Sophie Flack Balla, sogna, ama [eBL 092] Per tutti gli eroi non celebrati, nascosti tra le file dei corpi di ballo. STAGIONE AUTUNNALE 1 Il mio nome è Hanna Ward. E non chiamatemi ballerina. Le ballerine sono le stelle della compagnia, calcano il centro del palcoscenico, danzano sotto i riflettori e salgono alla ribalta. I loro volti sono stampati sul programma di sala, e i loro nomi appaiono a caratteri cubitali. Io faccio parte del corpo di ballo, sono solo una delle tante ragazze che ogni sera piroettano con grazia e coordinazione. Per mia madre sono una star, ma è inutile dire che lei è di parte. Oltretutto la parola ballerina fa pensare a qualcosa di rosa e frivolo. Certo, indossiamo tutù e coroncine, ma solo durante lo spettacolo serale. Trascorriamo gran parte del nostro tempo lontane dal pubblico, lavorando senza sosta sui nostri corpi, dando il massimo per irrobustirli e controllarli. Così, quando saliamo sul palco, tutti i nostri movimenti appaiono perfetti e spontanei. Durante le prove indossiamo vecchi body, collant lisi e scaldamuscoli strappati. Raramente compriamo nuovi abiti per ballare, perché sappiamo che la maggior parte delle carriere nel mondo del balletto non durano mai troppo. Oggi, ad esempio, indosso un body di cotone blu sbiadito e un paio di fuseaux di un nero un po’ meno scolorito. Niente di rosa o di frivolo, insomma. «Buttatevi nella danza subito», disse una volta una delle mie insegnanti, «perché la vita da ballerina può essere breve come quella di un moscerino». «Cinque minuti al sipario. Diamoci una mossa!». Christine, la direttrice di scena, sta in piedi sulla porta, le mani sui fianchi. Dalle cuffie che indossa esce un crepitio, lei abbaia qualcosa nel microfono e poi ritorna da noi. «Adriana, le scarpette! Non le hai nemmeno infilate. Devo ritardare il sipario?». Adriana arriccia il naso a punta incipriato e afferra le scarpette insieme con l’ago e il filo che userà per cucirne i lacci. «Ecco, lo sto facendo, visto?», risponde. «E comunque ho ancora un sacco di tempo. C’è tutta l’ouverture». Christine allora sorride, affettuosa, rivelando però anche un un po’ di tensione. Il suo lavoro è proprio questo: assicurarsi che tutte le performance del Manhattan Ballet vadano per il verso giusto. E quindi deve occuparsi di tutto, che si tratti di stabilire la posizione dei riflettori o di tenere alto l’umore delle prime ballerine. Ci lancia un’ultima occhiata, poi si volta e si affretta fuori con i suoi capelli corti biondo platino che scappano in tutte le direzioni. «Ognuno al suo posto», chiama. Christine ha ragione: qui sembra tutto un caos. Prima dello spettacolo del venerdì sera, stiamo accalcate dietro le quinte, nel retropalco, noi ballerine di fila, strette nel nostro tutù bianco candido. La stanza è tutta un groviglio di raso, tulle e lunghe gambe snelle. Alcune ragazze sembrano profondamente concentrate, altre chiacchierano tra loro a voce alta. Sul pavimento sono sparsi vestiti alla rinfusa, solitarie scarpette da punta, scaldamuscoli e bottigliette d’acqua semivuote. «Ho preso tipo otto Voltaren oggi», dichiara Olivia, un’altra figurante dai capelli scuri, e schiocca la gomma che ha in bocca. «Spero di non morire prima che si abbassi il sipario». «Attenta, se Christine si accorge della gomma, è capace di strappartela dalla bocca», suggerisce Adriana, mentre appunta i lacci delle scarpette intorno alla caviglia. Le sue gambe sono così lunghe e magre, quasi scheletriche. Non appena mi infilo nel mio tutù di tulle bianco arricciato, il trambusto sparisce. Succede sempre quando mi vesto per eseguire le variazioni del valzer: ho l’impressione di tornare indietro nel tempo, in un’epoca più affascinante. Falsi diamanti mi adornano scivolando lungo lo sterno, e le ciglia finte, voluminose e scure, somigliano ad ali di farfalla. Laura, una delle costumiste, mi stringe i gancetti del corpetto, mentre io indosso i guanti color avorio. Quando il costume è pronto, supero sgambettando le tende del retropalco e mi affido alle parrucchiere. La mia amica Zoe è già lì che picchietta impaziente il piede nella scarpetta rosa a punta. «Sbrigati», ringhia, mentre una parrucchiera concitata attacca una coroncina di diamanti sullo chignon biondo pallido di Zoe. «No, non così!». Scaccia la mano della parrucchiera. Il tempo non è mai abbastanza, così decido di sistemarmi la coroncina da sola. E sembra che anche Zoe abbia avuto la stessa idea, perché spinge lontano la parrucchiera e si piazza davanti a me, impedendomi di guardarmi allo specchio. «Entro in scena prima di te», le ricordo, ma è troppo impegnata con le sue forcine per darmi ascolto. Mi aggiusto la coroncina tempestata di diamanti intorno allo chignon, tentando di specchiarmi nonostante Zoe, che si rifiuta di abbandonare il suo posto davanti allo specchio. Con una forcina mi infilzo la cute. «Ahi!», strillo, poi singhiozzo sommessa. «Zoe», la chiamo, «sai, mi stai proprio davanti». «Cosa? Ehi, ciao Hannah». Si volta di scatto, come se si fosse appena accorta di me. I suoi occhi verdi fingono sorpresa. Come me, ha la bocca piena di mollette e forcine. «Ciao», rispondo con le mani sui fianchi. «Ti spiace?». Zoe sorride e torna a specchiarsi, spostandosi di mezzo centimetro alla sua sinistra, così da lasciarmi appena intravedere nello specchio. Non appena fisso la coroncina, parte l’introduzione della musica su cui devo entrare. Mi affretto verso la sala buia prima del palcoscenico, con una ciocca bionda sciolta che mi penzola dietro la testa. La infilo nello chignon e incrocio le dita perché regga. Il mio partner, Jonathan, mi aspetta nel buio delle quinte, con un sorriso rassicurante sul suo bel viso deciso. Affondo tra le sue braccia, e lui mi sostiene la schiena mentre mi solleva tra le luci scintillanti del palco. Poi mi unisco al resto del corpo di ballo e volteggiando formiamo un’onda candida. Di nuovo sollevata dal suolo, mi sembra di volare. «Ieee!», esclamo rivolta a Jonathan, che ridacchia. I lampadari illuminano i nostri corpi piroettanti, e mi chiedo se siano così i balli scolastici. Io non sono andata al mio ballo studentesco, perché facevo già parte del Manhattan Ballet. Però ho visto Bella in rosa e 10 cose che odio di te, quindi posso ben immaginarlo: si sale in limousine, si beve di nascosto il liquore dalle fiaschette; le ragazze indossano lunghi abiti di raso senza spalline e i ragazzi noleggiano lo smoking. Ballano insieme i lenti sotto luci colorate che ruotano e ci dànno dentro in corridoi bui. Talvolta penso di essermi persa qualcosa di grandioso. Ma poi mi convinco che sul palcoscenico provo sensazioni molto più eccitanti di quelle della vita reale. La musica incalza, Jonathan mi solleva di nuovo e uno scroscio di applausi accoglie l’entrata dalla quinta di sinistra di Lottie, l’esperta star del Manhattan Ballet, che sfoggia i capelli ramati in una perfetta crocchia salda e un paio di diamanti che le brillano alle orecchie. Non riesco a distinguere le persone tra il pubblico nell’oscurità del teatro, ma so che sono lì, sedute sulle poltrone rivestite di velluto, che ci guardano con attesa e piacere. Non mi sento più un’adolescente sul palco, ma una principessa che danza con il suo principe. Per quanto riesca a ricordare, ho sempre voluto essere una ballerina. Quando tutte le altre bambine del quartiere scorazzavano sulle loro biciclette con i nastrini rosa o confrontavano tra loro gli accessori all’ultima moda delle loro Barbie, io prendevo lezioni di danza in una scuola locale e fantasticavo di ballare nel ruolo di Marie nello Schiaccianoci. Ogni giorno, dopo la scuola, mia madre veniva a prendermi e mi accompagnava in auto a lezione di danza a Boston. Mi cambiavo e infilavo il body sul sedile posteriore del nostro minivan e mi sistemavo lo chignon guardandomi nello specchietto del parasole. Non andavo d’accordo con gli altri bambini a scuola, ma quando arrivavo allo studio di danza, mi sentivo come a casa. Amavo la disciplina insita nel balletto: c’era sempre un passo da migliorare, posizioni da perfezionare. E l’adrenalina che mi scorreva nelle vene quando danzavo, era come una droga. A dieci anni dissi a mia madre che sarei diventata una ballerina professionista. Anziché sorridere e carezzarmi il capo, come se avesse appena ascoltato solo un’altra sciocca idea di una bimbetta testarda di quinta elementare, mi prese sul serio. Forse perché anche mia madre è un’artista – una ceramista di successo per l’esattezza – e quindi per lei l’impulso creativo domina tutto il resto. Iniziammo ad andare spesso a New York, perché potessi prendere lezioni dai migliori maestri del Paese. L’estate in cui compii quattordici anni studiai presso la Manhattan Ballet Academy e, giunto agosto, fui invitata a iscrivermi a tempo pieno. Era un’opportunità straordinaria, un sogno che diveniva realtà. L’inconveniente? Trasferirmi a New York… da sola. I miei genitori non erano entusiasti all’idea: mia madre si preoccupava che fossi troppo giovane e mio padre temeva che venissi aggredita, sola in una città sconosciuta. Avevano remore in merito ai dormitori dell’Accademia: le porte erano sempre chiuse a chiave? Gli alloggi erano promiscui? Poi si chiedevano se la scuola superiore che avrei frequentato, la School of the Arts, offriva un corso di scrittura creativa, la mia materia preferita. Sapevano che, anche se fossi arrivata fino in fondo, niente poteva garantire che sarei diventata effettivamente la professionista che volevo essere. Per questo, durante una delle cene hippie di mia madre, a base di tofu e purè di patate, finii per spiegare loro che quella era l’opportunità della mia vita e che avevo tutta l’intenzione di correre il rischio. Notai subito la loro difficoltà a digerire l’idea, mentre masticavano (sebbene mio padre faticasse a digerire anche la cena, a dire il vero; non è mai stato un amante del tofu). Compresero che sarei stata malissimo se fossi rimasta a casa a Weston, in Massachusetts, che avrei desiderato ogni giorno di stare all’Accademia, a lavorare per la possibilità di entrare nel Manhattan Ballet, una delle migliori compagnie al mondo. Dopo qualche momento, vidi la testa di mio padre annuire, sebbene leggermente. La mamma mi guardò con un sorriso felice, ma triste al contempo. «E sia», sussurrò. Oggi, cinque anni dopo, sono un membro senior del corpo di ballo del Manhattan Ballet. Ci esibiamo in tre o quattro performance a sera nei teatri gremiti della città di New York e, quando siamo in tour, i nostri spettacoli riempiono anfiteatri da cinquemila posti. Sono una danzatrice di balletti, ma non sono una ballerina. E vivo la più eccitante, straordinaria e folle vita che mai avrei potuto immaginare. 2 «Il vestito di Monique era proprio uno schifo», dice Daisy mentre si acconcia i setosi capelli scuri in uno chignon, «persino Gisele Bündchen sarebbe sembrata Susan Boyle con quello addosso». Rido, mentre sorseggio un bicchierone di caffè. Sono le dieci meno un quarto di mattina, mi trovo nel camerino, in pratica la mia seconda casa, e ascolto due delle mie tre migliori amiche della compagnia che commentano l’ultimo episodio di Project Runway. «Era davvero così brutto?», chiedo. «Guarda, praticamente era un sacco di patate», risponde Daisy e si avvicina allo specchio con la bocca aperta per applicarsi il mascara. «Be’, tu sì che ne capisci di patate», ammicco mentre indosso un body Repetto nero. Daisy alza gli occhi al cielo e sospira. «Oddio, Hannah, per l’ennesima volta: le patate le coltivano tutte in Idaho!». Sghignazzo, ovviamente lo sapevo. Solo, mi piace stuzzicare Daisy perché, con i suoi sedici anni, è la più piccola nel nostro camerino ed è entrata nella compagnia da appena sei mesi. Soffre di danza congenita: vive e respira per il balletto. «Idaho, Ohio, Iowa», affermo, muovendo il braccio come a concludere il discorso. «Mica li chiamano Paesi da sorvolare per niente». «Io vengo dal Nebraska», ribatte con gli occhi fiammeggianti. Nonostante sia originaria del Midwest, Daisy ha la carnagione olivastra e un aspetto esotico, perché sua madre è giordana. È alta un metro e sessanta, ha una corporatura esile, gomiti nodosi e un sorriso ampio e contagioso. «Il Nebraska è noto per le coltivazioni di granturco». «Oookay», dico ridendo. «Colpa mia». Mi risponde con una linguaccia. «Secondo me il vestito non era male», dichiara Bea, tirandosi i capelli rossi lucenti in una coda di cavallo alta. «Nel senso, mi sembrava un po’ senza forma, ma mi è piaciuto il plissé che ha creato». «Oh, Bea», aggiungo, «cerchi sempre qualcosa di carino da dire». Beatrice Hall, per gli amici Bea, viene dal Maine. Ha diciannove anni come me ed è la mia migliore amica, da quando eravamo compagne di stanza nella Manhattan Ballet Academy. È stata educata da genitori ultrareligiosi (di quelli che vanno sempre in chiesa e pregano prima di mangiare e cose del genere). è la più giovane di otto figli, quindi ha dovuto imparare l’arte della pazienza e della diplomazia prima di tutto. Ma Bea ha anche uno spiccato senso dell’umorismo. I suoi begli occhi sono grandi e azzurri, e ha una carnagione pallida e lentigginosa, le orecchie leggermente a sventola e le gambe incredibilmente lunghe che sembrano quasi arrivarle alle spalle. «Mia madre mi ha cresciuta bene», proclama, colpendomi con la punta del piede. Ridacchio e glielo spingo via. «Toglimi quel piede calloso di dosso». «Il mio piede calloso? Ti sei guardata i tuoi alluci valghi negli ultimi tempi?». Poi la porta si spalanca e Zoe Mortimer appare allo stipite con una Coca Light in mano. Indossa il suo nuovo blazer corto di Prada e un paio di jeans aderenti. Ha l’aria altezzosa, come al solito, sebbene non sia un atteggiamento costruito: è solo la sua espressione naturale. È cresciuta a Park Avenue ed è più ricca di chiunque abbia mai incontrato. Sono privilegi che traspaiono involontariamente, questi. Si poggia le mani sui fianchi stretti e sogghigna come un gatto che ha appena mangiato il canarino. «Che c’è?», chiede Bea mentre fa una treccia alla coda di cavallo. «Hai intenzione di farci sapere perché sorridi in quel modo?». Zoe scuote i lunghi capelli biondi e scavalca con grazia i vestiti di Bea, sparsi sul pavimento in pile di collant, scaldamuscoli, pantaloni da palestra e body. «Sì», risponde Zoe. «Tra un attimo. Devo cambiarmi». Si sfila i jeans e con tutta la calma del mondo rovista nel suo borsone del teatro alla ricerca di collant puliti. «Quando vuoi», dico sarcastica. «Continua a far crescere la suspense». Mi sogghigna maliziosa, ma continua a non proferire parola. Poi, dopo aver indossato un body grigio di lycra e un paio di collant rosa pallido, si rivolge a noi. «Adriana ha sentito che Otto sta per iniziare le prove del suo nuovo balletto». Otto Klein è il direttore del Manhattan Ballet, la persona che sceglie i balletti e seleziona chi li ballerà, in altre parole l’uomo che determina il nostro futuro. «Evviva, evviva», dice Bea con una punta di noia. Aggiunge gli ultimi ritocchi alla pettinatura e inizia a sfogliare uno dei vecchi «Vogue» di Zoe. «E Gumby questa la spaccia per una notizia?». «Chi è Gumby?», si informa Daisy. Bea sorride. «È Adriana! Perché è mostruosamente snodata. Hai presente Gumby? Quel pupazzo verde di gomma che si piega tutto… dài, lascia perdere, sei troppo piccola». Ridacchio. «Sì, infatti. Facciamo quei quaranta diversi balletti a stagione. Quale sarebbe la grande novità di uno nuovo?». Sbadiglio e avvolgo i capelli in uno chignon alto. Zoe alza un sopracciglio e prosegue. «Adriana sostiene che Otto voglia assegnare il ruolo principale a una ragazza del corpo di ballo. Per questo sta seguendo le lezioni». Questa è una notizia. Daisy posa la matita per le sopracciglia e Bea chiude la rivista e si mette seduta più dritta. Bevo un altro sorso di caffè e aspetto che Zoe continui. Ora che lo ha menzionato, mi rendo conto che Otto si è fatto vedere molto più spesso negli ultimi giorni. Di solito passa in studio due o tre volte a settimana, ma ultimamente si intrufola quasi ogni giorno durante il lavoro centrale. Resta in fondo alla sala, poggiato al muro a specchio, con la mascella serrata, tamburellando le dita sulla coscia. «L’ho visto che ti squadrava ieri a lezione, Hannah», riferisce Bea. «E anche l’altro ieri. Forse te ne sei accorta». «Dici?», chiedo con un brivido di eccitazione. «Ne dubito», sbuffa Zoe sottovoce. Si avvicina allo specchio per ritoccare il lucidalabbra sulla sua bocca carnosa e imbronciata. «Scusa, non ho capito», dico. Si volta verso di me e mi riserva uno dei sorrisi speciali alla Zoe, quelli sinceri solo al dieci percento. «Senza offesa, Han, ma fossi in te non ci spererei troppo», afferma. Si delinea con precisione il contorno labbra. «Sono tante le danzatrici del corpo di ballo tra cui Otto può scegliere. Potrebbe avere in mente qualcun altro. Tipo Adriana, magari. Oppure…». «Oppure te?», domando. Zoe annuisce. «Oppure me, certo. Guarda che cerco solo di proteggere i tuoi sentimenti, Hannah». «Ah, be’, certo», ribatto improvvisamente infastidita. «Ovviamente ti preoccupi solo dei miei sentimenti». «Assolutamente!», replica Zoe. Si pulisce l’angolo della bocca con un fazzoletto e poi mima un bacio al suo riflesso. Daisy e Bea fingono di essere assorte in altro. Hanno imparato a non intromettersi negli occasionali battibecchi tra me e Zoe. Intercetto il mio sguardo nello specchio. Chi mi guarda è un’adolescente con gli occhi nocciola, gli zigomi alti e i capelli biondo scuro che, nei giorni di pioggia, si increspano leggermente. Assumo un piglio deciso e raddrizzo le spalle. Mi sento addosso lo sguardo di Zoe dall’altra parte della stanza, ma la ignoro. Ognuna di noi sa bene cosa pensa l’altra: la parte sarà mia. Otto incoraggia la competizione tra le sue danzatrici, come se non ce ne fosse già abbastanza. Gli piace mettere insieme me e Zoe, perché siamo entrambe alte e bionde, e sicuramente si diverte a creare screzi tra noi per una nuova parte. Otto viene dalla scuola nietzschiana del «quello che non ti uccide, ti fortifica». «Vabbe’, esco a prendere un po’ d’aria». Zoe si alza e si infila un maglione a trecce sopra il body. È diretta in terrazza, dove si radunano i fumatori. «Non disperatevi in mia assenza». E sbatte la porta dietro di sé. «Non lo faremo», borbotta Bea sottovoce, mentre butta un paio di scarpette da punta nel suo borsone. Bea non sopporta l’atteggiamento di Zoe; la tollera per rispetto nei miei confronti. «Dio non voglia che qualcuno insinui che Otto guardi altro all’infuori del sedere ossuto di Zoe», dice quando l’orecchio di Zoe è ormai sicuramente fuori portata. «Ha un culo così concavo che ci si potrebbe mangiare dentro!». Mima di versarsi in bocca un cucchiaio di minestra e Daisy esplode in un attacco di risate. Io rido così forte che quasi sputo il caffè che ho in bocca, ma una parte di me si domanda cosa mi dicono alle spalle quando esco io dalla stanza. «Non m’importa cosa ne pensiate», sospira Daisy trasognata. «Vorrei tanto essere come Zoe». Poggio la testa tra le mani per un momento. Nonostante lei si comporti da ragazzina, non mi piace mai litigare con Zoe. Ci sono ancora dieci minuti prima della lezione di gruppo, così decido di chiarire con lei. Prendo l’ascensore fino all’ultimo piano e mi affretto per le scale fino alla terrazza. Sulla pesante porta di metallo c’è scritto: “uscita di emergenza” e cigola quando la apro spingendo. Non ci sono finestre nel teatro, né negli studi, nei camerini, né altrove, quindi il sole luminoso di settembre mi sorprende facendomi socchiudere gli occhi. Cerco Zoe, ma chissà perché, non si trova lì. Un bicchiere vuoto di Starbucks mi rotola incontro spinto dalla lieve brezza. L’enorme impianto dell’aria condizionata produce un forte ronzio e sputa aria rovente sulla terrazza scura. Mi avvicino alla balaustra e guardo in basso, verso la piazza. Sotto di me vedo il vasto cortile dell’Avery Center. Gruppi di turisti vanno e vengono e mi sembra di intravedere Jonathan, in ritardo come al solito, che zoppica verso il teatro, perché ieri si è stirato il legamento crociato anteriore durante le prove. Dietro di lui, la fontana al centro della piazza spruzza getti di acqua scintillanti. Chiudo gli occhi e prendo un respiro. Tutti i pensieri su Zoe svaniscono. Nell’aria si respirano le prime avvisaglie dell’autunno imminente, che porta con sé l’inizio di un altro anno nella compagnia. Otto è davvero in cerca di una ragazza del corpo di ballo a cui affidare un nuovo ruolo principale? E se così fosse, forse sta cercando di promuovere una di noi a solista. La vita è breve come quella di un moscerino. «Che sto aspettando?», mi chiedo a voce alta. «Questo è il mio anno». Guardo in alto nel cielo e le nuvole a bioccoli sembrano danzare sopra di me. «Quest’anno», dichiaro loro, «sarò promossa». Cammino fino all’altro lato della terrazza e mi affaccio a guardare il traffico sulla Broadway. Due taxi si strombazzano a vicenda e, all’angolo tra la Broadway e la 65a, un uomo in tenuta da jogging si riscalda saltellando sul posto, aprendo e chiudendo braccia e gambe, in attesa di attraversare la strada. Uno scuolabus giallo scarica un gruppo di studenti delle superiori in gita all’Avery Center. Li guardo salire le scale fin sulla piazza, in fila per uno, con le bocche spalancate, in soggezione per la maestosa architettura dei palazzi. Trascorro la gran parte del mio tempo da sveglia nell’edificio che ho sotto i piedi, ma fuori di qui esiste un mondo intero pieno di vita. Penso a tutto quello che c’è nei dintorni e che io non mai visto: le luci e le folle di Times Square, i ristoranti e i bar di Hell’s Kitchen, le gallerie di Chelsea, le strade alberate del West Village e poi i negozi e i club rock dell’East Village. Se non fossi una danzatrice professionista, forse mi sentirei più partecipe di New York. Ma per ora questo teatro rappresenta tutto il mio mondo, e quello che sta fuori non mi manca neanche un po’. Mi volto e torno indietro verso la porta, sparpagliando un gruppo di piccioni appollaiati sul tetto. Nessuno verrà a sapere della mia promessa. «Puoi farcela», sussurro. 3 «Hannah, tocca a te dopo?», chiede una voce grave e rauca. È Harry, uno dei macchinisti, che indugia nell’area del backstage, dove io aspetto di entrare. È alto circa un metro e novanta e pesa, credo, sui centotrenta chili, due occhi gentili e apparentemente niente collo. Harry lavora in questo teatro da prima che io nascessi. Anche suo padre e suo nonno erano macchinisti. A questo punto della sua carriera, è diventato un esperto di balletti come chiunque altro qui dentro. «Ehi, ciao», lo saluto, ruotando il collo per stirare i muscoli un’ultima volta. «Salgo sul palco tra pochi minuti». «In bocca al lupo», sorride Harry. Matilda, la sua bambina di nove anni, appare dal nulla e indossa un tutù mezzo strappato e un paio di Nike malconce. «Hannah!», esclama senza fiato, con le guanciotte rosse per l’eccitazione. Matilda non viene in teatro così spesso, il backstage non è decisamente il luogo più adatto per i bambini, perciò mi sorprendo sempre tanto quando si ricorda il mio nome e sembra così elettrizzata di vedermi. Suppongo sia una di quelle bambine che si definiscono precoci. «Caspita», dico, «vedo che indossi il tutù. Per caso danzi anche tu in uno dei balletti di stasera?». Ridacchia. «Magari! Ma stiamo preparando un saggio. Conosci la Delancey Dance Academy? Io vado a lezione lì», proclama con voce orgogliosa e il piccolo petto tutto gonfio. Harry le scompiglia i capelli scuri e ricci. «Anche Mattie vuole fare la ballerina da grande». Abbasso lo sguardo su quella bimbetta sorridente con le trecce e il tutù sporco. Il suo volto risplende di gioia. Il teatro deve sembrarle un luogo magico, o per lo meno lo era per me. Nei miei primi anni qui, volevo addirittura dormire sul palco, sotto le file di riflettori che luccicavano come pianeti lontanissimi. Qualche volta, se non c’era nessuno in giro, mi sedevo sul bordo con le gambe penzolanti nella buca dell’orchestra e ammiravo tutto il teatro, vuoto e immenso, con il suo soffitto dorato decorato e i suoi lampadari di cristallo. «Voglio ballare nel Lago dei cigni», mi informa Mattie. «Buon per te», ribatto io. Ma si nota fin da ora che ha la stessa costituzione del padre e questo non depone certo a favore della futura carriera di Mattie nel balletto. Harry non ha il fisico da ballerino; ha piuttosto quello di un autocarro. «È fantastico». «Quest’anno faremo Lo Schiaccianoci, però», aggiunge. «Davvero?», dico. «Sai che stiamo provando anche noi Lo Schiaccianoci proprio ora? Lo balliamo all’inizio di ogni anno, dal giorno dopo il Ringraziamento». Harry sorride condiscendente. «Non è Lo Schiaccianoci vero», bisbiglia. «Si mettono solo i costumi della Fata Confetto. Mia moglie si sta ammazzando di lavoro su quel dannato vestito». Ride. «Ma Mattie adora danzare, non è vero piccolina?». Matilda annuisce contenta. «Vorrei un costume come il tuo un giorno», bisbiglia. Arrossisce e le guance le si tingono di un rosa più intenso. Abbasso lo sguardo sul costume di raso argentato che indosso e tocco con riverenza, come a proteggerla, una delle perle che vi sono cucite a mano. «Spero che succeda presto», le sussurro a mia volta. Poi arriva Luke, il mio partner in FourWinds, che vuole provare le piroette della prima sezione. Non nota nemmeno Harry o Matilda, mi afferra solo per mano. Per molti ballerini i macchinisti sono praticamente invisibili, familiari come pezzi della scenografia. Non si rendono conto del fatto che senza di loro niente, e dico niente, funzionerebbe a dovere. «Per favore», implora Luke. «Sono nervoso». Mi guarda con quei suoi grandi occhi verdi, quasi in lacrime. Mi dispiace per lui e allora acconsento. «Va bene, vieni qui. Tieni le braccia aperte». Ho danzato questo balletto dozzine di volte, ma so che non è semplice, perciò lo capisco. Mi posiziono tra le sue braccia. Gli occhi di Matilda si spalancano ancor di più. Potrà assistere a uno spettacolo improvvisato. Conto fino a quattro, per dar tempo a Luke di prepararsi, poi inizio a volteggiare. Cado verso destra alla prima piroetta, però, perché lui mi fa perdere l’equilibrio sulla gamba di appoggio. «Devi tenermi più saldamente», gli spiego. «Non mi fai male». La seconda volta riesce a mantenermi in equilibrio sulla gamba, così io volteggio tre volte. Matilda applaude. «Ottimo! Andrà bene», lo rassicuro. Ma proprio in quel momento, passa Otto Klein con un’aria arcigna, mentre prende un sorso dalla sua bottiglia di Evian. Luke impallidisce visibilmente. «Lui ci guarderà stasera?», bisbiglia. «Ne dubito», rispondo scuotendo la testa, perché so che la presenza di Otto sarebbe solo motivo di ulteriore nervosismo per Luke, che finirebbe così per dimenticare quello che gli ho detto su come tenermi in modo corretto. Forse Otto assisterà allo spettacolo e al pensiero il mio cuore inizia a battere più velocemente. Saluto Harry e Matilda e, insieme a Luke, raggiungo il bel Jonathan e la longilinea Adriana, che aspettano dietro le quinte. Dal palcoscenico arrivano fasci di luce rosa, gialla e blu, come raggi di sole che attraversano le nubi. Teniamo il conto delle battute in ottavi, per essere sicuri di uscire in scena al momento giusto. Sarà un’esagerazione, ma preferisco contare sulla punta delle dita, per non sbagliare. Dopo nove ottavi, entriamo sul palco muovendoci all’unisono, in formazione. Non appena tocco il palco dalle quinte, cresco di cinque centimetri. Sento la musica che stimola la memoria dei muscoli. Tombé, glissade, piqué e mi trovo tra le braccia di Luke. Quindi, prendo fiato per prepararmi alla piroetta. Al primo giro sono fuori appoggio con la gamba, ma con tutta la forza che ho riesco a tornare nuovamente sulla punta del piede per la seconda piroetta. «Scusa», mi sussurra Luke. «Fa niente», rispondo sottovoce, anche se sono seccata con lui. Torniamo in formazione e mi solleva velocemente in alto per il pas de chat, mentre ci incrociamo con le coppie sul lato sinistro del palco. Mi posiziono a lato in croisé derrière (una gamba incrociata con grazia dietro l’altra) e mi inchino verso le coppie a destra e a sinistra come a salutarle: «Ciao, Adriana. Ciao, Olivia». Siamo tutti una squadra sul palco. Le preoccupazioni e la competizione, i casting e le promozioni svaniscono e ci nutriamo della danza stessa, nella sua forma più pura. Quando la musica finisce, il pubblico esplode in un applauso. Mentre mi inchino, sento l’adrenalina che mi scorre nelle vene. «Grazie per non avermi fatto cadere», sussurro a Luke, durante gli inchini. «Figurati», risponde con una smorfia. Mentre ancora cerco di riprendere fiato, torno dietro le quinte per controllare il programma di domani. Ci viene comunicato così in quali balletti danziamo, per quali dobbiamo provare e quali parti potremmo riuscire ad avere. Per i danzatori è una sorta di vangelo. Se il tuo nome è scritto sotto a un ruolo da solista o magari sotto a una parte principale, vuol dire che Otto vede del potenziale in te e che la tua carriera è in ascesa. Se invece vieni inserito sempre in parti da figurante minori, vuol dire l’opposto. Dal momento che in ogni stagione eseguiamo moltissimi balletti, in teoria ognuno di essi rappresenta un’opportunità per ottenere un ruolo importante. Così serbiamo molte speranze, che spesso si trasformano però in delusione. Tutte le luci sono spente, tranne un’unica lampadina blu che illumina appena la bacheca e il programma che vi è attaccato. Esamino il foglio in cerca del mio nome e, quando lo trovo, il respiro mi si blocca in gola: mi hanno convocata per studiare da sostituta la parte che Lottie Harlow ricopre nel nuovo balletto di Otto, un ruolo che sia io che Zoe desideriamo ottenere. L’eccitazione mi pervade il corpo. Okay, tecnicamente non ho ottenuto la parte, ma Otto vuole che la impari! Se dovesse succedere qualcosa a Lottie, lui confida in me per condurre il balletto al suo posto. Rido e faccio un saltello di gioia. Questo potrebbe essere il segno che le cose iniziano a volgere nel verso giusto. Bea arriva vicino a me, affannata per la performance. Cerca il suo nome. «Cos’è, uno scherzo? Faccio di nuovo Unraveling in G?». Le sue labbra rosse sembrano nere con quella fioca luce blu e il cerone le copre completamente le lentiggini. «Mi sembra di essere ancora una principiante», dice amareggiata. «Che palle!», esclamo. Poi, incapace di trattenermi, sbotto: «Sono la sostituta di Lottie nel nuovo balletto di Otto!». «Davvero?», Bea si illumina immediatamente. «Ottimo». Si avvicina e mi dà un veloce abbraccio. «Hai visto che Otto ti stavaguardando?». In quel momento arrivano Daisy e Zoe, ansiose di trovare i loro nomi. Zoe ci spinge per passare, facendo perdere l’equilibrio a Bea. «Allora, Zoe», dice Bea. «Pensi di chiedermi scusa?». Zoe la ignora e due secondi dopo lancia uno strillo di gioia. «Devo studiare la parte di Lottie», urla voltandosi verso di noi sorridente, con i suoi denti bianchi, perfetti. Immediatamente avverto una punta di delusione. Naturalmente Otto ci ha messo di nuovo insieme. «Mi sa che Otto squadrava anche me, eh!», aggiunge Zoe sorniona. «Sì, certo», borbotto. «Ehi», dice Daisy. «E allora? Dov’è il mio nome?». Tenta di buttare un occhio sul programma, ma siamo tutte in mezzo. Saltella su e giù per cercare di guardare oltre le spalle di Zoe. «A quanto pare sei in Symphony in G e in Haiku», le riferisco. «Sì!», agita il suo piccolo pugno. «Ho sempre voluto ballare Haiku». Zoe si avvicina e mi sussurra in un orecchio: «Ma pensa che cretina. È tipo la parte più stupida del nostro repertorio». «Lei non lo capisce», le rispondo bisbigliando. «Ma almeno è felice nonostante la delusione. Sai quanto mangia quando è stressata». Zoe soffoca una risatina. «È fantastico che voi due studierete la parte di Lottie», dice Bea a voce alta, per assicurarsi che Daisy non ci senta darle della cretina per essere così eccitata per un balletto da principianti. Ma Daisy non se ne accorge nemmeno; se ne torna contenta nel retropalco con lo chignon di capelli scuri disfatto. Zoe si volta di nuovo verso di me e inizia a parlare con deliberata disinvoltura. «Sai, Otto probabilmente farà un altro casting, quindi alla fine prenderà solo una di noi». Gonfia il petto e mi rivolge un sorrisetto. «Mi chiedo chi di noi due sceglierà…». Scrollo le spalle e me ne vado, nonostante sia piena di rabbia. Tutte vogliamo parti migliori e più importanti. È un atteggiamento congenito, l’impulso al successo per noi è come respirare. Sento la risatina di Zoe dietro di me. Suppongo che pensi di essere divertente. Sinceramente non penso che io e Zoe saremmo mai diventate amiche, se non mi avesse avvicinato lei per prima quando sono arrivata alla Manhattan Ballet Academy. Proprio come me, anche lei era una delle ragazze più giovani nel livello C e mi stava accanto durante le lezioni. Io ero troppo timida per darle troppa confidenza, ma ero contenta di avere una specie di amica. Nel corso di qualche settimana iniziammo a parlare di più e alla fine Zoe mi invitò a cena nel suo appartamento. Sopravvivevo con la brodaglia che alla mensa del dormitorio spacciavano per cibo vero, quindi ero eccitata all’idea di mangiare un pasto cucinato in casa. E poi, anche se non lo ammetterei mai davanti a Zoe, avevo anche il forte bisogno di una figura materna. Avevo quattordici anni e vivevo a New York da sola. Non era per niente semplice. Non appena misi piede nell’ingresso della sua casa di Park Avenue, un pechinese latrante mi addentò le caviglie. «Ciao, Hannah», mi salutò con voce affettuosa la madre di Zoe, appoggiata allo stipite della porta. «Sono Dolly. Zoe mi ha parlato tanto di te». I capelli di Dolly erano biondo dorato, appena più scuri rispetto a quelli di Zoe, ma madre e figlia avevano gli stessi stupendi occhi verdi. Dolly indossava un vestito di velluto cremisi, che le avvolgeva attillato l’esile figura. Quando mi abbracciò, tenendomi stretta al suo petto ossuto, il suo profumo mi avvolse. Si tirò poi indietro e allungò il collo. «Zoe!», urlò verso il corridoio. Nessuna risposta. «Ah, quant’è pigra!», sospirò Dolly. Con un ampio sorriso prese un bicchiere di Martini che aveva lasciato un segno circolare di condensa sul tavolo della sala. «La sua stanza è la quarta sulla sinistra». Con il gomito appoggiato nell’incavo del fianco, rovesciò il liquido del bicchiere, mentre mi squadrava dalla testa ai piedi. «Se non ti spiace…». In seguito ho scoperto che Dolly è la figlia di un magnate petrolifero del Texas e, secondo quanto afferma Daisy, anche un importante donatore del Manhattan Ballet. Tra feste e scappatelle, divenne piuttosto popolare sulla rivista di gossip «Page Six». Dolly è stata ricoverata due volte, ufficialmente per motivi di stress, ma tutti sostenevano fosse per problemi di anoressia. L’ho vista mangiare solo una volta da quando la conosco, ed era un gambo di sedano preso dal bicchiere del suo Bloody Mary. Ricordo che attraversai il salone fino alla camera di Zoe e bussai esitante. «Avanti», chiamò Zoe. Stava seduta a terra e soffiava sulle unghie dei piedi appena tinte di smalto. Un televisore a schermo piatto, attaccato al muro, trasmetteva ad alto volume un video musicale. «Vuoi ordinare sushi?», mi chiese e mi lanciò un menu. «È il migliore in città. Gli spider rolls mi piacciono un sacco». Mi guardavo intorno nella sua immensa camera con mobili costosi ed esemplari d’arte moderna (c’era una serigrafia del panda di Andy Warhol vicino alla finestra). Zoe era perfetta in quell’ambiente: persino il suo nasino all’insù e gli zigomi pronunciati sembravano la prova effettiva di una predisposizione genetica alla ricchezza. Scelsi solo un paio di cose dal menu, ma avevo già ordinato più di sessanta dollari di cibo. «Uso la carta di credito di mia madre», disse Zoe. «Ordina qualcos’altro». «Dobbiamo prendere qualcosa anche per lei?», chiesi. Zoe scosse la testa. «Lei esce. Robert De Niro dà un party all’Ago». «Ah… okay». Cos’altro potevo aggiungere? In attesa del sushi, sentivamo Dolly andare avanti e indietro per la casa, parlottando, mentre si preparava per uscire. Non bussò mai alla porta di Zoe per salutare. Sembrava quasi che fossero due coinquiline, anziché madre e figlia. Coinquiline che non si piacciono nemmeno più di tanto, aggiungerei. Mangiammo nel gigantesco soggiorno di Zoe, con le luci di Park Avenue che scintillavano lontane, sotto di noi. Lasciammo una pila di contenitori del sushi e involucri di salsa di soia sul tavolino. «Non ti preoccupare», mi rassicurò Zoe. «Ci pensa Gladys domattina». «Chi è Gladys?» «La governante», rispose Zoe con naturalezza. «Posso prendere un pezzo del tuo involtino di salmone?». Com’è ovvio, quella sera non ci fu la cena in famiglia che mi aspettavo. Né successe mai in seguito, nonostante sia andata da Zoe dozzine di volte, e di tanto in tanto sia rimasta anche a dormire. Ormai non mi invita da molto tempo, ma in fondo, non siamo più due ragazzine. Non ho più bisogno di una figura materna. Ho solo bisogno di ottenere quella parte nel balletto di Otto. 4 Per festeggiare di essere stata scelta come sostituta di Lottie, decido di andare in centro dopo lo spettacolo di sabato sera. Rinuncio alla mia consueta routine di cura del corpo post-performance e spalmo solo il gel di arnica sui calli. Poi mi infilo un paio di stivali e un abito attillato che mia madre usava negli anni Settanta. Il taxi mi porta a sud sulla 7a Strada, da Gene’s, il ristorante di mio cugino Eugene nel West Village. Ho saltato il pranzo oggi e adesso muoio di fame. Piove e le luci della città sembrano stingere in strisce di giallo e bianco sul finestrino del taxi. La gente si affretta sui marciapiedi, con ombrelli neri a coprir loro le teste. Ai margini della strada si ingrossano le pozzanghere, portandosi dietro barchette di giornali e bicchieri di caffè. Quando sono venuta a New York la prima volta, mi sembrava impossibile pensare che un giorno mi sarei potuta sentire a casa. Nonostante facessi la coraggiosa, durante le prime settimane di frequenza alla Manhattan Ballet Academy, avevo paura di lasciare l’Upper West Side o di uscire dopo l’imbrunire. Eppure era così emozionante stare a New York. Certo, c’è da ammettere che la gente sui marciapiedi era in un certo senso aggressiva e capitava piuttosto di rado di riuscire a incrociare lo sguardo di qualcuno, ma questo perché erano persone motivate e concentrate. L’energia della città era palpabile. Bastava uscire in strada, passeggiare sulla Broadway e sembrava di ingollare una tazza di caffè forte. Forse è così che si sentono ora i nuovi allievi dell’Accademia. Sono ancora dei novellini che si guardano intorno con stupore e soggezione. E li invidio per questo. Ma invidio anche Zoe, che in tutto questo ci è nata. In pratica è cresciuta all’angolo opposto del Met e ha iniziato a frequentare laMBA all’età di otto anni. È al contempo ambiziosa e annoiata, quanto può esserlo una diciannovenne, e questo atteggiamento sembra che per lei funzioni. Mi chiedo se sia la città o il mondo del balletto a temprarti. Apparentemente entrambi potrebbero riuscirci alla perfezione. «Diciassette e quaranta», annuncia il tassista, riportandomi bruscamente alla realtà. Sento il forte rumore della ricevuta in stampa, mentre armeggio in cerca di una banconota da venti. «Tenga il resto», gli dico e scappo nella calda semioscurità del ristorante di mio cugino. Trudy, la barista, mi saluta con la mano e mi versa un bicchiere di vino rosso, pur sapendo che per legge devo aspettare ancora due anni prima di poter bere. Mi guardo intorno nervosamente, se mai dovesse esserci qualcuno a controllare i documenti, ma vedo solo un gruppo di anziani dai capelli grigi, intenti a bere vino e a discutere di baseball in un angolo, e una giovane coppia presa dalle risate in fondo. Mi siedo al bar e tiro fuori il libro di Frankenstein, che cerco di finire da luglio. Ma ho ancora addosso l’adrenalina della performance di oggi e non riesco a concentrarmi. Inizio a fissare sovrappensiero