21 Nicasi$$_filebase 2006.qxd

RIVISTA DI PSICOANALISI, 2014, LX, 2
513
La quiete dopo la bellezza*
STEFANIA NICASI
Viens-tu du ciel profond ou sours-tu de l’âbime,
Ô Beauté?
C. BAUDELAIRE
L
a trama. Il protagonista Jep Gambardella vive a Roma in una casa
magnifica accudito dalla domestica Ahè. È scrittore, ma il suo unico e
premiato romanzo, L’apparato umano, risale a quando aveva poco
più di vent’anni. Scrive per un giornale diretto da Dadina, sua amica
nana. Sembra conoscere tutte le persone che contano e si muove con splendida
disinvoltura nei salotti e nelle feste dove è sempre al centro. Il film si apre
appunto con una festa: quella per il suo sessantacinquesimo compleanno. Lo
vediamo coinvolto in diverse vicende fino a quando non incontra Ramona che si
esibisce come spogliarellista nel locale del proprio padre. Nasce un legame fra
loro: Ramona gli rivela di essere ammalata e Jep le racconta la storia del suo primo amore. Nel frattempo il marito della donna amata da Jep in gioventù lo cerca
per dirgli che lei è morta lasciando un diario dove si parla di lui. Anche Ramona
muore. Nella Capitale arriva una suora venerata come una santa e Dadina chiede a
Jep di organizzare una cena in suo onore, con la speranza che si lasci intervistare.
La suora non concede interviste ma parla con Jep del quale a suo tempo aveva letto
* La grande bellezza. Regia: Paolo Sorrentino.
514
Stefania Nicasi
il libro. Il film si chiude su Jep che a bordo di una imbarcazione sembra diretto verso i luoghi delle sue origini animato dal proposito di riprendere a scrivere.
Il commento. «La povertà non si racconta, si vive»: Paolo Sorrentino ha
dichiarato ai giornalisti che in questa frase sta la chiave del film. In ogni caso è
una gran bella frase. A pronunciarla è una suora in odore di santità che rifiuta le
interviste e si nutre solo di radici «perché le radici sono importanti». Jep Gambardella (Toni Servillo) ha lasciato il Sud a ventisei anni per approdare a
Roma e non andarsene più. Il mondo nel quale vive è molto particolare. Come
la quercia è una cosa per lo scoiattolo e un’altra per il boscaiolo, così Roma è
una cosa per i turisti, un’altra per i borgatari e un’altra ancora per uno scapolo
ricco, sfaccendato, colto e festaiolo. A vent’anni aveva già messo a segno un
romanzo di successo, «L’apparato umano», poi più niente. A sessantacinque,
celebrati con una sfrenata festa in terrazza che occupa i primi minuti del film, gli
rimane, come direbbe Gassman, «un grande futuro alle spalle». Il protagonista
conserva una calata partenopea accentuata talvolta per civetteria. Cercava «la
grande bellezza», come dirà alla suora santa, ma non l’ha trovata. Non l’ha trovata pur essendo immerso nella bellezza della capitale, della casa con vista sul
Colosseo e sull’ombroso giardino di un convento. Questa grande bellezza romana – per i più inedita e colta a sprazzi dal regista – lo ha abbagliato: qualche cosa
di lui è morto subito, come il turista giapponese, nella scena di apertura, colpito
da infarto mentre fotografa il panorama dal Gianicolo. Non l’ha trovata nello sfarzo, nelle feste, nelle donne stupende, nelle conversazioni intellettuali, nell’arte
contemporanea. Roma lo ha deluso, come ha deluso il suo solo vero amico che
improvvisamente decide di tornare al paese, dai genitori, a una donna da sposare.
Roma lo ha deluso ma insieme lo ha inghiottito. Jep Gambardella ci sta dentro fino al collo: «Flaneur annoiato e decadente, con le stupende giacche sartoriali e l’incessante catena di sigarette», «Coscienza alcolica e lucida del vuoto culturale ed etico che pure lui contribuisce ad animare ma deciso a percorrerlo fino in
fondo» (Falci). Deciso a percorrerlo o impossibilitato a uscirne? Secondo Roberto Escobar, non ha via di scampo se non la morte; a nulla valgono l’accento delle
origini, le giacche impeccabili, il cinismo, le pose sparate, estreme fragili propaggini della difesa narcisistica. L’Io narrante è prigioniero della storia: l’Inferno,
potremmo dire secondo questa interpretazione, ha catturato Virgilio. Il viaggio
immaginario, nella citazione da Céline che chiosa il film, si concluderebbe nella
notte dell’anima.
Rivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2
LA QUIETE DOPO LA BELLEZZA
515
Dietro la grande bellezza si rivela una grande miseria: Sorrentino ha provato
a raccontare, con alterna fortuna, la povertà umana incarnandola in una deriva italiana osservata attraverso lo sguardo disincantato del protagonista. Uno straripante film sul niente – Flaubert, ricorda Gambardella, voleva scrivere un romanzo sul niente – che ha fatto molto discutere.
Unanime, per quello che ho potuto leggere e ascoltare, il giudizio sulla tecnica cinematografica: attacco travolgente, fotografia impeccabile (di Luca Bigazzi), colonna sonora eccelsa (di Lele Marchitelli), montaggio serrato (di Cristiano
Travaglioli), costumi perfetti (di Daniela Ciancio), recitazione magnifica. Qualche dubbio invece sul parlato: c’è chi, come il grande Mereghetti, ha rimproverato un eccesso di letteratura, una parola che fa a gara con l’immagine. Troppe citazioni unite a piccole lezioni di vita, che la voce fuori campo dell’ambiguo protagonista potrebbe risparmiare allo spettatore. Amedeo Falci (2013) suggerisce di
abbandonarsi alla forma che costituisce, a suo modo di vedere, il vero contenuto
espressivo del cinema di Sorrentino.
Mi domando però se questa scissione fra immagine e parola non sia un
riflesso, un sintomo del disturbo di Gambardella. È un disturbo che può contagiare lo spettatore, diviso fra l’incanto delle immagini e l’incanto delle parole.
Se Roma seduce con le immagini, Gambardella seduce con l’eloquio partenopeo elegante, coltivato, carezzevole, ironico e distaccato. Tuttavia lo spettatore
avverte oscuramente un pericolo: il gioco estetizzante e anestetizzante nel quale
tutti sono presi.
Il confronto con Fellini, con La dolce vita e con Roma, continuamente riproposto da critica e pubblico, non ha giovato al regista. Deborah Young su Hollywood Reporter per esempio scrive: «Fortunatamente Sorrentino sa fare di
meglio che imitare il gigantesco Fellini». Non mi avventuro nella discussione,
ma ho sviluppato un amore per questo film; con l’aiuto della psicoanalisi cercherò di tirare qualche filo, di esporre quello che ha aggiunto alla mia comprensione della psicoanalisi stessa.
Se pongo per un momento fra parentesi la critica sociale, il film mi appare
come un’ amara rappresentazione dell’invecchiamento. Alla domanda «Che cosa
ti piace di più veramente nella vita?» gli amici di Jep, da ragazzi, sempre rispondevano: «La fessa»,1 mentre Jep diceva: «L’odore delle case dei vecchi». La vecchiaia si insinua nel film come un odore. Se chiudo gli occhi lo sento questo odo1
Espressione dialettale per significare l’organo genitale femminile.
Rivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2
516
Stefania Nicasi
re fermo: di medicine, di ordine, di acqua di colonia, di mattine perdute. Se chiudo gli occhi. A pensarci bene è un odore di morte maniacalmente negato grazie
alla «fessa». «Ero destinato alla sensibilità» dice Gambardella a commento di
questa sua preferenza giovanile: «Ero destinato a diventare uno scrittore».
Come mai non ha più scritto? Si direbbe che abbia perduto la capacità di
chiudere gli occhi: è rimasto abbagliato dalla «grande bellezza». Ha tenuto lo
sguardo spalancato su un eterno presente: la festa di compleanno è l’emblema
dell’orgia di immagini, suoni, movimento e «fessa» nella quale si è tuffato. È
annegato nelle sensazioni perdendo il contatto con le emozioni. Ha dimenticato la morte smarrendo le infinite potenzialità espressive della nostalgia. Ha
lasciato che il godimento spodestasse il desiderio, invece che tenere vivo il
desiderio in attesa del godimento. Nuovo Dorian Gray, ha sperperato il tempo
nel commercio estetico. Lo vediamo seduto nella sala di attesa di un chirurgo
che risolve tutti i problemi dei pazienti con una costosa iniezione di botulino,
la droga del secolo.
