseguenze positive sulla sicurezza. «Vivere in così tanti in un piccolo spazio aumenta le possibilità di
violenze e lo spirito di vendetta», avverte infatti suor Santagiuliana, che è
arrivata ad accogliere, nella missione,
4.500 sfollati nel periodo di Natale,
ora ridotti a 500. «Adesso si tratta di
fare un lavoro di reinserimento di tut-
te queste persone in una vita normale, cosa non facile, perché la violenza che hanno vissuto è forte: hanno
davvero respirato violenza», continua
la religiosa. Gli ostacoli alla normalizzazione, tuttavia, non mancano:
lo stato non è praticamente in grado di fornire i servizi essenziali (sanità, istruzione, accesso all’acqua) e
malgrado in molti luoghi riescano finalmente ad arrivare aiuti e operatori umanitari, varie strade sono ancora bloccate per la presenza dei gruppi
armati.
Con gli scontri, è continuata anche la fuga dei civili: da dicembre
2012 più di 700.000 persone hanno dovuto abbandonare le loro case, mentre quasi 290.000 si sono rifugiate nei paesi vicini, le cui strutture
di accoglienza stanno andando in crisi. Il Programma alimentare mondiale ha lanciato a fine febbraio un appello, in cui ha definito ormai «estremamente basse» le sue scorte di cereali destinate ai rifugiati centrafricani nella Repubblica democratica del
Congo; ha poi espresso il timore di
non poter venire incontro, «per mancanza di fondi», alle necessità di chi
ha tentato di sfuggire alla guerra.
I rischi, dopo il terzo cambio di
governo in un anno, riguardano anche il piano politico: a preoccupare è
soprattutto la prospettiva che la parte nord-orientale del paese dichiari la
secessione. Qui si sono raggruppati
in maggioranza gli ex–Seleka e nella
stessa area, al confine con il Ciad, si
trovano anche importanti giacimenti di petrolio. La prospettiva di una
divisione è sempre stata esclusa dalla presidente Samba-Panza e anche
da Hollande, che da Bangui ha invitato a «evitare qualsiasi tentazione
di partizione». Gli uomini delle forze
internazionali si sono già dimostrati insufficienti, però, a controllare efficacemente tutto il territorio. A rafforzare massicciamente il contingente potrebbero intervenire le Nazioni
Unite, come chiesto anche dalle autorità transitorie: il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon in persone, a inizio marzo, ha raccomandato
l’invio nel paese di circa 12.000 caschi blu, tra militari e forze di polizia.
Davide Maggiore