la coppia, ma di punto in bianco il ragazzo si volta e incrocia il mio sguardo. Ha i capelli scuri, la pelle chiara e un accenno di barba sul mento. Ed è terribilmente carino. Sostiene il mio sguardo per un momento, mentre la sua ragazza bionda scrive un messaggio sul cellulare e infine mi sorride. Un sorriso ampio, caldo e inatteso. Chino la testa e avverto il rossore salire dal collo fino alle guance. Sono troppo imbarazzata per ricambiare il sorriso. «Ecco a te», dice Trudy passandomi un grande calice di vino. «Alla salute». «Grazie». Tiro fuori qualche dollaro di mancia, ma non pago il vino. Eugene si infurierebbe se lo facessi. Per questo è il mio cugino preferito. Per questo e per la sua indulgenza nel servirmi alcolici. Voglio guardare di nuovo la giovane coppia. Mi chiedo, saranno effettivamente una coppia? Apparentemente dovrebbero esserlo: dopotutto sono insieme in un romantico ristorante italiano. Ma lo sguardo che mi ha lanciato il ragazzo sembrava suggerire altro. «È un po’ che non ti fai vedere da queste parti», afferma Trudy, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Già. È complicato uscire», ribatto. «Otto non approva le “gite scolastiche”». «Gite scolastiche?». Rido ironicamente. «Lui chiama così qualsiasi tipo di attività che si svolge dieci isolati più in là del teatro». «Accidenti!», esclama Trudy. Poi mi squadra all’altezza della clavicola e mi poggia un piatto di grissini davanti. «Mangia, mangia. Sei troppo magra, tesoro». «Davvero?», chiedo. A dire il vero, mi sono sentita un po’ gonfia negli ultimi tempi, ma non mi sono mai pesata, innanzitutto perché non ho una bilancia e poi perché proprio non mi interessa saperlo. «Be’, in confronto a me sei uno stecchino», afferma e si dà un pizzicotto sulla pancia. «Ne ho abbastanza per tutte e due». «Ma non dire sciocchezze», replico ridendo. «Posso avere un piatto di rigatoni al pesto?». Mi riprometto di non finirli tutti, ma d’altronde ho saltato il pranzo, devo pur assumere qualche caloria. «Certamente», mi risponde con un piccolo cenno della testa. «Arriva in un lampo». Sorseggio il vino e do uno sguardo verso l’angolo appartato del ristorante, ma la coppia è andata via. Non riesco a reprimere quel pizzico di delusione; sebbene lui avesse un appuntamento con quella ragazza, era proprio un bel vedere. Apro il libro diFrankenstein e fisso assente le pagine. Poi tiro fuori l’agenda, che porto sempre con me, e faccio lo stesso. Sono ancora presa dai miei pensieri, quando sento pizzicare le corde di una chitarra. Mi volto a guardare il piccolo palco che Eugene ha installato dall’altra parte della sala. Seduto su uno sgabello, tra le mani una vecchia Sigma acustica mal ridotta, vedo il ragazzo carino con i capelli scuri. Da questa prospettiva posso squadrarlo meglio e direi che ha la mia stessa età, al limite un paio d’anni in più. Indossa jeans Levi’s sbiaditi, un maglione a V e un paio di Adidas che hanno visto giorni migliori. Le dita si muovono velocemente sulle corde della chitarra e poi, un momento dopo, apre la bocca e inizia a cantare. Ha una voce profonda, in un certo senso misurata, che mi ricorda quella di Nick Drake. «Saw you at the Guggenheim / shivering outside in line / wondered if you’d have the time / to turn around and see me», canta. La bionda tiene il tempo con il piede e muove le labbra seguendo le parole che lui canta. Si è spostata a un tavolo più vicino per fare le foto. «Across the park the leaves are red / the hawks have put themselves to bed / The snow will come the old man said / So please be with me…». La melodia, anzi la sua voce, mi fa venire i brividi. Smetto di fingere che non lo sto guardando. «Here I am so far from home / and I don’t want to be alone / Do you want to be my own / my lovely girl…». Finita la canzone, alza gli occhi e i nostri sguardi si incontrano di nuovo. Sento le farfalle nello stomaco, una sensazione non diversa da quella che provo l’attimo prima di salire sul palco. È come un impulso nervoso misto ad attesa. Ciao, penso, come ti chiami? Continua a cantare una mezza dozzina di canzoni, mentre sorseggio il mio vino. Non fingo di leggere il libro, né di fare altro, guardo e basta. Di tanto in tanto, durante la sua esibizione, la bionda sparisce. Dopo l’ultimo verso di una canzone sulla California, mette giù la chitarra. Un timido applauso parte dal tavolo degli uomini anziani. Un attimo dopo cammina verso di me e si siede allo sgabello del bar proprio accanto al mio. «Potrei avere una Brooklyn Lager, per favore?», chiede a Trudy. Sento il cuore che mi esplode in petto e avverto il rossore che mi divampa sulle guance. Si è seduto accanto a me, penso, ma non emetto un fiato. Si è seduto accanto a me. Adesso che gli dico? Trudy alza un sopracciglio perfettamente delineato e dice: «Già finito? Perché non ho sentito la canzone che mi piace, quella del fiume». «Te la dedicherò la prossima volta», ribatte il cantante esibendole un sorriso sornione. «Siamo d’accordo». Trudy si avvicina al rubinetto della spina e fa un cenno nella mia direzione. «Lei è Hannah ed è la cugina del proprietario, quindi se ti passa per la testa di provarci, vedi di avere le migliori intenzioni, se no lui ti viene a cercare e ti spezza le gambe». Rido, tanto per l’imbarazzo quanto perché Eugene peserà una cinquantina di chili da bagnato. «Lo terrò a mente», sogghigna. Trudy dà al bel chitarrista la sua birra e poi fa scivolare la mia pasta lungo tutto il piano del bar. Io devo bloccare il piatto prima che capitomboli a terra. Lo fa sempre. «Sembra buona anche quella», mi dice lui con un sorriso. «Cos’è? Pesto?». Annuisco mentre ci macino sopra il pepe. «Caspita, quanto pepe», osserva fissando i granelli scuri che coprono la mia pasta. Abbasso lo sguardo. Sono talmente nervosa che ho cosparso tutta la mia cena di pepe. «Ehm, mi piace molto il pepe», dichiaro e di nascosto cerco di buttarlo fuori dal piatto sul piano del bar. Mi sorride di nuovo, mettendo in mostra i suoi denti dritti e bianchi e due fossette identiche. I suoi occhi azzurri sono incorniciati da ciglia lunghe come quelle di una ragazza. Non ho idea di cosa dirgli. A distanza era tutto perfetto, ma ora che è seduto accanto a me, mi rende solo nervosa. «Sono Jacob. Da quanto ho capito, tu ti chiami Hannah». Allunga la mano e io gliela stringo, rischiando di versarmi addosso il vino. «Ops», sbuffo recuperando il bicchiere appena in tempo. «Che riflessi!», esclama. Non riesco a far altro che annuire. Non sono abituata a flirtare con i ragazzi, sono stata segregata in uno studio di danza negli ultimi dodici anni della mia vita. Quand’è stata l’ultima volta che ho avuto una conversazione con qualcuno che non fosse un danzatore? Il cassiere dell’alimentari sotto casa conta? Infilzo i rigatoni con la forchetta, mentre guardo Jacob con la coda dell’occhio. È un tipo magro e piuttosto alto. Ha i capelli arruffati e un piccolo taglio sul mento che deve essersi procurato radendosi. Devo reprimere l’impulso improvviso di avvicinarmi e toccarlo con tenerezza. Scruta il libro, l’agenda e la penna che tengo vicini. «Allora, vai alla New York University?», chiede Jacob, guardandomi oltre il bordo del bicchiere di birra. Scuoto la testa, abbastanza a lungo da mettere in funzione le corde vocali. Poi rispondo. «No». Forza, Hannah, questo è il meglio che sai fare?, penso. «Okay», dice. «Alla New School? Ci va Sasha. Stava qui prima. È la ragazza di mio fratello e, apparentemente, mi sta più dietro lei di lui, che ha chiamato cinque minuti prima dell’esibizione per dire che non ce l’avrebbe fatta. Insomma, allora vai lì?». Rispondo di no e scuoto ancora la testa. In pratica non riesco più a proferire parola. Per fortuna non c’è nessun altro ad assistere a questo spettacolo umiliante; Zoe non ne saprà mai nulla. Ma almeno ho scoperto che la bionda non è la sua ragazza. «Okay, allora», prosegue Jacob impegnandosi. «Partiamo con il quiz. Posso farcela con venti domande. Vediamo, non sei una studentessa». Scuoto la testa. «Sei una spia?». E la cosa è talmente assurda che riesco a scrollarmi di dosso la paralisi vocale. Rido e proclamo: «No, no. Non sono una spia». Trudy mi lancia un’occhiata del tipo «per caso ti sta importunando?» ma le sorrido. Senza ombra di dubbio Jacob non mi sta importunando. Non mi interessa nemmeno tanto quello che dice; stargli accanto mi fa girare la testa. «Benissimo», continua. «Si va fino in fondo». Si fa serio e si avvicina mentre tenta con numerose altre professioni. Prova con ragazza alla pari, attrice e insegnante di yoga. Tutte occupazioni plausibili, immagino, quindi una volta scartate queste, azzarda paracadutista professionista, scalatrice e sicario. Per tutto il tempo in cui lui parla, non posso fare a meno di ripetermi quanto sia carino. «No, no e ancora no», rispondo ridendo e scuotendo la testa. Una ciocca di capelli mi sfugge dalla coda di cavallo e, allungando la mano, me la sistema delicatamente dietro l’orecchio. Arrossisco e avverto un formicolio dove mi ha toccato. Il battito del cuore inizia ad aumentare. «Mi arrendo», conclude. «Sono nel corpo di ballo del Manhattan Ballet», dico infine e lo vedo sollevare le sopracciglia fino a nasconderle sotto la frangia. «Ma dài!», esclama. «Fortissimo. Non vado a teatro da un po’, ma sicuramente ho visto la tua compagnia. Certo, ho comprato i biglietti economici per i posti in piedi». Lo guardo sorpresa. Già mi sembra impossibile pensare a ragazzi di diciannove o vent’anni che vadano ad assistere a un balletto, figuriamoci pensare a qualcuno che ne abbia visto più di uno. «Davvero?». Annuisce e tamburella con le dita un ritmo concitato sul bancone. «Certo. Seguivo questo corso di musica modernista e c’era un sacco di roba su Stravinsky. Molti balletti che fate voi sono accompagnati da questa musica, no?». «Sì», rispondo stupita. «Sai il fatto tuo, tu». «Neanche tanto. Ma ne so abbastanza per capire che quello che fai tu è straordinario». «Ti ringrazio», dico, scrollando appena le spalle imbarazzata. Di solito la gente mi chiede sempre le stesse cose quando parlo del mio lavoro nel mondo del balletto. Vogliono sapere se i maestri di danza ci fanno pesare e se seguiamo una dieta particolare. Poi si domandano qual è la percentuale di ballerini gay. Tutte domande terribilmente fastidiose e mi rendo conto che Jacob potrebbe essere la prima persona a non pormi nemmeno una di queste. «Devi amarlo», aggiunge. Mi fissa, finché non mi vedo costretta a distogliere lo sguardo. Senza nemmeno dover pensare alla risposta, «Sì», replico puntando gli occhi in basso sul mio piatto di rigatoni. «Lo adoro». Trudy si avvicina per riempirmi il bicchiere. Grazie, mimo con le labbra e mi rivolgo di nuovo a Jacob. «Però è una gran fatica. Cioè un’immensa fatica». Penso al programma di prove del giorno successivo e l’ansia mi assale. Ridacchia. «Be’, sai com’è? Bisogna immaginare Sisifo felice». Lo guardo con espressione interrogativa. «Prego?». Si avvicina al bancone e ci appoggia i gomiti. «Conosci il mito di Sisifo, vero?», chiede entusiasta. «Fu condannato a spingere un masso su per un pendio per tutta l’eternità. Ogni giorno lui lo portava in cima e ogni giorno il masso rotolava giù di nuovo. E questo filosofo francese, Camus, sosteneva che bisogna credere che sostanzialmente a Sisifo la cosa andava bene. Che la fatica di per sé dava un senso alla sua vita». Rido e prendo un sorso di vino. «Di sicuro alcuni momenti della mia giornata sono vere e proprie lotte». «Ma balli sul palco dell’Avery Center. Deve essere incredibile!». «E lo è», confermo. «Ma anche tu a quanto pare sai stare su un palco». Jacob si stringe nelle spalle. «Ma questo non è l’Avery Center», dice sorridendo. Mi irrigidisco fingendo risentimento. «Spero tu non stia denigrando il bar di mio cugino». «Non mi permetterei mai!», esclama. «Adoro il Gene’s. Che tu ci creda o no, ha un impianto audio di tutto rispetto. E poi, la nostra Trudy è generosa con le birre gratis». Le fa un occhiolino. «Fai il musicista a tempo pieno?». Mi rendo conto che ovviamente, sarebbe un miracolo, se ci riuscisse: New York pullula di attori-camerieri e di pittori che portano a spasso i cani. «Eh, magari. Lo farei se mi pagasse l’affitto, ma i miei non ne sono ancora convinti». Sorride e i suoi occhi azzurri si illuminano. «Vado all’università. Sto alla NYU, specializzazione in filosofia. O storia dell’arte. O anche ecologia». Ride. «Ho qualche difficoltà a scegliere. In sostanza, ho fatto domanda per quattro specializzazioni l’anno scorso. Aspetto che qualcuno se ne accorga e mi prenda». «Caspita, ti interessano materie così diverse». Fa’ un cenno di assenso con la testa e dà una sorsata di birra. «Eh, già. Faccio di queste cose. È una roba un po’ da sfigati, forse, ma chi se ne frega. In questo periodo sto leggendo un libro sulle praterie e sto mettendo da parte qualche soldo, così posso comprare un kayak e andare a esplorare le paludi. Sono straordinarie, ma per decenni le hanno usate come discariche. Quando è stata smantellata la vecchia Penn Station, tutte le macerie sono state gettate lì, in acqua». «Ma è una follia», ribatto e penso: Ma questo tizio non dovrebbe parlare di sbronze da birra e toga party? Sono felicissima che non lo faccia, eppure… pensavo che fosse proprio quello che importa di più agli studenti medi. «Poi studio anche italiano», continua. «Da questo signore attempato di Little Italy. Sei mesi fa circa, mi è venuta quest’idea di vedere tutti i film di Fellini senza leggere i sottotitoli». Smette di parlare, assorto nei pensieri. «Ti sembro una persona superficiale? Uno che fa tutto senza saper fare niente? Forse lo sono. Ah be’, già mi riesce difficile trovare qualcosa su cui concentrarmi. Sono giovane, non mi importa sapere cosa voglio diventare da grande. Mica tutti sanno cosa faranno già a dieci anni, no?». Rido. «Io avevo dieci anni. Come hai fatto a indovinare? Comunque, dài, hai ancora qualche anno per decidere. Quando hai iniziato a suonare la chitarra? Sei bravo». «Grazie. Ho provato la prima volta quando avevo tre anni». Sorride al ricordo. «La chitarra era più grande di me e, che te lo dico a fare, non è stato un gran successo. Alle medie poi ho iniziato a prendere lezioni e, insomma, suono da allora». «Ti ha ispirato qualcuno? Cioè, io ho visto uno spettacolo del Manhattan Ballet quando avevo, tipo, cinque anni e ho deciso in quel momento che anche io sarei salita su quel palco un giorno». Mi sorprendo per quanto mi trovi a mio agio in questo momento.Sto veramente chiacchierando con un non-ballerino, penso. «Be’, so suonare qualsiasi canzone che Bob Dylan abbia scritto», dichiara Jacob. «Ma in questo periodo mi sento più da Will Oldham». Fa un cenno a Trudy che arriva silenziosamente con un’altra birra. «Penso che sia una specie di genio». «Forte», dico prendendo mentalmente nota di scoprire chi sia Will Oldham. «Così tu sei uno studente-barra-musicista-barra-autodidatta di kayak?» «Faccio anche l’insegnante nel doposcuola», aggiunge. «Un lavoretto parascolastico, troppo divertente. Mio padre insegna storia alle superiori e mi ripete continuamente che insegnare è un lavoro socialmente più responsabile di quanto non lo sia stare da solo su un palco a cantare canzoni di amori perduti o di cosa hai mangiato a colazione». Scoppio a ridere. «Canti una canzone su cosa hai mangiato per colazione? E come si intitola?». Mi riserva un incantevole sorriso sghembo. Credo che sia il ragazzo più affascinante che abbia mai visto. «Waffle», risponde. Prende una forchetta pulita e assaggia la mia pasta. «Wow, è deliziosa». Il suo braccio sfiora appena il mio. Il cuore inizia a palpitarmi veloce nel petto e sento qualcosa di strano nello stomaco, quindi o il pesto mi sta facendo male o mi sto prendendo una colossale cotta. Jacob inforchetta altri rigatoni. «Comunque, tornando a te, il balletto deve essere un’attività molto intensa. Come ti alleni? Nel senso, come fai a prepararti bene?». Fa una pausa. «È una domanda strana? Sì, è una domanda strana». Faccio spallucce. «Lavoro strenuamente. Voglio dire, se dedichi te stesso a un unico obiettivo, probabilmente puoi arrivare a padroneggiarne al massimo tutti gli aspetti, giusto?». Jacob ride. «Certo, se riesci a sceglierne uno». «Leggevo di un pittore che ha perso il braccio destro in un incidente stradale e si è imposto di imparare da capo a dipingere con la mano sinistra. In questo periodo espone in una galleria a Chelsea e i suoi quadri si vendono per qualcosa come ventimila dollari». «Non dimenticarti di quegli elefanti che dipingono», aggiunge Jacob. «Sono diventati anche loro parecchio bravi, eh». Lo guardo dubbiosa. «Elefanti?» «Ah-ah. La Thailandia è piena di elefanti astrattisti. Gli ammaestratori allungano loro i pennelli e gli elefanti si mettono all’opera». Rido. «Già mi immagino le recensioni: “Lirici ed espressivi, i quadri di Dumbo si caratterizzano per l’audacia nei colori e un’ombreggiatura interessante”», dico assumendo un accento borioso. Anche Jacob ride. «Mi piaci», sbotta. «Non solo perché sei dolce o potresti sapere qualcosa di arte, o anche perché hai un ottimo gusto in fatto di pasta. Penso semplicemente che sembri interessante, diversa dalle altre ragazze che conosco». Anch’io penso che Jacob sia molto interessante. E senza ombra di dubbio è diverso dai ragazzi che conosco nella compagnia, ma non ho il coraggio di dirglielo. Allora, sorrido senza aggiungere altro e spingo il piatto di pasta al pesto verso di lui. A fine serata, io ho bevuto tre bicchieri di vino e Jacob due pinte di Brooklyn Lager e ci siamo scambiati numeri di telefono e indirizzi e-mail. «Allora, presto potrò chiacchierare di nuovo con te?», mi chiede fuori dal ristorante, mentre mi apre la portiera del taxi. Annuisco, di nuovo muta. Jacob mi si avvicina. Penso che cerchi le mie labbra e vengo colta da un attacco d’ansia, perché ho così poca esperienza in queste cose. Ho paura di non sapere cosa fare una volta che la sua bocca incontra la mia. Ma poi mi bacia sulla guancia, così delicatamente. Il colletto della sua maglia mi sfiora il collo e sento un odore di sapone, pesto e birra. Sono sollevata e delusa al tempo stesso. Mi chino per entrare nel taxi che mi aspetta. Sento un formicolio dove mi ha toccata e poggio la mano sulla guancia come a proteggere quella timida sensazione di eccitazione. 5 Sono le dieci di mattina, l’ora della lezione di gruppo, una sorta di riscaldamento prima delle prove, nonché un’opportunità per perfezionare la tecnica. In teoria, sarebbe opzionale, ma solo i ballerini principali possono pensare di saltarla. Sul pavimento dello studio stiamo tutti sparpagliati, piegati in avanti sulle gambe e intenti a riscaldarci. Dai borsoni spuntano scarpette da punta, fasce elastiche per lo stretching e cuscinetti per i calli. Poggiati alle pareti a specchio, si alternano in fila bottiglie d’acqua e bicchieri di caffè. Alcuni danzatori chiacchierano con gli amici, altri si preparano alla lezione ascoltando musica dall’iPod o facendo stretching in silenzio. Molti sono ancora esausti per lo spettacolo della sera precedente. Vicino alla porta, Lottie Harlow regge tra le labbra un mucchio di lunghe mollette per acconciarsi i capelli ramati. Il maglione bianco panna le scivola dalle spalle ossute. I ragazzi, che non devono preoccuparsi dei capelli, rotolano palle da tennis sotto i polpacci e fanno flessioni sulle braccia. Prendiamo posto alla sbarra. Al centro della sala ne sono sistemate sei, più quelle lungo le pareti. Mi infilo tra Bea e Jonathan, che vive nel mio stesso palazzo e somiglia a Bradley Cooper. Mi manda un bacio e spinge leggermente il suo borsone con il piede in punta. Se gli fossero piaciute le ragazze, e non gli piacciono, mi sarei presa una sonora cotta per lui già da tempo. Entra il signor Edmunds, l’insegnante di danza, e fa un cenno al pianista, che inizia a suonare una melodia lenta e semplice. Cominciamo con una serie di piegamenti completi sulle ginocchia, impegnativi per tutto il corpo; durante i plié si sentono le ginocchia di tutti scricchiolare. Poi, mentre il signor Edmunds mostra la combinazione del grand battement, picchietto sulla mano di Bea e lei si avvicina. «Ho incontrato un ragazzo», bisbiglio. «Si chiama Jacob Cohen, è un musicista ed è troppo carino». Bea sbarra comicamente gli occhi azzurri e un ampio sorriso le si stampa in volto. Ma poi deve tornare in posizione per la combinazione. L’attimo dopo si china all’indietro sulla sbarra. «Non ci credo! Quando è successo?» «Ieri sera». Sorrido con una certa malizia. «Tu sei uscita sul serio?», sussurra. «Hai capito la santarellina?» «Da quale pulpito…», sghignazzo. «Ma sì, lo so, non è per niente da me». E mi sento anche in colpa perché oggi il programma è pienissimo, penso. Spero solo di non scontarla nello spettacolo di stasera. Non appena ci ritroviamo accanto il signor Edmunds, torniamo a guardare entrambe dritto davanti a noi. Cammina per tutta la sala, aggrottando le sopracciglia o annuendo, a seconda che gradisca o meno la tecnica del danzatore che sta guardando. Ha i capelli brizzolati che somigliano a delle piume: un po’ troppo gonfi nella parte alta della testa, ed eccessivamente lunghi dietro. È stato uno dei ballerini principali del Manhattan Ballet vent’anni fa, e adora spingerci in dentro la pancia o il sedere per incoraggiarci a una postura più rigida. Quando lo fa, di solito fingiamo di vomitare alle sue spalle. «Oh, perché non mi hai portata con te?», piagnucola Bea. «Non posso crederci che hai incontrato un non-ballerino in carne e ossa». «Neanche io!». Nella seconda parte della lezione ci spostiamo al centro della sala, dove lavoriamo a corpo libero. Il pavimento è ammortizzato e rivestito in linoleum, quasi identico a quello del palco. Il signor Edmunds ci mostra un’altra combinazione, lenta, un adagio, e noi seguiamo le sue indicazioni. Cerco di parlare di nuovo con Bea durante il petit allégro, ma giurerei che il signor Edmunds ci tiene gli occhi puntati addosso stamattina. Così, in silenzio, eseguiamo balancé, piroette e salti. Il cuore mi batte veloce nel petto e sento bruciare i muscoli delle gambe. Il ritmo della musica aumenta e i movimenti iniziano ad ampliarsi, fino a trasformarsi nei salti del grand allégro per tutta la sala. Quasi subito il rossore mi tinge il viso e il respiro si fa corto. A questo punto, ho un tale affanno che, anche se potessi, mi mancherebbe persino il fiato per parlare con Bea. Dopo la lezione prendo un sorso d’acqua e mi dirigo di nuovo verso lo studio, dove Otto prepara la coreografia del suo nuovo balletto con la vigorosa Lottie. Alle luci fluorescenti dello studio, gli occhi cupi e incavati di Otto brillano. I suoi capelli scuri sono ingrigiti appena intorno alle tempie, e la carnagione olivastra risalta contro la pelle di porcellana di Lottie, mentre le tiene stretto il polso minuto per mostrarle una promenade. Sebbene zoppichi in seguito a un intervento mal riuscito all’anca, continua a essere considerato il miglior partner in circolazione e mostra piuttosto spesso le coreografie. Chiunque incontrasse Otto per strada, penserebbe che è un bell’uomo, ma assolutamente inavvicinabile. E in effetti è proprio così. «E développé», suggerisce Otto a Lottie. Per studiare la parte, io e Zoe copiamo i passi alla sbarra davanti lo specchio in fondo alla sala. Otto non smette di cambiare la coreografia durante le prove, così un giorno vuole giri in piqué e il giorno dopo pretende grand jeté. È difficile ricordare qual è l’ultima versione richiesta. I primi tempi, durante queste prove, Zoe cercava sempre di piazzarsi davanti a me, ma una volta compreso che Otto non aveva intenzione di fare un secondo cast, ha abbassato il livello della competizione. «Ovviamente studiamo la parte dell’unica ballerina della compagnia che in pratica non si assenta mai», sussurra ponendo particolare attenzione ai giri in piqué. «Lo so», confermo. «Cavolo, è forte come un toro». «Ed è anche magra come un ramoscello». Soffoco una risatina, mentre Zoe si avvicina a me. «Vorrei che mangiasse cozze avariate o qualcosa del genere», spera. «Ma se mangia appena», le ricordo. «Almeno così dicono». «Be’ allora, correggiamole l’acqua con i lassativi», propone Zoe chinandosi sulla sbarra con un risolino maligno. Sospiro. «Che noia. Non l’abbiamo fatta già cinquanta volte questa sezione? Forse dovrei fingere crampi mestruali solo per uscire da qui». «Oddio, problemi femminili! Otto si sentirebbe così a disagio, che ti caccerebbe dalla sala senza pensarci due volte», sussurra con una risatina. «Vale la pena provarci», ammetto, ma Zoe scuote la testa biondo lucente verso di me. «Fa parte del lavoro, lo sai», mi ammonisce. «Lo so, lo so. La parte più orribile», borbotto. Quindi continuo a studiare i passi e cerco di non pensare a quanto vane siano le speranze di ballare la parte di Lottie. Quando Otto passa alla sezione dell’adagio, concedo alla mia mente di viaggiare un po’. Provo a immaginare come sarebbe baciare Jacob, il cantautore più bello di tutta Manhattan. Considerando che mi sono praticamente sciolta per un bacetto sulla guancia, ho paura che con un bacio vero mi trasformerei in un ammasso di gelatina tremolante. Ma sono disposta a rischiare. Certo, chissà quando avrò la possibilità di vederlo di nuovo. Tra prove e spettacoli serali, ho l’agenda strapiena. Dopo queste prove, ne ho una per Vous e un’altra per Prelude, senza contare la tripletta di stasera. Sono fortunata se supero la giornata senza collassare per lo sfinimento. Sospiro e alzo gli occhi verso il soffitto a volta. Le luci fluorescenti creano una sorta di effetto straniante e, dopo ore di prove, sono spesso stordita. Ma come puntualizzò una volta Bea, lo stordimento potrebbe anche essere causato dalla mancanza di ossigeno, perché non ci sono finestre. D’un tratto Otto mi si para davanti, con gli occhi scuri, impassibili e scrutatori. «Faresti bene a non perderti questo, Ward». Guarda con il naso puntato in basso verso di me e io mi sento così piccola. Annuisco muovendo energicamente la testa e lancio un’occhiata verso l’angolo dove Zoe ridacchia maliziosa. Tutti i pensieri su Jacob sono banditi per le prossime due ore. Di nuovo nel camerino, Daisy esce dalle docce, fa scivolare l’asciugamano sporgendo l’addome abbronzato e teso. I capelli neri bagnati le penzolano fin quasi alla vita. «Sono un ippopotamo». «Oddio!», bofonchio a Bea. Cerco qualche spicciolo per una gassosa. «Se non fa attenzione, si becca una frattura da stress con tutte queste ridicole diete». «Puoi giurarci», bisbiglia Bea. Principianti e ballerine di fila al primo anno soffrono spesso di lesioni perché non sanno trovare il giusto ritmo durante le prove oppure perché seguono diete pazzesche. E quando sono fuori gioco, noi senior finiamo a ballare le loro schifose parti da principianti. «Sai che sono sei settimane che non tocca un pezzo di pane?», sussurra Bea mentre avvolge i capelli in una specie di nuova acconciatura. Io porto sempre un semplice chignon o una crocchia, invece Bea ama fare esperimenti con trecce e code. «Non mi sorprende», replico. «Non capisco», piagnucola Daisy lasciandosi cadere sulla sedia. «Non ho mangiato altro che cavoli e pompelmi per tipo nove giorni». «Siamo condannate», bisbiglio a Bea, che alza gli occhi al cielo. «Ho saputo che ti fanno davvero male…», maligna Zoe. Si esamina le lunghe, magrissime gambe. Cerco di trattene le risate; Bea sbuffa. «Oh mio Dio, te n’è scappata una ieri sera durante il terzo movimento?», chiedo. Le guance di Daisy diventano scarlatte. «Basta, basta! Non ce la faccio!». Cerca di non scoppiare a ridere, ma ci riesce appena. «Dài, il pubblico però non ha sentito niente. E comunque, non tutti nascono come Zoe». L’umore nella stanza cambia leggermente. Bea si agita sulla sedia. Trovo due quarti di dollaro nella pochette dei trucchi e continuo a rimestare ancora un po’. Zoe si alza e si muove spostando il peso da un piede all’altro a disagio. «Pausa sigaretta», dichiara. Indossa una giacca Stella McCartney sul body, si alza ed esce, sbattendosi dietro la porta. «Non è per niente naturale», bisbiglio a Bea. «Nata così? Ma per favore. E tutta quella storia della dieta vegana? Mica perché si preoccupa del benessere degli animali. Pensa solo alle calorie. Si vestirebbe di pelle dalla testa ai piedi se “Vogue” glielo suggerisse». Bea annuisce. «E la questione del fumo?», aggiunge. «È così volgare». Arriccia il naso lentigginoso. «Vero! E poi, a proposito di diete fuori di testa, non l’ho vista mangiare altro che carote per circa sei mesi. Mica muore se mangia una barretta proteica o altro una volta ogni tanto». Bea spalanca i grandi occhi azzurri. «Dio ce ne scampi! Certo non vorrà riempire quel suo culo concavo». Rido mentre cerco a tentoni una banana nel borsone. Ma non c’è proprio niente di divertente. Daisy si crede un ippopotamo e Zoe si lamenta sempre del suo grosso sedere. Che poi entrambe sono scheletriche. Non hanno una curva in due. Un tempo ero anch’io così: alta, magra e completamente piatta. Non ho avuto il ciclo fino a sei mesi fa, a diciotto anni, perché l’intenso esercizio fisico giornaliero lo ha ritardato. Ma ora il mio corpo sta mostrando gli effetti della pubertà. Sbircio furtivamente il mio profilo allo specchio. Non ho fianchi, ma sul petto due piccole protuberanze sporgono dal resto del corpo, rovinandomi la linea. Le schiaccio con le mani. Molto meglio, penso. «A proposito di barrette proteiche, c’è qualcuno che continua a rubarmi il cibo», afferma Bea, aggrottando le sopracciglia perfettamente arcuate. «Ne avevo una scatola piena qui dentro e ora ne sono rimaste solo due». In piedi davanti a noi, ci scruta. Le ossa del bacino le sporgono dalla parte anteriore del body. Come succede a tutte noi. «Io non ne so niente», dice Daisy tamponando i capelli scuri con un asciugamano. «Sono strapiene di carboidrati!». Conosce le informazioni nutritive di qualsiasi cibo sulla terra. «Lasciamo perdere», conclude Bea, stappando una Coca Light. «Dovresti bere acqua, lo sai?», le suggerisce Daisy. Oltre a essere un soggetto in perenne dieta compulsiva, Daisy è anche la sostenitrice più accanita dell’acqua. Ne beve a litri ogni giorno. «La Coca Light ti fa malissimo». «E allora tu? Che per stress arrivi a mangiare un pacco di Oreo e due di tortillas, ogni volta che Otto ti guarda strano. In quel modo ti incasini davvero il metabolismo. E lo sai bene». Daisy sbarra gli occhi e stizzita si mette in un cantuccio tenendo il broncio. «Comincia a darmi ai nervi», sussurra Bea. «Non ballerò nessuna delle sue stupide parti, quando inizierà a rompersi le ossa», aggiungo. «Che cosa?», chiede Daisy dall’angolo in cui si è infilata. «No, niente», dico facendo l’occhiolino a Bea. Poi Bea cambia rapidamente discorso. «Dov’è finita Leni? Non deve provare tra un po’?». Leni è l’altra danzatrice del nostro camerino, ma raramente sta qui perché è più grande di noi e balla poco negli spettacoli. Faceva parte del corpo di ballo dello Stuttgart Ballet ed è entrata nel Manhattan Ballet circa dieci anni fa. Adesso ha trentaquattro anni, un’età piuttosto avanzata per il balletto. Anche Lily condivideva il camerino con noi, ma è uscita dalla compagnia qualche mese fa, perché è rimasta incinta. Non era una gravidanza programmata, e Zoe nella sua somma crudeltà ha appeso preservativi sul suo specchio non appena Lily ha varcato la soglia per uscire. «Leni è in giro», rispondo. «Mi sembra di averla intravista flirtare con Caleb nell’atrio». Cerco di stuzzicare Daisy, che ha appena iniziato a uscire con Caleb, un ragazzo del corpo di ballo di diciotto anni, con i capelli mossi e castani, un amore spassionato per i maglioni di cashmere con scollo a V. Daisy contrae il piccolo viso in una smorfia, finché non capisce che sto scherzando. «Divertente, molto divertente», ridacchia scudisciandomi con l’asciugamani. «Mi ha portato da O’Neals l’altra sera, sapete». Cerca nel borsone un altro body. È ancora mezza nuda e i suoi minuscoli seni sono contenuti in un top da palestra. «Spero tu non abbia preso la zuppa di cipolle», aggiungo. «Jonathan mi ha detto che ci ha trovato un elastico dentro la settimana scorsa». Il cibo da O’Neals è mediocre, ma si trova in una posizione perfetta: se lanci un panino dalla finestra, atterra esattamente davanti la porta del teatro che dà sul palcoscenico. Daisy arriccia il naso. «Bleah», dice. «Ho preso un’insalata, senza condimento». «E qualcosa da bere per tenerti su?», chiede Bea mentre si posiziona con cura sul piede un cuscinetto per i calli. Daisy tira fuori un body, lo scarta e ne cerca un altro. Sulle braccia scheletriche comincia a venirle la pelle d’oca. «Mi disgusta il sapore degli alcolici». «Ottimo», ribatto, «perché alla tua età puoi bere solo succo di frutta». «Ah, mi piacerebbe», sospira. «Troppi zuccheri». Finalmente trova un body pulito e lo infila sopra i collant. «Caleb mi ha ordinato un club soda». «Avete parlato cuore a cuore di come aggiustare quel suo piede a banana?», chiede Zoe entrando nel camerino e lanciando il portamonete nel borsone. Un piede a banana, altrimenti detto piede falciato, distrugge il profilo di chi danza anche peggio del seno. «È stata breve la pausa sigaretta», noto. «Ho cambiato idea», replica allegra. «No, Zoe», risponde Daisy, «non ne abbiamo parlato, per il semplice fatto che non ha il piede a banana». «Magari no, ma secondo me gli piacciono i ragazzi», borbotta Zoe passandomi davanti. Bea prende le difese di Daisy. «E il tuo ragazzo ti ha invitata all’ultima riunione direttiva del Manhattan Ballet?», chiede a Zoe con gli occhi azzurri che le brillano. Nell’ultimo mese, su per giù, Zoe è uscita con Adam Kemp, il figlio del presidente del consiglio direttivo del Manhattan Ballet. Lui è un mezzo idiota, ma a Zoe piace essere vicina al potere che le può offrire. «Già, e ti manda messaggi romantici con i dettagli del consiglio?», aggiungo io. Zoe si spazzola i biondi capelli lucenti, che le arrivano fin quasi alla vita. «Per vostra informazione», risponde impassibile, «Adam è molto romantico. E anche suo fratello». «Suo fratello? Cavolo, Zoe», mi stupisco. «Due per volta?» «Oh sei terribile!», esclama Bea. «Qualcuno dovrebbe dirlo a tua madre». «Visto che lei se la fa con il ragazzo delle consegne», replica Zoe disinteressata, «non mi sembra proprio nella posizione di giudicarmi». Spalanchiamo la bocca e poi iniziamo a strillare per conoscere i particolari. Una volta stanche di ridere dell’ultima scappatella amorosa di Dolly, usciamo per andare alle prove. Prima di spegnere le luci, mi volto a guardare il camerino. Ognuna di noi ha il proprio tavolino con una sedia di fronte allo specchio e lì ci sediamo per sistemare i capelli e per mettere o togliere il trucco. Attacchiamo foto ai bordi del nostro specchio e appiccichiamo poster sui muri a mattoni color cenere e, nel periodo delle vacanze, appendiamo luci natalizie intorno ai bulbi delle lampadine. Gli asciugamani penzolano dalle sedie e le felpe fanno capolino dalle grucce appese a una barra in fondo alla stanza. Sui tavolini davanti agli specchi sono sparsi spray per capelli, lozioni, deodoranti, colla per ciglia e cerone. Trovo sorprendente che cinque persone riescano a mettere su un tale disordine. Spengo l’interruttore. Buio. In corridoio, Daisy si volta verso di me e accenna: «A proposito di ragazzi, raccontami un po’ di questo Jacob di cui mi ha detto Bea…». Bevo un sorso d’acqua. «Non so quando lo rivedrò», ammetto. Poi sottobraccio con Bea affermo: «Ma a che servono i fidanzati quando ho le mie ragazze?». E tutte, Zoe compresa, scoppiamo a ridere. [eBL 092] 6 Una frizzante sera di ottobre, in una di quelle rare serate libere, dopo la matinée decido di restare a guardare Lottie eseguire la parte che io sto studiando (Jacob mi ha invitato a un suo spettacolo a Bushwick, solo che era troppo lontano dal mio mondo). Voglio vedere come sta Lottie sul palco, con indosso costume e gioielli. Me ne sto nell’oscurità delle quinte e la tenda di velluto nero si strofina sulla mia pelle. Sul palco, il corpo di ballo in calzamaglia melanzana esegue rapidi movimenti sulle punte, accompagnati da complessi motivi di braccia mentre Lottie, con un vestito di chiffon rosa ad altezza ginocchio, e il suo partner, l’alto e riccioluto Sam, stanno davanti e si muovono in un’aria densa come miele. Lui la regge appoggiandola sulla coscia per un salto laterale, poi la riporta a terra per guardarla negli occhi, sostenendola cauto tra le sue muscolose braccia. Lottie si china su di lui e le loro labbra quasi si toccano. A un tratto Sam la solleva in una presa alta e lei sembra fluttuare sopra di lui. Ma una volta a terra, l’espressione di Lottie si blocca in un sorriso perché, da quanto mi pare di notare, è atterrata male. Tutti quelli che insieme a me assistono dalle quinte restano senza fiato, mentre Lottie scivola. «Oh mio Dio!», sento sussurrare da qualcuno. Lottie non ride più e il dolore le luccica negli occhi. Sam si avvicina e le afferra il braccio nel tentativo di sostenerla. La vedo digrignare i denti e capisco perfettamente quello che sta pensando: vuole andare avanti, ma non ci riesce. Sebbene manchi molto alla fine, esce di scena con uno chassé tirandosi dietro il piede destro come fosse parte della coreografia. Daisy corre verso di me. «Che è successo?», sibila con le sopracciglia scure corrugate. Lottie zoppica fino alle quinte e scoppia in lacrime. «È atterrata male», sussurro. Il cuore mi batte al doppio della velocità. Sam improvvisa la sezione successiva da solo. Al centro del palco aggiunge una serie di volteggi apparentemente incongruenti. Annabelle Hayes, insegnante di balletto del Manhattan Ballet, si materializza dall’oscurità. «Hannah», chiama con calma, «quanto conosci questo balletto?». I suoi occhi grigi distaccati incrociano i miei. Un senso di nausea mi travolge. I battiti del cuore accelerano e i respiri si fanno rapidi e corti. «Lo… lo conosco». Sento le parole uscirmi di bocca e spero che siano vere. Sì, ho trascorso giorni a esaminare i passi di Lottie, ma non li ho mai effettivamente provati. Non mi sono mai allenata con il partner e non ho niente più che una vaga idea del conteggio. Ma non importa qual è la mia risposta, perché Annabelle mi afferra il braccio e mi tira fin dove Lottie sta piangendo. «Okay, continui tu», mi impone. «Io resto qui nelle quinte e tengo il conteggio dell’ultima sezione per te». Guardo Annabelle con preoccupazione. Lei mi dà una pacca sulla spalla e mi rivolge un sorriso a labbra strette. «Sarà divertente». So che questo è il massimo dell’incoraggiamento che potrò mai ricevere. Lottie emette un lamento, mentre le tolgono il costume di dosso e spogliano completamente me dietro le quinte. Cappotto di lana, felpa con cappuccio, collana d’oro e jeans, tutti presi e ammucchiati da una parte. Mi viene la pelle d’oca sulle braccia e sulle gambe mentre gli altri danzatori e i macchinisti stanno a guardare. Un paio di mani frenetiche mi infilano nel costume di Lottie, ma io sono più alta e leggermente più robusta di lei, e le stecche del corsetto mi si conficcano nella pelle. Intanto un altro paio di mani mi avvolge i capelli in uno chignon alto. Bea appare con le mie scarpette da punta in mano. Sento Lottie piangere in sottofondo e Christine cercare di calmarla. Poi, sul palco, Sam mi porge la mano. Con un respiro profondo mi lancio dal buio delle quinte nella luce del palco. In un primo momento i riflettori mi sorprendono. Mi accecano; ne sento il calore intenso. Sembra che il tempo si sia fermato. Mi ritrovo davanti a migliaia di persone senza avere la minima idea di quale passo verrà dopo. Cerco di ricordare quello che ho memorizzato nello studio, ma le luci mi disorientano. Riesco solo a pensare di contare a voce alta per andare a tempo con la musica, sperando che Sam mi dia suggerimenti durante la performance. Mi preparo per la sequenza di piroette, ma il mio peso è ancora sbilanciato sui talloni. Barcollo un po’ nel tentativo di tornare in equilibrio sulla gamba. Con la coda dell’occhio guardo verso Annabelle, assolutamente immobile nella seconda quinta, con la solita espressione cupa. «Dopo c’è il sollevamento con presa», suggerisce Sam sussurrando. È un sollievo sentire la sua voce. Mi accorgo che sto trattenendo il respiro e mi sforzo di espirare. L’adrenalina mi riempie la testa. Corro verso Sam, salto tra le sue braccia, e lui mi solleva in alto. Il mio corpo si inarca sul suo. Vedo le file di riflettori ruotare sopra di me e mi sembra di volare. All’improvviso dimentico di non avere il trucco di scena e di aver saltato il riscaldamento. Mi perdo nella musica, sebbene il cuore continui a battere talmente forte che, scommetto, anche il pubblico riesce a sentirlo. La carica è immensa. Ecco perché amo il mio lavoro! Mi concentro sul respiro cercando di allungare al massimo tutti gli arti. Sam mi sorride, in modo appena percettibile. Eseguo un fouetté sostenuto in aria e poi scendo in penchée promenade. Alla fine del balletto, mi avvicino al bordo del palco e faccio un inchino, mentre Sam mi tiene per la mano e la vita. Intravedo il profilo sbiadito dell’aquila tatuata sul suo braccio, che copre con il trucco prima di ogni performance. Non riesco a smettere di sorridere. Il pubblico applaude con vigore e vedo sorrisi sui volti della prima fila. «Cavolo, Hannah, l’ho sempre saputo che potevi farcela», mi sussurra Sam in un orecchio mentre camminiamo verso le quinte. Nel backstage Bea mi corre incontro e mi abbraccia. «Sei stata fantastica», si congratula. Mi manca completamente il respiro, tanto che riesco appena a ringraziarla. Non posso credere a quello che ho appena fatto!, penso chinandomi in avanti per prendere fiato. Anche Daisy arriva saltellando verso di me. «Wow, è stato così intenso! Io sarei morta, se fosse successo a me. Cioè, mi sarebbe piaciuto da matti, ma sarei stata nervosissima. Tutta la gente che guarda e i passi… e se me li dimentico?». Blatera felice e io smetto di ascoltarla. Proprio così è stata scoperta Mai Morimoto, la straordinaria solista giapponese, una delle ballerine preferite di Otto: le è stata affidata di punto in bianco la parte di Odette nel Lago dei Cigni quando aveva solo diciassette anni e sei mesi più tardi è stata promossa solista. E pensare che poteva toccare a Zoe, anziché a me. «Quei manège son proprio bastardi, eh?», dice Bea gentile, allungandomi un asciugamano. Sono madida di sudore. Annuisco. «Davvero sono andata bene?», chiedo. «Bea, sapevo solo vagamente quello che facevo», bisbiglio. «Cioè, oggi doveva essere una serata tra spaghetti lo mein e reality in TV». «Sul serio», mi risponde, «sei stata grandiosa». Mi guardo intorno in cerca di Otto. Vorrei che avesse visto il modo in cui mi hanno gettata nella mischia e che io non ho incasinato tutto. Indugio dietro le quinte per qualche istante in attesa che si faccia vivo. E quando non succede, torno in camerino, dove Zoe se ne sta seduta con il broncio. Socchiude gli occhi puntandomi, ma tiene la bocca serrata. Non mi chiede com’è andata la performance e io non glielo dico. Mi sfilo soltanto le scarpette e poggio le gambe contro il muro per scaricare la tensione, mentre riprendo fiato. Sono esausta, ma al settimo cielo. Non lo direi mai ad alta voce, ma sono quasi sicura di essere sulla buona strada per la promozione. 