Questo troppo pieno, questo eccesso di stimolazioni, è rovesciato sul pubblico creando un effetto di stordimento e di sconcerto. In questo troppo lo spettatore
si perde, proprio come il protagonista.
Di notte, quando la gente comune si addormenta, Gambardella vive la sua
esistenza irrequieta e smemorata. Va a letto all’alba. Prima di prendere sonno
guarda il soffitto dove vede il mare, manifestazione inconscia del bisogno di
distogliere lo sguardo dal reale per immaginare, per sognare, per ri-creare incontrando la bellezza anche dentro e non solo fuori.
Lo colpisce la visita alla sterminata mostra di Ron Sweet (un intenso Ivan
Franek) che espone le proprie foto, il proprio ritratto fotografico, dalla nascita
fino ai cinquantacinque anni: una foto al giorno, dal primo giorno. Un lavoro iniziato dal padre che, al compimento del quattordicesimo anno, l’artista ha proseguito da solo. È la documentazione che giorno dopo giorno il tempo trascorre, la
prova che questo trascorrere può trasformarsi in un capolavoro.
Cacciata dalla porta, la morte rientra per la finestra così come il sacro, cacciato dalle chiese e separato dalla bellezza, che perciò si è fatta triviale, rientra
in luoghi e momenti inattesi attraverso una grandiosa musica sacra. «Tutto
attorno a me muore» dice Jep a Dadina, la direttrice del giornale per il quale
scrive. In effetti ci sono diverse morti nel film e c’è l’agonia psichica di Gambardella, sradicato da se stesso per mano del personaggio fatuo che si è impadronito di lui.
Rivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2
LA QUIETE DOPO LA BELLEZZA
517
Ma proprio nella morte si troverà, forse, uno spunto di vita e di salvezza.
L’incontro con Ramona rafforza e nel contempo mette a frutto un cambiamento
in atto. Ramona è una bella donna, ma non ha più l’età per fare lo striptease (grazie al quale può pagarsi le cure per la sua malattia), le giovanissime colleghe
venute dall’Est riscuotono molto più successo di lei. Abita in una villetta dove la
piscina pare una vasca da bagno, sbaglia vestiti, parla romanesco; per di più è
ammalata, anche se tiene nascosta la malattia come qualche cosa di brutto che
deve essere sacrificato sull’altare del bello. Decisamente il tipo di donna che gli
amici non si aspettano di vedere a fianco di Jep. Eppure lo attrae. C’è in lei qualche cosa di vero che lui ha smarrito. Questo vero è antiestetico, ma è proprio
attraverso il recupero del lato brutto che Jep ritrova la bellezza che insegue. La
bellezza, in quanto «grande», deve poter contenere anche la bruttezza. L’imperfetta Ramona lo traghetta verso la possibilità di un cambiamento.
Un cambiamento che si manifesta più chiaramente nel finale grazie all’incontro con la minuscola suora. Detto per inciso, le cose che davvero lo raggiungono e lo toccano gli vengono dette da creature che hanno l’altezza dei bambini
(la suora e Dadina, la direttrice nana) mentre una bambina nascosta nella cripta
gli sussurra: «Tu non sei nessuno».
La suora centenaria, tanto bassa che quando è seduta i piedi non toccano terra, brutta da far paura, pare una caricatura di Madre Teresa, ma va presa sul serio
perché la vecchiaia ha una sua gloria, quando arriva come suggello e non come
disfatta.
La grande bellezza era nella vita: lo capiamo davvero solo al tramonto.
Seguendo un altro filo di suggestioni, il film mi fa recuperare un’idea di
Donald Meltzer, che parlava di «conflitto estetico» (1967) a proposito del neonato
a contatto con lo splendore del seno/volto materno. Nel conflitto estetico è proprio
la presenza dell’oggetto – non la sua assenza – a causare dolore nella misura in cui
l’oggetto è sconosciuto e non può essere interamente posseduto.
Un poco alla volta emerge la storia del primo amore nell’isola del Sud. Una
ragazza di celestiale bellezza lo ha lasciato senza spiegazioni. In seguito ha sposato un altro. È appunto il marito a cercare Jep e a dargli notizia che Elisa è appena morta: dal diario si apprende come negli anni non abbia mai cessato di amarlo.