7 «Allora, Bea la ballerina, ecco l’ultima domanda per te: vi fanno pesare lì in teatro?», chiede Jacob, reggendo una bottiglia di vino davanti al viso di Bea, come fosse un microfono. È lunedì, la nostra serata libera, e se ne stanno tutti e due seduti sul mio divano come amichetti del cuore. Dopo essersi scolati le bottiglie di vino che ha portato Jacob, sono brilli abbastanza per simulare un’intervista alla Larry King. «Sì», risponde Bea annuendo energicamente. «Ogni giorno alle sette in punto la mattina, ci presentiamo nella sala di verifica del peso, dove Otto ci obbliga a salire sulla bilancia. Se abbiamo preso cinquanta grammi, ci viene negato il cibo. Se abbiamo preso cento grammi, dobbiamo salire e scendere le scale per dieci minuti. E per centocinquanta grammi, ci costringono a vomitare e ci vietano di mangiare per tutto il giorno». «E se prendete più di centocinquanta grammi?», insiste Jacob. «Vi tagliano via pezzi di carne?». Bea assume un’aria molto solenne. «Sinceramente, Larry, non credo che vorresti scoprirlo». E poi ridacchia. È troppo divertente, mima con la bocca verso di me. «Lo so!», bisbiglio mentre apro un’altra bottiglia di Chianti. Ho invitato Bea e Jacob da me, perché volevo vederlo di nuovo ma ero troppo nervosa per incontrarlo da sola. Non ho mai avuto un ragazzo, me ne è sempre mancato il tempo. Neanche Bea è mai uscita con qualcuno, ma evitiamo accuratamente di raccontare troppo in giro questa cosa. Non è che siamo fenomeni da baraccone o roba del genere. È solo che siamo, per così dire, socialmente sottosviluppate, in pratica come quasi tutti i ballerini della compagnia. Avevo programmato di bere un paio di drink nel mio appartamento e poi di uscire per cena. Ma Bea e Jacob giurano che ho promesso di cucinare per loro. Il fatto che io non ricordi di aver detto una cosa del genere né all’uno né all’altra non significa niente per loro. Ed eccomi qui, in cucina, avvolta in un grembiule che mi copre i jeans 7 For All Mankind. E nemmeno sapevo di avere un grembiule! Credetemi se dico che sono elettrizzata dal fatto che Jacob e Bea vadano tanto d’accordo. Ma non sono per niente sicura di questa cosa della cena, perché io non so cucinare. Insomma, so fare il ghiaccio. E senza dubbio sono bravissima a prepararmi una tazza di cereali, un toast o un frullato. Ma a parte queste cose, non ho la minima capacità culinaria. In qualche modo però quei due sono riusciti a convincermi a cucinare. «Toast al formaggio e zuppa di pomodoro», ha proposto Bea. «Che ci vuole a farlo?». Se n’è uscita con questo suggerimento dopo aver dato un’occhiata alla mia dispensa. Poi Jacob è entrato in cucina e per un momento è rimasto in piedi dietro di me, mentre io fissavo muta il frigorifero vuoto. Riuscivo a sentire il calore del suo corpo, pur senza che mi sfiorasse. Non mi sono voltata, ero impalata lì in attesa di scoprire cosa sarebbe successo. Poi mi ha poggiato le mani sulle spalle. «Ma com’è che hai otto vasetti di senape in frigo?», mi ha sussurrato tra i capelli. «Non lo so», ho risposto con voce fioca. La testa ha cominciato a girarmi. Poi mi ha dato un rapido bacio sulla guancia e si è dileguato in soggiorno. E così ora decido di prendere la padella nuova che mi ha regalato mia madre per il compleanno, forse nella speranza che un giorno imparassi a farci qualcosa. Finora l’ho usata solo come contenitore di pubblicità arrivata per posta e mai aperta. «Tutto bene lì dentro?», urla Bea, nonostante dal divano alla cucina saranno appena tre metri. «Sì», rispondo lanciando la posta sul piano della cucina. «Tutto perfetto». Cerco di ricordare come li faceva mia madre, i toast al formaggio. Dunque, imburrava il pane, giusto? Poi lo metteva nella padella con altro burro? E quante fette di formaggio usava? Due? Tre? Decido di metterne due. Il pensiero di mangiare così tanto formaggio e burro mi fa quasi venire da vomitare, ma mi torna in mente che sono stata troppo occupata per pranzare oggi e adesso sono le nove, in casa non ho nient’altro e stiamo tutti morendo di fame. Metto un pezzetto di burro nella padella e lo guardo sciogliersi. «Arriva già un buon odore», grida Jacob per incoraggiarmi. Quando il burro è completamente sciolto nella padella, aggiungo il pane e lo fisso. Apparentemente può stare lì da solo per qualche secondo, così mi sposto in soggiorno, dove Jacob esamina la libreria di iTunes sul mio portatile. Mi faccio prendere dall’ansia. Per favore, fai che non scopra la playlist di Clay Aiken, penso. «Ah! Clay Aiken?», chiede sorridendo. «È un regalo», mi lascio sfuggire. Le guance mi avvampano di un rosso vivo. Annuisce. «Oh, certo, come dici tu». «Quanto mi piaceva Clay Aiken quando avevo undici anni», ricorda Bea. Afferra la bottiglia del vino e la tiene come un microfono. «What are you doing tonight / I wish I could be a fly on your wall», canta a squarciagola. La guardo sbigottita. L’ho sentita cantare sotto la doccia, ma mai in questo modo. Inizio ad applaudire. «Fantastico!». «Cavolo, balli, canti», dice Jacob. «Un duro colpo al mio orgoglio, Bea». «I’d make you mine tonight / If hearts were unbreakable», continua a cantare. «Ti prego non andare mai da Gene’s», implora Jacob. «O mi licenziano per assumere te». Bea arrossisce. Poi si gira verso di me. «Ehi, Hannah, forse dovresti dare uno sguardo ai toast». Mi precipito in cucina, convinta che si stessero bruciando. Invece, il lato poggiato sulla padella ha assunto una perfetta doratura. Rivolto la fetta di pane, molto orgogliosa di me stessa, e aumento il fuoco della zuppa. Jacob mette Bob Dylan allo stereo e Bea si unisce cantando Tangled Up in Blue, mentre Jacob la accompagna mimando una chitarra. Guardandoli, mi rendo conto che raramente mi capita di avere ospiti nel mio appartamento. Vivo qui da due anni e non ho mai dato una festa per inaugurare la nuova casa. Non ho neanche mai invitato Daisy, Zoe e Bea per una cena a portar via. Ricordo l’entusiasmo di traslocare dal dormitorio dell’Accademia e l’eccitazione di avere un appartamento tutto mio. Si trova in uno stabile di quattro piani senza ascensore, è grande quanto un ripostiglio, ma adoro avere uno spazio tutto mio. Ho ordinato un divano da Crate and Barrel e un tavolo da IKEA; i miei genitori mi hanno portato la libreria da Weston e ho persino comprato qualche pianta. Ma niente di più. Non ho avuto tempo per dipingere le pareti del bagno, che erano di un punto di turchese piuttosto carico, né ho mai stuccato i buchi nei muri dove i precedenti inquilini avevano attaccato puntine e chiodi. Le piante sono appassite con il passare del tempo e infine morte per trascuratezza. Però, ho comprato soffici tappeti e cuscini e ho appeso le tende di Urban Outfitters. È un posto accogliente e poi è il mio spazio privato, un rifugio dal mondo del teatro. «Come va coi toast?», grida Jacob. «Merda!», esclamo. Me ne sono dimenticata un’altra volta. Non sono carbonizzati, anzi sono perfetti, dorati e pronti da mangiare. Il formaggio straborda dai lati e mi fa venire l’acquolina in bocca. Jacob mi raggiunge in cucina e, mentre io sistemo i toast su tre piatti non abbinati, lui versa la zuppa con il mestolo in tre scodelle non abbinate. Gli sto vicinissima, e le nostre braccia si sfiorano di tanto in tanto. «La cena è pronta», annuncio portando fiera i piatti nel soggiorno. Ci sediamo intorno al tavolo, e accendo due candele al centro. «Che eleganza», si complimenta Bea. «Signora Ward, ma che incantevole tavola hai imbandito». «Straordinario», concorda Jacob. I suoi occhi incrociano i miei da una parte all’altra del tavolo e io arrossisco. «A Hannah!», esclama Bea. «Chef, padrona di casa e danzatrice brillante, che è stata lanciata in un ruolo da protagonista e li ha stesi tutti». «Alla chef!», esclama Jacob. Poi dà un grosso morso al suo toast. Mentre mastica, guardo l’espressione sul suo bellissimo volto trasformarsi da allegria in confusione e infine in disgusto. «Che succede?», chiedo. «Non li ho bruciati!». Jacob mastica ancora e Bea dà un morso. Arriccia il naso lentigginoso, e io capisco che c’è proprio qualcosa che non va nei toast. Esitante, ne assaggio un pezzo. Quello che dovrebbe sapere di pane e burro e avere un gusto dolciastro misto a formaggio ha invece il sapore di… be’, sembra di dare un morso a una saponetta. «Oddio! Fa schifo», dico sputando nel tovagliolo il morso appena dato. «Non è così male», sostiene Jacob comprensivo. Bea sembra quasi stia per vomitare, ma poi scoppia a ridere. «Non capisco, ma com’è successo?», chiedo tra il panico e le risate. «Scommetto che è colpa della padella», dichiara Jacob. «Ma era nuovissima!», mi lamento. «Magari c’era una specie di rivestimento del produttore», mi rassicura Bea. «Forse qualcosa che non è venuto completamente via lavandola». Mi prendo la testa tra le mani. Ho persino dimenticato di lavare la padella, anche se ovviamente non lo ammetterei mai davanti a loro. «Non ci posso credere», piagnucolo. «Sono un’incapace totale? Non so nemmeno fare un dannato toast!». E scoppio a piangere. È talmente penoso da far ridere. «So soltanto ballare», singhiozzo. Gli occhi azzurri di Bea luccicano di gioia. «Vale lo stesso per me, tesoro», mi consola. «Mi sentivo tanto Martha Stewart, con il grembiule e tutto il resto», piango, scagliando il tovagliolo dietro di me. Jacob lo raccoglie e me lo restituisce. «Ma lascia perdere Martha Schmartha. Sei perfetta così come sei, Han», afferma. Mi sfiora la guancia con il dorso delle dita. E d’un tratto vorrei che Bea andasse via. Nonostante sia in assoluto la mia migliore amica, voglio restare sola con Jacob. «Prendiamo qualcosa a portar via, dài», suggerisce Bea raggiante, masticandosi la punta della treccia. «E che pizza sia», dichiara Jacob mentre prende il cellulare. Mi stendo sulla sedia e sospiro. «Pensi che saremo mai normali?», chiedo a Bea. «No», risponde, togliendosi la treccia dalla bocca e allungandosi per prendere il vino. «Direi proprio di no. Tieni, fatti un altro sorso di rosso». 8 Alla fine della settimana non ho nemmeno abbastanza scarpette da punta per superare il weekend, quindi prima di andare sul palco per la mia performance, scendo nel magazzino delle scarpette. Daisy mi bracca, blaterando della sua parte in Haiku. Entrambe siamo pronte per il palcoscenico, tutte truccate e con i capelli acconciati; io danzo nel primo balletto e Daisy nel secondo. «…e Adriana fa sempre questa faccia durante i giri in piqué», continua ma io quasi non la ascolto, fino a che non diventa una sorta di ronzio costante in sottofondo. «Salve, belle ragazze», saluta Marco sbirciando da sopra al giornale, mentre ci avviciniamo. «E benvenute nella mia umile dimora». Marco è il responsabile del magazzino, una piccola sala senza finestre in cui, dal pavimento fino al soffitto, sono allineate nicchiette piene di scarpette da punta. Ogni nicchia è assegnata a una ballerina, il cui nome è indicato su un’etichetta, e contiene un assortimento di scarpette fatte su misura per il suo piede. Ne consumiamo circa otto paia a settimana, perciò è una fortuna che siano gratuite per i ballerini della compagnia. Scarpette da punta, cerotti e Voltaren: se dovessimo comprare queste tre cose, non ci resterebbero nemmeno i soldi per l’affitto. Dalla mia nicchia tiro fuori dodici paia di scarpette in raso. Nonostante siano artigianali e personalizzate per ogni ballerina, non possiamo semplicemente infilarci dentro il piede. Dobbiamo ammorbidirle. Innanzitutto incastro la parte anteriore delle scarpette tra i cardini della porta che poi apro e chiudo per ammorbidire la mascherina, cioè la punta della scarpetta. Quindi calpesto la soletta, fino a sentire un colpo secco del rinforzo (la soletta centrale rigida) che si stacca. A questo punto stacco il tessuto che ricopre il rinforzo, tirandolo all’indietro e riducendolo di circa un centimetro. Infine, inumidisco con l’acqua i bordi esterni della mascherina per ammorbidirla. Ora posso indossare le scarpette, ma devo ancora lavorare sulla mezzapunta. Quando sento la colla scricchiolare, so di aver quasi finito. E mentre l’acqua sul raso si asciuga, le scarpette si modellano al mio piede. L’obiettivo è far diventare la scarpetta un’estensione del piede stesso. «Io ne ho dodici paia», comunico a Marco, «e Daisy…». «Venti», proclama. Si avvicina e mi sussurra: «Quanto sono ingorda!». Marco annota l’informazione nel suo registro e sorride. «In bocca al lupo per stasera», esclama. Lo ringraziamo, e io mi affretto per le scale diretta al retropalco, per indossare il costume di Lottie. Helga, la costumista più scortese, in pratica ribolle di rabbia mentre stringe tra le mani il tutù di Lottie. «Saresti dovuta arrivare prima», dice con il suo accento marcato di Long Island. «Sei in scena tra due minuti». Non può essere più falso. Helga esagera sempre, sembra quasi che voglia instillarci il panico, come se non bastasse avere già i nervi a fior di pelle. «Dio, Hannah, riesco a stento a chiuderlo!», borbotta mentre si dibatte per fissare i gancetti del corpetto. «Uff! Quanti spettacoli sono rimasti ancora? Penso che dovremo dargli una sistemata». Lottie si è procurata una distorsione di secondo grado alla caviglia, quindi la parte resterà mia per le poche performance della stagione rimaste. «Ho chiesto a Maria di farlo la scorsa settimana», riferisco specchiandomi preoccupata. Il corpetto mi comprime il seno. Laura, un’altra costumista e una cara amica, mi posa una mano sulla spalla. «Sei bellissima, Hannah», dice sorridendo. «Posso inserirci una parte elastica, se vuoi. Così dovresti trovarlo più comodo». Ricambio il sorriso con gratitudine e poi lascio la stanza con il costume di Lottie che mi modella tutte le curve. So che le ballerine dovrebbero avere il fisico di un ragazzo adolescente: gambe lunghe e magre, fianchi stretti e torace piatto. E so anche che il modo in cui appariamo esteriormente viene considerato un riflesso della nostra etica professionale e della nostra devozione verso quest’arte. Ma non posso farci proprio nulla stasera. Mi affretto dietro le quinte, dove macchinisti corpulenti trasportano scale, sistemano l’attrezzatura per le luci e controllano gli impianti a ridosso dei trasparenti, mentre Christine riesamina la sequenza di luci nella cuffia. Tutto intorno i danzatori sono seduti scomposti su alte sedie, chini su sbarre di acciaio oppure stesi sul pavimento, intenti a far rotolare i muscoli su cilindri di polistirolo o su palle da tennis. Proprio come me, hanno un trucco vistoso e i capelli tirati indietro e cosparsi di lacca. Faccio riscaldamento alla sbarra finché non sento bruciare i muscoli e il sudore non mi imperla la fronte. Mi fermo per cucire i nastri delle scarpette e poi infilo i piedi nella cassetta della pece. Prendo un lungo respiro e mi concentro sulla coreografia che sto per ballare. Adoro danzare la parte di Lottie. Adoro poter dimostrare a Otto le mie qualità, non solo come danzatrice nella massa volteggiante dei corpi di ballo. Vorrei trovare una certa calma, ma il cuore mi palpita leggero e veloce nel petto. Non sono nervosa, mi dico; sono solo elettrizzata. Assaporo il momento prima dell’apertura del sipario, quando il pubblico è in attesa. In quell’istante il tempo sembra rallentare e il mondo intero zittirsi. Sola, in piedi dietro le quinte, avverto il soffice velluto della tenda accarezzarmi la pelle. Immagino il direttore d’orchestra alzare in aria la bacchetta da un lato all’altro e, come il suo braccio si abbassa, i fagotti iniziano a suonare, seguiti dagli archi. Faccio un cenno a Sam dall’altra parte del palco e, tenendo il conteggio del tempo, mi lancio sotto i riflettori. Ci incrociamo al centro del palco e lui mi afferra alla vita per un pas de deux. Immagino fasci di luce che si proiettano dalla punta delle dita di mani e piedi. Non riesco a individuare Bea, né Daisy o Zoe, ma so che stanno guardando rapite dalle quinte: Bea in vistosa eccitazione, Daisy per un verso intimorita e per l’altro invidiosa, e Zoe acida come avesse appena ingerito un limone. Sono quasi certa poi che Otto e Annabelle stiano seduti da qualche parte nella platea, assorti mentre assistono alla performance. Ma scaccio questo pensiero dalla mente e ballo solo per me stessa, come se io e Sam fossimo le uniche persone in un teatro vuoto. Talvolta sul palco tutto il resto svanisce e quei momenti sono come istanti di magia, in cui sento di avere il pieno controllo del mio corpo; gli arti eseguono tutte le mie richieste e la gravità perde il suo effetto su di me. Stasera, mentre danzo la parte di Lottie, tutte queste sensazioni mi pervadono. Durante l’assolo di Sam, riprendo fiato dietro le quinte prima di rientrare in scena. Sistemo il costume e tento di rallentare il respiro. Sono totalmente concentrata sulla performance e attendo la mia entrata come un gatto con le orecchie drizzate. Poi vado incontro a Sam e ci prepariamo per il finale. Dopo la sequenza conclusiva di piroette, corro e salto in direzione delle quinte atterrando quasi su Harry, che se ne sta nascosto dietro la tenda. «Presa!», ride e mi sorregge per non farmi cadere. «Scusa!», esclamo senza fiato. «Non ti avevo visto lì dietro». Ansimo per lo sforzo e ho le gambe molli. «No, no, è stata colpa mia, che me ne stavo qui dietro nascosto a guardarti», ammette abbassando le braccia, ora che sono in equilibrio. «Eri magnifica». Di solito Harry sta sempre sulla graticcia, il gigantesco sistema di cavi, contrappesi, pulegge e ponteggi che permette ai macchinisti di aprire le tende, muovere le luci e ruotare gli elementi della scenografia sul palcoscenico. Mi chiedo se sia sceso a livello del palco per vedere me. Di solito non lo fa nemmeno per i protagonisti, così lo prendo per un singolare complimento. «Davvero? Pensi che sono andata bene?», chiedo. Annuisce. «Senza ombra di dubbio». Arrossisco di soddisfazione. A differenza di tutti gli altri qui dentro, Harry non ha motivi reconditi per complimentarsi con me. E sono più di vent’anni che guarda balletti, può essere un critico estremamente severo. «Dai, torna in scena ora e prenditi gli applausi», dice dandomi una spinta per scherzo. Poi la testa di Matilda fa capolino da dietro una delle massicce gambe di Harry. «Eri stupenda», afferma senza fiato. «Grazie!», replico. Allungo la mano e le arruffo i capelli, poi mi affretto sul palco per ricevere gli applausi. Di nuovo nel camerino, sono intenta a sfilare i collant impregnati di sudore, quando irrompe Bea con una copia del «New York Times». È ancora truccata e ha il viso madido di sudore. «Han, guarda!», grida puntando il dito sul giornale. «L’ho fregato dal retropalco… ti hanno menzionato in una recensione!». Mi precipito verso di lei e le strappo di mano il giornale. «Dammi, dammi», ordino, «per favore». Inizio a leggere con il cuore in gola. Salto i riferimenti ai protagonisti e ai solisti, ai balletti in cui non ero presente, in cerca del mio nome. E poi lo trovo, al quarto paragrafo: Hannah Ward, sostituta di fine stagione di Lottie Harlow, pone una straordinaria enfasi in Division at Dusk, l’ultimo balletto di Otto Klein. Innocenza e impulsività si fondono mentre balla, e possiede un’energia contagiosa. Il suo fraseggio è calcolato, ma dimostra uno stile di danza giovane e spontaneo; brillante la precisione di gambe e piedi. Alzo lo sguardo con gli occhi lucidi. Non riesco a credere che quelle parole descrivano me. Rileggo velocemente la recensione. Bea mi sorride radiosa. «Non è fantastico?», sussurra. «Cosa?», chiede Leni. Entra dal bagno con un asciugamano avvolto intorno alla testa. Ha lunghi capelli biondo-rossicci e grandi occhi azzurri; somiglia vagamente a Brigitte Bardot, ma ha una voce bassa e mascolina, con un marcato accento tedesco. Bea si rivolge a lei e cinguetta: «Hannah ha ricevuto una recensione sul “Times”… ed è una cosa assolutamente incredibile!». Leni sposta lo sguardo su di me, mentre si asciuga i capelli. «Wow, grandioso, Hannah», si congratula. Piegata in avanti, si strofina con vigore la testa e torna nuovamente dritta. «Pronta a scalare il mondo, piccola Balletttänzerin». Mi figuro nella mente Otto che fa un cenno di approvazione alla fine delle mie performance; vedo il mio nome in risalto tra i fogli del casting; mi immagino mentre imparo ruoli da solista provandoli su un palco vuoto e silenzioso. Sogno Otto che mi annuncia la promozione. Che io strillo e in lacrime chiamo mia madre, e poi anche lei si mette a piangere. Zoe e Daisy tornano in camerino dopo i loro rispettivi balletti. Daisy quasi inciampa nella vecchia moquette che si arriccia ai bordi della stanza. «Acc!», grida. «Vogliono che mi spacchi una caviglia o cosa?». Poi si volta verso di me. «Ho saputo della recensione», dice. «Che figata! Mi sa che devo aggiungerti nella mia lista per la collezione di autografi». «Molto divertente», replico. Daisy colleziona gli autografi di ballerini famosi da quando aveva sei anni. È un’idea di sua madre, un modo per motivare Daisy nella danza. Sarcasmo a parte, credo che Daisy sia felice per me. E sicuramente mostra più gentilezza di Zoe, che se ne sta in silenzio, senza dir niente. È stata di pessimo umore sin da quando ho avuto la parte. Non riesce a credere di aver perso questa opportunità per una mera casualità; se magari si fosse trovata dietro le quinte, avrebbe potuto ballare lei la parte di Lottie. Se fossi in Zoe, anch’io sarei invidiosa. «E scommetto che presto arriveranno altre parti importanti», dice Bea in confidenza, mentre si strucca il viso. A questo punto, Zoe si volta così velocemente che fa quasi cadere una sedia. Sbatte la porta con furia. Guardo la sedia vuota di Zoe e per un momento mi abbandono una colpevole sensazione di trionfo. Il fatto che lei si senta così minacciata è un segno che la mia stella è in ascesa. Siamo state testa a testa per anni. E sì, è stata solo pura e semplice fortuna che io fossi dietro le quinte e Zoe no. Ma di sicuro non è stata fortuna che io abbia ballato bene e abbia ricevuto una recensione sul «Times». Accanto a me, Bea finisce di togliersi il trucco di scena e si getta addosso il cappotto; Daisy si pigia un cappello sullo chignon e saluta. «Ciao a tutte», esclamano, ed escono nella gelida serata di novembre. Sola nella stanza, mi guardo allo specchio. I miei capelli biondi sono raccolti in una coda di cavallo scompigliata. Ho le guance ancora arrossate dopo lo spettacolo e mi fanno male le gambe. Resto in piedi e mi esamino il corpo. Così, il critico del «Times» ha trovato «brillante la precisione» della mia danza, una cosa straordinaria. Ma aveva ragione Helga? Sono davvero un po’ più rotondadi prima? Con i capelli tirati indietro, a non coprire il volto, appaio asciutta e determinata. Ma sarà abbastanza? Mi diranno mai che è abbastanza? 9 Mentre cammino lungo il corridoio dopo le prove, una bambina in body rosa pallido mi supera correndo. Si ferma davanti al distributore automatico e sulle punte dei piedi cerca di infilare una moneta. Per via dello Schiaccianoci, che abbiamo appena iniziato a eseguire, i corridoi del backstage sono pieni di ballerini di otto e nove anni. Ci fissano e imitano i nostri esercizi di stretching; ci stanno tra i piedi in cerca di scarpette da punta firmate e autografi. Ci credono i migliori, il che può essere tanto bello quanto snervante, a seconda dell’umore del momento. I balletti delle normali stagioni di repertorio, che si alternano di settimana in settimana, sono contemporanei e generalmente privi di trama effettiva. Ma poi giunge il giorno del Ringraziamento (che io e Bea quest’anno festeggeremo con un take away coreano e una maratona di Mad Men) ed è ora di mettere in scena Lo Schiaccianoci. E quando Lo Schiaccianoci inizia, balliamo sempre le stesse parti e ascoltiamo sempre lo stesso spartito, sera dopo sera, per cinquanta spettacoli consecutivi, fino alla notte di Capodanno. È come mangiare carne in scatola dopo un piatto di filet mignon. «Vuoi una mano?», chiedo alla bambina. Si immobilizza e spalanca gli occhi. Posso praticamente sentire i suoi pensieri: Oh mio Dio, una vera ballerina! La bimba annuisce lentamente, in uno stato di soggezione tale che le impedisce persino di sorridere. La sollevo per la vita fino a farle raggiungere la fessura per le monete. Ci infila qualche centesimo e pochi secondi dopo la sua Sprite Zero cade con un tonfo. «Era quello che volevi?», chiedo. Penso che abbia premuto il tasto sbagliato. È piccola, dovrebbe prendere una Fanta o qualcosa di simile. «Sì, sì», conferma. «Preferisco la Coca Light, ma nella macchinetta non c’è mai». Recupera la lattina e se la tiene stretta tra le manine. «Grazie», dice e mi riserva un piccolo inchino. «Nessun problema», mormoro. Prendo il cellulare e digito il numero di Jacob. «Qui le bambine di otto anni stanno a dieta», sbotto quando risponde dall’altro capo del telefono. «Sono delle specie di maniache della danza in formato tascabile». «Eh?», chiede. Ha la voce bassa e assonnata. «Stavi riposando?». Si schiarisce la voce. «Cosa? Chi, io? No, no». Sono convinta che sia una bugia, ma decido di non stuzzicarlo in proposito. «Be’, ti ho chiamato solo per dirti che detesto leggermente Lo Schiaccianoci», lo informo. Ride. «Ma come? Pensavo che tutti amassero Lo Schiaccianoci». Borbotto. «Mah, forse se stai seduto tra il pubblico e hai, tipo, dieci anni». Stringo il telefono mentre attraverso il corridoio a passo svelto fino al camerino. «Dopo circa quindici performance, comincia a diventare totalmente senza anima. Lo ripetiamo ogni stagione, quindi uno potrebbe pensare che la gente ne abbia abbastanza. Invece ogni singolo spettacolo è tutto esaurito. E i biglietti costano una cosa come ottanta verdoni». «Cavolo», esclama Jacob. Sento che fa scorrere l’acqua e beve un sorso. «Scommetto che sei bellissima con il costume della Fata Confetto». «Eh, magari», sospiro. «La Fata Confetto è un ruolo principale. Io sono un umile fiore e un fiocco di neve». «Be’ sono sicuro che sei uno splendido fiocco di neve. Ma cosa c’entra con le bambine di otto anni a dieta?», chiede. Spingo la porta del camerino, entro e mi lascio cadere sulla sedia. «Ah, non ne ho idea. Una delle bambine dello spettacolo… ci sono tutte queste parti per bambini… l’ho appena aiutata a prendere una Sprite Zero. Insomma, un conto è se ti assumono per essere una creaturina piena di grazia, ma questa bambina? È crudele». «Ma è meglio una Coca Light che uno di quei frullati da un chilo e mezzo con cui si presentano i ragazzini del doposcuola», ribatte Jacob. «Presto avranno tutti i denti cariati». «Ah certo, su questo hai ragione», ammetto. Guardo l’orologio. «Merda, devo andare. Ho le prove». «Aspetta. Sai, c’è un gruppo che suona al Rockwood Music Hall questo sabato. Ci vado con alcuni amici», propone. «Wow, figo». «Sì, allora che ne dici? A Bea potrebbe piacere parecchio il mio amico Drew». «Però lo spettacolo non finirà prima delle undici». «Oh, va bene. Allora, ok, prendo l’agenda. Sono libero quasi tutte le sere dopo le undici e sono disponibile tutti i lunedì. Che ne pensi? Una cena al Café Mozart? Altrimenti c’è un indiano fantastico sulla 58a, tra la 7a e la 8a…». Voglio rivedere Jacob, davvero. Ma ripenso all’esperienza di danzare Division at Dusk e so anche di volere altre parti come quella. Cosa che non succederà senza straordinari sforzi. Se questo è il mio anno, devo continuare a spingere su me stessa ogni singolo giorno; oltre alle prove e agli spettacoli, devo prendere lezioni di Pilates e di yoga. Otto starà sicuramente già preparando i casting per la stagione invernale e voglio che mi prenda in considerazione. Quindi non posso concedermi distrazioni. Concentrati, mi ripeto. Concentrati. Ripenso al viso di Jacob, il profilo della sua mandibola e l’accenno di barba sulle guance. Chiudo gli occhi. «Sai, proprio non posso in questo momento», ammetto. «Scusami». Segue una pausa lunga e tesa. Sento il respiro di Jacob dall’altro capo del telefono. Diventa subito insopportabile. «Sono veramente occupatissima». Mi sento inerme, ma è la verità. Jacob si schiarisce la voce. «Cavolo, non conosco tante diciannovenni che non riescono a trovare il tempo per uscire con gli amici. Sei proprio diversa, Ward». Fa una pausa. «Mi piace proprio questo di te. E penso che quello che fai sia grandioso. Mi chiedo solo se ti lasci il tempo di vivere». Mi infastidisco. «La danza è la mia vita», dico senza pensare. «Bene, allora…», inizia a dire Jacob. Lo interrompo. «Ma voglio vederti di nuovo». «Va bene, chiamami quando hai un attimo libero», propone Jacob. «Okay? Magari ci sarò». Quando attacco, provo una strana sensazione allo stomaco. Magari? 10 Sin da novembre cominciano a fioccare gli inviti ai party, che diventano più frequenti ed esagerati tanto più il Natale si avvicina.«Unitevi a noi alla cena in onore dei ballerini del Manhattan Ballet»; «Siamo lieti di invitarla al ricevimento con cocktail ospitato dal signore e dalla signora Questo e Quello»; «Luci! Un palco! La danza! Festeggiate la stagione con la Fondazione Qualcosa, sponsor orgoglioso del Manhattan Ballet». Gli organizzatori sono sempre individui che donano denaro per il balletto e quindi siamo fortemente incoraggiati, direi costretti, a presenziare. Otto non considera una distrazione le feste dei patrocinatori. Secondo lui, parteciparvi rientra nel nostro lavoro. E, benché talvolta siano leggermente noiose, sono anche estremamente affascinanti. Il ricevimento di stasera si svolgerà per conto di uno dei maggiori sostenitori della compagnia, ed è il motivo per cui io, Bea, Daisy e Zoe ci troviamo nell’Upper East Side nel pieno di una tempesta di neve dicembrina. «Questi tacchi non sono fatti per la neve», si lamenta Zoe, aggiustando la cinghia delle sue Louboutin di vernice. «Ti avevo detto di metterti gli scaldamuscoli, come me. Te li togli in ascensore e li infili in borsa», ribatte Bea. Quando l’ascensore privato si apre nel foyer in marmo all’attico, Bea, che ha deciso di intrecciare i capelli e appuntarli in testa come Heidi sulle Alpi, perché sostiene che in questo modo si svia l’attenzione dalle sue orecchie leggermente a sventola, mi dà un colpo sulle costole. «Ehi», dice. «Non è fantastico? O piuttosto è rozzo?». Bea viene dal New England, dove i ricchi guidano Volvo vecchie e non si curano della carta da parati della sala da pranzo rivestita in legno che sbiadisce e si stacca. La gente con i soldi lascia che le cose vecchie restino vecchie. A New York però non c’è posto per la modestia Yankee. A quanto pare, tutti i sostenitori del Manhattan Ballet abitano in appartamenti da venti stanze con vista su Central Park. Ogni singolo elemento d’arredo, ogni dipinto e ogni cuscino sono selezionati da designer di interni e ogni granello di polvere è spazzato via da cameriere in uniforme. Consegno la mia giacca vintage con collo di velluto alla ragazza del guardaroba e mi liscio il vestito nero a fiori, mentre prendo sottobraccio Bea. Guardo l’immenso specchio dorato appeso nel foyer, poi alzo lo sguardo al soffitto trompe-l’oeil, con piccoli cherubini paffuti sospesi in un cielo blu. «Penso che sia rozzo», confesso a bassa voce. Bea annuisce, mentre guarda i giganteschi bouquet di rose e gigli candidi disseminati nella sala. «Già, in tutta sincerità, lo penso anche io». Non appena mettiamo piede nel salone, un cameriere vestito in nero da capo a piedi si avvicina spedito. «Un Fata Confetto-Martini?», domanda mellifluo, sorreggendo un vassoio di drink color lavanda con bastoncini a forma di fiocchi di neve infilati nel bicchiere. «O cielo! Sono tutti viola», mormora Bea. La strattono. «No, grazie», rispondo al cameriere. «Preferirei dello champagne». China la testa con deferenza. «Mi permetta di servirglielo», replica e scivola via. Bea giocherella con l’orlo della sua minigonna a lustrini BCBG. «Non so mai cosa fare in questi casi», ammette. «Bevi», ribatto. «Mangia formaggio francese». Indico un tavolo strapieno di formaggi, olive e frutta. «O un dessert», accennando al tavolo di pasticcini, tartine e dolci. I camerieri volteggiano per la sala con piatti di stuzzichini dall’aspetto invitante: involtini di aragosta, fichi ripieni e tortine salate. Mi dirigo verso il tavolo dei formaggi e mi porto rapidamente alla bocca un assaggio di Chèvre. «Ma chi pensano che si mangerà tutta questa roba?», chiedo. «Sicuramente nessuna ballerina. Zoe è vegana, Daisy è tornata alla dieta della frutta, Adriana sta tentando quella cosa del cibo crudo e Lottie non ha ingerito un carboidrato in trent’anni». «La mangeranno i ragazzi». Bea indica dall’altra parte della sala. «Guarda Jonathan. Sembra che lo stia ammazzando, quel salame». Ridacchio e Jonathan, che indossa un completo grigio su misura e una cravatta avio, sta affettando un salame con la foga di un affamato. Alza lo sguardo e sventola la mano con il coltello verso di noi. «Ciao, ragazze», grida. «Sapete che vado pazzo per le tavolate di affettati. E se incrociate quel bel ragazzo con gli spiedini di gamberi, mandatelo da questa parte». Guardo in basso e noto un paio di calzini rosa shocking spuntargli dalle scarpe. Il cameriere torna con il nostro champagne e poi arriva Daisy trotterellando nel suo abitino a pois, che forse ha comprato nel reparto bambini di Macy’s. «Oh, ciao, belle», esordisce. «Avete visto Julie ballare la Fata Confetto? Mi ha proprio sorpresa stasera». «Sì, è stata grande», confermo. Julie è una ballerina principale ed è alta e forte, con gli occhi scurissimi, quasi neri. Ma a dire il vero, non l’ho vista per niente; ero impegnata a scrivere messaggi spiritosi a Jacob, per poi cancellarli e non inviarli. Il cameriere torna con un bicchiere di Ginger Ale per Daisy, perché è chiaramente minorenne. «Non posso», rifiuta con un sorriso radioso. «Troppe calorie!». Quindi si volta verso di me. «Hai sentito che Emma si è stirata un polpaccio? Starà fuori per un po’». «L’ho saputo», rispondo seria. «Era la mia sostituta, ricordi?» «Ah, già… dimenticavo che hai diritto alle serate libere». «Sì», ribatto irritata. «E adesso, a meno che Emma non si riprenda miracolosamente, cosa che non penso succederà, dovrò ballare in ogni spettacolo rimasto». Ed è sempre così. Per noi ballerine di fila, danzare Lo Schiaccianoci diventa un gioco di squadra, quando l’altra ballerina si fa male: le ragazze sane devono raddoppiare le proprie parti, finché anche loro non si fanno male e vengono sostituite a loro volta da altre che raddoppiano il lavoro, finché tutti si ritrovano ad avere il doppio o il triplo di parti che hanno di solito. Se non ti sei infortunata, finisci per essere esausta, stressata o completamente sfinita. Jonathan e Luke lo chiamano Lo Straccianoci, che trovo assolutamente appropriato. Un’anziana donna dall’aria gentile, con un abito da sera blu savoia di paillettes, cammina verso di noi e i gioielli che porta al collo brillano come luci di Natale. «Salve, mie care», saluta sorridendo con benevolenza a me e Bea. Zoe e Daisy stanno al banco del bar, forse perché il barista somiglia a un giovane George Clooney. «Tutto bene? Mi raccomando, fate come se foste a casa vostra». Annuiamo e sorridiamo. «Ho l’impressione che il corpo di ballo di quest’anno sia il migliore dal 1976», prosegue. «E che l’albero di Natale sembri più grande di quanto riesca a ricordare. Adoro il modo in cui si innalza dal palco». Sospiro e penso: Non ho avuto tempo per andare a una festa con Jacob e altri carinissimi ragazzi della nyu, ma ho il tempo per stare qui a parlare dello Schiaccianoci? Bea, che è la più cortese di tutte noi, replica: «Lo sa che quell’albero pesa una tonnellata?» «Davvero?», esclama la donna. «Ma è incredibile. Il Valzer della neve però resta il mio pezzo preferito». Tutti amano il Valzer della neve. O meglio, tutti quelli che non hanno mai ballato il Valzer della neve. Noi fiocchi di neve veniamo cosparsi da una pioggia di venti chili di pezzetti di carta bianca. Dopo ogni spettacolo questa “neve” viene spazzata per essere riutilizzata, così tutta la polvere e lo sporco, nonché gli orecchini perduti raccolti con la carta, ci vengono riversati addosso durante la performance successiva. La neve si insinua fin dentro i costumi e finisce in bocca e tra i capelli. È materiale ignifugo e ha il sapore di un pennarello. «Oh ma certo», sento dire Bea con cortesia. «Quella danza è molto popolare». Mentre Bea è occupata con la donna ingioiellata, io prendo qualche oliva e inizio a bere il secondo bicchiere di champagne. Sto valutando se trovare un angolino in cui sedermi, quando un ragazzo alto e ben vestito mi si para davanti. Si appoggia al muro e incrocia una caviglia dietro l’altra con fare casual. «Non sembri per niente contenta di stare qui», dice facendo un cenno verso l’intera sala. La sua voce è un baritono basso. «E stai facendo un pessimo lavoro di pubbliche relazioni». I suoi occhi scuri brillano quando ride. Rapidamente lo squadro dalla testa ai piedi, come farei se fosse un altro ballerino. Con la pelle abbronzata e una frangia scura che deve togliersi dagli occhi, è il ragazzo più attraente di tutta la sala. Indossa un vestito grigio antracite, apparentemente molto costoso, ma niente cravatta. Ha un sorriso sfolgorante, a cui non riesco a resistere, e gli sorrido a mia volta. «Sono Matt», si presenta. «Matt Fitzgerald». «Io sono Hannah», rispondo. Gli tendo la mano, ma anziché stringerla, avvicina le labbra e la bacia. «Piacere di conoscerti», sussurra. Matt probabilmente ha la stessa età di Jacob, ma le somiglianze terminano qui. Jacob appare proprio come uno studente universitario: indossa magliette vintage e pantaloni di velluto a coste, e non si rade certo ogni giorno. Matt al contrario sembra proprio un attore di Hollywood, o al limite il tipo di persona che fa shopping da Jeffrey e trascorre le vacanze in tutte le meravigliose mete europee. «Sono un fan accanito del Manhattan Ballet», confessa Matt. «Ti seguo sin da quando hai ballato nel laboratorio-studio dell’Accademia. Sei una ballerina straordinaria. Sul palco ricordi Grace Kelly». «Wow», dico arrossendo. «Ehm, grazie… è molto carino da parte tua». Tengo lo sguardo basso sul bicchiere di champagne. Come a tutte le ragazze, i complimenti mi piacciono, ma è quanto meno strano incontrare qualcuno che sembra ti conosca già. Matt poi continua a dire che non si perde mai uno spettacolo, tranne quando è a Parigi. In parole povere, è un ballettomane, che è come chiamiamo di solito i supporter fanatici. «Sto ogni sera in prima fila», aggiunge. «Caspita», ribatto. Un conto è dedicare tutta te stessa al balletto ogni singola sera. Un altro è guardare semplicemente, insomma consacrare gli occhi e le chiappe su cui ti siedi al teatro: questa è ossessione. Cerco di mettere da parte questi pensieri, però, perché sono contenta che sembri interessato a me; sono tanti i solisti e i protagonisti presenti con cui potrebbe parlare. «Una vera e propria dedizione la tua». «Prendo i miei interessi extracurricolari molto sul serio», replica sorridendo. «Beato te che hai tempo da dedicarci», sospiro bevendo un sorso del mio drink. «Io non ho nemmeno un momento per fare la lavatrice». Mi prende sottobraccio e mi conduce fino a un divano blu pallido, dove ci accomodiamo. «Hai bisogno di un assistente», suggerisce. Mi illumino al pensiero. «Un tirocinante!», ribatto. «Gli studenti delle superiori e i ragazzi del college non sono sempre in cerca di esperienza lavorativa? Potrei assumere una studentessa col massimo dei voti della Nightingale-Bamford. Potrebbe spolverare le mensole e mettere il bucato nella lavatrice». «Idea grandiosa», approva Matt. «E così maturerà esperienza del mondo reale nei campi del multitasking e della proattività. Potrebbe anche farti la spesa ogni giorno». «Certo, e se è davvero brava, può essere promossa a scrittrice delle lettere per mia nonna che sta in Florida». Matt ride. «E così non dovrà seguire le lezioni di scrittura. Visto? Abbiamo risolto i tuoi problemi». Sorrido mesta. «Magari». Matt si appoggia ai cuscini e incrocia le sue lunghe gambe. «Ehi, ho fatto il praticantato da un avvocato all’università e tutto quello che mi faceva fare era gestire le sue partite di golf». «Sembra gratificante», dico. Mi metto comoda sul divano. Di sicuro questa conversazione è molto più divertente di quella sulloSchiaccianoci con la vecchietta. Scuote la testa. «A dire il vero no, però ho ottenuto crediti all’università per farlo». Passa un cameriere con un vassoio di drink. «Sicura che non vuoi un Fata Confetto-Martini?», chiede. Scuoto la testa. «Devo lavorare domani. E poi, di solito, cerco di non bere cose che sembrano un minestrone di Fruit Joy». «Ammiro la tua dedizione». Matt fa un cenno al cameriere, che si allontana. Con lo sguardo trasognato, si schiarisce la voce prima di parlare. «Qualche volta quando balli, sembri sola sul palco, come se noi fossimo tutti lì a guardare soltanto te. Hai un’energia dirompente». Si china più vicino a me. «E da vicino sei persino più bella», aggiunge. Sebbene questo commento sia un tantino prematuro, sembra anche semplicemente dolce. «Sei stata più brava di Lottie in Division at Dusk», continua Matt. «Lei era fantastica, ma secondo me i suoi anni migliori sono passati. Sono convinto che riceverai parti più importanti nella stagione invernale». «Ehi, mi è venuta un’idea», propongo. «Perché non li fai tu i casting, al posto di Otto?». Ride. «Lo farei se potessi», risponde. Fa tintinnare il suo bicchiere contro il mio. Poi arrivano di corsa Daisy e Zoe. «Willem Dafoe sta nell’altra stanza», grida Daisy. «E anche Sarah Jessica Parker, che ha un vestito argentato, troppo fuori di testa. La fa sembrare un ghiacciolo». Daisy in pratica saltella per l’eccitazione. «È un Carolina Herrera», corregge Zoe con cognizione di causa. Indossa un abito rosso di raso con maniche ad aletta e un collo a cappuccio basso, cucito su misura (griffato, ne sono sicura). «Mia madre mi ha portato alla sua sfilata per la settimana della moda». Poi si accorge di Matt, e noto un bagliore nei suoi occhi verdi. Mette sempre quel poco di broncio. «Sono Zoe», si fa avanti tendendo la mano e scuotendo i capelli lucenti. Ma Matt non bacia la mano di Zoe, la stringe soltanto con educazione. E poi si volta verso di me. «Bene, ti prego di scusarmi», dice, incrociando il mio sguardo e sfiorandomi la spalla. «Devo andare a fare una chiacchierata con qualche membro del consiglio del balletto». «Chi era quello?», chiede Daisy guardandolo farsi strada aggraziato tra la gente. «Matt», rispondo. «Matt chi?», chiede Zoe. Faccio spallucce. Zoe gli squadra le ampie spalle dritte. «Avete visto il suo Patek Philippe?», domanda. «Il suo cosa?», chiedo. «L’orologio», spiega Zoe. «Vale almeno trecentomila dollari». Si blocca. «Gli hai chiesto il numero?» «No», rispondo dandole una gomitata. «Be’ dovresti», continua socchiudendo gli occhi. «Perché se non lo fai tu, lo faccio io». Daisy scuote la mano davanti a noi. «Pronto?! Chiudiamo il discorso sul tipo figo per un attimo? Ci sono attori famosi con cui parlare. Willem Dafoe è proprio un tappo e Sarah Jessica Parker ha i colpi di sole più incredibili mai visti». Si tocca i riccioli neri. «Pensate che mi starebbero troppo male i colpi di sole?» «Sì», ribatte Zoe senza un dubbio. A pochi centimetri da noi, la donna con l’abito blu scintillante continua a monopolizzare la povera Bea. Sento che parla del suo amore per l’opera e per il balletto, ma anche dei suoi recenti problemi di salute. «Sin da quando il signor Fitzgerald ha fatto fortuna nella finanza, è stato un così fedele sostenitore della compagnia», racconta. «Lui e i suoi ragazzi vengono quasi ogni sera! È un uomo tanto generoso, e poi non è meraviglioso il suo appartamento?». Quasi mi strozzo con una tartina di caviale. È questo l’appartamento in cui è cresciuto Matt? Avevo intuito che fosse ricco, ma non così ricco. Se ragionassi come Zoe, mi getterei tra le sue braccia. Ma sinceramente non saprei cosa pensare di Matt. Tutto quello che so è che sono stanca e la testa inizia a girarmi per colpa dello champagne. Mi chiedo se non sia il caso di andarmene a casa e basta. Poi Bea mi avvinghia il suo braccio pallido e lentigginoso intorno al collo. «Deck the halls with boughs of holly», mi canta in un orecchio. Ridacchiando, le do una spinta. «Andiamo a cercare il tipo con gli involtini di aragosta», propone. «Hai mai notato che le aragoste somigliano a giganteschi insetti rossi?», chiedo. «Vuol dire che non vuoi l’involtino?», domanda. «Ovviamente no. Che fine ha fatto la dieta della frutta in cui stava cercando di tirarti Daisy?», ribatto. «Si fotta», risponde. «È la stagione delle feste!». Più tardi, mentre sto per andare via, Matt tenta di convincermi ad andare con lui al Boom Boom Room, un bar all’attico dello Standard Hotel. «È passata mezzanotte», osservo. «Ti ricordi che ammiri la mia devozione? Ho già addosso il cappotto e la sciarpa intorno al collo, sono pronta per tornare a casa». «Certo, ma c’è un party con Chloë Sevigny», propone. «Dovresti conoscerla, è una tipa fortissima». Ma sono esausta, e domani sarà un’altra lunga giornata. E poi, nonostante il suo fascino, Matt non è Jacob, che cinque minuti fa mi ha scritto: Ti penso tanto via SMS. «Ti ringrazio molto, ma domani lavoro. E poi non so se sono il tipo da Boom Boom Room», gli rispondo. Matt sorride in modo naturale, ma noto uno sguardo di lieve sorpresa. Probabilmente è il tipo di ragazzo che riceve pochi rifiuti. «Dammi il tuo numero», dice sfiorandomi il braccio. «Okay, dammi il cellulare», rispondo sorprendendo me stessa. Non do il mio numero ai ragazzi di solito (non che in molti me lo chiedano). Ma c’è qualcosa in Matt che non posso ignorare. È un tipo esotico ai miei occhi: disinvolto e sicuro di sé, e la sua ricchezza gli calza a pennello come un abito invisibile ma cucito appositamente su di lui. E non posso fingere che il suo apprezzamento per me e la mia danza non sia gratificante. La capisce, completamente. Conosce l’arte e tutto il duro lavoro e la dedizione che richiede. Mi accompagna al taxi e consegna venti dollari al tassista. «Si prenda cura di lei», allunga la testa dal sedile posteriore per leggere il nome dell’uomo sul suo tesserino. «E intendo veramente cura di lei, Qusay Adnan». «Come ti pare», sento borbottare Qusay, che però annuisce ubbidiente. Poi Matt mi apre lo sportello e appoggia delicatamente le sue labbra sulle mie. Dura meno di un secondo, eppure mi pare di sentirlo in tutto il corpo. È come un breve elettroshock, non completamente piacevole, ma nemmeno spiacevole. Mi ha presa alla sprovvista e suppongo che mi si legga in faccia. Sorride. «Scusa», dice. «Non ho saputo resistere». Poi chiude lo sportello, e Qusay Adnan mette in moto il taxi. Chiudo gli occhi mentre ci dirigiamo a ovest verso il mio appartamento. Mi sento brilla e felice, e notevolmente confusa. La mattina dopo, l’ingresso del mio palazzo è invaso di palloncini rossi. Ce ne sono a dozzine, raccolti in mazzi, come boccioli di rose sotto steroidi. Attaccato alla mia buca delle lettere, trovo un bigliettino scritto con una calligrafia curata. Penso che tu sia stupenda. M. Sorrido e mi mordo un labbro. È così dolce; è terribilmente imbarazzante; e nessuno ha mai fatto niente di simile per me. [eBL 092] 11 Daisy si volta verso di me. «Palloncini!», esclama. «Due dozzine di palloncini rossi?». Arrossisco. Daisy è dotata di un inspiegabile superpotere quando si tratta di scoprire gossip. Credo che sia dovuto alla sua capacità di leggere letteralmente il labiale. Oppure, in realtà dipende dal fatto che è così minuta e discreta che non la si nota quando origlia. È stata lei la prima a mettere in giro la notizia della gravidanza di Lily. È stata lei a sostenere di aver visto Julia nella Mercedes di Otto, lui le teneva il braccio intorno alla spalla e lei affondava la testa nel collo di lui. Destinazione sconosciuta, ma ovviamente non lecita. Per lo meno questo sostiene Daisy. Quindi, naturalmente, ha saputo anche dei palloncini, benché io lo abbia raccontato esclusivamente a Bea. «Per la cronaca, comunque», mi riferisce mentre cuce un nastro alle scarpette da punta, «ho fatto qualche indagine e pare che Matt abbia mandato palloncini a Serena quest’estate e a Joanna l’anno scorso». Forse ha ragione, e non dovrei prendere troppo sul serio questo gesto eccessivo. Ma non voglio darle la soddisfazione di ammetterlo, forse perché, grazie a Caleb, lei ha più esperienza di me, nonostante abbia solo sedici anni. «Davvero?», chiedo serafica. «Grazie dell’informazione». Bea entra sovrappensiero dall’ingresso, sorseggiando acqua da una bottiglia gigante. «Comunque», attacca inserendosi nella conversazione come se per tutto il tempo fosse stata anche lei nel camerino, «che mi dici di Jacob? Io lo adoro!». «Non lo so», rispondo. «Lui vive nel Lower East Side. Vorrebbe che andassi ai suoi spettacoli, che sono sempre in posti tipo Brooklyn. È così carino… un’altra ragazza lo agguanterebbe senza perder tempo, mentre io me ne sto qui a ballare di nuovo il Valzer della neve». Daisy si avvicina allo specchio e si esamina i denti. «Zoe sostiene che Matt faccia proprio al caso tuo. È amico di Chloë Sevigny». Indica il muro del camerino dove ha incollato delle foto ritagliate da «US Weekly» che ritraggono celebrità mal vestite. C’è uno scatto poco lusinghiero dell’attrice in un abito da cocktail di pizzo, molto simile ai costumi di Alice nel Paese delle Meraviglie. «Interessante criterio per scegliere un ragazzo», mormora Bea. «Bene, signore, grazie mille per i suggerimenti in campo amoroso. Ma adesso prepariamoci per lo spettacolo, d’accordo? E abbandoniamo l’argomento». Si ammiccano l’un l’altra, ma decido di ignorarle. È giunto il momento del trucco di scena, un’operazione che ho sempre amato. Da bionda ragazza della porta accanto, posso trasformarmi in eccitante femme fatale dalle ciglia scure, con una tale velocità che persino mia madre stenterebbe a riconoscermi. «Va bene, come vuoi tu», concede Daisy lanciando un ultimo sguardo bramoso a Chloë. «Anche se… potresti almeno farmi avere il suo autografo». La ignoro mentre mi applico il cerone con una spugnetta umida e aspetto che mi penetri nei pori. Uso un piumino grande per applicare uno strato più spesso di cipria, di modo che il viso sia completamente bianco opaco. «Ma sai quello che dice Zoe degli appuntamenti», continua Daisy. «Tu sei una ballerina e devi avere contatti sociali. Perché perdere tempo dietro a uno studente universitario? I pedestri vanno all’università». Nel mondo del balletto usiamo la parola pedestre per indicare una persona normale. È in un certo senso dispregiativo, in particolare in bocca a Zoe. Guardo in faccia Daisy, con in mano il pennello del phard. «Uno: pensavo avessimo abbandonato l’argomento, e due: perché ripeti a pappagallo le frasi di Zoe?». Bea sogghigna. «Già, non è che lei rappresenti proprio un modello di comportamento». «Certo, la sua etica di lavoro è assurda», precisa Daisy. «Sta imparando Lasting Imprint, che Julie balla praticamente sempre, senza un motivo preciso, solo perché ne ha voglia». «Ma va?», rispondo cercando di sembrare disinteressata. Non voglio pensare a Zoe in questo momento. Reggo saldamente in mano il pennello del phard e creo il profilo con la cipria rosa, in modo da accentuare la mia struttura ossea. Poi applico l’ombretto marrone e viola brillante sulla palpebra superiore e lungo la linea ciliare inferiore. Accanto a me Bea si allunga per prendere pennelli e cipria. «Perché non vai a chiederlo a lei, l’autografo?». Ridacchio mentre disegno una linea con l’eyeliner nero liquido sulla palpebra superiore e aggiungo la matita scura sulla linea ciliare inferiore. Prendo il mascara e ne applico uno strato spesso sulle ciglia superiori e inferiori. «Molto divertente», dice Daisy, e Bea ride. Fisso le ciglia finte con la colla. Quest’ultima parte può essere particolarmente ostica; la prima volta che l’ho fatto, quando ero ancora una novellina, ho rischiato di incollarmi gli occhi. Ma ormai è diventata un’abitudine radicata. Infine, metto il rossetto color ciliegia, tolgo quello in eccesso con un pezzo di carta assorbente e, per ultimo, non certo per minore importanza, picchietto la bocca con il lucidalabbra. Non posso andare in scena se le labbra non luccicano. Fatto. Mi guardo allo specchio e siedo più dritta: una ballerina ricambia il mio sguardo. Dopo che anche Bea ha finito di truccarsi, scendiamo a indossare i nostri costumi del Valzer della neve e poi ci affrettiamo dietro le quinte per sbirciare sul palco. La festa di Natale è finita, gli adulti sono tutti a letto e Marie è rimpicciolita ad altezza topo. Deve difendere il suo amato Schiaccianoci dal perfido Re Topo e, così, lo colpisce con una delle sue scarpe per distrarlo abbastanza a lungo da permettere allo Schiaccianoci di ucciderlo. «Un altro giorno nella vita di una ragazza vittoriana», bisbiglia Bea. Poi la casa di Marie si apre in due e la neve scende giù dal soffitto. È regolare e fitta e cade tutto intorno alla protagonista, che indossa una camicia da notte e una sola scarpa. Mano nella mano con il suo Principe Schiaccianoci, vaga tra i boschi in silenzio, mentre la neve si appoggia tra i loro capelli e sui volti caldi. Le luci blu creano un’atmosfera notturna; la neve sembra raffreddare l’aria. Se riesci a dimenticare il sapore terribile di quella neve, lo spettacolo si trasforma in magia pura. Tra pochi istanti entro in scena. Aspetto nel buio delle quinte anteriori, pronta per la mia prima entrata. Stiro con le mani il tulle raggrinzito della mia gonna, aggiusto la corona tempestata di gioielli e infilo le dita nel tessuto filiforme dell’aggeggio simile a un ventaglio che porto su entrambe le mani. Alle estremità dei fili sono appesi pompon bianchi, che sembrano fluttuare nell’aria, seguendo i movimenti delle braccia. Mi lancio nella neve, con i piedi in punta davanti a me e piroetto in jeté all’unisono con le ragazze che mi stanno accanto. Immagino di essere un fiocco di neve che cade dal cielo: il vento mi sfiora e svolazzo velocemente di qua e di là. La mia traiettoria si incrocia con quella degli altri fiocchi di neve; talvolta sono più rapida, a seconda della velocità del vento. Ci muoviamo coordinate, invertendo la formazione, sauté, piroetta chassé, sauté, pas de chat, e poi ci precipitiamo di nuovo dietro le quinte. Un attimo dopo, torniamo sul palco in chaînés, come fossimo spinte dal vento. Quando ci accalchiamo tutte insieme nell’angolo in fondo, sento ansimare tutte le ragazze intorno a me. Potremmo anche sembrare fiocchi di neve, ma siamo persone in carne e ossa, che si affannano in cerca dell’ossigeno per respirare. Sorrido a Bea, che ricambia. Nonostante abbiamo ballato questa parte più di un centinaio di volte, c’è sempre qualcosa di magico nella neve e nella musica, ma soprattutto nel ballare insieme alle mie amiche. 12 È la vigilia di Natale, ma anziché tornare a casa a Weston e mangiare cinese a portar via con i miei genitori, aspetto che Bea esca dalla doccia per andare all’appartamento di Zoe. Sua madre sarà elegantemente alticcia o non ci sarà perché già invitata a un qualche party del jet set. Siamo libere solo domani, quindi la maggior parte di noi resterà in città. All’inizio pensavo che mi avrebbe fatto sentire adulta e indipendente, ma adesso più ci penso e più mi sento da schifo. Preferirei mangiare zuppa wonton con i miei e poi vagare in auto per il vicinato e vedere tutte le folli decorazioni di Natale. C’è un tipo, un isolato dopo casa mia, che sul tetto installa un Babbo Natale a grandezza naturale, più tutte e nove le renne. Voglio mangiare i pancake rossi e verdi che prepara papà la mattina di Natale e che, come puntualizza esplicitamente lui ogni volta, sono cucinati con spirito d’ironia. Per sentirmi un po’ meno sola, ho inviato un messaggio a Jacob: Buon quasi-Natale da un fiocco di neve operoso. Dopo un minuto mi risponde: Scempiaggini! Sono ebreo, ricordi? Rido. Il fatto che mi abbia risposto così rapidamente deve essere un buon segno. Anch’io. Per metà, diciamo. E amo il Natale. Pure io lo adoro. Non sai quanti Babbi Natale ho sui boxer. Davvero? Vieni a controllare? Ah ah. Pensato a quando uscire insieme? Ci rimugino da tempo. Forse un appuntamento (e niente più Pilates) è proprio quello che mi serve dopo il lavoro ingrato e faticoso dello Schiaccianoci. Digito: Settimana prossima? Ha! Declino io il TUO invito, stavolta. Sarò a Pr. Pr? Porto Rico, bella! CHE INVIDIA! Poi Bea esce dalla doccia, avvolta in un asciugamano che urla «Acapulco» a lettere cubitali. I capelli rossi le gocciolano formando piccole pozze sul pavimento. «Bello l’asciugamano», sfotto. «Sarebbe una di quelle robe tipo “Nonnina è andata in Messico e io ci ho guadagnato solo questo pidocchioso telo da mare”?». Sorride miserevole. «Come hai fatto a indovinare?». Il mio iPhone squilla. Dovresti essere gelosa PIUTTOSTO, scrive Jacob. E lo sono, digito. Ma ora devo andare. Buon viaggio. Bea tira fuori un maglione dal borsone. «Come hai fatto a prepararti così in fretta?», chiede. Faccio spallucce. Indosso un paio di jeans attillati, un maglione di mohair e un paio di stivali con tacco alto che ho trovato in un negozio di seconda mano del West Village. «Sono solo una persona efficiente. E adesso sbrigati che è tardi». «Uffa! Eccomi, eccomi», sbuffa chinandosi in avanti per tamponare i capelli con l’asciugamano. «Certe volte mi sembra che passiamo la maggior parte del nostro tempo a vestirci o a spogliarci», osservo. «Vorrei che ci fossero più ore nella giornata. Che ne so, magari ventotto». Bea mi rivolge un’espressione sconvolta. «Stai scherzando?», chiede. «Io sono talmente esausta alla fine della giornata che nonvedo l’ora di buttarmi sul letto». «Lo so. Ma io vorrei comunque un altro po’ di tempo, per essere una persona normale, capisci? Per esplorare nuovi mondi…». Dritta in piedi, Bea getta a terra l’asciugamano, si abbottona velocemente la camicetta e infila una gonna. «Ah, be’, se ti spacchi una caviglia, da domani potrai essere una persona normale». «Logica inoppugnabile», ribatto. Mi tocco la caviglia come a proteggerla. Nevica quando usciamo dal teatro, e io e Bea siamo costrette ad arrampicarci su un banco di neve grigiastro per chiamare un taxi. «Non ci posso credere», sento lamentarsi Bea. Do un’occhiata e vedo che il suo stivale è mezzo sommerso in una pozza ghiacciata. Il vento ci sferza le guance. «Andiamo, dài», dico, le afferro la mano e la tiro nel taxi in attesa, che è caldo e afoso come un forno. Ci dirigiamo a est verso la Quinta Strada, mentre alla radio suona una musica natalizia. Zoe abita in uno di quei palazzi in cui il portiere con guanti e berretto coordinati attende fuori dallo stabile, anche a temperature gelide. Ci saluta cordialmente augurandoci buone feste. «Non biasimo Zoe per non aver trovato un posto tutto suo», ammette Bea meravigliandosi ancora per il gigantesco e scintillante foyer. «Nemmeno io», ribatto. Sua madre non c’è mai e l’appartamento ha circa un milione di camere. Bea maledice le calze bagnate, quando le porte dell’ascensore si aprono. Ha le guance lentigginose arrossate per il freddo. «Ehi, belle, entrate». Sorride dolce Zoe. Indossa un semplice vestito rosso di lana con i collant e ha i capelli ancora legati in uno chignon dopo lo spettacolo. «Hai la neve tra i capelli», dice Bea togliendole un pezzo di carta dalla testa. Zoe sospira. «Ieri ne ho trovato qualcuno nel cassetto dell’argenteria. Quella roba si infila dappertutto». Bea si sfila gli stivali e le calze inzuppate, mentre io consegno la giacca a Gladys, la governante. Accanto al camino svetta un enorme albero di Natale, a cui sono appesi cristalli iridescenti e luci bianche. «Ti piace il nostro albero?», chiede Zoe seguendo il mio sguardo. «È stato pubblicato sulla rivista «New York». Mia madre ha assunto un’intera squadra di gente per progettarlo e decorarlo». Raccoglie un altro pezzo di neve di carta dalle calze. «Ma dico io», sbotta sospirando, «continuerò a trovarmi addosso questa roba per il resto della vita?» «Oppure finché non ti promuovono», suggerisce Bea. Il pechinese, il terzo di Dolly negli ultimi quattro anni, addenta i piedi di Bea. «Buono, Gucci!», grida una voce, e Dolly appare con un abito lungo nero, in mano un’ampia flûte di champagne. «Ragazze, siete così carine… Bea, non capisco perché i ragazzi non ti caschino ai piedi. E Hannah, avevo un paio di stivali identici ai tuoi una volta! Li ho dati in beneficienza a un negozio dell’usato qualche anno fa. Insomma, benvenute a tutte! Zabaione e biscotti sono sotto l’albero». Ci indica la direzione con le sue dita sottili e graziose, traboccanti di anelli con diamanti. Non so perché, ma mi chiedo se corrispondono a proposte di matrimonio o se li ha acquistati tutti da sé, quei gioielli. Gucci il pechinese ora cerca di leccare i piedi nudi di Bea. Tutto l’appartamento è coperto di neve di cotone e di cristalli pendenti. «Ma hanno svaligiato il Polo Nord», bisbiglio. Bea ridacchia divertita. «O una vetrina di Macy’s», concorda. «Senso dell’ironia: zero». Dalla sala da pranzo entra Leni, prende in braccio Gucci e agita la sua zampetta per salutarci. «Buon Natale, ragazze!», pronuncia con una voce canina tedesca. I capelli dorati le cadono ondulati ben sotto le spalle. Daisy esce dalla cucina reggendo un vassoio di biscotti e una casetta traballante di pan di zenzero che sembra stia per crollare da un momento all’altro. «Guardate cosa abbiamo fatto io e Leni con l’aiuto di Gladys!», mostra con finto orgoglio. Entrambe avevano la serata libera grazie alle sostitute e sembra che abbiano leggermente alzato il gomito. Per colpa dello strappo alla caviglia di Emma, io ho ballato in ogni spettacolo. E ho trovato neve di carta in quasi tutti gli indumenti che possiedo. Accolgo con esclamazioni di giubilo la dolce casetta come se fosse un raro manufatto. «Fa molto Frank Gehry», affermo indicando il tetto sbilenco. «Mio padre la adorerebbe. È un architetto». «Sarebbe perfetta per la collezione del Whitney Biennal», aggiunge Leni ridendo. «Assolutamente», concordo. Mentre vaghiamo nell’enorme soggiorno, noto che Dolly, in punta di piedi, si dilegua dalla porta anteriore in un cappotto rosa di cincillà. Nemmeno saluta sua figlia. Non capisco perché anche dopo così tanto tempo il suo comportamento mi infastidisca ancora, dovrei esserci abituata. Zoe sicuramente lo è. Io, Zoe, Daisy, Leni e Bea siamo tutte raggruppate intorno al camino e sorseggiamo zabaione. Gladys ci porta vassoi d’argento pieni di biscotti con la glassa, a forma di piccoli Gesù Bambino. «Non sono assurdi?», sussurra Bea mentre morde uno dei piedini. Sprofondiamo sui giganteschi divani foderati e guardiamo Miracolo sulla 34a strada sul televisore a schermo piatto, montato a parete, che quando non è acceso, sta nascosto dietro a un pannello che sembra un quadro di Jackson Pollock. Prima della fine del film, però, Zoe diventa impaziente. «Scambiamoci i regali!», esclama e così tutte ci mettiamo a terra, sedute in cerchio sui cuscini. Lo scambio di regali è stato un’idea di Leni; essendo più grande di noi, di tanto in tanto le piace comportarsi da mamma. Bea dà a ognuna bottigliette di sali da bagno, perfetti per i nostri corpi doloranti, soprattutto durante la stagione dello Schiaccianoci. Leni ci regala un barattolo di caramelle mou dalla Germania, Daisy ci distribuisce mini kit di lucidalabbra di Sephora e Zoe, che si può permettere di superare il limite di dieci dollari, ci regala portachiavi di Marc Jacobs. Io invece, con palline di polistirolo e piccole spazzole, ho fatto per tutte un ciondolo a forma di animale e li ho infilati in scatoline di legno, che ho comprato al mercatino di Columbus Circle. «Cos’è il mio?», chiede Bea tenendo in mano il suo regalo. Lo scruto. Onestamente, non è facile dirlo. «È una renna», rispondo raggiante. «Oh», esclama. «Troppo carino». Siamo impegnate a esaminare i nostri regali: Bea prova il lucidalabbra, mentre Daisy fa ciondolare il portachiavi nuovo davanti al naso di Gucci, quando entra Gladys con un vassoio di chow mein e pollo moo shu. D’un tratto mi rendo conto di non aver cenato e sono così contenta che salto in piedi e le do un grosso abbraccio. Mi dà un buffetto sulla guancia. «Avrei preferito un buon prosciutto glassato, ma Zoe ha insistito perché questo è il tuo piatto preferito», riferisce. Sono talmente commossa che mi precipito verso il cuscino di Zoe, mi ci lascio cadere sopra e le schiocco un bacio sulla guancia. «Buon Natale», dice, ridendo e spingendomi via per gioco. Ha ragione. È proprio un buon Natale. STAGIONE INVERNALE 13 «Eccoci di nuovo qua», esclama Bea mentre butta i vestiti puliti nel borsone. «Ancora nelle miniere di sale», ripeto allegra ciò che diceva spesso mio padre quando il lunedì mattina andava in ufficio presso un’impresa di architetti. Oggi è il primo giorno della stagione invernale. La notte di San Silvestro abbiamo ballato l’ultimo spettacolo dello Schiaccianoci, grazie al cielo. Poi abbiamo avuto due giorni di pausa, che non sono durati abbastanza per riprenderci. Per lo meno è stata una pausa lunga a sufficienza per una pulizia completa del camerino. Ora profuma di pulito e di pino e i nostri specchi non sono più segnati da impronte di dita e sbavature di trucco. La stanza si presenta più bella che mai, e mi chiedo quanto tempo impiegheremo per incasinarla di nuovo. Considerando che i body e i collant di Bea stanno già schizzando fuori dal suo borsone, per finire ammassati sul pavimento, scommetto che ci vorrà al massimo una quindicina di minuti. Sarà pure la più educata tra noi, ma di certo è anche la più disordinata. Daisy regge la bottiglia d’acqua per un brindisi. «Finalmente un po’ di vero repertorio!», grida. «Amen!», ribatte Bea mentre imbottisce una palla con un paio di scaldamuscoli. Sento vibrare il telefono: ho ricevuto un messaggio. Rovisto nella borsa per trovarlo e spero che sia Jacob. Ma non è lui, è Matt. “Merde” per il tuo primo giorno della stagione invernale! Merde, alla francese, è l’equivalente di «in bocca al lupo» per i ballerini. Sorrido tra me e me, e getto il telefono sul tavolo. «Allora, quali sono i vostri buoni propositi per l’anno nuovo?», indaga Daisy. «Io voglio entrare nei miei jeans taglia 38 a partire da marzo». Bea, serissima, dichiara: «Io voglio leggere Guerra e pace». «Buona fortuna, allora», rido. Mi lancia un’occhiataccia. «E perché mai? Perché tu non riesci a finire Frankenstein, che sono quasi certa stai tentando di leggere dall’estate scorsa?», ironizza. «Comunque, ho anche intenzione di trovarmi un ragazzo o almeno di andare a un appuntamento». «Su questo, sì, ti appoggio», le dico. « E comunque per tua informazione, ho letto già tre quarti del libro». «Zoe?», chiede Daisy. «E tu?». Zoe è impegnata a mettere in ordine tutti i trucchi che ha acquistato da Bergdorf. Alza lo sguardo. «Non credo ai buoni propositi per l’anno nuovo», risponde sorridendo allusiva. «Insomma, cosa potrei mai cambiare? Sono già perfetta così». «Potresti bere più acqua e meno Coca Light», suggerisce Daisy, «come ti dico sempre di fare. Questo sarebbe sicuramente un buon proposito. E potresti anche smettere di fumare». Zoe la deride mentre si prova l’ombretto blu su una palpebra. «Come ti pare», aggiunge evidentemente annoiata. Daisy si gira verso di me. «Han?» «Ehm», faccio restando in sospeso per qualche secondo. Il mio unico proposito per il nuovo anno è una promozione, ma non ho per niente voglia di annunciarlo in questa stanza. «Mangiare più verdure?», propongo. Daisy alza gli occhi al cielo. «È chiaro che solo io e Bea prendiamo sul serio questa cosa del nuovo inizio», sbotta. «Il dottor Shapiro sostiene che pronunciare ad alta voce le proprie intenzioni è un passo importante per manifestare i propri sogni». Il dottor Shapiro è il terapista di Daisy, da cui va sin da quando ha iniziato l’Accademia. Non conosco tante sedicenni con uno strizzacervelli personale a servizio, ma se avessi una madre folle come quella di Daisy, andrei anch’io in analisi. Bla, bla, bla, mima Zoe con la bocca e io non riesco a trattenere le risate. «Ah, ragazze», sbotta Daisy. «Non vi ho detto cosa mi ha regalato Caleb per Natale?». Sta letteralmente battendo le mani per la gioia. Zoe si china verso di me. «Davvero? Ma che, stanno ancora insieme? Pensavo che lei fosse solo una tappa verso Gaylandia». Soffoco il mio dissenso, mentre Daisy ci racconta dei vestiti che Caleb le ha preso da Barneys. Il telefono suona di nuovo:Pranzo preparato dalla Trattoria dell’Arte alla porta del palco. Buon appetito! Cavolo! Matt mi ha portato il pranzo, il che significa che oggi mangerò qualcosa oltre a yogurt e banana. Sono lusingata e compiaciuta, ma noto che qualcosa stride: non capisco se cerca di far colpo su di me o di farmi da balia. Invece di rispondere a Matt, invio un messaggio a Jacob, che sta ancora a Porto Rico per l’addio al celibato di suo fratello. Forza, raccontami: quanto ti stai divertendo? Fisso lo schermo in attesa di una risposta. Ma a quanto pare si diverte troppo per scrivermi. Quel pomeriggio io e Zoe entriamo nello studio insieme con Adriana, Olivia e un gruppetto di sostitute, che si trattengono in fondo alla sala. Siamo state convocate per studiare un nuovo pezzo di un coreografo ospite di nome Jason Pite. Ho sentito parlare di lui, ma non ho mai visto nessuno dei suoi balletti; si dice che sia una sorta di genio della coreografia. Zoe mi pizzica un braccio quando Jason entra in sala. È un ex ballerino, come la maggior parte dei coreografi, ed è alto, con i capelli rossicci e i lineamenti scolpiti. Cammina a piedi nudi e indossa un paio di pantaloncini da palestra verdi e una maglietta consumata con il colletto alzato e le maniche tagliate. Jason mi guarda dritto negli occhi e sorride. Mi coglie alla sprovvista e mi provoca un imbarazzante attacco di tosse. Zoe ride con eleganza e poi va in estasi quando lui si presenta con il suo affascinante accento australiano. «Ho assistito a una delle vostre performance lo scorso autunno», racconta Jason, «e mi entusiasma moltissimo lavorare con voi, gente. Che gruppo straordinario di ballerini. Ho pensato che potrei prima farvi ascoltare la musica e poi mostrarvi qualche passo a cui sto lavorando». La lingua di Zoe praticamente penzola fuori dalla bocca, quando Jason cammina verso lo stereo e mette su un CD. La musica è uno Scherzo da una sonata per piano di Beethoven; è rapida e vivace. Lui tiene il tempo con la testa e dopo qualche istante ci chiede di sparpagliarci nella sala. I movimenti che inizia a insegnarci sembrano molto più danza moderna che balletto classico. «Puoi spingere il tuo peso verso il basso?», chiede a Zoe, che gli fa gli occhi dolci. «Voglio che ti senta collegata con il suolo». Alcuni dei movimenti che ci mostra somigliano a una danza africana: separiamo le costole, scuotiamo il bacino e pieghiamo le ginocchia. Movenze brusche e rapide si alternano ad altre più languide. All’inizio mi sento completamente stupida e impacciata nel tentativo di imitarlo, ma poi la danza inizia a sembrare liberatoria. Non mi è mai capitato di muovermi in quel modo, e mi piace. Non ci solleviamo, né facciamo piroette, quasi tentando di sfuggire alla gravità, come durante il balletto. Ci buttiamo persino a terra! Sopra di noi, Jason sorride e annuisce. «Sì, tu», grida a gran voce indicando nella mia direzione. «La stai sentendo, ne sono sicuro». Alla fine delle prove, Zoe si avvicina, in affanno. Una ciocca bionda le si appiccica al viso sudato. «Pensavo mi sarebbe piaciuto, ma mi sa di no», bisbiglia. «E quegli ultimi cinque minuti a gesticolare come matti? Che cavolo era?» «Ma per favore, sei invidiosa perché ha detto che io sentivo la musica», la stuzzico. Prende un lungo respiro. «L’unica cosa che posso dire è che non uscirò mai con un ballerino di danza moderna. Non potrei mai rispettare una persona che ha dedicato la sua vita a rotolarsi per terra». «Ehi, almeno non è Lo Schiaccianoci». Ci dirigiamo verso il retropalco, dove ci cambiamo per la prova costumi. Sul palco Otto sta appollaiato su uno sgabello e fa cenni verso di noi per indicarci i posti per il Concerto per violino in Re, che eseguiremo stasera. Noi sedici ballerine di fila con body a bande siamo posizionate in file orizzontali, mentre Mai Morimoto si lancia in un salto in alto dopo un incredibile balzo al centro del palco. Otto approva annuendo quasi impercettibilmente durante la folle combinazione di Mai. I suoi capelli nero corvino le scivolano fuori dallo chignon e sembrano fluttuare nell’aria. Io e Zoe eseguiamo una serie di posizioni in fondo al palco e capita di trovarci accanto a questo punto del balletto. Abbiamo ballato questo Concerto così tante volte che possiamo anche chiacchierare tra un passo e l’altro, pur cercando di tenere serrate le labbra come ventriloqui, per non farci sgridare da nessuno. «Wow, l’hai visto? Mai è così intrepida», mormoro a denti stretti. «Zitta, mi sto concentrando», mi prende in giro Zoe. «Han, non sarebbe stupendo se ci affidassero il duetto di Temperaments? Impazzisco per quella parte», bisbiglia. Ci allontaniamo con un balzo e torniamo vicine in piqué. «Sai che Emma ha studiato il duetto da sostituta l’anno scorso», sussurra, «ma è ancora fuori gioco e Leah ha preso talmente tanto peso che dubito le chiederanno di impararlo». Gli spettacoli di Temperaments partiranno tra poche settimane, quindi inizieremo presto le prove. Spostiamo il nostro peso, poi con un piqué arriviamo in attitude e ci blocchiamo in croisé derrière. «Cioè, voglio dire, preferirei molto più fare un balletto classico che la robaccia moderna di Jason», ammette Zoe in posa con le braccia tese in avanti. «Rilassati!», sussurro. Contiamo fino a sei e poi ci inginocchiamo con la testa bassa, e in pratica quasi ci tocchiamo. Fortunatamente così riusciamo a chiacchierare più facilmente. «Ma sentila», replica. «La signorina perfettina, senti da quale pulpito viene la predica. Non è che quel musicista che ti piace tanto ha un’influenza negativa su di te?», In piedi affondiamo i fianchi in avanti e di nuovo spostiamo il peso. «Difficile che succeda», sbuffo. «Visto che non lo vedo da, diciamo, novembre». «Pensi a Matt allora?» «No!». «Be’, dovresti lasciare aperte tutte le opzioni», suggerisce Zoe. «Sono sicura che Jacob tiene spalancate le sue, se capisci cosa intendo». Guardo in direzione di Otto, ma la sua attenzione è tutta dedicata a Mai, il cui pallido incarnato ora brilla di sudore. «Cioè?», chiedo a Zoe. «Se è così figo come dici, avrà di sicuro un’altra ragazza da qualche parte». Me lo sono posto anch’io, il problema delle altre ragazze, ma sentirlo dire da Zoe è sconfortante. «Ah sì? Grazie tante per la fiducia». «Bene!», grida Otto, e la sua voce risuona in tutto il teatro vuoto. Io e Zoe ci blocchiamo, pronte a beccarci un rimprovero per aver chiacchierato tutto il tempo. Invece, Otto ci offre soltanto uno dei suoi mezzi sorrisi, il massimo che abbiamo mai visto, e ci invita a uscire dal palco. «Okay, grazie a tutti», aggiunge. Tocca il braccio di Mai con fare protettivo. «Risparmia qualcosa per stasera». Tornate nel nostro camerino, troviamo Leni in un angolo impegnata in una posizione yoga fuori di testa. È in equilibrio sulle mani e tiene i piedi poggiati dietro il collo. «Oddio, ma come riesci a fare una cosa simile?», mormora Zoe lasciandosi cadere sulla sedia. «Sembri un pretzel». «Apre i fianchi», spiega Leni con calma. Sprofondo a terra e poi mi siedo per stirare i flessori della coscia. Mi ripeto che devo smettere di preoccuparmi di Jacob, per concentrarmi sulla performance imminente e sulle prove di domani e del giorno dopo. Ma poi provo lo stesso a chiamarlo e questa volta mi risponde. 