La ricostruzione del primo bacio, vicino al mare, in una notte di luna, avviene
a pezzi e si compone solo alla fine, nel flash back dove Elisa, arretrando di qualche passo, si slaccia la camicetta dicendo «Adesso, voglio farti vedere una cosa».
È evidente allo spettatore che si è dentro un’area traumatica. Area della seduzioRivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2
518
Stefania Nicasi
ne e dell’abbandono, a prima vista, ma anche, a una considerazione più attenta,
area del conflitto estetico, area della bellezza assoluta che resta insostenibile perché inaccessibile: «Non avrei potuto muovermi». Prima di essere in grado di rievocare questa scena, Gambardella si è imbattuto, nel buio di palazzo Barberini,
nella Fornarina di Raffaello, l’enigmatica fanciulla che offre il seno al suo e al
nostro sguardo. Ho visto il film tre volte e tuttavia non sono ancora sicura se l’inquadratura del dipinto sia davvero accompagnata dal rumore del mare che a me
pare di avere sentito. È lo stesso rumore che ode Jep quando fissa il soffitto per
addormentarsi. Il mare delle origini e del primo amore.
Con mano leggera, probabilmente inconsapevole, e felice, il regista aggiunge profondità al dramma amoroso di Jep. Lo riconduce a Geppino, a una pena
narcisistica infantile, a qualcosa di non elaborato che condanna il protagonista a
cercare di essere ammirato invece che di essere amato2, a inseguire la grande
bellezza perduta senza nutrirsi a sufficienza, nonostante il suo fondo affettuoso,
con la piccola bellezza quotidiana che si diffonde dai gesti materni della tata
Ahè e dell’amica Dadina che cercano di curarlo con cose calde: parole, tisane,
minestroni e risotti.
Forse, abbracciato tutta la notte a Ramona, sperimenta qualche cosa di nuovo
– o di antico – forse esce da se stesso e la incontra davvero: «È stato bello non fare
l’amore» le dice al mattino. Battuta indimenticabile. È stato bello starsene quieti
al riparo della bellezza, lasciarsene cullare, non volerla possedere, non volerla
penetrare, non volerla consumare, non volerla neppure raccontare.
SINTESI E PAROLE CHIAVE
Dopo aver passato in rassegna alcune letture critiche del film, l’autrice tenta un affondo alla luce
della psicoanalisi. Le sembra che il regista, inconsapevolmente e felicemente, aggiunga spessore al
dramma amoroso del protagonista riconducendolo a una pena narcisistica infantile, a qualcosa di
non elaborato che lo condanna a cercare di essere ammirato invece che di essere amato, a inseguire la grande bellezza perduta senza nutrirsi a sufficienza con la piccola bellezza quotidiana che si
diffonde dai gesti materni della tata Ahè e dell’amica Dadina. In particolare, il «conflitto estetico»,
descritto da Donald Meltzer, le sembra stare al fondo del film: come un’idea che lo illumina e che
ne viene a sua volta illuminata.
PAROLE CHIAVE: Bellezza, conflitto estetico, narcisismo.
2
La frase è di Stefania Manfredi che, a proposito di certi pazienti narcisisti, scrive: «All’origine di questi disturbi si trova una frustrazione cronica del bisogno di essere amati, la rabbia e l’invidia che spingono questi pazienti a
distruggere anche quello che ricevono: come se avessero imparato che essere ammirati è più importanti che essere amati» (Manfredi, 1998, 124).
Rivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2
LA QUIETE DOPO LA BELLEZZA
519
THE QUIET AFTER THE BEAUTY. After reviewing some critical readings of the film, the author
attempts a deeper discussion in a psychoanalytic light. It seems to her that the director, unconsciously and with a felicitous result, adds texture to the protagonist’s romantic drama, leading him
back to a childhood narcissistic injury, to something not worked through that condemns him to try
to be admired instead of being loved. This followed the great beauty that was lost and his failure to
be sufficiently nurtured by the small, daily beauty put forth in the maternal gestures of his nanny,
Ahè, and his friend, Dadina. In particular, the «aesthetic conflict» described by Donald Meltzer
seems to the author to be an underlying presence in the film: as an idea that illuminates it and in
turn becomes illuminated.