14 Il freddo è intenso fuori e sui marciapiedi sono ammassate montagnole di neve ormai ghiacciata. Mentre vado all’appuntamento con Jacob, il vento sferza con tale forza tra i palazzi che sembra quasi mi si insinui sotto i vestiti. Mi soffio il naso e sono sicurissima che stia diventando rosso acceso e gonfio. Siamo tutte raffreddate nel nostro camerino in questo periodo; il disordine sul pavimento ora include fazzoletti, bottigliette di spray nasale e involucri di sciroppo per la tosse, oltre ai soliti mucchi di vestiti e cuscinetti per i calli. Jacob ha detto che mi avrebbe aspettato sui gradini all’entrata del Metropolitan Museum of Art, e lo trovo poggiato al muro dell’imponente facciata dell’edificio, mentre sfoglia un libro. È tutto imbacuccato in un giubbotto da marinaio blu e una sciarpa che somiglia tanto a uno dei lavori di mia nonna. Il cuore mi balza in gola per un attimo, poi si assesta di nuovo. Jacob si china verso di me e mi bacia sulla guancia. «Quanto tempo che non ci vediamo», dice con un ampio sorriso. Gli rispondo sorridendo. «Allora, com’è andato il viaggio?». Jacob ridacchia mentre ci voltiamo per entrare. «Spero di non vedere mai più un’altra bottiglia di rum per tutta la vita. E soprattutto mi auguro di non dover assistere ancora a una versione karaoke di Cheeseburger in Paradise». Annuisco comprensiva. Mio padre suona Jimmy Buffett di tanto in tanto e quella musica mi provoca un impulso a seppellire la testa sotto il cuscino. «Prometto di non mettermi a cantarla all’improvviso», scherzo. Ma ne canticchio un paio di battute a bocca chiusa e Jacob scappa via piegato in due con le mani sulle orecchie. «Smettila, ti prego!», si lamenta e io non riesco a trattenere le risate. All’interno la grande sala è gremita di gente. Il suono delle voci risuona tra i marmi, un mormorio amplificato in un fragore senza parole. «Adoro il Met», sospiro. «Anch’io», concorda Jacob. «È tra i luoghi che più preferisco di Manhattan». «Ci sono venuta lo scorso agosto», racconto. «Prima della stagione autunnale. Sono stata ferma tipo un’ora davanti a Madame X. Sai, il dipinto di John Singer Sargent…». Jacob annuisce. «Certo, adoro Sargent». «Ho letto che Madame X, non mi ricordo il suo vero nome, era così capricciosa che in pratica non riusciva a stare ferma nemmeno per il suo ritratto. Sargent la definiva una donna dalla “bellezza irriproducibile e dalla pigrizia senza speranza”». Jacob ride. «Pigrizia! Tu non sai nemmeno che vuol dire, vero?». Scrollo le spalle. «Ehi, il lunedì dormo! Oggi per esempio, mi sono svegliata alle nove e mezza!». «Se questa è la tua definizione di pigrizia, il mondo dovrebbe affidarsi più spesso a persone pigre come te». Prendo sotto braccio Jacob mentre aspettiamo in fila per pagare l’ingresso. «Allora, dove vuoi andare?», gli chiedo. «Mi sembri il tipo da arte moderna». «Mi piacciono i miei Picasso e Duchamps», replica allungando una banconota da venti al cassiere. «Ma voglio portarti in un altro posto prima». «Spero non sia la sezione Armi e armature o l’ala degli arredi americani», suggerisco. Mi consegna un piccolo gettone viola, che aggancio al cappotto. «Perché davvero non sono interessata granché alle asce o ai tavolini di Tiffany». Do un’occhiata alla mappa del museo sul muro. «E spero che non stai pensando di portarmi a vedere le ballerine di Degas, perché credimi le conosco a memoria. Degas e le sue ballerine sono l’unica arte che una danzatrice conosce». «No. Aspetta». Tira fuori il cellulare e invia un SMS a qualcuno. Riceve un trillo di risposta, fa un cenno di assenso con la testa e mi prende di nuovo la mano. «Okay, dobbiamo sbrigarci». «Per andare dove?», chiedo mentre mi tira fin nell’ascensore. Ma Jacob non risponde; mentre entriamo, lui sorride, nient’altro. Quando l’ascensore si ferma, siamo all’ultimo piano del museo che, in confronto all’affollato ingresso di sotto, sembra un deserto. Nel corridoio, alle cui pareti sono appese fotografie in bianco e nero di uccelli esotici, riecheggia solo l’eco dei nostri passi. Una guardia sorveglia la porta del giardino sul terrazzo. «Ciao, Frank», saluta Jacob, e Frank, un giovane affetto da calvizie incipiente con un paio di occhiali radical chic spessi, ricambia con un cenno della mano. «Non capisco perché vuoi andare là fuori con una giornata come questa», dice Frank, «ma fatti tuoi, amico». Poi apre la porta con una chiave appesa a un anello e ci indica la strada. Jacob mette il piede fuori nella luce pallida e fredda del sole, e io lo seguo. La terrazza è vuota e spoglia, mi volto a guardarlo, chiedendomi perché mi abbia portato quassù. Se voleva aria fresca, tanto valeva restare sulla gradinata d’ingresso del museo. Cerca e afferra la mia mano, mentre ci dirigiamo al parapetto per guardare in basso verso Central Park. Lontano, sotto di noi, il terreno è marrone e cosparso di pietre. Gli alberi, con i rami nudi e grigiastri, sembrano gli scheletri della loro essenza estiva. «Mai stata qui prima?», chiede. Scuoto la testa con i denti che mi battono leggermente. Jacob fa un rumore sordo con la lingua e mi tira a sé; apre il cappotto e mi ci avvolge dentro per proteggermi dal vento. «E tu abiteresti qui da cinque anni?», chiede. «Immaginavo che non ci fossi salita quando era chiusa, ma proprio mai? Allestiscono tante mostre qui, quando il tempo è migliore: lo scultore Frank Stella o l’artista pop Claes Oldenburg. C’è addirittura un bar». Forse dovrei essere imbarazzata per il fatto di non aver frequentato il Met e la sua terrazza apparentemente favolosa, ma non riesco a pensare ad altro se non al calore che sento stando accanto a lui. Vorrei poter vivere tra le pieghe del suo cappotto per sempre. Mi ricorda il soffice velluto delle tende dietro le quinte. «Non ho mai molto tempo…», mormoro. Jacob sposta lo sguardo e fissa oltre gli alberi, poi torna a guardare me. I nostri visi sono così vicini che potremmo quasi baciarci. «Ti trovi sulla terrazza del più grande museo del mondo, ad ammirare il panorama della più grande città del mondo. È qualcosa per cui bisogna trovarlo, il tempo». La sua voce è tenera ma accalorata. Un brivido mi scuote, ma non saprei dire se è per il freddo o per la vicinanza a lui. «Vorresti per caso farmi la predica? Se è così, puoi anche smettere, perché sto cercando di trovare il tempo adesso». Jacob ride. «Allora, me ne prenderò tutto il merito», dichiara. «Perché è stata un’idea mia portarti qui». Con il braccio ancora intorno a me, mi accompagna in giro per la terrazza. «Mi piace questo posto, perché in inverno puoi vedere tutto. D’estate il parco non è che un mare impenetrabile di verde». Mi stringe la spalla con le dita e poi allenta di nuovo la presa. «Credo sia una questione di prospettiva. A giugno le cose sono più belle, ma a gennaio sono più chiare». «Sembra quasi una metafora per qualcos’altro», insinuo. Ride di nuovo. «Già, in effetti lo è. Ma non sono sicurissimo del significato che ha». Si passa una mano tra i capelli scuri. «E poi volevo impressionarti con la mia abilità di portarti di nascosto in un giardino sul tetto chiuso al pubblico». «Sono impressionata», lo rassicuro. Indica diversi palazzi dall’altra parte del parco: il Majestic, il Dakota, il Langham e il San Remo, tutti sulla Central Park West. Mi aspetto quasi una lezione di architettura (sicuramente me ne beccherei una se ci fosse mio padre qui), ma per fortuna Jacob non accenna affatto alle facciate neorinascimentali all’italiana o ai motivi artistici decorativi. «Sai, hanno sparato a John Lennon proprio fuori dal Dakota», spiega indicando al di là del parco. Anch’io ne so qualcuna sul Dakota, grazie a un documentario che ho ricevuto un anno per Natale/Hanukkah. «E Rudolf Nureyev ci ha abitato, nel Dakota», aggiungo. Penso ai suoi salti sullo schermo del mio televisore. Avrei tanto voluto vederlo danzare dal vivo, ma muovevo ancora i primi passi, quando è morto. «È stato uno dei più grandi ballerini di sempre». Restiamo in silenzio per un minuto. Alzo lo sguardo per vedere gli occhi azzurri di Jacob che cercano il mio volto. «Potrebbe sembrarti una domanda bizzarra, ma mi chiedevo… come fai a dedicare la tua intera esistenza a un’unica cosa? Devi essere totalmente devota». Faccio spallucce. «Il solo modo per riuscirci è darti completamente. È come le Olimpiadi, in un certo senso, ma lo facciamo ogni singolo giorno per tutta la vita». «Un unico obiettivo». Pensa per un momento. «Sei come il capitano Achab di Moby Dick, ma senza tutta la roba psicotica e malvagia». «Wow, grazie», replico. E faccio una nota mentale per aggiungerlo alla lista dei libri da leggere. «Il suo unico scopo, uccidere la balena bianca, lo condusse alla pazzia e alla fine uccise sé stesso e quasi tutto l’equipaggio», spiega Jacob. «Ah, ottimo. Sembra proprio il tipo di persona che voglio diventare». Ride e mi attrae ancor più vicino a sé. «Ma lo sai che io faccio anche altro, oltre a ballare», proseguo. «Per dire, io…». Mi sono cacciata in un vicolo cieco. Che altro faccio con costanza? Non mi viene in mente altro, se non scrivere nel mio diario. Raccolgo una foglia morta vagante e la sbriciolo. «Lascia perdere. Forse sono Achab». Jacob mi massaggia tutta la schiena con piccoli movimenti circolari. Dopo qualche istante, si rivolge a me sorridendo. «Penso che forse sei molto più attraente tu di Achab». Rido e gli do un pugno sul braccio. Piano, ma non troppo. «Hai fame?», chiede allegro. «Tantissima», rispondo. Lo prendo di nuovo sotto braccio mentre scendiamo in ascensore e attraversiamo le sale piene dei dipinti di grandi pittori europei. Indico un Goya che mi piace; Jacob mi confida che lui ama El Greco. Mentre camminiamo verso l’ingresso, dichiara assorto: «Non prenderla nel verso sbagliato, ma il mondo del balletto sembra un po’ una setta». Mi giro verso di lui. «In che senso?» Jacob sorride con incertezza. «Cioè, pensaci…», accenna. «Cosa? Solo perché si aspettano da noi un certo comportamento e il rispetto di regole severe e orari serrati? Insomma, siamo solo disciplinati». Tengo lo sguardo basso mentre procediamo verso la porta. Ma poi mi blocco e alzo gli occhi. «Anche se… Otto in un certo senso ci domina. Per dire, le sue parole in pratica determinano il corso delle nostre vite. E non possiamo mai fargli una domanda. Non conosco nemmeno una persona che abbia mai veramente parlato con lui. Quindi forse hai ragione». «Non intendevo dirlo in senso negativo», si giustifica Jacob. «Ah no? Lo intendevi in senso positivo?», rido. «Perché le sette d’altronde hanno un’ottima reputazione. Dài, fa niente. Se siamo una setta, almeno apparteniamo a una di quelle molto artistiche e nobili». Si unisce alla risata. «Siete una setta strabiliante», conclude conducendomi giù per le scale del Met. Ci dirigiamo a est verso Lexington Avenue per prendere la metro numero 6 diretta in centro. Il vagone è talmente gremito che veniamo separati dalla folla. Io resto incastrata tra un passeggino e uno zaino strapieno, mentre Jacob di fronte a me sta schiacciato contro la porta. Per un minuto, vorrei che somigliasse di più a Matt, che si sposterebbe solo in taxi, o magari in limousine. Ma poi Jacob mi sorride da un lato all’altro del vagone e un’ondata di eccitazione mi pervade. Quando il treno stride sui binari, lasciandoci nell’East Village, mi sembra che Otto e il Manhattan Ballet siano lontani mille miglia. Mi sento libera e leggera, eppure lievemente disorientata. Usciamo su Bleecker Street e ci incamminiamo verso un accogliente ristorante italiano sulla 2a Strada. «Questo è uno dei miei posti preferiti», dice Jacob. «Gli hanno dato un nome italiano. Si chiama Il Posto Accanto». La sala è piccola e appena illuminata dalle fiammelle tremolanti delle candele. Un grosso bouquet di fiori è posizionato su un bancone accanto ai vassoi colorati degli antipasti. Sul muro in fondo è appeso un lungo specchio che riflette le nostre figure; così noto che ho il naso rosso per il freddo. «Insomma, l’altra settimana ho suonato di nuovo da Gene’s», racconta mentre mi scansa la sedia. «Una canzone sui waffle?», chiedo per prenderlo in giro. Finge di indignarsi. «A dire il vero, ho iniziato un nuovo ciclo di canzoni che non ha niente a che vedere con la colazione. Parla di…», e fa una pausa, come se stesse scegliendo cosa dirmi. «Parla di sogni, in effetti. Può sembrare banale, ma non lo è, te l’assicuro». Poi mi guarda speranzoso e in attesa, come se la mia opinione fosse importante. Non sono abituata a questo genere di occhiate. «Mi sembra molto interessante», affermo. «Non vedo l’ora di sentirle». Per fortuna non accenna per niente al concerto da Pete’s Candy Store che ho perso, né a tutte le altre dozzine di inviti per spettacoli a cui non mi sono presentata. Una cameriera avvenente con il tatuaggio di un serpente sul polso ci porta i menu. Scruto le varie opzioni. Zoe mi ha istruito sulla tecnica corretta per ordinare la cena a un appuntamento. «Scegli qualcosa che non dia l’impressione che sei stata cresciuta dai lupi», mi ha consigliato. «Per esempio, dimenticati gli spaghetti». Allora sembrava un buon consiglio, ma adesso mi rendo conto che con Jacob non devo pormi troppi problemi. Ordino coraggiosamente fettuccine al salmone. Lui chiede un piatto di risotto ai porcini e poi si rivolge a me. «Veramente avrei scritto anche una canzone per te», ammette. D’un tratto mi sento avvampare e abbasso lo sguardo. Ho sempre voluto che qualcuno mi dedicasse una canzone. Trovatemi una ragazza che non desideri la stessa cosa! «Davvero?», riesco appena a bisbigliare. Una parte di me non ci crede fino in fondo. «Come si intitola?». E adesso tocca a lui arrossire. «Ragazza in tutù», risponde. Guarda fuori dalla finestra e si torce le mani nervosamente. Muoio dalla voglia di sentire questa canzone. Vorrei allungare la mano oltre il tavolo e stringere la sua, ma sono sopraffatta dalla timidezza. Alla fine riesco a trovare un filo di voce. «La adoro», affermo. Si volta a guardarmi. «Ma se non l’hai nemmeno sentita», dice sorridendo. «Be’ sì, certo voglio ascoltarla». Ho la gola secca, perciò bevo un sorso di vino. «In fondo, finora è andato tutto bene». «Ne sono contento», si compiace Jacob. «Potresti accennarne una strofa per me adesso», propongo. Perché voglio proprio saperlo: cosa dirà su di me? «Solo se tu danzi qualcosa per me adesso», risponde sarcastico. Scuoto la testa con veemenza. «Mai. Solo se fossi tra il pubblico dell’Avery Center». Da un lato ballare, a differenza di cantare, non si può praticare tranquillamente a tavola; dall’altro perché preferisco che il mio pubblico sia invisibile. «Cioè soltanto se indossi un tutù?», chiede Jacob. Sorrido. «Qualcosa del genere». Per un momento la sua attenzione viene sviata dal piatto di spaghetti servito ai nostri vicini di tavolo. «Ti ho mai parlato di Paulo?», domanda all’improvviso Jacob. «Gli spaghetti mi ci hanno fatto pensare». Scuoto la testa. Allora inizia a raccontarmi del doposcuola in cui lavora nella zona spagnola di Harlem e di un ragazzo di nome Paulo che lo segue come un’ombra. Paulo si caccia sempre nei guai per un motivo o per un altro, e sembra che si diverta moltissimo a creare problemi. «Una volta», racconta Jacob, «ha preso uno degli spaghetti che si era messo da parte a pranzo e se l’è infilato per intero su per il naso». «Bleah!», esclamo. Jacob mette avanti la mano. «Aspetta e non è mica finita. Non si capisce come, un’estremità gli usciva dal naso e l’altra dalla bocca. In pratica era come se si stesse passando un filo interdentale di spaghetto nella gola». Mentre rido per quest’ultimo particolare mi sfugge un grugnito. Imbarazzata, mi guardo intorno come a individuare da chi è partito quel rumore. «Cos’era?», sorride Jacob. «Non credevo fossi il tipo che grugnisce». E si allunga per farmi il solletico. «Non so di cosa parli», replico indignata. «È stato il ragazzo dietro di me!». Improvvisamente mi ritrovo a dover soffocare disperatamente la ridarella e a contorcermi, nel tentativo di schivare le sue mani. Alla fine desiste, e posso riprendere fiato e rilassarmi sulla sedia. I nostri sguardi si incontrano. Senza preavviso, si avvicina alla mia parte del tavolo e mi prende il viso tra le mani, chinandosi verso di me. Oh mio Dio, sta per baciarmi, penso. Avverto un’attrazione fisica, quasi magnetica verso di lui; chiudo gli occhi. Una piacevole attesa che dura appena un millisecondo e poi le nostre labbra si toccano. Mi sorprende la sua bocca morbida. Una scarica di energia mi attraversa tutto il corpo e sento freddo e caldo allo stesso tempo. Mi sembra di avere la febbre, ma è una sensazione di indescrivibile dolcezza. Un momento dopo Jacob si tira indietro e si mette a sedere, con gli occhi azzurri luccicanti. Voglio che mi baci ancora, ma la cameriera sta in piedi dietro il nostro tavolo. La sua espressione non tradisce reazioni riguardo alla nostra dimostrazione d’affetto in pubblico. Suppongo che sia stata testimone di eventi ben peggiori oggi. «Il pane», annuncia. Lascia scivolare tra noi un cestino di focaccia al rosmarino fumante, si gira e scivola via. Tengo lo sguardo basso sul pane. Ma all’improvviso non ho più fame. Voglio solo che Jacob mi baci ancora. 15 «Che ne dici? Il body di Zoe è abbastanza sgargiante?», sussurra Bea mentre cerca di lisciare un ciuffo rossiccio ribelle. «Sembra un evidenziatore». «Perché tu-sai-chi fa lezione stamattina», le rispondo bisbigliando. Quando Otto tiene la lezione di gruppo, si fanno vivi tutti, e ci ritroviamo a essere un centinaio. Parte una gara matta per assicurarsi la posizione migliore: chi riuscirà a intercettare l’esatta visuale di Otto? Chi si ritroverà invece in fondo, niente più che una forma semivisibile che agita le braccia per farsi notare? Daisy si piazza vicino al pianoforte, dove di solito l’insegnante mostra i passi, e Zoe si posiziona accanto a Lottie, la cui caviglia è ormai guarita. Tutti restano in body e collant, quando Otto si trova nei paraggi. Lui considera «spazzatura» il resto dei vestiti. Alle dieci e mezzo, ognuno è al suo posto alla sbarra. Io sto più o meno al centro, accanto a Bea, che ha arrotolato i capelli sopra le orecchie come la principessa Leila (questa acconciatura le conferisce un’aria graziosa, in un certo senso). Pur claudicante, Otto conserva una certa grazia felina e una sottile malevolenza. Indossa un paio di jeans stretti e una camicia increspata, come al solito. E per non smentirsi, si porta dietro anche una bottiglia di Evian. Non l’ho mai visto senza; penso che beva persino più di Daisy. Dopo quindici minuti dall’inizio della lezione, rivoli di sudore mi scorrono lungo il petto, inzuppandomi il body rosa chiaro. Mi bruciano i muscoli della schiena e le gambe iniziano a pulsare. Bea ha un’espressione corrugata sul volto lentigginoso, mentre si concentra sulla combinazione. «Non pensateci, fatelo», sbraita Otto. Non vuole che lavoriamo troppo di mente la coreografia, perché talvolta è meglio buttarsi e basta. Ma oggi i muscoli mi fanno male e so benissimo che sta girando per tutta la sala, analizzando la nostra linea, la nostra devozione. Che stia forse cercando a chi assegnare le parti di un nuovo balletto? Oppure vuole trovare danzatori sacrificabili? Chi sta attirando la sua attenzione? Chi si sta guadagnando la sua approvazione? Decido di impegnarmi al massimo per tenermi fuori dall’orda di corpi che si muovono in sincronia. Durante gli esercizi a centro sala, prendo posto davanti, dove solitamente stanno Daisy e Zoe. Avverto le loro occhiate su di me, ma le ignoro. Al momento dell’adagio, creo resistenza tra gli arti e controllo ogni fibra muscolare mentre con un développé passo in arabesque. In promenade fisso lo sguardo oltre la punta delle dita, incrociando le occhiate della massa colorata di danzatori che mi sta dietro. Con il grand allégro da un lato all’altro della sala, amplio i movimenti e cerco di superare nei salti non solo le altre ragazze, ma persino i ragazzi. Posso solo sperare che Otto lo noti. Ho cinque minuti per mangiare una banana e cambiare le scarpette prima delle prove per Pas de Trois. Ho ancora il fiatone per la lezione, quando entro in sala. Zoe sta già accennando la coreografia (arriva sempre in anticipo negli ultimi tempi) e Daisy si tiene stretta la bottiglia d’acqua, mentre rotola il polpaccio su una palla da tennis. Mi tolgo i vestiti che coprono il body solo quando Annabelle Hayes arriva e poggia il suo caffè sul piano. Tutte e tre prendiamo posto. Nella precedente prova di questo balletto, mi hanno assegnato la posizione centrale nella formazione, con Zoe e Daisy ai lati. Nessuna delle due ha proferito parola in merito, ma scommetto che per loro questo vuol dire che sono considerata la ballerina preferita. «Partiamo dall’inizio», ordina Annabelle con un’occhiata al pianista, mentre si sposta nella parte anteriore della sala. Con un arabesque tombé Zoe e Daisy si allontanano da me, mentre io con un arabesque raggiungo la parte anteriore della sala. Un attimo dopo Annabelle batte le mani per fermare il pianista. «Terribile, ragazze! Non vi guardate neanche tra di voi», ci sgrida aggrottando la fronte. Fa’ un cenno al pianista e poi a noi. «Di nuovo». “Terribile” non significa nulla, è solo un aggettivo. L’ho sentito dire altre volte in precedenza e ne sentirò altrettanti prima che la stagione finisca. Ma “di nuovo” è un comando: richiede una reazione, cioè la totale obbedienza. Torniamo alle nostre posizioni e il pianista attacca a suonare. Questa volta cerco maggiore contatto con le altre danzatrici. Annabelle annuisce, sebbene mantenga la sua espressione corrucciata. Ha danzato nel corpo di ballo per tanti anni, perciò sa bene quanto sia dura. Cerca di prepararci al meglio (malgrado i tempi di prova ristretti), assicurandosi che conosciamo la coreografia e i conteggi, ma anche facendoci ripetere i balletti mille e più volte, in modo che possiamo raggiungere la resistenza sufficiente per lo spettacolo. «Okay, meglio», giudica Annabelle quando completiamo la coreografia. «Ripetiamo dall’inizio, ma stavolta rivolte verso lo specchio». Mi pare di sentire Daisy sospirare. Non appena iniziamo a ballare, mi rendo conto di quanto sono stanca. Sento le gambe appesantite e mi sembra di non riuscire a mandare abbastanza aria nei polmoni. «Va bene, ragazze, cinque minuti per bere», comunica Annabelle e tutte tiriamo un sospiro di sollievo. Esco nel corridoio per prendere aria; le gambe sembrano fatte di gelatina. Jonathan passa di lì e mi saluta con un cenno della mano. Sollevo due dita in risposta, più di così non riesco. Mi tampono il sudore sul collo con un asciugamano e mi poggio per qualche secondo sul muro freddo in mattoni cinerei. Zoe si affaccia fuori dalla porta dello studio. «Tutto bene qui? Annabelle dice che dobbiamo fare il finale». Le sorrido arcigna. «Benissimo», rispondo. «Sono pronta». E in qualche modo ce la faccio. Finita la prova, una volta raccolte tutte le nostre cose per andare via, Annabelle mi fa un cenno. «Hannah», chiama, «potrei parlarti un minuto, per favore?». In realtà la sua non è una domanda. E di rado si tratta di buone notizie quando un insegnante di danza ti richiama, così mi avvicino circospetta mentre mi tampono con la felpa il sudore su collo e petto. Una piccola parte di me spera che abbia notato quanto ce la stia mettendo tutta. Che stia per porgermi un raro complimento? Annabelle, che è minuta e simile a un uccellino, con un taglio carré corto e severo, posa la mano sui tasti bianchi del pianoforte e suona tre note alte atonali, plin plin plin. Mi punta contro il suo naso sottile a punta; è secca e pungente come un cardo. «Hannah», inizia, «sei ingrassata. Bisogna prendere provvedimenti». Plin. Il piano suona un’altra volta, come un punto esclamativo alla fine della frase. Poi nella sala cala il silenzio. Me ne sto lì, di sasso e atterrita. Guardo oltre la testa di Annabelle per vedermi nello specchio. Devo evitare di poggiare le mani sui fianchi o di coprirmi il petto. «Prima che Otto dica qualcosa», prosegue Annabelle, «devi perdere peso nella zona del seno». «Cosa?» «Non voglio che ti sostituisca in Momentum», aggiunge. Storce le labbra, in attesa di una mia risposta. Momentum è un balletto notoriamente e spietatamente esibizionista, danzato in body bianco e collant rosa. Lo stiamo già provando. Non ho parole, così Annabelle continua. «Se fossi in te, proverei a indossare dell’intimo». «Intimo», ripeto. Ho le guance roventi per l’imbarazzo. Il mio corpo si riflette nella parete a specchi e all’improvviso non vedo altro che curve e abbondanza. Annabelle annuisce seccamente, mentre scosta dalla fronte la frangetta del suo elegante carré castano. Intende un reggiseno, chiaramente, qualcosa che nessuna ballerina userà mai per mancanza di materia prima. «Certo, dell’intimo», ribadisce. «Qualcosa che fasci…». E accenna al suo seno inesistente. «Hai capito». Poi prende la sua borsa, fa un altro cenno con la testa verso di me, si volta e lascia la sala. Quando se n’è andata, riesco ancora a sentire la debole traccia del suo profumo; ha lo stesso odore dei sacchetti di lavanda che mia madre tiene nell’armadio della biancheria e la familiarità del profumo acuisce la mancanza della mia famiglia, tanto da indebolirmi le ginocchia. Mi sento come se qualcuno mi avesse appena dato un pugno nello stomaco. Alla fine esco dallo studio, con la testa che mi gira. Se qualcuno mi chiedesse cos’ho, scoppierei a piangere. Perciò, anziché tornare in camerino, preferisco prendere l’ascensore e scendere fin nel seminterrato, dove sta il negozio dei costumi. Un orribile pezzo di stoffa funge da porta del locale; sembra che qualcuno abbia sparato a un divano degli anni Settanta e poi lo abbia scorticato e abbia appeso la sua pelle ad asciugare. Lo scanso frettolosamente. Sbircio dentro e intravedo Bernadette, una delle tre sarte, e sento che posso respirare di nuovo. È sempre stata molto dolce con me, al contrario di Helga, la costumista. Lei saprà cosa fare, mi rassicuro. «Ehilà, signora, ho bisogno del tuo aiuto», saluto. Un tremolio mi scuote la voce. Bernadette, che ha un viso tondo e gentile e una parrucca sull’arancione leggermente sbieca, alza gli occhi dal corpetto di un costume. Sta cucendo un cordoncino nero sul raso marrone. Una montagna di tulle giace ai suoi piedi. «Dimmi tutto, tesoro». Ha una voce calda e materna. Avvicino la bocca al suo orecchio e bisbiglio: «Mi aiuti a trovare qualcosa che mi faccia sembrare più piatta?». Mi indico il petto e arrossisco di nuovo. Bernadette sorride cortese. «Ah, mia cara, posso fare persino di più. Te ne farò uno speciale…». Anche lei sembra avere grosse difficoltà a pronunciare la parola reggiseno. Ancora una volta, sento le lacrime pronte a sgorgare. Invece sorrido soltanto e le poso una mano sulla spalla paffuta. «Davvero? Che sollievo. Ti pagherò, ovviamente». Bernadette con un cenno della mano rifiuta la mia offerta. «Sarà un piacere», conclude. Nella privacy del mio appartamento, quella sera, mi analizzo il corpo nello specchio lungo, appeso alla porta della mia camera. A parte il petto, il mio corpo è sodo e tirato, quasi duro da toccare. Per chiunque venga da fuori, per un pedestre, sono magra e flessuosa, senza nemmeno un grammo di grasso in più. Ma nel mondo del Manhattan Ballet, la mia linea a quanto pare è inaccettabile. È talmente ripugnante, d’altronde, che Otto potrebbe togliermi la parte, per proteggere il pubblico dal vedermi in body bianco. Distrutta, piombo sul letto. Dopo qualche minuto a poltrire, prendo il telefono e chiamo Bea, che però non risponde. «Bea, dove sei?», piagnucolo al telefono. «Chiamami». Faccio una pausa. «Anzi no, è tardi. Vabbe’, ci vediamo domani». Mi butto sul letto e affondo il viso nel cuscino. Sapevo che gli standard fisici del Manhattan Ballet erano severi, ma non avrei mai creduto di venire scartata perché mi è cresciuto il seno. Insomma, prima o poi avrei dovuto attraversare la pubertà; è biologico e ineluttabile! Ma il motivo per cui si prende peso non ha importanza per Otto; conta solo il fatto che succeda. Mi dovrei mettere a dieta adesso? Non è che mi strafoghi di caramelle tutto il giorno: mangio piccole barrette proteiche, cibi altamente energetici e bevo litri e litri d’acqua. Che cosa potrei eliminare? Non lo so, ma devo inventarmi qualcosa, perché Momentum sarà in scena tra solo una settimana e mezzo. [eBL 092] 16 «Sempre la stessa merda, trita e ritrita», si lamenta Bea scaraventando gli scaldamuscoli nel borsone. «Dimmi, dimmi», ribatto. È febbraio e Sammy Gordon, il responsabile di segreteria del Manhattan Ballet, ha appena affisso un nuovo casting per la stagione invernale e noi danziamo gli stessi ruoli nel corpo di ballo che abbiamo eseguito negli ultimi tre anni, insieme con i principianti e i ballerini di fila al primo anno. Mi brontola lo stomaco e do un grosso morso a una mela. Ho saltato la colazione, ma poi durante la prova di La Mer ho iniziato a tremare. «Che devo fare per farmi notare da loro? Devo mettermi i neon intorno a polsi e caviglie?», chiede Bea con il volto lentigginoso bianco per la rabbia. «Be’, a stagione inoltrata verranno fuori altre parti», suggerisco. Cerco di prenderla con filosofia, nonostante sia demoralizzata. «Dài, metteranno altri casting tra una settimana o due». Corrucciata Bea si sistema i capelli in trecce alla Pippi Calzelunghe. «Hai ragione, però… Perché ballo ancora con Daisy? Senza offese, Daze». Daisy ci riflette per un istante. «So di essere giovane», ammette. «Ma anch’io voglio parti migliori, sai». Rovista nel borsone in cerca di un pacco di tortillas, lo tira fuori tenendolo stretto nel suo piccolo pugno. Fissa con rabbia le informazioni nutritive sulla confezione e alza lo sguardo verso di noi. «Vado a chiamare il dottor Shapiro», conclude. Esce e sbatte la porta dietro di sé. Di botto, mi alzo e mi piazzo davanti a Bea. «Secondo te sono ingrassata?», chiedo. «Ma che dici? Sei impazzita? Stai una favola, Hannah», risponde Bea fissando una treccia con un elastico. Le spingo il ginocchio con la punta dei piedi. «Ma se nemmeno mi stai guardando». Solleva la testa e sorride. «Okay, ora ti guardo». «Allora», inizio. «Annabelle sostiene che Otto potrebbe togliermi la parte in Momentum, se non perdo un po’ di seno». Sento salire le lacrime solo per averlo detto a voce alta. «Perciò ti ho telefonato ieri sera». «Ma è un’assurdità!», strilla Bea e io la zittisco, sebbene non ci sia nessuno nella stanza. «Ma per favore!», prosegue, a voce più bassa stavolta. «Non sei mica una spogliarellista di Las Vegas o roba del genere». Bea ha ragione, ovviamente: di certo non sono prosperosa. Ma tutte le mie amiche sono abbastanza minute da infilarsi in top e reggiseni da palestra, mentre all’improvviso io ho bisogno di un aggeggio speciale per comprimermi le tette contro la cassa toracica. Frustrata, strappo via l’elastico dalla coda di cavallo e lo lancio sul tavolo. «Mi ha detto di perdere peso sul seno! Com’è fisicamente possibile farlo? Ah sì, dirigerò le calorie come un vigile verso le estremità e le scaccerò dal petto!». Le lacrime iniziano a rigarmi le guance. «Be’ le tue curve sono più decise di prima», afferma Zoe materializzandosi sulla porta. Impugna un pacchetto di sigarette in una mano e una Coca Light nell’altra. «Cavolo, grazie Zoe», ribatto. «Il tuo sostegno è molto significativo per me». Mi fa imbestialire che abbia ascoltato questa conversazione. «Prova a eliminare i farinacei», propone. «Oppure puoi iniziare a fumare. Vado sul tetto. Mi segui? E tu, Bea?». Entrambe scuotiamo la testa. «Non se ne parla», risponde Bea. Quando Zoe se n’è andata, mi rivolgo a Bea. «Seriamente, ti sembro ingrassata?». Scuote la testa con veemenza. «Non dire cretinate. Hai una linea stupenda», dice. Un attimo dopo prende il «Life & Style Weekly» che Daisy ha lasciato sulla sedia. «Oh cielo! Britney, ancora erroracci di moda». Vorrei abbracciarla e prenderla a calci allo stesso tempo, per aver cercato di farmi sentire meglio e per avermi mentito. Qualche giorno dopo, sulla mia postazione in camerino trovo un pacchetto anonimo, avvolto in carta marrone. Contiene un reggiseno color carne, in tessuto a rete fitta, intrecciato a maglia strettissima. Lo porto in bagno, perché non voglio che le ragazze sappiamo che mi serve questo arnese. La porta di fronte a me è il muro della chirurgia plastica malriuscita di Daisy, dove sono appiccicate dozzine di foto di celebrità hollywoodiane, che cercano di diventare tutte più procaci di chi hanno accanto, con lo zampino di costosi chirurghi plastici. Non apprezzo granché l’ironia della mia posizione, faccia a faccia con tutti quei grossi seni. Guardo di traverso Heidi Montag, mentre mi infilo il reggiseno con qualche difficoltà e tiro su il body. Torno nel camerino e mi guardo allo specchio. Il reggiseno è perfetto. Praticamente invisibile sotto gli indumenti da allenamento, mi stringe il seno contro il corpo. Non sembro certo piatta, ma almeno più piatta. Potrò indossarlo durante le lezioni e le prove, e sotto i costumi finché resta invisibile. Sospiro sollevata e mi lascio cadere sulla sedia. Subito dopo mi squilla il telefono. «Allora, pronta per il film di Fellini domani?», chiede Jacob. «Sto lavorando sui miei verbi in italiano». Il cuore mi sussulta quando sento la sua voce, ma poi ripiomba al suo posto quando mi rendo conto di quello che devo dirgli. «Jacob, a dire il vero, non ce la faccio più per domani», ammetto. «Mi spiace. Qui impera di nuovo la follia». Perché devo perdere peso sul seno, penso. E mi immagino questa situazione assurda di un paio di tette su un tapis roulant, che quasi mi fa venire da ridere, ma poi mi deprime di nuovo. «Ma lo sai che mi fai sentire respinto?», esprime Jacob. Noto ironia nella sua voce, e anche un filo di confusione. Mi schiaccio il telefono tra spalla e guancia, mentre cerco la bottiglia d’acqua sul fondo del mio borsone. «Devo prepararmi per questo balletto imminente. È una cosa piuttosto grossa», preciso. Non posso spiegargli l’improvvisa necessità di frequentare corsi di Pilates e di Bikram yoga nelle pause e poi di allenarmi sullo step per un’ora prima dello spettacolo di stasera, perché altrimenti sembrerei un caso patologico. Soprattutto per un ragazzo i cui impegni effettivi sono quattro corsi universitari e un lavoro part-time al doposcuola. «Okay, ho afferrato il concetto», conclude. «Non c’entri niente tu», dico onestamente. «Non ci sono concetti da afferrare». Trovo la bottiglia e faccio una lunga bevuta. Con l’altra mano stringo il telefono, come se strizzandolo riuscissi in qualche modo a far capire a Jacob quello che intendo. E un pensiero mi attraversa la mente, per quanto preferirei che non lo facesse: se uscissi con un altro danzatore, niente di tutto ciò sarebbe un problema. Oppure, e qui parte la voce di Zoe, se uscissi con Matt. «Pensavo che la settimana scorsa ci fossimo divertiti. Che significano questi messaggi contraddittori?» «Ma pensi che io voglia chiudere con te? Perché proprio non mi passa per la testa». Jacob ribatte in tono di scherno. «Sì, direi proprio che vuoi mettere un punto alla cosa». «Ok. Mi serve solo un po’ di tempo, d’accordo?», imploro. «I miei amici dicono che dovrei lasciarti perdere, e inizio a credere che abbiano ragione. Forse dovrei frequentare qualcuno della NYU e basta. Qualcuno che abbia più tempo…». «Jacob, ascolta, tra una settimana o due le cose si calmeranno un pochino», gli spiego. «E allora, potremo guardare certamente8½, o qualsiasi altro film di Fellini vuoi vedere». «Va bene, va bene», chiude. La sua voce è ancora irritata, comunque, e capisco il perché. Anch’io sarei arrabbiata, se fossi in lui. 17 Nella pausa pomeridiana scendo in ascensore fino al palcoscenico buio per prendere la felpa che ho lasciato lì dopo le prove. Vado di fretta e noto a stento Mai, in piedi nella parte anteriore del palco, con indosso un body bianco con bretelle sottili e una gonna di chiffon grigio pallido, che muove le braccia in un arco straordinariamente aggraziato. Mai è la rockstar del Manhattan Ballet. Non è la classica star, ma una vera rockstar: ha un carattere selvaggio, al limite. Ha anche i capelli più lunghi e più neri che io abbia mai visto, e chi la incontra per strada, potrebbe scambiarla per una dodicenne con una madre allergica ai parrucchieri. Ma sul palco è assolutamente magnifica. Radiosa. Il suo incarnato pallido sembra quasi brillare sotto i riflettori. Mai è incredibilmente magra e per Otto rappresenta il modello di fisico ideale per una ballerina. Pare che mangi solo una volta al giorno, e comunque solo cibi bianchi. Guardandola, non fatico a credere alle dicerie, per quanto non mi piaccia. La guardo mentre inizia a danzare. Sicuramente crede di essere sola. Solleva le braccia e poi cade dopo una piroetta. A dire il vero, ripete spesso l’errore. È imprecisa, ma straordinariamente impavida, e ammiro la sua audacia. A me dopotutto spaventano molte cose; forse proprio per questo motivo ho sempre avuto paura di infrangere qualsiasi regola. è sempre stato più facile seguire esattamente quello che mi viene detto. Sento un rumore dietro di me e, voltandomi, vedo Zoe che si avvicina con due grandi bicchieri di caffè. Sorride e me ne consegna uno. «Jonathan ha fatto un salto da Starbucks e gli ho chiesto di prendere qualcosa per noi». «Ti ringrazio», dico prendendo un sorso, riconoscente. Non saprei come potremmo sopravvivere senza caffeina. «Che sta facendo Mai là sopra?», chiede Zoe, arricciando il suo nasino all’insù. Mai esegue una complicata sequenza in fouetté. «L’assolo dal Pas de Deux di Tschaikovsky, immagino». «Sembra uno spaghetto scotto, tutta floscia». Sorrido. «È più brava di così, e lo sai». Zoe sospira. «Lo so. Sono solo invidiosa che lei balli quella parte». È raro che Zoe ammetta un qualunque tipo di vulnerabilità, quindi in un certo senso è confortante sentirlo. Assistiamo per qualche minuto in affabile silenzio, finché lo stomaco non mi gorgoglia rumorosamente, e mi ricordo che non ho ancora mangiato. «Oh merda, mi sono dimenticata di mangiare», dico con un accenno di panico evidente nella voce. Matt è fuori città, quindi non posso sperare in uno dei suoi pranzi da buongustai a sorpresa. Zoe mi poggia una mano sulla spalla. «Calma, donna. Sopra ho uno yogurt in più e una banana che mi ha impacchettato Gladys». Mi sorge un vago sospetto: perché Zoe si comporta in modo così gentile? Vuole per caso qualcosa da me? Mi compatisce perché mi è cresciuto il seno? Ma la fame mi impedisce di ragionare bene sulla cosa, quindi lasciamo Mai alla sua danza solitaria e saliamo in camerino, dove Zoe mi consegna il pranzo che le ha preparato la governante. «Secondo te, Mai desidera mai avere una vita fuori dal teatro?», chiedo. «Voglio dire, siamo in pausa, e lei nemmeno la sfrutta di fatto». «Perché? Pensi che dovrebbe cogliere quest’opportunità per leggere Frankenstein? Oppure andare a qualche fighissima presentazione, come fa il tuo ragazzo? È una ballerina, Hannah. Lei balla». Giro il cucchiaino nello yogurt. «Già, ma qualche volta vorrei soltanto avere tempo per altre cose». Zoe si tira su un paio di pantaloncini neri a maglia sopra i collant e il body viola lucido. «Ricordati cosa ha detto Annabelle». Poi fa la sua migliore imitazione di Annabelle: in qualche modo strano si accartoccia su se stessa, per apparire più bassa, e socchiude gli occhi. Dall’espressione del viso sembra che abbia appena avvertito un olezzo nauseabondo. Poi tira fuori una voce acuta e stringata. «“Il lavoro di una danzatrice non è vivere, stupidona. Il lavoro di una danzatrice è eseguire tendu fino a svenire!”». Rido, ma la caricatura è così inquietante da darmi i brividi. Coinvolgo Bea nel mio regime di esercizio fisico e la convinco a seguire Bikram yoga insieme, nonostante lei trovi disgustoso tutto il sudore che provoca. Nella pratica Bikram la sala è riscaldata intorno ai quaranta gradi e le lezioni si tengono di fronte a un muro a specchi. È una delle forme di esercizio più intense che io conosca, e spero che mi aiuti a ritrovare il fisico di un tempo. Quando entriamo nello studio e stendiamo i tappetini, indico verso la parte anteriore della stanza dove Taylor, l’istruttore, aspetta che tutti si sistemino. Ha i capelli neri, gli occhi azzurri profondi e una mandibola dal profilo forte e mascolino, come quelli che si vedono nelle pubblicità dei profumi. Gli piace indossare pantaloncini cortissimi che gli mettono in mostra le gambe muscolose. Bea mi strizza l’occhio e solleva un sopracciglio. La indico e mimo con la bocca: È tutto tuo! Bea allora arrossisce e si siede nella posizione del loto. Si rifiuta di guardare me o Taylor, finché non inizia la lezione. Dopo dieci minuti di piegamenti ed esercizi in equilibrio in posizioni apparentemente impossibili, sento che il sudore mi cola sul retro del collo e delle gambe fin sul tappetino. Taylor cammina per la sala e offre amichevoli incoraggiamenti («Respira attraverso il dolore; ti fortifica») e indecifrabili suggerimenti della filosofia yoga («Ricorda che l’effetto tourniquet stimola il flusso sanguigno e spalanca nuovi percorsi di pensiero e di coscienza»). Quando la lezione finisce, ho quasi la nausea per lo sfinimento. «Sono da strizzare», riferisco a Bea mentre ci sciacquiamo sotto la doccia. «Come un asciugamano vecchio». «Di sicuro puzzi come un asciugamano vecchio», ribatte ridendo. È rossa come un peperone per lo sforzo fisico, mentre io sono diventata pallida a macchie. Ma so che quest’attività mi fa bene. Mi serve solo qualche altra settimana di questo esercizio. Quella sera mi addormento sul divano e sogno che Otto viene a trovarmi con un coltello in mano. Con voce calma e ragionevole, mi annuncia che mi taglierà il seno. «Ballerai molto meglio senza», sussurra. Abbassa le luci, ma riesco comunque a vedere il coltello luccicare mentre avanza verso di me. Mi sveglio in una pozza di sudore. Il giorno dopo, prima della lezione, vado di nuovo in palestra e mi alleno due volte più intensamente di ieri. Secondo la bilancia della palestra ho perso un chilo. 18 «Posso farti una foto?», chiede Matilda, la figlia di Harry. Regge una fotocamera digitale rosa ricoperta di adesivi e indica verso di me speranzosa. Ho ancora qualche minuto prima di andare in scena per Rhyme, Not Reason, perciò mi fermo a metà strada verso le quinte. «Certo. Che ne pensi se ne facciamo una io e tuo padre?», chiedo. Harry spunta dall’ombra e prende la macchinetta. «Ancora meglio, perché non una di Mattie e Hannah?». Matilda annuisce ammutolita e, scavalcando delicatamente un ammasso di corde, si posiziona accanto a me. Poi la sua manina calda si fa strada verso la mia e ce ne stiamo una accanto all’altra mentre suo padre scatta la foto. Mattie indossa ancora il suo tutù logoro con le scarpe da ginnastica, io invece un body blu-grigio con una gonna di chiffon. «Grande», esclama Harry. «Proprio grande. Le mie due ballerine». «Grazie», mi sussurra Matilda. «Nessun problema», le bisbiglio a mia volta. Poi sento l’introduzione della mia musica, così saluto e scappo verso le quinte. Lì, Adriana sta picchiettando le dita ossute contro il muro, tenendo il tempo per il suo ingresso. Marcia sul palco e quattro conteggi dopo la seguo tra le luci bianche dei riflettori. Rhyme è ballato su musica di Chopin e la coreografia si ispira all’interazione tra luci e ombre. Il corpo di ballo veste le tonalità del grigio e i ballerini principali il bianco candido, per brillare contro lo sfondo nero. Le luci ombreggiate accentuano i nostri muscoli; la melodia al pianoforte è aggraziata e malinconica. Immagino che sia il crepuscolo, quando le ombre sono lunghe e sinuose. Noi del corpo di ballo siamo le ombre e i protagonisti sono la luce del sole che si attarda a sparire rifrangendosi sui palazzi in brevi esplosioni luminose. Amo i balletti come Rhyme, quelli con costumi semplici e praticamente nessuna scenografia. Mi piace provare la libertà del mio corpo senza costrizioni, e immaginare di ballare fuori, sotto il cielo. Quando il balletto termina, indugio per un momento nelle quinte, senza fiato. «Incantevole», afferma Harry passandomi accanto con Matilda in braccio. «Semplicemente incantevole». Sorrido perché mi sono divertita moltissimo là fuori. Forse è il Bikram, e forse è il reggiseno, chi se ne importa? Mi sento sicura e forte, non conta nient’altro. Harry si ferma e si volta indietro. «Vorrei vederti presto in un assolo, eh». È in arrivo un nuovo casting e darei l’anima per farmi notare. «Anch’io», gli rispondo. «Anch’io». Matt mi chiama il giorno seguente, mentre mi preparo per andare in teatro. «Sono tornato!», dichiara. «Sono stato in Francia. Parigi e poi Normandia». «Ma tu non lavori mai?», chiedo cercando di infilarmi cappotto e sciarpa senza far cadere il telefono. La risata di Matt è velata da una certa falsità. «Per tua informazione, sono andato in cerca di compagnie per gli investimenti secondari di mio padre. Quindi, sì, lavoro». «Allora, bentornato a casa. Spero ti sia divertito». Mi squilla l’altra linea, è Zoe che sicuramente vuole ricordarmi di portarle il body che mi ha prestato. Lascio trasferire la telefonata alla segreteria. «Mi sono mancate le tue consegne a pranzo». «Hai letto Proust?», chiede Matt. Rido mentre mi infilo gli stivali. Proust compare nella mia lista di libri da leggere, ma non è che in questi giorni abbia proprio il tempo per un romanzo di 650 pagine. «No», gli rispondo. «Non ho avuto nemmeno il tempo per fare la spesa». «Be’ non prenderla come una debolezza, pochissime persone ce la fanno. Alla ricerca del tempo perduto è un capolavoro, comunque, e praticamente Proust si è ammazzato per scriverlo. Ma non è questo il punto. Il punto è che in Dalla parte di Swann, il primo volume, il narratore si innamora di una donna solo perché una notte non riesce a trovarla e non sa dove sia. E questo è il più vecchio dei trucchi del libro». «Ah, davvero?», replico. Non capisco dove voglia andare a parare con questa storia, così cerco a tentoni le chiavi, in attesa che continui. «Immaginavo che rendendomi irreperibile, il mio fascino sarebbe sembrato semplicemente più affascinante». Con quel tono assume quasi un’aria svilita, ma neanche tanto svilita. «Strategia interessante», dico accennando una risata. Non ha funzionato in effetti, ma ho sentito teorie peggiori sul romanticismo. Ad esempio, Jonathan era convinto di conquistare il biondo e attraente Tommy Hatfield fingendo totale indifferenza nei suoi confronti. Io glielo ripetevo instancabilmente che avrebbe almeno dovuto dirgli ciao, ma lui non lo ha fatto e adesso Tommy esce con Jude Forrester, che in tutta sincerità balla come uno stitico. «E ti ho parlato della cena?», chiede Matt. Mi do un’ultima occhiata allo specchio prima di uscire sul pianerottolo. Soffro di un terribile caso di capelli scompigliati, ma dal momento che li legherò in uno chignon non appena sarò in teatro, suppongo non abbia grande importanza. «Che cena?», mi informo. «Ti porto fuori», risponde. «Domani sera». «Davvero?», domando, presa alla sprovvista. «Avevi intenzione di farmelo sapere prima o poi?» Ride. «Quello che ti serve è una pausa, lo so. Ci vediamo fuori dal teatro alle undici». «Non credo di farcela…». «Se stai cercando di dirmi che non puoi, vengo e ti rapisco». Distinguo perfettamente nella voce uno dei suoi sorrisi smaglianti. È praticamente certo che dirò di sì. E mi sorprendo da sola quando lo faccio. I motivi per cui ho accettato l’invito non mi sono proprio chiari e onestamente non ho granché intenzione di scoprirli. A volte hai solo voglia di dire di sì. Come ripete in continuazione Otto, «Non pensarci, fallo». Ecco come sono finita al Per Se, uno dei ristoranti più costosi di Manhattan, agghindata con il mio vestito nero vintage Marni e le zeppe Mary Jane di vernice. Dall’altra parte del tavolo, Matt mi versa il vino nel bicchiere mentre mi racconta di questa sua coppia di amici francesi che io adorerei, perché sono uno spirito libero come loro. Dice che mi immagina mentre corro per l’autostrada in Jaguar, con la sciarpa che mi svolazza alle spalle, l’oceano da un lato e dall’altro le colline francesi. Per quanto non voglia sembrare scortese, mi vedo costretta a fargli notare che ha appena raffigurato un cliché ridicolo. «L’ho visto in almeno sei film», gli dico sorseggiando il vino. Sa di pere e miele, e cerco di scolarmi tutto il bicchiere il più velocemente possibile. Magari mi farà sentire meno agitata. Ride. «Va bene, quindi mi stai dicendo che devo fare di più per impressionarti». Annuisco, nella speranza di far apparire una sicurezza che non padroneggio completamente. «Forse. Sebbene già quest’insalata mi impressioni». E come non dovrebbe, penso, visto che costa quaranta dollari. Secondo il menu si tratta di subric di aglio su un letto di funghi morelli dell’Oregon e émincée di mandorle verdi e rucola. Non conosco la metà degli ingredienti, ma è deliziosa. «Mi piace che tu sia una di quelle danzatrici che non hanno paura del cibo», afferma Matt mentre spalma burro francese su una fetta di pane spessa e croccante. La camicia bianca che indossa accentua la sua abbronzatura, forse presa su qualche splendida spiaggia di Ibiza. Gli scocco un’occhiata di disapprovazione. «Porti molte danzatrici fuori a cena?». Si schiarisce la gola e per un momento sembra leggermente a disagio. «Be’, vado a molte feste durante le vacanze», precisa. «Sai, per il balletto». «Dai, ti prendo solo in giro», ammetto. «Dovresti portare a cena tutte le danzatrici che puoi. Noi poverette ci nutriamo solo di cornetti di mais e tonno». Ride. «Eh, ma io voglio portare solo te a cena», dichiara. Mi guarda mentre mangio la mia insalata, recitando la parte del gradevole ospite: mi versa il vino non appena svuoto il bicchiere, mi chiede se gradisco altro pane o un’altra bottiglia di San Pellegrino. Ed è carino avere qualcuno che si prende cura di me per qualche ora. Matt fa conversazioni spensierate mentre affetta la sua portata, che è un piccione o un qualche altro povero piccolo volatile indifeso. Cerco di non guardare quella minuta carcassa triste sul suo piatto di porcellana immacolato. «Sicuramente ti piacerebbe moltissimo anche questa cittadina nel sud della Francia», suggerisce. «Ha la vista più incredibile su…». In un certo senso, ciò di cui parla non ha grande importanza, e lui ne è ben consapevole. È come se sapesse che sono distrutta per lo spettacolo e che mi manca la forza per conversare. Vorrei dargli qualche punto per la perspicacia; d’altronde se effettivamente ha frequentato tutte le ballerine che dice Daisy, deve sapere come ci sentiamo alla fine di una serata. È più divertente di quanto immaginassi e gli piace anche leggere. Al momento è fissato per Ernest Hemingway, mi confessa. Ha letto Il sole sorgerà ancora la settimana scorsa e Per chi suona la campana quella prima. Nei fine settimana legge P.G. Wodehouse, che mi assicura essere un genio della commedia. Me lo appunto sull’agenda, per ricordarmelo la prossima volta che entro in una libreria, cosa che probabilmente non succederà prima della pausa estiva. «Qual è il libro più bello che hai letto di recente?», chiede. Punzecchio un pezzo di radicchio dal colore vivace. «Be’, sai, ho avuto il mio da fare su Frankenstein da, diciamo, agosto. Conta anche la rivista “People”?», rispondo ironica. Non menziono che ho appena ordinato Moby Dick su Amazon. «Dài, non sei proprio un’illetterata. Ti piace scarabocchiare in quell’agenda», dice Matt sbirciandola. «Cosa ci scrivi? Scommetto che è piena di segreti succulenti». Fa uno scatto come volesse afferrarla, così la tolgo di mezzo. «Dovrai passare sul mio cadavere», lo minaccio. Lo pugnalerei con il coltello del burro, piuttosto che fargliela toccare. Ride. «Ma vorrei solo conoscerti meglio». I suoi occhi luccicano divertiti. Scrollo le spalle. «Confido che scoverai modi diversi per farlo». Ridacchia ancora mentre scuote la testa. «Sì, suppongo che potrei. Magari la settimana prossima possiamo provare il Marea. Ho sentito dire che è fantastico». Mentre mangio la mia insalata ridicolmente costosa, valuto quanto varrebbe la pena per me stare con un tipo come Matt. Non ci sarebbe bisogno di spiegazioni impacciate quando sono costretta a cancellare i programmi. Potrei lamentarmi dell’ossessione di Jason Pite per il rilascio pelvico o delle combinazioni epiche di Otto per l’adagio, senza dover spiegare i termini tecnici. E poi ci guadagnerei tante gradevoli cene, tante elegantissime insalate. Ma forse non dovrei preoccuparmi di scegliere Matt o Jacob. Stare da sola potrebbe essere la soluzione più semplice. Annabelle Hayes certamente approverebbe. Mi immagino il suo volto piccolo e teso, la sua bocca sottile e inflessibile. Il tuo lavoro non è vivere. Il tuo lavoro è danzare. 19 Passano due settimane in un vortice confuso di prove, spettacoli e lezioni extra di yoga. Mi impegno allo stremo tutto il giorno e poi la notte, stesa nel letto, mi immagino mentre ballo assoli. E so di essere diventata più forte: prima arrivavo quasi morta al terzo movimento di Prelude, ora invece posso ballarlo per intero senza nemmeno sforzarmi troppo. Ma poi agli inizi di marzo, esamino i nuovi fogli di casting e a stento trovo il mio nome. Mi si blocca il respiro in gola. Non mi hanno convocata per studiare nessun assolo nella Bella Addormentata o in The Fawn, il nuovo balletto di Otto. A dire il vero, le mie parti sono persino peggiori dello scorso anno. Zoe invece ha ottenuto un assolo in The Fawn. Percorro i corridoi annebbiata dalla delusione, con le gambe ancora barcollanti per le prove di stamattina. «Terra chiama Hannah», invoca Jonathan, ondeggiando la mano davanti alla mia faccia. Noto che si è tinto le unghie di un rosa appena percettibile. «Hannah, ti ho chiesto se vuoi venire con noi al supermercato». Ma io chino la testa e proseguo oltre. «Ma che problemi ha?», sento dire da Luke. «E chi lo sa», Adriana si appoggia a lui e gli dà un bacio con le sue labbra rosse sottili. Immagino voglia dire che escono insieme ora. Jonathan ridacchia mentre si avvolge intorno al collo una sciarpa di cashmere. «Ha la sindrome premestruale. Abbiamo il ciclo nello stesso periodo, sapete». Non riesco nemmeno a sorridere. Resto seduta accanto alle lavatrici per un po’ e ascolto il rumore delle asciugatrici. Qualcuno viene a prendere una Coca-Cola, ma nessuno mi rivolge la parola. Non sembrano nemmeno scorgermi. Appena entrata nel corpo di ballo, Otto mi chiamava sempre per le dimostrazioni durante le lezioni di gruppo e una volta mi ha anche detto che ammirava la mia etica professionale. Certo, non mi ha mai promesso niente, però ho sempre pensato che avesse visto del potenziale in me. Perciò mi sono impegnata allo stremo per impressionarlo, sempre, ma in questi ultimi mesi in particolare. Notte dopo notte, alla fine di una giornata piena di prove e di spettacoli serali, sprofondavo nel letto, sfiancata ma incredibilmente felice, perché sapevo di aver vissuto appieno quel giorno. Ma oggi, la solita routine mi fa sentire invisibile e sacrificabile. «Mi dessero almeno il colpo di grazia», borbotto mentre entro nel camerino vuoto. Leni si alza di scatto dal tappetino a terra, sbattendo gli occhi come spaventata. Indossa un paio di pantaloni felpati blu e una camicetta color crema delicato; ha i capelli biondi arruffati e appiccicati tutti da un lato. «Non dovresti dire cose come questa, Hannah», mi ammonisce, spazzolandosi i ciuffi annodati lontano dagli occhi. «Da dove spunti tu?», chiedo abbattuta. «Mi sono addormentata a terra durante gli esercizi per la spina dorsale. Sono talmente rilassanti». Sulle guance ha l’impronta del tappetino di gomma. Chino la testa tra le mani. «Che succede?», domanda. «I casting», rispondo indolente. Sospira. «Capito». «È solo che tutto sembra totalmente inutile. Perché ci affatichiamo tanto per diventare più forti, per migliorare, se nessuno lo nota o se ne infischiano tutti?». Ho anche perso peso, penso, proprio come voleva Annabelle! Leni si avvicina e mi poggia una mano sulla spalla. Massaggia un po’ i muscoli robusti e tesi, prima di parlare. «Lo so che è dura, lo so bene. Ma devi vivere il momento. Devi abbracciare il processo della danza. Come credi che io abbia tirato avanti per quindici anni?». Il processo della danza. Parla come quella hippy svitata di mia madre, con tutta la storia sul «viaggio della creatività». Mi spingo i pugni contro gli occhi, nel tentativo di trattenere il pianto. «Credevo mi piacesse tutto questo, le prove estenuanti, l’intensità, le lunghe giornate e tutto il resto. Ma faccio ancora le stesse parti di quand’ero una principiante…». Tronco la frase a metà. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, nonostante ci abbia conficcato dentro le nocche. «So come ti senti. Io ho ballato il Valzer delle ghirlande della Bella addormentata per cinque anni», afferma Leni. Alzo lo sguardo su di lei. «Sul serio?». Annuisce mentre affonda il pollice in un punto indolenzito vicino al mio collo. «E per otto ho fatto il fiocco di neve e il fiore nelloSchiaccianoci». «Sei una persona migliore di me», ammetto. Mi dà una pacca sulla spalla e torna verso il suo tappetino. «Non so cos’altro potrei fare se non danzassi». «Nemmeno io», piango, «ma fuori di qui ci sono altre possibilità! Insomma, questo teatro non è il mondo intero, al contrario di quanto pensano quasi tutti qui. Ci sono musei e ristoranti… e ci sono spettacoli rock, o così ho sentito almeno». Leni si mette a sedere, allunga le gambe in avanti e si stende fino ad afferrare la pianta dei piedi con le mani a coppa. «Il punto è amare la danza. E una volta che hai smesso di amarla, è arrivato il momento di fare qualcos’altro. Altrimenti sarebbe troppo difficile». «Io amo stare sul palco. Ma è così ingrato sentirsi invisibile», le confesso. «Io ti vedo, Balletttänzerin», dice teneramente. «Non sei invisibile». Ma devo esserlo per forza, altrimenti come spiegarmi il modo in cui sono stata ignorata? 20 «È troppo, tutto qui», dichiara Zoe, arrotolandosi cio che di capelli oro pallido intorno alle dita. È scalza, indossa collant rosa tagliati e una maglietta blu chiaro e se ne sta seduta sulla mia sedia con i piedi appoggiati contro lo specchio, a parlare con Daisy che appare al contempo intimorita e invidiosa. «Dopo il pas de deux, mi sento i polpacci lì lì per strapparsi. Poi mi tocca subito l’assolo, senza pause. Che poi, quell’assolo è praticamente impossibile. È come se Otto mi stesse facendo un test o roba simile». Daisy si ficca in bocca una manciata di tortillas. Le punte delle dita le sono diventate color arancione acceso. Dalla pubblicazione del casting, consuma un sacco di schifezze in più. «Ti dispiace?», chiedo. Zoe alza lo sguardo e toglie apatica prima un piede e poi l’altro; quindi torna alla sua postazione dall’altra parte del camerino. Prosegue imperterrita, dopo essersi spostata. «Insomma, tutti quei salti, sembra che durino per sempre. Fai un pas de chat, poi grand jeté, pas de chat, apertura con calci alti, e ancora giri chaînés e tutte queste robe, coupé jeté…». Bla bla bla, mimo con la bocca e Daisy soffoca una risata. Zoe incurante continua a blaterare. Mi ricorda il mio insegnante di storia delle medie, il signor Schmidt. Non si è mai accorto che nessuno, e intendo proprio nessuno, gli dava ascolto. Prendo l’agenda e inizio a scarabocchiare sui margini. Per lo meno, il signor Schmidt insegnava fatti, Zoe non sta facendo altro che vantarsi, camuffandolo dietro un elenco di lamentele. «Qualcuno di voi ha visto Bea ultimamente?», domando, interrompendo Zoe che cataloga passi di danza. «Ha i miei leggings». Ho addosso un paio di pantaloni felpati verdi che vorrei cambiare: con la maglietta, verde anche quella, sembro Oscar il Grouch dei Muppet. «Io no», risponde Daisy. «Forse sta già nel retropalco. Deve entrare nel primo balletto». Per scappare dalle vanterie di Zoe sulla sua nuova importantissima parte, decido di guardare l’inizio di The Thorn, il primo balletto, dalla graticcia. L’impalcatura della graticcia forma una U sopra al palco; consente ai macchinisti di tirare le funi giuste e di dirigere i riflettori dall’alto. Secondo me è il posto migliore da cui godersi lo spettacolo. Avendo in pratica una vista panoramica, si possono osservare le caleidoscopiche formazioni dei danzatori e il modo in cui si interpellano e si rispondono l’un l’altro. Si può notare la logica, oltre la bellezza, dei loro movimenti; è come un linguaggio segreto che combina linee, angoli e forme. Harry ha una piccola scrivania in legno sul lato destro della graticcia. Una lampada verde da banchiere crea un arco sugli schemi delle luci, sui suoi piani per l’uso dei trasparenti, e su qualsiasi romanzo tascabile stia leggendo. Quando mi vede, alza lo sguardo e le lenti bifocali gli scivolano giù per il naso. «Hannah!», bisbiglia. «Ti prendo subito una sedia». «No, non preoccuparti. Sto in piedi. Vado via subito; devo finire di truccarmi». Harry indica con la mano i danzatori sul palco. «Questo pezzo è una noia mortale. Per tutto il tempo, Lottie viene trasportata avanti e indietro come una valigia. Bach però resta grandioso». Guardo attraverso la grata e vedo il corpo di ballo, in tutù bianchi candidi, che si muove all’unisono, mentre Sam porta Lottie verso il proscenio. «Già», sospiro. «Tutto bene?», chiede. Faccio spallucce e mi mordo il labbro. «Mattie chiede continuamente di te». «Davvero? Salutamela». «Vuole che tu venga a vederla al suo spettacolo, ma le ho detto che sei troppo impegnata. Farà la principessa elfo o qualcosa del genere. Mia moglie ogni settimana si ammazza a cucire un nuovo costume». «Sarà sicuramente molto graziosa», replico, guardando i vivaci salti sulle punte di Bea, sotto di me. «Be’, come va la vita nella compagnia?», si informa Harry. Mi fisso le scarpette. «Vuoi la risposta vera o quella educata?» «Sono un tipo tosto, io. Ti sembra che mi preoccupi dell’educazione?», risponde. Con fare canzonatorio, stringe il pugno e flette l’avambraccio. È grande quanto un prosciutto di Natale. «Già, non sta andando granché bene», gli confido, affondando le dita nella coscia. Dovrei riscaldarmi, anziché starmene qui a parlare. Devo entrare dopo l’intervallo e ho bisogno di esercitarmi alla sbarra e di sciogliere i fianchi. «Non hai avuto i ruoli che volevi». Non è una domanda; Harry sa cosa sta succedendo. «No». Mi tiro un filo dalla manica. «Sai, è così frustrante. Non so perché mi sforzo tanto, se poi non cambia nulla». Harry tira un respiro e si sistema gli occhiali sulla fronte. «Non lo capisco neanch’io, Hannah. Ho visto un mucchio di ragazze entrare e uscire da questo posto, e non ho alcun dubbio che il vostro talento venga ignorato». Scuoto la testa e con un piede do un calcetto all’impalcatura. «Cos’è che vuoi, Hannah?», chiede Harry con affetto. Sospiro. «Non lo so. Un segno che tutto questo ne vale la pena?» Guardo in basso, oltre la grata, verso il balletto che si svolge sotto di noi. Al pizzicato dei violini si unisce il ronzio del violoncello, quando Sam solleva Lottie in una presa sopra la testa. L’eccitazione aumenta e il ritmo incalza quando la danza si avvia verso il finale. Harry annuisce. «Una piccola conferma». «Ti immagini se chiedessi una conferma a Otto?», ribatto. «Cavolo, mi guarderebbe malissimo!». Harry si stringe nelle spalle. «Per tutta la vita la gente mi ha guardato male. Ma io rispondo guardandoli male a mia volta». Poi corruga la fronte, sbarra gli occhi, gonfia le guance e spinge in fuori le orecchie. «Oh mio Dio!», esclamo ridendo. «Sembri uno scimpanzé». Harry torna normale. «Esatto!». Batte con la mano sul piano della scrivania. «Il punto è questo: non devi lasciarti abbattere da quei bastardi. Tu sai quello che devi fare». Lancio un’ultima occhiata al balletto sotto di noi. È ora di prepararmi. «Grazie, Harry», dico. «Mi sento un po’ meglio». «Quando vuoi, zuccherino», replica. «Adesso raggiungili». [eBL 092] 21 Il giorno dopo Zoe mi raggiunge finita la prova di Stormy Melody. Mi si para davanti mentre mi dirigo verso il distributore automatico. «Mi stai ignorando, da quando hanno pubblicato i casting», dichiara. I suoi occhi verdi sono conficcati nei miei e il naso si trova a pochi centimetri dal mio. Sospiro e guardo verso il soffitto. «Forse perché sei stata insopportabile», spiego. Cerco di superarla, ma mi afferra per un braccio e me lo stringe. «Lo so e mi dispiace molto», replica. «Davvero». Per una volta le sue sembrano scuse sentite. «Davvero?», domando. Ma continuo a serbare i miei dubbi. Corruga la fronte con eleganza e mette su il broncio. «Ho avuto molto da fare ultimamente, tutto qui. Per forza sei arrabbiata con me». «Guarda, non c’entri niente. Che tu ci creda o no», ribatto. «Oh, Han», aggiunge. «So che posso essere una grande stronza, ma tu vali molto per me. Ancora amiche, giusto?». Mi appoggia la testa su una spalla. Sento l’odore del suo costoso shampoo al profumo di gigli. E la verità è che mi importa di lei. Siamo amiche da cinque anni. Abbiamo trascorso i primi tempi da principianti insieme; abbiamo comprato i primi assorbenti insieme; abbiamo preso la prima sbronza da minorenni insieme. E anche se domani smettessimo di parlarci, sarò per sempre grata a Zoe per quanto mi è stata vicino durante le prime settimane alla MBA. Sarei potuta morire di solitudine senza di lei. Ma non aspetta che le risponda. «Comunque», continua, «dovrei essere un pochino incavolata con te». Mi stringe il braccio e ride. «Ah, sì? E per cosa?» «Oggi è il 10 marzo. Il mio compleanno!», esclama Zoe. «E né tu né gli altri ve ne siete ricordati». «Oh!». La tiro verso di me e la abbraccio colpevole. Lei non dimentica mai il mio compleanno, nonostante cada durante la pausa estiva. «Auguri!». «Vent’anni», proclama con la testa sulla mia spalla. «Riesci a crederci?». Mi tiro indietro e la guardo. «Ti darei sedici anni, non un giorno in più», affermo. «Allora, come festeggiamo?» «Non lo so. Una bevuta? Hai qualche idea da proporre?». Ho pensato al messaggio ricevuto da Jacob: Provami che non ti hanno incatenata a quel teatro. Festa della NYU a Winsburg, 675 Bedford Ave. Potrei andarci e fargli una sorpresa. Spero solo che non gli venga un infarto. «Andiamo a Brooklyn dopo lo spettacolo», propongo. «C’è una festa che sembra divertente». Suppongo che non abbia senso lasciarmi abbattere. Forse una piccola distrazione mi farà bene. Certo, non oso immaginare il disappunto di Otto se venisse a sapere che razza di gita scolastica stanno progettando di fare due delle sue danzatrici. Ma in questo preciso momento, non sento di dovergli assolutamente niente. Un adolescente mezzo drogato ci chiede se abbiamo soldi da cambiare mentre saliamo le scale appiccicaticce dal marciapiede L della stazione. Mi aggrappo a Zoe con un braccio; mi infilo l’altra mano nella tasca del cappotto leopardato, per scaldarmi, mentre barcolliamo sulla banchina che scricchiola sotto i nostri tacchi. Zoe raggiunge il metro e ottanta con le sue Manolo e si sganascia quando inciampa storcendosi la caviglia. «Porca miseria, attenta!», grido, figurandomi una lesione del tendine d’Achille o una frattura del metatarso. «Sto bene», replica Zoe. «Anzi, sto una favola!». «Sei ubriaca, vuoi dire», ribatto. Con indice e pollice a quasi un centimetro tra loro, Zoe farfuglia di proposito le parole: «Forse un piccolo poco pochetto», (si è scolata quasi tutta la bottiglia di vino nel mio appartamento). Avvicinandoci all’indirizzo che ho ricevuto da Jacob, sento i bassi che fanno vibrare il pavimento. «Sarà fantastico», urla Zoe a un lampione. L’edificio sembra una fabbrica in disuso, dove forse producevano pneumatici o frigoriferi. Un’ampia porta di garage si apre scorrendo verso il soffitto e una donna fa capolino e ci saluta. Ha in mano una tazza di un qualche cocktail verde fosforescente. «Ehi, ragazzi! Portate altra vernice», strilla sopra la musica. Io e Zoe ci guardiamo confuse. «Ma ha detto “portate altra vernice”?», chiedo. «E poi chi è questa?» Zoe scrolla le spalle mentre entriamo. La sala sembra una specie di zona di carico, con il pavimento in cemento e i muri in pietra sporchi, color cenere, coperti di graffiti. All’interno, la musica è persino più assordante. Blocco un ragazzo che mi passa davanti con una birra spumosa in mano. «Ehi, ciao. Per caso hai visto Jacob Cohen?» «Chi?», mi urla in faccia. «Jacob Cohen!». «Ah, sì. Non lo so. Ma guarda, abbiamo Girl Talk», grida. «Da quella parte!». Indica verso un tipo piuttosto trasandato, ma attraente, che sfoggia una maglietta sportiva sbiadita e un paio di jeans firmati e mette i dischi da un ponte in legno montato a sovrastare la festa. Perlustro la zona in cerca di Jacob. Sui muri sono appesi poster di vecchi concerti rock e sul pavimento sono sparpagliate bottiglie vuote di birra. Il bagno, da cui parte già un’interminabile fila, è separato dalla sala da un telo e un grande pannello in legno. C’è una coppia che ci dà dentro accanto alla pattumiera e un ragazzo con una maglietta dei Nirvana che sputa anelli di fumo verso il soffitto. «Dove lascio il cappotto? In questo posto non c’è nemmeno un maggiordomo?», mi grida Zoe. Mi dà una leggera gomitata sulle costole, per farmi capire che scherza. Andiamo verso il centro della sala, dove si accalca un assembramento palpitante di gente che balla. Sembrano strani e alieni, e per un attimo non riesco a spiegarmi il perché. «Che hanno addosso?», mi urla Zoe nell’orecchio. Li esamino più da vicino e mi accorgo che sono coperti di vernice fosforescente. Ne tengono in mano secchi e bicchieri pieni e se la versano addosso l’un l’altro. Rivoli di vernice colano lungo le loro braccia, rendendoli tutti giallo luminoso e verde brillante. Vedo una ragazza con la sola biancheria addosso che schizza vernice verde-giallastra. «Ma che cavolo…», si meraviglia Zoe. «Suppongo sia espressione creativa», strillo. «Come se Jackson Pollock si imbottisce di acidi e poi fa, che ne so, una festa di compleanno in una carrozzeria…». Zoe indica il bar, dove sono accumulate gigantesche bottiglie di plastica di vodka e gin. «Tutta roba buona», afferma, «ma dov’è la Ketel One?» «Per favore, cerca di non fare la snob, almeno un pochino», grido. Verso a entrambe un bicchiere di club soda leggermente sgasata e vodka scadente. «Guarda, almeno hanno messo i limoni per decorare». Gettiamo il cappotto su una pila nell’angolo e ci teniamo stretti i nostri vodka soda. Non sono granché buoni, così tracanno il mio in un sorso. Una vocina nella testa mi avvisa che la pagherò domani, ma non m’importa. «Ti avviso che non ci entrerò mai e poi mai lì dentro», urla Zoe, indicando la massa pullulante di danzatori inzaccherati di vernice. «Ho un vestito di Barneys, io». Mentre Girl Talk mixa Single Ladies (Put a ring on it) di Beyoncé con Don’t Stop dei Brazilian Girls, la folla strepita e salta a gruppi ritmici e frementi. La musica è talmente alta che giuro di sentirla fin nelle ossa, e quasi involontariamente inizio a saltellare a tempo. La cosa buffa è che mi sento imbarazzata a ballare in una situazione come questa; non saprei in che modo muovermi da persona normale. Sono abituata a seguire sempre una coreografia, senza improvvisare o lasciarmi andare. Conosco danzatori bravissimi che ballano alle feste, io invece sono frenata dall’imbarazzo e dalla goffaggine della situazione. Zoe se ne sta ancora altezzosa ai margini della pista, e scuote la testa quando la strattono per la mano. Mi fermo per un attimo e poi acchiappo una bottiglia di vernice rosa acceso e la schizzo a fiotti su quelli che ballano. Loro se la strofinano addosso l’un l’altro a mani spalancate e la vernice gli cola tra le dita e lungo le braccia. Mentre li guardo dimenarsi e saltare, mi viene in mente che tutto l’East River mi divide dal Manhattan Ballet. Una sensazione elettrizzante. Per un momento penso ai miei compagni di classe di Weston, in Massachusetts, tutti ragazzi che hanno trascorso gli ultimi quattro anni in giro per feste, conoscendosi e divertendosi tutti insieme, mentre io sudavo sette camicie facendo le prove e dedicandomi anima e corpo alla danza. Non credo di potermi effettivamente rifare stasera del tempo perduto, ma per lo meno posso provare a divertirmi. Con un calcio mi libero degli stivaletti e mi faccio largo tra la folla verso il centro della ressa. Quanto più mi avvicino, tanta più vernice mi ritrovo addosso: arancione, verde, blu, viola. I miei jeans James non saranno mai più gli stessi e grazie al cielo indosso una semplice canotta. Ho strisce sulle braccia, chiazze sulla pancia… somiglio a un arcobaleno strafatto. Chiamo Zoe con un cenno e lei scuote la testa, mentre sorseggia la sua vodka poggiata al muro. Scordatelo, mima con la bocca. «Dai, rilassati», grido. «È il tuo compleanno!». Poi le corro incontro e la tiro per una mano verso la massa di danzatori dipinti. Sorrido scanzonata. «Non è che non puoi permettertene un altro uguale!». «E va bene, hai vinto!», urla sorridendo a sua volta. Acchiappa una bottiglia di vernice gialla e me la schizza sul petto. Per tutta risposta, io le verso addosso una coppa di rosa intenso. E iniziamo a ballare scatenate, incontrollate, ricoperte di vernice. Non c’è niente di aggraziato nel modo in cui ci muoviamo. La gente mi pesta i piedi, mi arriva addosso; una ragazza inciampa e finisce in una pozzanghera di verde. Non tengo il conteggio né mi preoccupo di sapere qual è il passo successivo. Mi getto nella danza, nient’altro. Il cuore mi palpita e la cassa toracica vibra sui bassi. Tra la folla si materializza un ragazzo stupendo, con la pelle scura e i dread fin quasi alla vita. Non indossa altro che i boxer e una maglietta grigia tutta macchiata di vernice; raggiunge Zoe. Le tocca un braccio e lei si volta di scatto. «Ehilà, e tu da dove salti fuori?», strilla lei, fissando bramosa il suo petto muscoloso. Lui la attira a sé in risposta. «Ehm, scusami?». Gli picchietto sulle enormi spalle. Non voglio urlargli in faccia, ma non c’è altro modo per farsi sentire. «Ehi, ciao. Conosci Jacob Cohen?». Il tipo coi dread annuisce. «Sì, l’hai mancato per poco», risponde con voce possente. «Se l’è filata, tipo, venti minuti fa». Poi si gira di nuovo verso Zoe, che ha stampata in faccia l’espressione di chi ha appena scartato un regalo fantastico. «Tanti auguri a me!», grida, con un sorriso esaltato. «Tanti di auguri a me, cazzo!». Poi solleva le braccia e strilla: «Arriva la bomba!», e la vernice ci cola addosso, colorandoci, rendendoci assolutamente indistinguibili dagli altri. «Vai così, bella!», strepita il tipo coi dread. «Vive les pedestrì!», urla Zoe. La mattina dopo mi sveglio con la più forte emicrania di tutta la mia vita. Valuto la possibilità di saltare la lezione di gruppo per dormire un’altra ora, ma so che non dovrei, perciò mi trascino fuori dal letto. Mi infilo un paio di occhiali da sole e al ragazzo del bar chiedo un caffè grande quanto la mia testa solo per riuscire ad arrivare fino in teatro. Le orecchie ancora mi ronzano e mi sento frastornata, per non parlare del leggero senso di nausea. Durante gli esercizi alla sbarra, mi vengono i conati di vomito, così scappo fuori nel corridoio per bere un sorso di acqua. Al ritorno in studio, mi accorgo che il signor Edmunds mi fissa. È la prima volta da settimane che mi nota. «Tocca a te la dimostrazione ora», indica con uno scatto rapido delle dita. «A te». Sento una fitta al cuore. È ben consapevole che non conosco la combinazione, perché sono appena rientrata dal corridoio. Alza un sopracciglio e impassibile fa un cenno al pianista. Parte la musica, un semplice studio di Chopin. Io me ne sto ferma immobile, con gli occhi puntati a terra, cercando di diventare più piccola possibile. Mi sento addosso gli sguardi di ogni singola persona nella sala. Un attimo dopo la musica si dissolve come in imbarazzo. «Che succede?», chiede il signor Edmunds. «Non conosco la combinazione», bisbiglio. Dietro di me una persona tossisce, qualcun altro ridacchia. Vorrei trasformarmi in una nuvoletta di fumo e svanire. «Io la conosco». La voce, ovviamente, mi è del tutto familiare. Mi volto e vedo Zoe farsi avanti, con un sorriso deferenziale sul volto. «Eccellente», sancisce il signor Edmunds e sposta la sua attenzione verso di lei. Torno al mio posto, umiliata. E arrabbiata. Avrei voluto che Zoe, almeno per una volta, avesse evitato di comportarsi da perfetta leccaculo. E poi come faccia a stare così bene dopo tutta quella vodka, proprio non lo capisco. So solo che il primo impulso di stamattina era quello giusto: sarei dovuta restare a letto. Perché la giornata va avanti e diventa sempre peggiore. Quel pomeriggio nella prova finale di Stormy Melody, Otto batte le mani per bloccare l’esecuzione. La musica si ferma, e tutti abbandonano la posizione mentre lui avanza a grandi passi verso di me. «Che roba è questa?», domanda. Lancia le braccia per aria mentre mostra un brisé volé. Sento che tutti mi guardano, e le guance mi avvampano. Gli mostro di nuovo i passi; è uno dei petit allégro più difficili. Otto non sembra soddisfatto. «Ma che problema hai? Incrociale!». Salto di nuovo, incrociando le caviglie per aria quanto più posso. «Ancora!», ordina Otto. Faccio quello che mi chiede, eppure lui continua ad aggrottare la fronte. «Ancora». Stavolta le gambe si fanno pesanti e inciampo. «Ancora!», urla. Ma già non mi guarda più; ha voltato le spalle e si sta allontanando. Non riesco a prendere aria sufficiente e sento arrivare le lacrime, ma non me le lascerò sfuggire. «Ancora». Sono una dozzina i ragazzi del corpo di ballo che mi guardano mentre mi sforzo stremata. Sento i loro occhi su di me. Alla fine Otto si gira e io boccheggio in cerca di aria. «Dall’inizio!». Questo comando è rivolto a tutti. Gli altri danzatori brontolano all’unisono e tornano alla formazione iniziale. Eravamo arrivati a tre quarti della prova e adesso, grazie a me, dobbiamo ricominciare da capo. «Per Dio», sento imprecare qualcuno. Ansante per la fatica, ho i polpacci che sembrano sul punto di strapparsi. Nonostante tutto, il mio ego umiliato è messo molto peggio del fisico. Nella riservatezza delle quinte, mi mordo il labbro per trattenere le lacrime. Una però mi sfugge e la tampono con la manica prima che qualcuno possa notarla. 