KEYWORDS: Aesthetic conflict, Beauty, narcissism.
LE CALME APRÈS LA BEAUTÉ. Après avoir examiné quelques lectures critiques du film, l'auteur
tente une fente à la lumière de la psychanalyse. Elle estime que le directeur, inconsciemment et
hereusement, ajoute de la profondeur au drame amoureux du protagoniste, en le faisant remonter
à une peine narcissique enfantile, quelque chose non élaborée qui le condamne à essayer d'être
admiré plutôt qu'être aimé, à chasser la grande beauté perdue sans se nourrir suffisamment de la
petite beauté du quotidien, qui s'étend de gestes maternels de la nounou Ahè et de l'ami Dadina.
En particulier, le «conflit esthétique», décrit par Donald Meltzer, lui semble être à la base du film :
comme une idée qui l’illumine et qui à son tour en est illuminée.
MOTS-CLÉS: Beauté, conflit esthétique, narcissisme.
LA QUIETUD DESPUÉS DE LA BELLEZA. Después de haber examinado algunas lecturas críticas
del film, la Autora trata de echar a pique el mismo, a la luz del psicoanálisis. Le parece que el Director, sin saber pero felizmente, acreciente el drama amoroso del protagonista, retrotrayéndolo a
una pena narcisística infantil, a una vivencia no elaborada que lo condena a buscar de ser admirado
en lugar de ser amado, a tratar de alcanzar la grande belleza perdida, dejando de alimentarse lo
suficiente con la pequeña belleza cotidiana, que emana de los gestos maternos de la Tata Ahé y de
la amiga Dadina. En particular, el «conflicto estético», descrito por Donald Meltzer, le parece que
esté en el fondo de la película: como si fuera una idea que lo ilumina y que a su vez recibe luz.
PALABRAS CLAVE: Belleza, conflicto estético, narcisismo.
DIE RUHE NACH DER SCHÖNHEIT. Nach der Untersuchung einiger kritischen Lesungen des Films
unternimmt die Autorin eine grundlegende Beschreibung vom Blickwinkel der Psychoanalyse. Sie
glaubt, dass der Regisseur, unbewußt unf glücklich, dem Liebesdrama des Hauptdarstellers Stärke hinzufügt, indem er zu einer infantilen narzisstischen Schuld zurückkehrt, zu etwas, was nicht aufgearbeitet wurde und was ihn dazu verdammt, bewundert anstatt geliebt zu werden; er ersehnt die verlorene
große Schönheit ohne sich genügend von der kleinen, täglichen Schönheit zu nähren, die sich mit
den mütterlichen Gesten des Kindermädchens Ahè und der Freundin Dadina verbreitet. Die Autorin ist
der Meinung, dass im Besonderen der von Donald Meltzer beschriebene «ästhetische Konflikt» das
Innerste des Films darstellt: wie eine Idee, die ihn erleuchtet und andererseits erleuchtet wird.
SCHLÜSSELWÖRTER: Ästhetischer Konflikt, Narzissmus, Schönheit.
Rivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2
520
Stefania Nicasi
BIBLIOGRAFIA
BAUDELAIRE CH. (1861). «Inno alla bellezza». I fiori del male. Milano, Feltrinelli, 2007.
ESCOBAR R. (2013). «La grande bellezza». L’Espresso. In Trova Cinema Repubblica.
FALCI A. (2013). «La dolce bellezza». In Cinema, Recensioni. www-spiweb.it
MANFREDI S. (1998). «Ascoltando Narciso». In I seminari milanesi di Stefania Turillazzi Manfredi. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti.
MELTZER D. (1967). The Psychoanalytical Process. Harris Meltzer Trust and Karnac, 2008.
MEREGHETTI P. (2013). «La grande bellezza». Il Corriere della Sera. In Trova Cinema Repubblica.
SORRENTINO P., CONTARELLO R. (2013). La grande bellezza. Ginevra – Milano, Skira.
YOUNG D. (2013). «La grande bellezza». Hollywood Reporter. In Trova Cinema Repubblica.
Stefania Nicasi
Via Luca Landucci, 10
50136 Firenze
e-mail: [email protected]
Rivista di Psicoanalisi, 2014, LX, 2