22 «Otto nemmeno mi guardava», mi lamento con Bea. «Continuava a ripetere “ancora”, ma stava girato dall’altra parte». «È un sadico», aggiunge lei, inclinando appena un po’ il basco nero. «È inutile girarci intorno». Annuisco. «È come se sentisse il bisogno di annientare le persone per renderle più obbedienti». Bea ride. «Assolutamente. Non può permettersi spiriti liberi che scalpitano rampanti per il teatro. Sarebbe troppo difficile controllarli. Lo sai che l’anno scorso ha detto a Mai che era grassa? Mai! Quella ragazza è uno stecchino!». «Questa è cattiveria», dichiaro. Ma poi scuoto la testa. «Non volevo tirar fuori questa storia. Facciamo finta di essere persone normali. Di cosa parlano le persone normali?». Bea si guarda in giro nell’auditorium della NYU in cui l’ho portata e che si sta lentamente riempiendo di studenti universitari. «Non ne ho idea… film? Compiti a casa? Le persone con cui escono?» «Già, ma forse parlano solo di quanto siano divertenti le loro vite». Sorrido. «Ma noi ci stiamo divertendo, giusto?». Per tentare di redimermi dalle azioni debosciate della festa alla vernice, e per saperne di più sulla misteriosa vita di un pedestre, ma anche per intraprendere un’altra attività che Otto disapproverebbe, ho convinto Bea a seguirmi a una lettura di poesie nella nostra serata libera. Ho persino indossato un abito adatto all’occasione: un vestitino blu oltremare ben sopra il ginocchio con le maniche corte, a cui ho abbinato i collant e il mio secondo paio di stivaletti preferiti. I primi in assoluto ormai somigliano a un dipinto di Jackson Pollock, nonostante li abbia sfilati prima di infilarmi nella bolgia danzante spruzzata di vernice. Okay, forse voglio anche sapere come potrebbe essere la vita universitaria di Jacob. E magari mi è anche balenata quest’ideuzza che potrei persino incontrarlo. «Divertendo? Non posso dirlo ancora», giudica Bea invitandomi a prenderla sottobraccio. «Va bene, sì», concede, «è divertente. Devi promettermi soltanto che ce ne andiamo se una delle poesie riguarda incidenti d’auto o fluidi corporei». «Va bene, so che sei facilmente impressionabile». Bea scivola al suo posto e si stringe la sciarpa a fiori intorno al collo; come me, forse si sente un pesce fuor d’acqua e un tantino nervosa. Mi guardo intorno tra gli studenti della NYU, esaminandoli come fossero una specie sconosciuta. «Mi ha dato un 23», sento lamentarsi qualcuno. «Sostiene che io non abbia espresso bene la teoria del logocentrismo di Derrida e la sua relazione con la teoria di Lacan sulla coscienza come sistema semiotico». «Che palle», ribatte un suo amico. «Tutta questa roba di strutturalismo/decostruzione/poststrutturalismo è una faticaccia. Cioè, voglio dire, a stento riesco a ricordarmi cos’è il significante e cos’è il significato». Non ho la più pallida idea di cosa stiano dicendo. Eppure, potrei essere una di loro, no? Magari proprio qui: mio padre ha frequentato la NYU. «Hai mai pensato come sarebbe andare all’università?», chiedo a Bea. «Eh?». Corruga la fronte lentigginosa. «Tipo, tornare a scuola…». Proprio quando Bea è sul punto di rispondere, una donna con l’aspetto da professoressa, vestita con un vaporoso caftano rosso, sale sul podio e si schiarisce la voce. «Benvenuti al decimo festival annuale per gli studenti dell’Accademia di Belle Arti della nNYU», proclama. Bea si volta di scatto verso di me, senza nemmeno aspettare che la donna finisca il discorso. «Mi hai portato a una lettura distudenti?», bisbiglia. «Pensavo che avremmo visto un poeta famoso o qualcosa del genere». «Scusami», sussurro mentre il primo lettore si sistema nella parte anteriore della sala. «Non c’era una vasta scelta per un lunedì sera. O questo o una commedia notturna amatoriale al Dew Drop Inn». In verità, non ho spulciato troppo a fondo la sezione degli spettacoli del «Village Voice». Ho solo visto che c’era un evento alla NYU e ho deciso che saremmo andate lì. Perché forse, e solo forse, avrei incrociato Jacob. Annoto Significante? Significato? Derrida? «Stai prendendo appunti?», domanda Bea. «Non penso che ci interroghino dopo». «No. Ma mi piace essere preparata. Dovesse giungere l’ispirazione poetica…». Nel mio taccuino ho conservato un passo da Rimbaud (abbiamo letto la sua opera all’ultimo anno della School of The Arts): «Ho steso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo». Non ne capisco perfettamente il senso, ma mi è sempre piaciuta l’immagine che crea. Fa sembrare la danza qualcosa che esiste anche fuori, nel mondo, e non solo nella penombra di un teatro. Sempre nell’agenda poi, per contrasto, ho riportato una citazione dal film sul ballettoScarpette rosse. «Il dolore passerà, credimi», afferma l’inflessibile direttore alla sua ballerina più dotata, il cui cuore è appena stato spezzato. «La vita è senza importanza. E da ora in poi, tu ballerai come nessun altro prima». Qual è il punto di vista più veritiero sulla danza, quello di Rimbaud o quello di Scarpette rosse? È difficile dirlo. Una volta terminate le letture, guardo Bea e mi accorgo che si è appisolata. Prima di svegliarla, resto seduta a pensare a Jacob, che con tutta probabilità sta studiando nella biblioteca a meno di cinquecento metri da qui. Quando torno a casa, gli scrivo un’e-mail. Ciao Jacob. Come va la vita? Ti ho chiamato un attimo fa, ma non ti ho lasciato un messaggio. Otto mi ha costretto a ingurgitare una bevanda al limone e pepe di Caienna, che sostiene aumenterà il mio metabolismo. La stagione invernale è quasi finita e sono rimasta profondamente delusa dalle mie parti. Comunque, mi chiedevo se avevi voglia di uscire qualche volta. Il lunedì sono ancora libera. Ah, e anche la domenica sera. Prima andavo in palestra dopo la matinée, ma non lo faccio più tanto spesso. Rifletto a lungo su come firmare: Baci, Hannah? Un abbraccio? A presto, HW? Alla fine non firmo in nessun modo. Invio l’e-mail e basta, incrociando le dita. 23 Jacob mi chiama il giorno dopo. La sua voce è amichevole, ma un po’ distante. «Allora, esci a prendere aria?», mi chiede. «Riduco un po’ gli impegni», ammetto. «Spero che Otto non lo venga mai a sapere», dichiara. Senza volerlo, rabbrividisco al pensiero. Cosa direbbe Otto oppure Annabelle di me? Sembri uno spaghetto scotto durante la lezione e ti permetti il lusso di diminuire gli allenamenti? «Lo spero anch’io. Ma non è che stia saltando le lezioni o le prove. Marino solo Pilates e la palestra». Perché uccidermi di lavoro se nessuno se ne accorge? «Ti ho cercato a quella festa, sai», proseguo. E speravo di beccarti anche l’altra sera alla NYU, penso. Faccio una pausa per trovare il coraggio di dire quello che ho già scritto per e-mail. «Allora, ti va di uscire qualche volta?». Jacob impiega qualche secondo per rispondere e, in quegli attimi, mi figuro una parata di belle universitarie, tutte prontissime a trovare del tempo da dedicargli. Alla fine risponde: «Okay, ma a una condizione». «Quale?» «Voglio vedere cos’è che ti tiene tanto occupata», precisa Jacob. «Voglio vederti ballare». Lo stomaco mi sussulta per l’agitazione, ma cosa posso rispondere? Ballo ogni sera per persone estranee, dovrei riuscire a farlo anche per il ragazzo per cui ho una cotta. «Ehm… va bene», ribatto. «Grande», esclama deciso. «Quando?» «Ti farò avere un biglietto della compagnia», rispondo. Poi me lo immagino solo tra il pubblico, lontanissimo in quel teatro vasto e decorato per potermi riconoscere tra il corpo di ballo. «Anzi, no. Lasciamo perdere il biglietto», cambio idea. «Vieni sabato sera. Sei libero?» Fa un’altra pausa. Nella mia testa una graziosa brunetta gli fa scivolare davanti il suo numero di telefono in biblioteca. «Ehm, sì», dice infine Jacob. «Sono libero in effetti». «Ottimo», replico cancellando la brunetta dalla mente. «Puoi stare nel backstage». «Sembra mitico», afferma Jacob. «Non vedo l’ora». Mezz’ora prima dello spettacolo serale di sabato, sono già tutta truccata. Ho i capelli tirati in uno chignon alto, con un fiore di seta conficcato al centro. Ma ho ancora addosso i pantaloni da ginnastica e una maglietta extralarge. Scendo in ascensore fino al piano della strada, verso la porta del teatro. Arden, la guardia di sicurezza di turno stasera, mi rivolge un sorriso. Per fortuna non lavora Frank oggi. Lui non fa entrare nemmeno i pony express nell’edificio, figuriamoci gli ospiti nel backstage. «Ciao, Arden». Le sorrido con affetto. Arden alza gli occhi dalla rivista di sudoku e si getta le trecce dietro le spalle. «Ciao, piccola Hannah». «Senti, ci sono problemi se un mio amico entra un attimo?». Indico Jacob, che aspetta seduto su una panca vicino alla scrivania, in attesa di imbucarsi. Lui alza la testa e saluta. Arden lo squadra, con un sorrisetto sul viso. «Sembra una persona fidata», afferma un attimo dopo. «Nessun problema». Faccio un cenno a Jacob, che si alza in piedi. Mi squadra con attenzione avvicinandosi, quasi come se stentasse a riconoscermi. «Ehi, ballerina». Gira la testa lentamente prima da un lato e poi dall’altro. «Wow, stanno proprio appiccicate quelle cose». Solleva la mano e mi tocca delicatamente le ciglia con un dito. «Sono finte», dico, sbattendole verso di lui. Jacob ride. «Già, mi sembravano leggermente più lunghe del solito». Mentre saliamo le scale fino al piano del palco, Jacob mi prende per mano. «Sono un po’ nervoso», sussurra. Gli sorrido. «Ah, tu sei nervoso? Non devi mica salirci tu, sul palco!». «Giusto», riconosce. «Ma devi ammettere che non passo proprio inosservato». Mi indica le scarpe da ginnastica e i jeans. «Volevo mettermi il body, ma è ancora a lavare». Intreccio più strette le mie dita con le sue. Sono così felice di vederlo, malgrado sia troppo timida per esternarlo. E la sua presenza in teatro mi dona sollievo per tutto, persino per le orribili prove che ho fatto. «Allora, di fatto non sarebbe permesso, ma ti farò guardare dalle quinte». Corruga la fronte preoccupato. «Non voglio metterti nei casini». «Non preoccuparti. Basta che non sei d’intralcio per nessuno. E soprattutto non emettere un fiato». Mi rendo conto che possono sembrare richieste eccessivamente rigide, allora sorrido e gli stringo forte la mano di nuovo. «Andrà tutto bene. Se qualcuno ti crea problemi, di’ solo che sei mio fratello». Mi lancia un’occhiata dubbiosa. «Forse dovremmo smetterla di stare mano nella mano, se siamo parenti», mi stuzzica. «Non ti noterà nessuno. Mi raccomando, spegni il telefono», aggiungo e lo guardo tirare fuori dalla tasca il cellulare e impostare la vibrazione. Passiamo dal corridoio sul retro verso il palco, per evitare di incontrare Christine, che farfuglia nelle cuffie mentre cerca di sistemare un trasparente allentato. Dietro le quinte Adriana fa stretching alla sbarra piegandosi sulle gambe quasi scheletriche, Julie esegue il suo assolo, gli occhi scuri intensi nella concentrazione, e Daisy si sta infilando le scarpette vicino alla cassetta della pece. Gli occhi di Jacob si spalancano sempre di più, a mano a mano che nota ogni cosa. Vorrei restare con lui, ma sono impaziente di infilarmi scarpette e costume, così lo piazzo nella quinta frontale, riparato tra la tenda di velluto nera e l’impalcatura che sostiene le luci. Metto le scarpette e le cucio, e poi mi affretto nel retropalco per indossare il costume. Mi agito tutta mentre Laura mi aiuta a entrare nel mio vestito di chiffon color carne. «Che hai stasera?», mi chiede. «Hai vagato depressa per giorni e adesso zompetti come un fagiolo salterino messicano». «Mi sono scolata un caffè gigante», mento. Torno correndo nelle quinte e trovo Jacob intento a fissare Julie che ripete il pas de deux con Sam. Mi avvicino di soppiatto e gli tocco una spalla. Si volta di scatto, con un’espressione al limite del panico. Poi, quando capisce che sono io, sorride. «Cavolo, pensavo mi avessero beccato», esclama. «Invece no, sono solo io», dico colpendolo con un dito. «Sei…». Fa una pausa e un paio di passi indietro per ammirare appieno l’effetto ballerina. «Be’, Hannah Ward, sei meravigliosa». Poi si piega di nuovo verso di me e sussurra: «Ti darei un bacio, ma non penso che il tuo lucidalabbra starebbe bene su di me». Sotto tutto il cerone mi sento avvampare. «Ai posti!», richiama Christine battendo le mani. «Cavolo, devo andare». Riservo un sorriso a Jacob e poi scappo per sistemarmi nella mia posizione di apertura sul palco accanto a Daisy e Adriana. «Merde», auguro a Daisy e le do una pacca sul sedere. Le luci si spengono, mentre l’orchestra accorda gli strumenti. Poi gli archi iniziano l’ouverture. Liscio il costume e aspetto che il sipario si alzi. «È lui, vero?», bisbiglia Daisy ridacchiando. Lancio uno sguardo verso le prime quinte. È tutto scuro come il carbone, ma quando le luci illuminano il palco, riesco a intravedere il profilo di Jacob dietro l’impalcatura delle luci. «Sì», sibilo tra i denti. «Merde», ricambia lei facendomi l’occhiolino. Poi il sipario si alza e l’aria fresca del teatro ci investe come un vortice di vento sul palco. So che Jacob sta guardando ma, anziché farmi distrarre da questo, mi sento caricata dalla sua presenza. Dopo un piqué arabesque, eseguo un tombé in direzione delle quinte e un soutenu di fronte a Daisy. Guardo verso le quinte frontali e vedo Jacob con un ampio sorriso sul volto. Quando i violini iniziano la sezione in adagio, con un bourrée creiamo un semicerchio intorno a Julie, che esegue il suo primo assolo. Poi sauté, chassé, piroetta in jeté e in ginocchio, quando entra Sam per il pas de deux. Allora ci voltiamo e in bourrée guadagniamo le quinte. Riprendo fiato e bevo un sorso dalla mia bottiglia di acqua. Ho qualche minuto prima di entrare nuovamente in scena, così vado verso Jacob. Ha un’espressione stupita. Gli tocco delicatamente la spalla. «Allora, che ne pensi?» «È la cosa più figa che abbia mai visto», sussurra. «Mi piace troppo stare qui dietro, mi sento come se stessi sul palco con tutti voi». Sorrido tamponandomi il sudore dalla fronte. «Avrei dovuto portarti sulla graticcia. La visuale è persino migliore di questa». «La cosa?». Punto il dito in alto, dove Harry è seduto alla sua scrivania. «Lassù», preciso. «Be’ magari la prossima volta. Devo andare ora. Ci vediamo tra poco!». Trotterello verso le ultime quinte e sento i suoi occhi che mi seguono. Mi piace sapere che è qui e voglio fargli una buona impressione. Rientro per la parte conclusiva con Emma e Daisy, e spingo al massimo tutta me stessa quando la musica raggiunge un crescendo e ci avviamo al finale. I polmoni stanno per esplodermi, ma arrivo fino all’ultima posizione senza sbagliare un passo. Qualche attimo dopo, durante gli inchini, do un’occhiata verso Jacob, che applaude con tanto entusiasmo da farmi temere che Christine vada a sgridarlo. Non appena il sipario si chiude, mi precipito da lui, senza fiato, ma elettrizzata. Fa per accogliermi nel suo abbraccio, ma resto indietro perché sono zuppa di sudore. «Sei incredibile, Hannah», si complimenta. «Niente di speciale», replico. Sono contenta che abbia assistito a una buona performance, visto l’andamento degli ultimi tempi, non ero sicura di potercela fare. «Non fare la modesta». «Questo è un balletto divertente», gli spiego. «Ce ne sono alcuni che non mi piacciono molto». Mi piego in avanti. «Uff… devo togliermi queste scarpe». «Fanno male?». Mi metto dritta e lo guardo negli occhi. «Tutto fa male». Mi prende per un braccio mentre torno verso il retropalco. «Posso offrirti da bere? Dobbiamo brindare alla tua grandezza». «Smettila di adularmi, okay?», dico ridendo. «L’adulazione implica la mancanza di sincerità, mentre io sono assolutamente sincero quando ti dico che mi hai fatto impazzire», precisa. «Dài, basta! Se accetto l’invito, smetterai di parlarne? Mi metti in imbarazzo». «D’accordo», ribatte. «Promesso». Jacob aspetta fuori dal teatro, mentre faccio la doccia e mi cambio. Si arrabbia perché sono uscita con i capelli bagnati, e mi mette un braccio intorno alla spalla per coprirmi, mentre passeggiamo sulla Broadway in questa serata gelida. Ci dirigiamo verso il Kelly’s Pub, che è una mezza bettola, ma è al chiuso e poi non chiedono i documenti. Entriamo e ci sediamo sugli sgabelli del bar. Sono sollevata che non ci sia nessun ballerino qui dentro. Non che voglia tenere segreto Jacob, ma non mi va di subire un interrogatorio domani a lezione, il che succederebbe se, per dire, Jonathan si trovasse qui in questo locale. Io ordino un bicchiere di Merlot e Jacob una birra. Ruotiamo sugli sgabelli e le nostre ginocchia si sfiorano continuamente. «È stato bellissimo vederti nel tuo elemento naturale», accenna Jacob. «Nel senso… avevo immaginato quello che facevi, ma questo è tutta un’altra storia. Sei una professionista con i controfiocchi». Gli do una piccola gomitata. «Non avevi promesso che avresti smesso di parlarne?» «Stai arrossendo». Sogghigna Jacob. «Va bene. Di cosa parliamo allora?». Faccio mente locale per cercare un argomento appropriato. Ma sono stanca in questo momento, talmente sfinita che il mio cervello funziona a fatica. «Non ne ho la più pallida idea», ammetto. «Allora, ho suonato in questo posto nuovo la settimana scorsa», propone Jacob. «Si chiama Satyricon, ne hai mai sentito parlare? No? Non ci posso credere! Insomma, c’era questo ragazzo ubriaco che si ostinava a cantare sulle mie canzoni. All’inizio ho cercato di andare a tempo con lui, ma ho dovuto desistere perché faceva schifo. A un certo punto è svenuto, di botto. E i buttafuori l’hanno preso e infilato in un taxi». Poi fa un giro su sé stesso con lo sgabello. «Voilà!», esclama. «Questo era un piccolo aneddoto della mia vita. Ora tocca a te». Cerco anch’io di far ruotare lo sgabello, ma a momenti verso a terra il vino. «Questa storia mi fa venire in mente di quella volta, l’anno scorso, in cui un ragazzo si è arrampicato sul palco durante l’intervallo», racconto. «Cercava la fessura nel sipario perché voleva arrivare alle quinte. Hanno dovuto ritardare lo spettacolo, e Christine ha chiamato la polizia e tutto il resto. Stavo facendo stretching là dietro, quando l’hanno portato via in manette». Jacob mi scruta da sopra il bicchiere di birra. «Certo che voi dovete avere i fan più svalvolati, eh?». Penso a Matt e a tutti quei palloncini e i pranzi d’alta cucina che mi ha mandato. Non tutti i fan svalvolati sono cattivi, vorrei precisare. «Ho letto di una ballerina dell’Ottocento… pare che i suoi fan cucinassero le sue scarpette e le mangiassero, tipo, al sugo». «Mi prendi in giro». Alzo la mano. «Parola di lupetto». «Devo dire che è piuttosto rivoltante». «Vero!», dico ridendo. «Nemmeno con il pesto sarebbero state buone!». Anche Jacob ride e poi mi fa cenno di avvicinarmi. «Eri davvero stupenda sul palco», sussurra. Sento il suo respiro sulla guancia e un brivido mi corre lungo la schiena. «Grazie», rispondo bisbigliando. Poi si mette dritto e mi prende la mano. «E siccome tu mi hai introdotto in qualcosa di nuovo», dice, «credo che dopodomani tocchi a me fare lo stesso. È una questione di giustizia. E siccome dopodomani è lunedì, non puoi assolutamente dirmi che hai le prove». Due settimane fa avrei avuto lezioni di Pilates e di yoga una appresso all’altra, e avrei declinato l’invito. Ma stasera è diverso. «Dove mi vuoi portare?», chiedo. «In un posto che non hai mai visto davvero prima d’ora», risponde. Poi solleva il bicchiere e lo fa tintinnare contro il mio. 24 «Ma che diavolo stiamo facendo?», chiedo con le spalle curve nel mio cappotto di lana, mentre il vento si scatena intorno a noi. Io e Jacob stiamo al centro di Times Square, un posto che di solito evito come la peste, in fila con un gruppo di turisti: padri con giubbotti dei Green Bay Packers, madri in giacconi imbottiti, ragazzi di età diverse che indossano berretti sportivi e si tirano dietro borse piene di souvenir economici. «Sembrano tutti del Kansas». Tutti, ovviamente, tranne me e Jacob, che è stupendo in modo inconsapevole con il suo giubbotto blu scuro vissuto, un paio di pantaloni di velluto a coste e il cappello marrone a maglia. «A dire il vero, i Green Bay Packers sono del Wisconsin», precisa Jacob. «E poi, mi sa che ti sono sfuggite le ragazze francesi dietro di noi e la famiglia giapponese laggiù». Non mi prendo la pena di voltarmi. «Comunque, noi qui ci viviamo. Che ci facciamo con questo mucchio di turisti?» «Pensavo di portarti a visitare la città». Ride e mi poggia un braccio intorno alla spalla. «Sai, visto che tu, diciamo, in realtà vivi in quel teatro». Proprio in quel momento un autobus rosso a due piani rallenta rasentando il marciapiede. Le porte si aprono sibilando e la fila di turisti inizia ad avanzare. «Aspetta, cioè questa è una visita guidata?», chiedo incredula. «Sarebbe questo quello che non ho mai visto prima? New York da un autobus turistico Red Apple?». Jacob fa spallucce. «Quale modo migliore per vedere la città, se non dal secondo piano di un macchinone infernale che sputa monossido di carbonio? Sai che c’è anche uno speaker che racconta tutte le curiosità di New York?». E mi guida dentro l’autobus, verso le scale fin sul tetto. Ben poco eccitata, mi lascio cadere su un sedile vicino alla ringhiera. Jacob mi si stringe accanto. «Potremmo scendere e risalire, ma immagino che il tempo sia prezioso, quindi direi di fare tutto il giro su questo. Ho portato qualche spuntino». Rovista nella sua borsa e tira fuori due bottiglie di San Pellegrino, due clementine e una stecca gigante di cioccolata fondente. «Be’ in questo caso…», dico cambiando umore. Prendo un quadratino di cioccolata. La guida si schiarisce la voce, picchietta sul microfono e ci fissa con un sorriso immenso. «Benvenuti a tutti! Sono molto felice di vedervi! Siamo proprio nel cuore incandescente della città che non dorme mai! Times Square! Times Square era nota come Longacre Square fino al 1904, quando la sede del “New York Times” fu trasferita qui! Prima era un quartiere di teatri di Broadway e di postriboli!», grida. «Ma perché è così esaltato questo tizio?», chiedo con una smorfia. «Penso rientri nel suo lavoro descrittivo», replica Jacob. Sbuccia una clementina e me ne porge uno spicchio. «Dopo la prima guerra mondiale, Times Square è diventata il distretto teatrale più importante della nazione, ma cinquant’anni dopo è ritornata a essere il quartiere delle passeggiatrici e dei sexy shop!», dice l’uomo a gran voce. «Affari sporchi!». Lancio a Jacob uno sguardo dubbioso, mentre l’autobus balza in avanti infilandosi nella marea di taxi, furgoni per le consegne e auto che si dirigono a sud sulla 7a Strada. «Vuoi davvero che stia ad ascoltare?» «Veramente, pensavo di proporti il mio personalissimo tour privato. Che ne pensi?», domanda reclinando teneramente la testa. Annuisco intrigata. «Ti prego di non lasciarti prendere dall’eccitazione come quel tipo». «Va bene, allora, niente punti esclamativi. Dunque, siamo all’angolo tra la 7a e la 38a, cioè dove sono quasi svenuto una volta, per aver tracannato troppa birra Singha in uno dei club di karaoke nel quartiere coreano, durante una versione veramente incredibile di Sweet Child of Mine. A un isolato a est e leggermente a nord c’è Bryant Park, dove un’estate ho visto Il laureato con una ragazza di cui credevo di essermi innamorato». Ci fermiamo a un semaforo, e mi volto verso Jacob. «Che fine ha fatto lei?», chiedo figurandomi un’altra volta una bella brunetta con seducenti occhi scuri. «Le ho regalato delle lezioni di ceramica per il compleanno, e lei mi ha tradito con l’insegnante. Mi pare che si chiamasse Sven». «Uh, brutta storia». Annuisce mestamente. «Già. Ma non preoccuparti, questo viaggio non ruota intorno a me e ai miei piccoli drammi esistenziali. Sapevi che la Broadway è una delle vie più lunghe del mondo? Parte da Lower Manhattan, e non finisce prima di Albany, a duecentoquaranta chilometri a nord». «Davvero?» «Sì. Mentre l’Empire State Building è alto trecentottanta metri, senza contare l’antenna televisiva luminosa». Punta il dito senza precisione in direzione del grattacielo. Tento di assumere un’aria molto seria e attenta. «Affascinante». Abbiamo appena superato i segnali luminosi a neon di Times Square e ci troviamo nella terra di nessuno, a Lower Midtown: si susseguono alti palazzi di uffici pieni di finestre, bodegas che vendono vino e alimentari, marciapiedi gremiti. Jacob stende il braccio lungo lo schienale del mio sedile. «Eccoci qui, davanti all’incantevole Penn Station, la più affollata stazione ferroviaria di tutto il Nord America, dove transitano fino a mille persone ogni minuto e mezzo». «Inizio a sentirmi come uno dei tuoi bambini del doposcuola», gli confesso. «Non è che devo prendere appunti per un test a sorpresa?». Ridacchia. «Torniamo al tour personale, allora. Una volta sono stato abbordato in un bagno di Penn Station. Era un travestito di un metro e ottanta. Che poi, era anche bello, o bella suppongo… ma ho rifiutato il suo invito. E penso anche di poterti rivelare in tutta sincerità che la pizza di Sbarro sul binario 7 è la peggiore dell’universo». Il vento sferza tra i palazzi e io mi avvicino a Jacob, mentre l’autobus romba verso il centro. La guida turistica inizia a dire qualcosa sul Chelsea Hotel a un isolato e mezzo a est da dove ci troviamo, mentre Jacob mi mostra i bar dei dintorni dove ha suonato. «Ehi, guarda», lo richiamo dandogli un colpetto col braccio. «Lì c’è Loehmann’s, dove una volta ho comprato un vestitino di Marc Jacobs scontato dell’ottanta percento. E Bea ha buttato a terra un intero scaffale di occhiali da sole, quando è stata impossessata dallo spirito dell’uomo in fuga». Jacob ride. «Visto? Anche tu puoi fare la guida turistica». Continua a parlare e io scopro che il suo amico Damian ha organizzato un flash mob all’angolo della 12a Strada. Apprendo che il Greenwich Village un tempo era una palude e che la zona sotto Washington Square Park era un cimitero per poveri. «Quindi, ci sono qualcosa come ventimila cadaveri sotto di te, mentre tu sorseggi il tuo caffellatte e guardi i cani passeggiare nel loro cortile», spiega Jacob. «Simpatico, no?» «Sì, molto», ribatto. Rabbrividisco e mi stringo ancora un po’ la sciarpa intorno al collo. «Mi sto congelando. Quando arriva la primavera?». Jacob mi mette un braccio intorno. «A dire il vero, siamo a due passi dal mio appartamento. Che dici, scendiamo?». Annuisco. Mi inizia a colare il naso. Jacob mi offre una manica per asciugarlo, una cosa alquanto schifosa a dirla tutta, ma sicuramente anche il gesto più dolce che un ragazzo abbia mai fatto per me. Non accetto l’offerta; uso la mia, di manica. Scendiamo su Christopher Street, proprio mentre la guida illustra ai turisti del Kansas e del Wisconsin la storia dello Stonewall Inn e dei tre giorni di rivolta che hanno dato inizio al movimento per i diritti dei gay. «Grazie», dice Jacob alla guida turistica, lasciandogli cinque dollari di mancia. L’uomo si toglie il cappello e prosegue con il suo monologo. Jacob mi prende per mano mentre camminiamo verso est, infilandoci in mezzo alla folla di compratori. Quant’è strano e piacevole passeggiare mano nella mano con qualcuno. Non riesco a credere di aver vissuto quasi due decenni su questo pianeta senza averlo mai fatto prima. La gente che incrociamo deve pensare che siamo una coppia. E, chi lo sa, forse tutt’a un tratto lo siamo. Sulla 5a Strada, tra le Avenue A e B, ci troviamo davanti a un palazzo di mattoni angusto, leggermente malridotto, con tag di graffitari sui gradini in cemento che conducono fino al portone di ingresso. «Casa, dolce casa», esclama Jacob. «Io sto al quarto piano». Lo seguo su per la stretta rampa di scale, tentando di non sforzare la caviglia sinistra, che mi dà qualche fastidio sin dalla difficilissima sequenza di bourrée in Recluse. Il corridoio odora di cibo cinese e di piedi. «Non è fantastico», ammette Jacob, quando apre la porta del suo appartamento, affacciato sulla ferrovia, «ma il prezzo è buono. In realtà, la casa è di mio zio, ma lui non viene mai in città, ormai. Passa le giornate a dipingere nel suo cottage sulla North Shore». Nonostante sia piccolo, il suo appartamento è anche accogliente. A differenza del mio, è pieno di segni reali della presenza di chi ci abita: al muro sono appesi poster e foto, sui tavolini sono accatastati libri e fogli, e tazze di caffè freddo lasciate sulle custodie dei CD. Due chitarre sono appoggiate al muro. Non è disordinato, piuttosto… è vissuto. «Allora, passiamo alla questione pranzo. So fare circa una decina di cose diverse», propone Jacob sfilandomi il cappotto e appendendolo in un armadio strapieno. «In pratica, sono tutti piatti di pasta, perché è tutto quello che mangio. Posso prepararti penne all’arrabbiata, spaghetti aglio e olio, puttanesca… anche ramen, se si può considerare pasta». «Pesto», lo interrompo. «Visto che ti piace tanto, potresti cucinare quello, giusto?» «Guarda, di solito apro un barattolo di pesto e lo preparo», confessa Jacob. «Invece la mia arrabbiata è completamente fatta in casa. Ti interessa? È molto piccante». «Sembra ottima», replico. Lo seguo nella piccola cucina, dove mi fissa da dietro al piano d’appoggio reggendo in una mano una grossa padella di ghisa e nell’altra una spugna. Mima il gesto di lavare. «Ti prego di notare come mi assicuro di rimuovere dalle mie padelle il rivestimento petrolchimico». Poggiando i gomiti su una pila di riviste «Rolling Stone», mi stendo sul bancone. «Ho sentito dire che i prodotti petrolchimici sono il nuovo prezzemolo». Sogghigna. «Sei troppo avanti». Per un po’ lo guardo aggirarsi per la cucina, poi mi alzo ed esamino la sua collezione di musica e la libreria. Non sto ficcanasando, voglio solo conoscere i suoi gusti. Sembra che gli piaccia uno scrittore giapponese che si chiama Oé e poi ha circa venti album di Neil Young. Sprofondo nel divano e prendo un vecchio numero del «New Yorker». Ma non lo leggo, tengo gli occhi chiusi stringendolo. «Una Bud Light per i tuoi pensieri», offre Jacob avvicinandosi da dietro al bancone e allungandomi una bottiglia di birra. Ha indosso un grembiule con la scritta “Bacia il cuoco”. «So che sei più una tipa da vino, ma ho dimenticato di andare al supermarket prima». Provo a fare un sorso e mi scappa una piccola smorfia; non sono una gran sostenitrice della birra. E poi, sono solo le due di pomeriggio. Mi guardo i piedi, pallidi e pieni di vesciche, e dimeno le dita. Quelle dita su cui danzo ogni singolo giorno. Jacob si siede accanto a me sul divano, e io mi nascondo i piedi sotto il sedere. Ha uno schizzo di sugo sulla guancia. «Allora… i tuoi pensieri?» «Be’, a dispetto del mio scetticismo, la gita in autobus è stata piuttosto divertente», ammetto. «È bello sapere che c’è molto più in questa città oltre al Manhattan Ballet». Gli indico la guancia. «Hai qualcosa lì», dico. E con un angolo del grembiule si pulisce dal sugo. «Grazie», ribatte. «E adesso preparati, perché quello che ti sto per dire potrebbe sbalordirti… C’è molto più in questo mondo oltre a New York City». Spalanca gli occhi e mima un’esplosione con le mani. «Frena, frena», mi fingo scioccata. «Vuoi dire che non cadremo giù dal pianeta, se superiamo il distretto finanziario?». Jacob scuote lentamente la testa, con un’espressione di assoluta serietà. «Pazzesco, vero? Questa cosa mi fa venire in mente… ho trovato questo posto dove noleggiano kayak a ore. Pensavo che sarebbe divertente vedere la città dall’Hudson», afferma. «È fantastico1», dico esitante. Mi guarda con sorpresa. «Sono colpito! Stai facendo pratica?» «Sì, un pochino», ammetto ridendo. «Ho comprato un’app di italiano per il mio iPhone la settimana scorsa. Voglio riuscire a cavarmela quando finalmente andremo a vedere un film di Fellini». «Io… caspita… grande», balbetta. Lo guardo negli occhi con un’espressione seria. «Invidio il tempo che hai per esplorare così tante cose». Poi ridacchio. «Ah, e voglio anche sapere come si dice che uno ha un grande cappello e come si chiede dov’è la spiaggia». I suoi occhi azzurri si illuminano e mi regala il sorriso più smagliante che abbia mai visto. Ma poi si fa serio, e mi guarda come non aveva mai fatto prima. Si china verso di me e, un attimo dopo, le sue labbra incontrano le mie, dolci ma decise. Quasi come se appartenessero a qualcun altro, le mie mani raggiungono la sua schiena e con le dita tocco la pelle calda del suo collo, fino alle punte arruffate dei capelli. Mi avvolge tra le braccia, e sento che i nostri corpi si fondono insieme. Infine, si allontana da me, allunga la mano a prendermi una ciocca di capelli che mi nasconde dietro l’orecchio. «Ti ho mai detto che mi piaci?», chiede. Annuisco. Fuori scattano due allarmi di auto, uno dietro l’altro. Il termosifone di Jacob sfrigola e rumoreggia, quando il riscaldamento si accende. «Credo sarebbe carino se anch’io piacessi a te», dice. «Ti piaccio?». Annuisco di nuovo. È come la prima sera che l’ho incontrato, quando non riuscivo a spiccicare parola. Si china e mi bacia di nuovo. Sento che in cucina qualcosa sta bruciando, ma non dico niente. Mi stendo sul divano e lui si piega su di me. Avverto il suo peso. Teniamo gli occhi chiusi. Affondiamo l’uno nell’altra. «Sai, io…», inizia Jacob, con la bocca sul mio collo. «Basta parlare», sussurro. Lo attiro a me e lo bacio appassionatamente. 1 In italiano nel testo originale (n.d.t.). 25 La mattina dopo, Bea viene da me con due bicchieroni di caffè e un’insalata di frutta in vaschetta del negozio all’angolo. Mi strofino gli occhi quando entra; non sono ancora nemmeno le nove. «Sono uscita con Max Gruner ieri», racconta rovesciando la frutta in due coppe e prendendo le forchette dalla cucina. I suoi capelli rosso brillante le cadono ondulati da sotto il berretto nero. Lancio un gridolino di eccitazione. Max Gruner è un altro ragazzo del corpo di ballo. È bello, non fosse per quel piccolo problema di acne sul mento, e poi è un danzatore eccezionale. Una volta ho sentito Otto dire che Max è una promessa, una lode impareggiabile per i canoni di Otto. «Raccontami tutto», le dico. Ma devo sedermi su una sedia. Stanotte sono rientrata dopo le due e poi non sono riuscita a prendere sonno. Bea sospira. «Ero tremendamente nervosa, e anche lui. Per tutto il tempo non ho fatto altro che pensare all’imbarazzo e al disagio della cosa. Per dire, dopo lunghi silenzi attaccavamo a parlare nello stesso momento». «Frena. Ricominciamo dall’inizio. Chi l’ha chiesto a chi?» «Io l’ho invitato a vedere un film». Batto le mani. «Ben fatto!». «Lo pensavo anch’io. Gliel’ho chiesto domenica, dopo la matinée. Avevo ancora addosso il trucco di scena, così ho finto di essere un’altra persona. Una persona più coraggiosa». «Come Zoe?», chiedo. Bea ride. «Ho detto più coraggiosa, non più puttanella». «Dài, comunque sia, sono orgogliosa di te. Hai avuto fegato». Infilza un pezzo di ananas con la forchetta. «Non voglio essere l’ultima al mondo che non ha mai avuto un ragazzo». «Innanzitutto, chi se ne frega, e poi non sei l’ultima. Pensa al corpo di ballo: Jordan non è mai uscito con nessuna». «Ma lui è completamente fuori. Tanto per dirne una, va in giro su quel monopattino elettrico. Quindi per favore non mi paragonare a lui». Sorrido. «Hai ragione, scusa». Bea mette in bocca un pezzo di ananas, mastica e poi sospira. «Mi chiedo che motivo ci sia per tutto questo». «Il motivo per cosa?» Mi guarda come se fossi mezza deficiente. «Provare a stare con qualcuno, quando è molto più semplice stare soli», spiega. «Bea, non sei costretta ad avere un ragazzo», preciso. «Puoi fare tutto quello che vuoi». Soffio sul caffè e ne prendo un sorso. È forte, eppure non abbastanza. «Sì, lo so». Sospira. «Tu e Jacob? Come vanno le cose?» «Alla grande. O meglio, andrebbero alla grande se non fosse per tutto questo». Muovo le braccia in circolo. «Il tuo appartamento?». Stavolta sono io a chiederle ma sei scema? con uno sguardo. «No, la mia vita. La compagnia. Il mondo del balletto. Come hai detto tu, complica le cose». Bea si alza e va in cucina. «Non hai bicchieri puliti?», grida. «Ah, eccoli». Sento il rubinetto che scorre, mentre si riempie un bicchiere d’acqua. «Certo, è dura per tutti noi. Ma eravamo ben consapevoli in cosa ci cacciavano all’età di nove anni». «Lo so, Bea, ma le persone cambiano in dieci anni», replico. «Ora sono diversa da com’ero qualche anno fa». «Eh, ringraziando il cielo! Eravamo proprio sfigate allora», dice ridendo. «Ti ricordi che morivamo dalla voglia di fare gli alberi, solo per poter salire sul palco con la compagnia?». Si imbarazza. «E adesso che siamo cresciute, comprendiamo e apprezziamo di più quello che facciamo». «Sì, certo, ma…». «Sei solo un po’ sfiancata», aggiunge convinta. «Tra una settimana ti sentirai di nuovo meglio. Gli stati d’animo cambiano da un momento all’altro». Spero tanto che abbia ragione. Bea mi fissa più da vicino con i begli occhi azzurri. Non capisco la sua espressione finché non chiede: «Allora, la mangi, l’ananas?». Spingo la ciotola verso di lei. «Tutta tua». «Grazie», dice. «Adesso vai a prepararti. La lezione inizia tra un’ora». La giornata non è facile. A causa della mancanza di sonno, combinata con l’affaticamento di settimane e settimane di balletti senza pausa, già dopo la seconda prova della giornata inizio a sentirmi sfiancata; senza contare che mi si prospettano altre tre ore di prove, oltre a A Night Piece, Concerto in Do e Foresight nello spettacolo di stasera, prima di poter mangiare un pasto vero e fare un bagno. «Tirati su, Hannah», sbraita Annabelle Hayes. «Sembra che stai spazzando il pavimento!». Obbediente, tendo gli addominali e cerco di restare vigile, ma mi fa male la schiena e le cosce sono spompate, quindi è praticamente impossibile attivare le gambe. I muscoli spompati fanno male come un pugno fortissimo in piena gamba; anche un tocco leggero si trasforma in tortura. Annabelle batte le mani per fermare la prova. «Va tutto bene?», mi chiede. «Stai male?». Scuoto la testa. Ci è stato insegnato fin da piccole che non si parla durante la lezione o le prove, a meno che non sia estremamente necessario, e soprattutto non ci si lamenta mai. Perciò non le confesserò di essere completamente esausta, di avere le scarpette distrutte e le cosce di nuovo a pezzi. «Dall’inizio, allora», ordina Annabelle, aggrottando le sopracciglia. Tutte le ragazze borbottano e Zoe mi guarda palesemente seccata. Il pianista ricomincia a suonare, e non posso far altro che cercare di riprendermi e ignorare la mia sofferenza. Ricordo che quando ero una danzatrice più giovane, certi giorni il dolore era talmente forte che soffrivo persino a girarmi nel letto, o a respirare, o se facevo qualunque altra cosa oltre a starmene stesa immobile sul pavimento. Allora provavo una certa soddisfazione nell’indolenzimento, perché sapevo di essere viva e che il mio dolore era il risultato di qualcosa di grande. Vorrei poter ritrovare di nuovo quella sensazione. La sera, prima dello spettacolo, mi cospargo il viso di cerone, a cui aggiungo strati di cipria. Con il volto completamente bianco, sembro quasi il fantasma di me stessa. Decido di prendere una Coca Light dal distributore automatico e poi una boccata d’aria fresca. Così rimando a dopo ombretti, eyeliner, ciglia finte e lucidalabbra. Salgo le scale e infilo i centesimi nella fessura per le monete. Mentre aspetto che la lattina cada, scorgo Otto e Mai dall’altra parte del corridoio. Le guance solitamente pallide di lei sono tinte di rosa e il suo petto si alza e si abbassa visibilmente; deve venire da una prova. Otto gesticola animatamente e sembra quasi ridere mentre parla. Mai ascolta, annuendo, e poi risponde. Non riesco a sentire cosa si dicono, non che ne abbia bisogno: basta guardare per capire che stanno intrattenendo una vera conversazione. Non credevo che qualcuno potesse farlo con Otto. Nella mia esperienza, di solito lui abbaia qualcosa, un comando o una lamentela, e tutti gli altri se ne stanno semplicemente muti e fanno quello che viene detto loro. Cadendo sullo scivolo, la lattina di Coca Light fa un rumore sordo e piomba nel cassetto aperto del distributore. Sussulto per il rumore, e Otto ruota la testa verso di me. Inizialmente il suo sguardo è inespressivo, ma poi si riempie di un sentimento… di sdegno, direi, o forse addirittura disgusto. Un leggero brivido mi scorre per tutta la schiena, e mi chiedo se mi guarda in quel modo perché ho il trucco ancora incompleto o perché non ha dimenticato la prova in cui non sono riuscita a eseguire il brisé volé. Accenno un sorriso incerto, ma lui continua a fissarmi come se fossi assolutamente indesiderata in questo corridoio, o in tutto il teatro, o sull’intero pianeta. Negli imbarazzanti attimi successivi, tutti i pensieri ostili e più cupi che ho avuto finora mi vorticano nella mente. La speranza che mi dessero finalmente il colpo di grazia. L’incubo di Otto che vuole tagliarmi via i seni. Mi sento martellare il cuore in petto. Tengo stretta la lattina, come fosse una sorta di scudo. Dopo un tempo che sembra un’eternità, Otto svia lo sguardo. Chino la testa e spingo le gambe a muoversi. Poi fuggo nella sicurezza del camerino. A serata inoltrata, rischio di ritardare la mia entrata per il balletto di Jason Pite. Ma quando vado in scena, mi sento stranamente rilassata, quasi distaccata. Balzo in alto e lancio in aria le gambe per un rond de jambe. Mentre mi muovo sul palco, ho la mente libera e calma. Persino il respiro si fa più facile, leggero, e sento la musica come se giungesse da lontanissimo. Ballo e nient’altro, come mi trovassi in un sogno, fino a che le note finali dell’orchestra non incalzano per poi sfumare. Immagino che si provi questo quando te ne freghi di tutto. Annabelle Hayes sta in piedi sotto al segnale di uscita, la cui luce rossa si riflette sulla sua testa. Tiene le braccia esili incrociate sul petto; somiglia a un passerotto. Mi fa un cenno. Poi apre la bocca e pronuncia qualcosa, ma è troppo lontana perché io possa sentirla. «Come, scusa?», dico avvicinandomi a brevi passi. Inconsciamente mi controllo lo chignon e mi aggiusto il costume. Annabelle mi ammicca. «Andava molto meglio, Hannah», si congratula. Balbetto appena un «grazie», e Annabelle annuisce in segno di apprezzamento. Non ricordo più quando è stata l’ultima volta che mi ha detto qualcosa di carino. Che strano: oggi, durante le prove a momenti mi prendeva a calci nel sedere e ora mi fa un vero complimento. Torno nel retropalco, dove sono tutti più o meno pronti per il balletto finale. È un’immensa coreografia per il corpo di ballo e ne facciamo tutti parte. «Com’è andato Pite?», chiede Bea. «A quanto pare, bene», rispondo prendendo la mia bottiglia di acqua. Ne bevo metà praticamente in due sorsate. «Ho ricevuto un complimento da Annabelle, vai a sapere perché». La testa scura di Daisy fa capolino da dietro la spalla di Bea. «Non ci credo», esclama. Zoe è appena arrivata, ancora col fiato corto per la performance. «Un complimento? Mi domando che cosa le passi per la testa», dichiara. Mi scolo tutta l’acqua rimasta e poi controllo il trucco nello specchio. Devo ritoccare il rossetto e sistemarmi i capelli in uno chignon basso. «Che poi, una volta tanto ero assolutamente rilassata. È stata come una liberazione». Zoe alza un sopracciglio. «Se va bene a te», dice poco convincente. «Ma la coreografia di quello lì si può definire appena un balletto, sai… voglio dire, tutto quel rotolare per terra avanti e indietro! Che schifo». «Sono sicura che sei stata fantastica, Hannah», conclude Bea. Zoe sbuffa sommessamente e si allontana. Non riesco a trattenere un sorriso. Ma tornata nel mio appartamento, cambio di nuovo umore. Riempio la vasca, sali da bagno e qualche goccia di olio essenziale alla lavanda, e mi ci immergo. Mi stendo e chiudo gli occhi, per non essere costretta a guardare l’orribile vernice turchese dei muri. Nel tepore dell’acqua sento la schiena allungarsi, i quadricipiti rilassarsi dalla tensione. Canticchio tra me e me una melodia che mia madre intonava sempre. I sali sfrigolano dissolvendosi, e mi immergo più a fondo nell’acqua. Squilla il telefono, ma non rispondo. Ho posizionato un paio di vecchie scarpette da balletto sulla mensola del bagno, per guardarle. La pelle è crepata e sbiadita, e quello che era un meraviglioso rosa ora sembra il colore di una Big Babol masticata. Ma non le getto via, perché sono un ricordo di quando mi sono innamorata della danza. Avevo nove anni e facevo lezione tre volte a settimana alla Boston Ballet School. Un giorno, mentre eseguivamo tendu alla sbarra, iniziai a immaginare di essere un robot e di ballare con movimenti molto netti e precisi. Non ho idea di come mi sia balenata un’idea del genere; so soltanto che quando danzavo, mi figuravo nella mente un automa e cercavo di muovermi proprio come avrebbe fatto una macchina. Immaginavo di avere le braccia di alluminio e il busto di acciaio. Quando mi muovevo, fingevo di fendere l’aria come un coltello. L’insegnante fermò la lezione e mi indicò con la punta del suo dito innaturalmente lungo. Sentivo il rossore che mi tingeva le guance, ero di certo nei guai. Ma poi si rivolse nuovamente al resto della classe. «Guardate tutti Hannah», suggerì alle altre bambine. «Voglio che vi muoviate proprio come lei». Non potevo credere alle mie orecchie. Da quel giorno la mia insegnante si prese più cura di me, e l’anno successivo il direttore artistico del Boston Ballet si offrì di darmi lezioni private. Si trattava di una cosa eccezionale: immaginatevi, il direttore di un’eminente compagnia di ballo che usa il suo tempo per insegnare a una ragazzina di dieci anni le variazioni di Giselle e Raymonda. Quando le ho tirate fuori dalla scatola, le scarpette odoravano del sacchetto al legno di cedro in cui le tengo conservate. Sembravano così piccole. Cos’è successo a quella bambina che non sognava altro che danzare? Vorrei poterle parlare adesso. Mi chiedo se mi consiglierebbe di non perdere la speranza. Perché un singolo complimento di Annabelle non può cancellare la frustrazione accumulata, nel modo più assoluto. Mi metto seduta nella vasca e mi guardo i seni. Hanno praticamente la stessa grandezza di sempre, vale a dire più grossi di quanto li vorrebbe Otto. «Non è colpa vostra», li consolo, e poi sprofondo ancora più giù nella vasca. [eBL 092] 26 «L’avete saputo?», chiede Zoe, cercando di apparire calma, nonostante sia ovviamente agitata. «Eliza e Olivia sono state promosse a soliste». Sbatte una scarpetta da punta nuova contro la porta per ammorbidirla, un’operazione che tra l’altro è anche un ottimo modo per sedare la frustrazione. «Soliste!». «Che cosa? Parli sul serio?», dico in pratica urlando, dimenticandomi per un momento che si suppone debba essere felice per le mie colleghe. Sono ragazze come me, che hanno dovuto tenere duro per tutto ciò che credevamo fosse eterna frustrazione. È un evento importantissimo e per Oliva ed Eliza è il coronamento di una vita. «Ma così, da un giorno all’altro?», chiedo. «Olivia non ha avuto un assolo per mesi». «Veramente sì», puntualizza Bea, ma la ignoro. Sono sconvolta, come tutte le altre. Daisy raggruppa una manciata di centesimi e poi sparisce. Zoe si spazzola i capelli furibonda per qualche momento prima di uscire a fumare. «Cioè, è grandioso per loro, veramente», aggiungo faticando non poco a crederci. Chiudo la mia borsa del teatro e poi la riapro agitata. «Certo», insiste Bea. Olivia ed Eliza si affacciano sulla porta del nostro camerino. Il visino da folletto di Olivia risplende di gioia, e nonostante Eliza sorrida, appare ancora sbalordita. «Non ci posso credere», continua a ripetere. Sussurra appena. «Pensavo che sarei rimasta per sempre nel corpo di ballo. Non ci posso credere». E in un certo senso, nemmeno io riesco a crederci. Abbiamo interpretato insieme i cigni nel Lago dei Cigni e i fiocchi di neve nello Schiaccianoci, e ora loro ricevono il riconoscimento che tutte meritiamo. «Congratulazioni, ragazze», mi complimento. «È una notizia fantastica». Faccio del mio meglio per sembrare sincera. «E niente più Valzer della neve!», grida Bea. «Ragazze, siete così fortunate». Ma anche Bea sembra stia fingendo. Eliza e Olivia sorridono, ci ringraziano e accettano fugaci abbracci. Poi attraversano l’ingresso verso il loro camerino. Io sono felice per loro, ma sono anche delusa per me stessa. Io e Bea sediamo alle nostre postazioni, a digerire con calma la notizia, entrambe perse nei nostri pensieri. Dopo un po’ inizio a sentirmi irrequieta, raccolgo i miei pennelli del trucco e li porto tutti in bagno. Uno a uno li lavo strofinandoli contro il palmo della mano con il sapone. «Sinceramente», accenno parlando sopra il rumore dell’acqua corrente, «come ha fatto Olivia a farsi notare?». L’acqua che scorre diventa rosa, poi marrone, poi marrone purpureo. «Non è che sia un fenomeno». «Infatti, è proprio una tipa scialba», conferma Bea. Poso delicatamente i pennelli su una pila di carta assorbente e poi li riporto alla mia postazione. «Ma è una persona costante. E poi, in pratica, non esce mai dal teatro», aggiunge Bea, mentre si esamina le unghie delle mani. «E allora Eliza?», chiedo, mentre strizzo ogni pennello in un fazzoletto di carta e lo poggio sul mio tavolo. «Be’ per anni le sono capitati ruoli da demi e da solista», sostiene Bea, quando Zoe entra ancora impregnata della puzza di fumo. «Scommetto che deve ringraziare i suoi nuovi capelli più biondi, per gentile concessione di Oscar Blandi. Questo, e anche il fatto che ha iniziato a uscire con Sam», rivela Zoe in confidenza. «Gesù, quanto sei cinica», la rimbrotta Bea strappando l’etichetta della bottiglia d’acqua. «Mi piace considerarmi realista». Zoe fa una smorfia con le labbra davanti allo specchio e volta la testa da una parte all’altra. Entra Leni sorridente, con il tappetino da yoga arrotolato sotto il braccio. «Ehilà, signore!». Poi abbassa la voce. «Ah… vedo che vi è arrivata la notizia». «È così ovvio?», chiedo. Mi giro a guardare Bea che apre e chiude ripetutamente la bottiglia d’acqua, come frastornata. Persino Zoe appare frustrata. Con uno scatto del polso, Leni srotola il tappetino da yoga, per mettersi subito in equilibrio sulle mani, una gamba lunga distesa dietro di sé e l’altra poggiata lateralmente sul retro delle braccia flesse. «Variazione del corvo laterale», bofonchia, prima che qualcuno glielo chieda. «Niente schiarisce le idee come un parziale capovolgimento. A parte un capovolgimento completo, naturalmente». Daisy entra nel camerino, con gli occhi leggermente rossi e gonfi, e molla a terra un pacchetto di patatine al formaggio. Indossa una maglietta sbiadita dei Mets di Caleb sopra al body. «Non posso crederci! Olivia? Che cosa ha fatto per meritarsi una promozione?». Zoe si volta verso di lei, con gli occhi verdi fiammeggianti. «Perché, credi forse che l’avresti ottenuta tu? Lascia che ti ricordi che noi qui ci spaccavamo il culo quando tu portavi ancora il pannolino. Non arrogarti diritti non tuoi… hai sedici anni». «È chiaro che sei invidiosa perché Otto mi tiene d’occhio. E per tua informazione, farò diciassette anni tra due mesi e Mai è stata promossa a quest’età!», ribatte Daisy con veemenza pestando il piedino per terra. Leni si rovescia dalla sua posizione sul tappetino. «Tesoro, ti spiace abbassare la voce? Ho tutti i chakra fuori fase». «Vaffanculo i tuoi chakra!», strilla Daisy con il pugno che ruota per aria. Leni alza lo sguardo su di lei con un’espressione preoccupata, e poi le si dipinge sul volto un ampio e meraviglioso sorriso. Daisy fissa accigliata Leni, ma alla fine si scioglie in un risolino, per poi gettare indietro la testa, emettendo uno strano suono soffocato e sguaiato. Non capisco bene se rida o pianga; forse entrambe le cose. Dopo qualche momento si ferma, quasi boccheggiando. «Non ci credo che ho appena mangiato tutte quelle patatine!», grida. «Dovrò saltare la cena per i prossimi quattro giorni». «Tagliati un braccio», suggerisce Zoe. «Così elimini tre chili in un colpo, facile no?». Ghigna con malizia, tentando di soffocare la risata, e io sbuffo sottovoce. Daisy inizia ad andare avanti e indietro nella stanza. «Oppure devo riprovare la South Beach?». Ora anche Bea sta ridendo, mentre Daisy continua a parlare a macchinetta di diete purificanti, veloci e folli. Dopo un po’ alza lo sguardo, si accorge che ridiamo e attacca a ridere di nuovo anche lei. «Ma sentite che dico!», urla. «Sembro una pazza! Fermatemi per favore». Anche Leni ormai si sta rotolando dalle risate. Mi guardo intorno nella stanza, scorgo i body e i collant appesi a qualunque gancio e sbarra disponibili, fisso le immagini degli scivoloni di moda delle star, le borse del teatro rovesciate per terra, e i volti delle mie amiche. Riuscire a ridere insieme in questo modo è una cosa davvero straordinaria, dal momento che siamo tutte così deluse e frustrate. Ci lega la nostra capacità di non perdere il senso dell’umorismo in questa situazione. Sinceramente, non è soltanto questione dell’improvvisa ondata di affetto che provo per queste persone con cui sono cresciuta e con cui mi scontro quotidianamente. Mi rendo conto che se Olivia ed Eliza possono essere promosse, ho anch’io una speranza, come tutte le ragazze più grandi come me. Dopotutto, Annabelle si è appena congratulata perché sono migliorata. Non devo far altro che scegliere di concentrarmi. Dare di nuovo tutta me stessa alla danza. Il tetto del teatro è un posto fuligginoso e sferzato dal vento. Sprofondo le mani nelle tasche e cammino verso l’angolo che si affaccia sulla piazza, dove i ragazzi vanno a fumare. C’è un’unica sedia pieghevole accanto a un secchio di sabbia. “Butta qui le cicche” è scritto sul secchio, eppure il tetto è cosparso di resti di Camel e Marlboro. Se Otto salisse da queste parti, gli piglierebbe un attacco isterico. «Così?», strillerebbe. «È così che trattate il tetto sopra le vostre teste?». Mi siedo sulla sedia e poggio i piedi sul bordo del secchio. Il vento aumenta, e intravedo qualche fiocco di neve che scende piano dal cielo. Alzo gli occhi sorpresa; la neve a marzo è un evento raro. Mi tiro il cappello più in basso sulla testa e guardo i fiocchi di neve sciogliersi contro il tetto asfaltato. All’indietro e in avanti, all’indietro e in avanti, fletto e stendo il piede. Sollevo la gamba destra e ruoto la coscia all’esterno. Sollevo anche la gamba sinistra e sento lo sforzo del baricentro mentre mi tengo in equilibrio sulle mani poggiate sul sedile freddo e metallico della sedia. Le braccia mi tremano sostenendo il mio peso. Poi mi spingo per mettermi in piedi e mi sposto verso la balaustra del tetto. La neve cade silenziosa e più fitta. Fingo di attendere nelle quinte, di sentire i violini e il violoncello sopra il rumore del traffico in strada. Eseguo un piqué arabesque con le braccia che disegnano un cerchio in quinta, una dopo l’altra, poi con un tombé mi piego all’indietro e guardo il cielo. I fiocchi di neve mi si sciolgono sulle guance. Una glissade e un lento giro balancé, seguiti da piqué arabesque, chassé, giro in jeté. L’aria non è più fredda, mentre continuo a ballare. I fiocchi di neve mi cadono intorno in spirali, come se anch’essi danzassero. Con un cigolio la porta si spalanca. Jonathan è fermo sulla soglia, con una sigaretta spenta in bocca. I capelli castano chiaro gli svolazzano negli occhi, e ha la barba da radere. Spalanca gli occhi azzurri quando mi vede. «Che diavolo stai facendo, gioia?», domanda avanzando sul tetto. Mi blocco immediatamente, spaventata per essere stata sorpresa. Il respiro si fa veloce e breve. «Che te ne sembra?», Mi piego in avanti e poggio le mani sulle ginocchia. Mi accorgo che devo apparire piuttosto strana, a ballare in collant, scarpe da ginnastica e cappotto invernale, tutta sola sopra un tetto. «Metamorphoses. E mi sembra molto buono». Non posso far altro che sorridere. «Grazie». «Sigaretta?», chiede allungandomi il pacchetto. Scuoto la testa. «No, grazie». «Come ti pare». Gli passo accanto mentre si accende la sigaretta e aspira a lungo. «Complimenti per il salto sulla piroetta in jeté», grida, e io gli rispondo con un cenno della mano. Dall’altra parte della pesante porta di ferro, l’antro delle scale è buio e caldo. Mi affretto a tornare nel camerino. Le prove iniziano tra venti minuti. Il corpo mi pulsa per lo sforzo. Penso all’adagio di Metamorphoses e alla sezione di archi della Suite n. 1 di Tchaikovsky; penso a quanto sia emozionante eseguirla. Il pensiero di dire addio a tutto questo improvvisamente sembra orribile e spaventoso. Nel momento stesso in cui lo capisco, avverto un incredibile senso di sollievo. «Sono a casa», sussurro, «sono a casa». Mi imbatto in Leni mentre vado alle prove. Mi apre la porta dello studio. «Sai», le dico, «penso che questa sia una buona cosa. Le promozioni, intendo. Sarò impazzita? Eppure intravedo una certa speranza». Leni annuisce con calma. «Immer wenn du meinst es geht nicht mehr, kommt von irgendwo ein Lichtlein her», proclama. «Che significa?», chiedo. «Proprio quando pensi di non farcela, da qualche parte giunge una piccola luce», spiega. Mi offre un sacchetto di qualcosa di verde. «Sfogliatine alle verdure? Sono piene di fitochimici». Scuoto la testa e sorrido. Mi sento proprio come se una piccola luce sia giunta. Quando Jacob mi chiama quella sera, corro ad afferrare il telefono per raccontargli la notizia. Ma poi lo tengo in mano e lo lascio squillare. La sua foto sul display lampeggia, il suo viso sorridente, con un autobus turistico Red Apple dietro di lui. Conto tre squilli, poi quattro, poi cinque. Concentrati, Hannah, concentrati. Non premo il pulsante per rispondere, e la chiamata viene reindirizzata alla segreteria. 27 Ovviamente non sono l’unica motivata dalle promozioni. Oltre ad aver iniziato un’altra dieta, Daisy ha comprato un intero guardaroba nuovo di vestiti per gli allenamenti. Sembra una modella di un catalogo di Danskin. «Cavolo, è proprio disperata», bisbiglia Zoe mentre rovista nella sua borsetta. «Già, se quella tattica funzionasse, saremmo tutte coperte di lycra DayGlo», sussurro in risposta. Ignara, Daisy si pavoneggia per la stanza, con i capelli neri ondulati e splendenti per un recente trattamento con olio caldo. «Il dottor Shapiro sostiene che i colori influiscano davvero sull’umore e sulla visione della vita, sapete», riferisce. «Come no. E quel giallo grida solista a gran voce». Sorride compiaciuta Zoe. «Cosa?», chiede Daisy. «No, niente. Dicevo che mi piace molto il giallo del tuo body». Non che Daisy sia l’unica a sentirsi in competizione. Zoe ha ricominciato a ballarmi accanto e di tanto in tanto mi lancia occhiate, a volte serie a volte scherzose, ma cariche di sfida. Solo Bea e Leni mi sembrano quelle di sempre. Per usare le parole di Daisy, «possiedono un enorme equilibrio emotivo» chiaramente una frase imparata dal dottor Shapiro. «Io sono la ballerine près de l’eau», dichiara Leni. «Tu e le tue frasi in lingue sconosciute», esclamo. «Cosa vuol dire?» «È francese», risponde, «vuol dire “la ballerina più vicina all’acqua”. Un modo per indicare una danzatrice vecchia, a cui assegnano una posa sullo sfondo. Nei tempi andati accanto a una fontana». «Non ti capisco». Fa spallucce. «Sono come la scenografia. Ma non credo che Otto mi scaricherà. Penso di piacergli, per quanto sia capace di farsi piacere qualcuno. Ma non sarò mai promossa». E per quanto ne so, ha ragione. Forse è solo una danzatrice competente ed energica, a cui manca (o è convinta che le manchi) quella qualità inesplicabile che la renderebbe una stella. Bea pensa lo stesso di sé, con la differenza che per lo meno ha l’età dalla sua parte. «Pensi che ci sarà ancora il ragazzo figo oggi?», sussurro a Bea. «Taylor?». Siamo tornate al corso di Bikram, perché ora che dedico di nuovo me stessa al Manhattan Ballet, devo irrobustire le parti flosce e sembrare piatta e soda per i prossimi balletti in body. Bea scrolla le spalle mentre srotola il tappetino di yoga. Si stende nella posizione del cadavere. In realtà non ci voleva venire. «Ti compro un frullato allo yogurt dopo», le bisbiglio. Apre un occhio. «Ne ordino uno maxi, con tutti gli extra esistenti, tipo spirulina e simili. Ti costerà una fortuna». Sorrido e le spingo un braccio. Cerca di soffocare una risata, e le do un’altra spinta. Sto per metterci in imbarazzo entrambe partendo con una specie di attacco di solletico, quando la porta della sala si spalanca, e alziamo lo sguardo. Al posto di Taylor, abbronzato e stretto in vestiti che abbracciano ogni muscolo e tendine del suo corpo, entra Zoe. Indossa un paio di pantaloncini neri da yoga e un microscoPico© top sportivo viola. Cammina verso di noi, aggirando le persone, e stende il suo tappetino accanto al mio. Sistema l’asciugamano e la bottiglia d’acqua in silenzio, poi si volta verso di me con un ampio sorriso. «Non potevo mica farti diventare uno schianto da sola, no?». Accanto a me sento Bea che fa un lento sospiro. Fingerà che Zoe non sia realmente qui. Peccato che io non possa fare lo stesso, visto che si è piazzata a cinque centimetri da me. Quando Taylor entra con il suo sorriso da fotomodello, Zoe mi si avvicina e sussurra: «Porca vacca, come se mi servisseun’ulteriore motivazione». Non posso far altro che sospirare. E ovviamente si prende il suo numero. Va dritta dritta da lui dopo la lezione e gli dice che istruttore incredibile e straordinariosia. Dice che i suoi incoraggiamenti l’hanno profondamente ispirata e che lui l’ha aiutata a raggiungere un nuovo livello nella sua pratica. A momenti sputo l’acqua che sto bevendo. «La sua pratica?», chiedo a Bea. «Non ha mai provato Bikram prima di oggi». «Non ha pudore», concorda Bea mentre ci dirigiamo nello spogliatoio. «Ricordamelo la prossima volta che mi chiedo come faccia ad avere tanti ragazzi». «Taylor non sarà mai il suo ragazzo», replico. «Ma potrebbe andarci a letto una volta o due». «Ragazzo, amico di scopate, quello che sia», ribatte Bea. «Andiamo a prendere quel frullato che mi devi». La fisso. «Hai appena detto amico di scopate?» «Mi pare di sì». Bea tenta di mantenere un’espressione seria, ma vedo bene che non riesce a trattenere il sorriso. «Non ti ho mai sentito pronunciare la parola scopare prima». Cede e sorride. «La gente cambia». «Non cambiare troppo, però. Sei la mia roccia». «Non ti preoccupare», mi consola con una risata. Mi sfilo i vestiti sudati ed entro nella doccia. L’acqua calda mi scivola addosso, rischiando quasi di sciogliermi. «Devo scrivergli un’e-mail», dico quasi a me stessa. «Che?», grida Bea dalla doccia accanto. «Vuoi scrivere un’e-mail a Taylor? E per cosa?» «Ma no, a Jacob. Ha telefonato giorni fa, e non l’ho mai richiamato». «Faresti bene», ribatte Bea. «Ehi, posso usare il tuo shampoo?». Non potrò uscire con lui, ma posso almeno scrivergli per un saluto. Così la sera lo faccio: A: [email protected] Da: [email protected] Ciao Jacob, scusa se non ti ho richiamato. Hanno promosso a solista un paio di ragazze più grandi, e la cosa ci ha mandato fuori di testa. Adesso stiamo tutte a chiederci chi sarà la prossima. Sono tornata al regime di allenamento: Pilates, Bikram, ecc. La mia amica Leni mi ha suggerito di provare la girotonica, ma penso di frequentare già abbastanza corsi strani. Comunque, niente, ti pensavo. Spero che vada tutto bene. Hannah Ma ancora dopo qualche giorno, non ho ricevuto sue notizie. «Permettimi almeno di portarti il pranzo», si offre Matt. «Non ho niente da fare oggi». Tengo il telefono nella parte interna del collo, mentre infilo un paio di scarpette da punta nuove. «Sicuro che non devi volare a Parigi o qualcosa del genere?», chiedo. «Non sei richiesto su un charter per Gstaad?» «Molto divertente. A dirla tutta, per i prossimi tempi resto qui. Almeno fino a dopo il gala del Met Opera». «Mmm», mormoro. «Come vanno le cose?», chiede. «Impegnata. Non avevo nemmeno intenzione di rispondere al telefono». «Ma poi hai visto che ero io», si compiace Matt, «e hai dovuto farlo». «A dire il vero, l’ho fatto sovrappensiero», ribatto. «Sei fantastica ultimamente sul palco», si complimenta. «I tuoi salti sono straordinari». Dimentico che spesso siede tra il pubblico, accanto a suo padre, il magnate bancario allampanato dai capelli grigi. Anche nel periodo in cui non ci siamo sentiti, Matt sapeva dov’ero e cosa facevo. «Grazie, ci provo». «Allora, cosa vuoi che ti porti?» «Ho un’ora appena», gli spiego. «Non ne vale la pena per te». La sua voce profonda diventa ancora più grave. «Perché non lasci che sia io a giudicare cosa vale e cosa non vale la pena per me?». Poi ride. «Seriamente. Sai come finirà. Io ti propongo qualcosa, tu ti opponi, io insisto, tu desisti. Allora, cosa vuoi per pranzo?». Quanto vorrei che questa offerta giungesse da Jacob, ma lui non sarebbe mai così insistente. Trovo il separatore di dita sotto la sedia. «Pane di segale con tonno e una mela», accenno. «Che tipo di mela?», si informa Matt. «Dici sul serio?» «Certo». Ci penso su un minuto. «Fuji». «Vada per la Fuji». E quando lo vedo fuori dal teatro, sono sorpresa dalla gioia che provo di incontrarlo. È sempre sereno, e non conosco così tante persone che lo sono. E poi è superaffascinante. Un tipo da passerella, come direbbe Zoe. Ci sediamo sul bordo della fontana, mentre Matt sorseggia un caffè e io mangio il mio sandwich. Siamo una buffa coppia: lui pronto per andare in ufficio con un vestito grigio di buon taglio e le scarpe lucide, io in tenuta sportiva con un paio di pantaloni felpati Adidas che ho fregato a Jonathan e le scarpe da ginnastica Tretorn più sgangherate che ho. Un gruppo di adolescenti ci passano davanti e, pur notandoli solo con la coda dell’occhio, riconosco che sono studenti dell’MBA. Le ragazze camminano con i piedi puntati all’esterno e la calzamaglia arrotolata alle caviglie; i ragazzi sono magri e slanciati come puledri. Sicuramente sono appena usciti dalla School of the Arts, dove hanno sonnecchiato o scarabocchiato durante le lezioni, le ragazze disegnando ballerine ai margini dei fogli di appunti e i ragazzi scribacchiando nomi di band musicali – Blink 182, Maroon 5 o chissà cosa – sul retro dei quaderni. Magari il loro povero professore stava cercando di spiegargli Shakespeare, ma le loro teste erano piene delle combinazioni imparate durante le lezioni mattutine. Forse una delle ragazze si convinceva a non mangiare per il resto del pomeriggio, invece un’altra si immaginava mentre ringraziava con un inchino il pubblico che applaudiva in delirio dopo una performance. Io ero come quei ragazzi un tempo; so come vanno queste cose. «Ehi», mi chiama Matt, con una piccola spinta. «Dove sei finita?». Sorrido. «Scusa, vagavo con la mente». «Cosa balli stasera?», mi chiede. «Onestamente non mi ricordo», ammetto. «Tu ci sei?» «Devo andare a un party». «Ah». Per qualche strana ragione sono delusa. «La tua amica, quella che ti somiglia un po’», accenna Matt. Roteo gli occhi. «Zoe». «Lei! Ha un assolo adesso». «Sì, grazie per avermelo ricordato». Do un morso al panino e avvolgo il resto in un tovagliolo. «È energica, ma non ha la tua grazia», precisa Matt, tamburellando dolcemente il dito sul mio ginocchio. Inizio a sperare che smetta di parlare di lei. «Dillo a Otto». «Potrei farlo. Viene a cena a casa di mio padre lunedì prossimo». «Non dirgli una parola», gli ordino. Lui ride. «Non lo farei, e non ce ne sarà bisogno. Ti assicuro che sei migliorata e appari più rilassata. Sei straordinaria sul palco, e non lo dico solo perché mi sono preso un’enorme cotta per te». Lo fisso e apro la bocca per parlare, ma lui porta avanti una mano. «Guarda, io sono solo un uomo. E tu sei uno schianto. Ma non ho motivo di mentirti. Riceverai il giusto riconoscimento uno di questi giorni. Lo so. Semplicemente capisco le cose prima del tuo direttore». Arrossisco, e non posso fare a meno di notare che mi sento orgogliosa di stare seduta con questo ragazzo incredibilmente bello convinto che io sia uno schianto. Ma è di nuovo l’ora delle prove, così mi alzo e spazzolo via le briciole dal cappotto. «Be’, ti ringrazio», dico. «Di cuore. Per il pranzo e per quello che hai detto». «Non dimenticare la mela», replica. «Prodotto naturale». Poi si alza anche lui, si china e mi dà un bacio sulle guance. «Ci vediamo presto, Hannah Ward», saluta. Procede a lunghi passi sulla Broadway, chiama un taxi e svanisce. 28 «Il signor Edmunds non somiglia a Smithers?», chiedo a Bea. Durante la prova costumi per The Awakening, guardiamo il signor Edmunds appostato dietro a Otto, come un’ombra strisciante. Indossa una camicia a sbuffo e un paio di jeans attillati (entrambi marchi di fabbrica di Otto), e quando Otto poggia una mano sul fianco, il signor Edmunds fa lo stesso. Quando Otto incrocia le braccia, il signor Edmunds incrocia le braccia, come se le loro posizioni fossero coreografate. È proprio buffo. Bea soffoca una risata, mentre con un piqué si allontana. «Decisamente», risponde. Più tardi, mentre raccolgo borsone e bottiglia d’acqua, il signor Edmunds mi si avvicina con l’espressione accigliata. Per un momento vado nel panico: è riuscito a sentirmi? «Sono convinto che stai lavorando molto più duramente», mi comunica bruscamente. «Sembri più energica. Sei sulla strada giusta, Ward, ma devi restare concentrata». «Grazie», replico con voce stridula. Sono felice per il complimento, ma il signor Edmunds mi ha sempre reso nervosa. Mentre mi dirigo verso il nostro camerino, rifletto sul fatto che sto effettivamente spingendo al massimo il mio fisico. Nei film sulle atlete c’è sempre quella straordinaria sequenza in cui la protagonista si mette in forma al ritmo di una qualche musica ispirata. Si vede il tempo scorrere, fluido, agevole, mentre lei si trasforma da schiappa in campionessa. Il sudore sprizza; i muscoli si irrobustiscono; è eroica nei suoi sforzi. Ogni angolo nell’inquadratura abbellisce la scena. Ebbene, la vita vera non è per niente così. Vorrei avere il tempo di estraniarmi mentre rinforzo corpo e mente. Ma non è possibile. Servono solo ore e ore di lavoro estenuante. Nei brevissimi momenti di tempo libero che trovo fra prove, allenamenti in palestra e lezioni di Pilates e girotonica, cerco di tenere aggiornato il mio diario. Ieri ho scritto: Uff, oddio. Ahi. Ahi. Ho voglia di dormire. Mi fa male tutto. Aiuto. Non sarei riuscita a tirare fuori altro. Quella sera, a casa dopo tre performance, suona il citofono. Premo il pulsante e mi avvicino; non funziona granché bene. «Chi è?». Dall’altoparlante la voce viene fuori indistinta e stridente, quasi irriconoscibile. «Jacob. Jacob Cohen». «Oh», esclamo con i battiti accelerati. «Ciao». L’altoparlante fruscia. «Che fai, mi apri?». Esito, è quasi mezzanotte, ma poi poggio la testa contro lo stipite della porta e premo il pulsante, in attesa che salga tre rampe di scale. Apro la porta ed è lì, con le guance rosse, che profuma dell’aria notturna. Indosso un paio di pantaloni da ginnastica schizzati di vernice e una maglietta a maniche lunghe che era di mio padre, su cui è scritto “Gli architetti vecchi non muoiono mai, subiscono solo perdite strutturali”. Sono scalza e senza reggiseno. «Che fai da queste parti?», chiedo. Sento che un sorriso mi si disegna agli angoli della bocca, ma sono nervosa. Visto che non ha mai risposto alla mia e-mail, credevo che alla fine avesse chiuso definitivamente con me. Perché cercare di frequentare una ragazza che non puoi mai vedere? «Posso?», mi chiede. Faccio un passo indietro e lui entra nel mio soggiorno. Poi infila una mano in tasca e ne tira fuori una scatoletta. «Per te. Un regalo di Hannukkah». Lo guardo confusa, poi prendo l’oggetto che ha in mano; è pesante, sorprendentemente. «Hannukkah è passato già da quattro mesi, lo sai», preciso. «Sì, okay, allora buon…». Si guarda intorno nel mio piccolo appartamento. Sul divano, che ovviamente ho appena liberato, sono annidati cuscini e coperte, e sul tavolino c’è un tazzone di tè fumante. «Buona festa di Hannah», conclude. Il sorriso che cercavo di reprimere spunta fuori. «Si tratta di una festività ufficiale?» «In alcuni comuni», risponde. «Strano», ribatto, «nella mia città non si festeggia». Si fa scivolare di dosso la giacca e la poggia sullo schienale di una sedia. «Lo so», dice, «che non hai mai tempo libero. Trovalo, Ward, questa scusa non regge più. E aggiungo che sono diventato lo zimbello dei miei amici, perché ti sto ancora dietro». Continuo a starmene in piedi sulla porta. Per le scale la luce sul soffitto tremola. «Allora, non vuoi scoprire cosa c’è dentro?», chiede indicando il regalo. Si siede sul divano e con un paio di colpetti della mano mi indica il posto accanto a lui. Mi siedo e sollevo il coperchio della scatola. Dentro trovo una statuetta di pietra incisa, raffigurante una danzatrice. Ma non è una ballerina, è troppo in carne e possente, e poi indossa vari strati di vestiti e gioielli intagliati. «È una danzatrice iteso», spiega. «Dall’Africa. Simboleggia la forza, l’energia e la felicità». Per qualche istante non emetto un fiato; mi rigiro tra le mani quella statuetta. È fredda e levigata, piacevolmente pesante. I piedi della donna sono nascosti dalle gonne, ma le mani sovrastano la testa e sul suo volto si distingue un’espressione di gioia. «Allora?», chiede Jacob. «Ti piace?» «È stupenda», rispondo. La poso sul tavolino davanti a noi. «Grazie». La sistemerò nella libreria, proprio accanto all’agata che mi ha regalato mio padre a dieci anni e al mio primo paio di scarpette da piccola ballerina rivestite in bronzo, che uso come fermalibri. «Insomma…». La mano di Jacob si poggia sulla mia spalla, e mi attira piano verso di sé. Io resisto per qualche strana ragione. «Come vanno le cose?», chiede. «Sono esausta. Alla fine della stagione è sempre dura, e adesso che mi avvicino alla promozione, ci metto sempre più impegno», rispondo. «Che altro c’è di nuovo?», mi stuzzica. «Lo so, lo so. Sono un’ambiziosa da parecchio tempo. Perché non mi hai risposto all’e-mail?» «Scusa, anch’io sono stato parecchio impegnato. Volevo risponderti, ma continuavo a rimandare. Però ho pensato molto a te». Sposta la mano dalla spalla al collo e con il pollice mi accarezza la pelle. Mi massaggia, così dolcemente, e poi le dita salgono e si intrecciano ai capelli. Gli cado fra le braccia, raggomitolandomi nello spazio tra le sue costole, e nascondo la testa nella sua maglietta. Sospiro profondamente. Sento che mi sto rilassando, sprofondando in lui, e poi la voce di Annabelle mi riecheggia nella testa: «Il tuo lavoro non è avere una vita. Il tuo lavoro è danzare». Torno bruscamente a sedere. «Che c’è?», chiede, ma io scuoto semplicemente la testa. Jacob mi guarda preoccupato, poi si piega e mi afferra saldamente i piedi tra le mani. Scorre i pollici sotto l’arco del piede. Per una frazione di secondo sono colta dall’ansia, quando mi ricordo quanto sono brutte le mie dita, ma poi mi rilasso. Preme a fondo in tutti i punti giusti. Sospiro. Dopo qualche momento, mi prende le mani. Mi attrae a sé di nuovo, e mi tiene stretta e vicina. Per un attimo provo a resistere, ma poi smetto; poggio la testa sul suo petto ed espiro. Il suo cuore batte contro la mia guancia come un tamburo, e me lo immagino pompare il sangue in tutto il corpo. Qualche istante dopo sollevo la testa e gli guardo le labbra e poi gli occhi, e di nuovo le labbra. Gli angoli della bocca gli si curvano in un sorriso. Mi attrae ancora più vicino a lui. «So bene che sei occupata, ma pensi di avere il tempo per un bacio?», domanda Jacob. «Sì, credo di poterlo trovare». Rido mentre lui si allunga ancora verso di me. Le nostre labbra si toccano, e un insolito formicolio mi pervade il corpo. Rotoliamo su noi stessi, e Jacob si ritrova sopra di me. Sento addosso il suo peso, ed è la sensazione più bella che abbia mai provato. Avvolgo le braccia intorno al suo corpo, mentre lui mi sfila delicatamente la maglietta da sopra la testa. Toglie anche la sua e ben presto non capisco più dove finisce il mio corpo e inizia il suo. La luce del sole mi sveglia. Sollevo lentamente la testa e mi accorgo che ci siamo addormentati sul divano e che il petto nudo e caldo di Jacob è stato il mio cuscino. Lui dorme ancora; i suoi capelli scuri sono scompigliati, e lui è così bello e vulnerabile che mi scappa un sorriso. Gli bacio teneramente una guancia, ma non si sveglia. Mi rannicchio di nuovo nello spazio tra le sue costole, gli prendo il braccio e me lo avvolgo intorno. Ho addosso solo intimo bianco di cotone e una canotta striminzita. Potrei abituarmi ai risvegli accanto a un ragazzo stupendo, penso. Qualche minuto dopo, apre gli occhi. «Ehilà, signorina», mi saluta con la voce rauca e sexy. Mi sfiora il braccio con le dita. «Ciao», rispondo, mettendomi a sedere. Non sono mai stata tanto nuda davanti a un ragazzo prima d’ora. Mi guarda e sorride, e piccole grinze si formano agli angoli degli occhi. «Che fai oggi? Vuoi che ti porti uno spuntino o qualcosa del genere e poi facciamo un giro nel parco?». Allungo una mano e gli accarezzo la guancia. Deve radersi, penso. Ma è favoloso. «Non mi rispondi», sottolinea. Mi serve tutta la mia forza di volontà per rispondergli. «Non posso», replico toccandogli il petto. «Devo fare il bucato delle robe del teatro, e poi ho Pilates a mezzogiorno, e poi mi vedo con Bea per Bikram». Aggrotta leggermente le sopracciglia, ma la sua espressione si placa mentre si alza puntellandosi sui gomiti. «Okay», continua, «che ne dici di trovarci dopo per vedere Il delitto perfetto al Paris Theater? Pare che sia stupendo». Sospiro. «Mi spiace, vorrei, ma non posso. Devo riposare per domani. Ho due balletti molto complessi nello spettacolo». Si alza di scatto dal divano e afferra i pantaloni. Li tira su con forza, stringe la cinta e poi agguanta la maglietta dal pavimento. «Che fai?», chiedo. Prendo un cuscino per coprirmi. «Mi vesto. Cosa ti sembra?». Il calore della sua voce è svanito. «Qual è il problema?». Si volta di scatto e ci ritroviamo faccia a faccia. «Sai che c’è, Hannah? Io ci provo, davvero». Si infila la maglietta. «Ma la pazienza sta per finire». D’un tratto mi arrabbio. «Di che parli?» «Non fai mai una pausa? Sei sempre così dannatamente rigida». Sta al centro del soggiorno e mi guarda quasi con astio. In piedi, io mi tengo ancora il cuscino stretto al corpo. «Si tratta della mia carriera», ribatto. «Non c’è niente che abbia più importanza per me». «Già, a quanto pare». Si aggira come una furia per il soggiorno in cerca delle scarpe. «Ti ho parlato delle promozioni», proseguo. «Di quanto ci stiano facendo lavorare più sodo…». Jacob mi interrompe. «Qualcuno ti ha mai detto che sei una grande egocentrica?». Intravedo le sue scarpe sotto al tavolino, ma non glielo dico. «Perché mi preoccupo della mia carriera?», replico con la voce che aumenta di volume. Si infila il cappotto e si pigia il cappello in testa, ma ancora non trova le scarpe. «Non hai tempo per nessuno tranne che per te stessa». «Tu non hai idea di quanto sia faticoso il mio lavoro. Ecco cosa comporta! Sei invidioso perché io ce l’ho fatta come artista, mentre tu molto probabilmente non sfonderai mai». Non appena mi escono fuori queste parole, mi pento di averle pronunciate. Gli occhi di Jacob si offuscano e la mascella si serra. «Me ne vado», conclude. Infine scova le scarpe e se le infila. «Ci vediamo. O forse no». Sbatte la porta dietro di sé. «Jacob!», urlo. «Jacob!». Ma si sta precipitando giù per le scale, come se la fuga, non fosse ancora abbastanza veloce. STAGIONE PRIMAVERILE 29 Fa ancora freddo e il cielo è plumbeo, quando ad aprile iniziamo le prove per la stagione primaverile. Ho trascorso la pausa di una settimana a Weston dai miei genitori. Mia madre, a cui ho raccontato dei miei periodici tentativi di non mangiare animali, ha deciso di fare esperimenti con seitan e tempeh in tutti i pasti, che spingevano mio padre a mettersi in cerca delle chiavi dell’auto ogni giorno all’ora di pranzo. All’improvviso si ricordava «di aver lasciato in ufficio» qualcosa e se ne andava nella trattoria più vicina con la sua Volvo. Quando tornava a casa, odorava di uova e pancetta. La sera, seduti sul divano, guardavamo vecchi film, e io cercavo di nascondere lo sforzo per non cedere alla tentazione dei popcorn al burro. Nonostante i miei volessero sapere tutte le novità sulla compagnia, io non avevo per niente voglia di parlarne. E sebbene loro mi mancassero durante la stagione, una considerevole parte di me sperava di tornare presto in città, a frequentare le lezioni e a spingere il mio corpo in una forma ancora migliore. Chiamai Bea per lamentarmi. «Stavo morendo per una pausa, ma adesso che sono qui, non riesco proprio a starmene con le mani in mano. E giuro che in tre giorni i muscoli mi si sono già atrofizzati». La sentii crollare sul letto. «Uff! Non dirmelo. Detesto sfasarmi e poi dovermi rifasare. È troppo difficile». «Allora stai seguendo qualche corso?», chiesi. «Come no, ma scherzi? Torno in città domani. Quelle imbecilli che se ne vanno per tutta la settimana? Le riconosci sempre da lontano». Guardai fuori dalla finestra gli alberi del giardino, in procinto di fiorire. «Forse devo cambiare il biglietto del treno». «Ma dài, lascia perdere la palestra e fai un po’ di yoga o qualcosa del genere. Andrà bene». Seguii il suo consiglio e mi feci accompagnare da mia madre a Boston ogni giorno per le lezioni di yoga (non ho mai imparato a guidare, perché in pratica sono cresciuta a Manhattan). E la sera dormivo nella mia cameretta di quando ero bambina, con i muri gialli ancora tappezzati di foto di Allegra Kent e Gloria Govrin e con le stelle che si illuminano di notte attaccate sul soffitto. Le mie vecchie scarpette da punta sono ancora conservate in una cassetta nell’armadio. E allineati in alto nella libreria ci sono tutti gli animali di peluche che mi piacevano tanto, ma evidentemente non abbastanza per portarli via con me quando me ne sono andata. Mi immaginavo mia madre che veniva in camera mia per stirare le coperte e sprimacciare i cuscini, sebbene non fosse necessario, visto che io non c’ero. Allora ho capito per la prima volta quanto sia stata dura per i miei genitori permettere alla loro figlia quattordicenne di trasferirsi a New York da sola. Devono aver desiderato che restassi con loro più a lungo. Ma sapevano bene quanto fossi determinata e ambiziosa, perciò, seppur riluttanti, mi hanno depositato nel dormitorio della Manhattan Ballet Academy e mi hanno detto arrivederci. Non potrò mai rimpiangere di essere partita. Ma non è stata una passeggiata. E stesa lì sul letto, non riuscivo a smettere di rivivere il litigio avuto con Jacob. Ero convinta di aver rovinato tutto stavolta, per sempre. Mi ripetevo che sarebbe stato meglio senza di me. C’era una fila di ragazze con più tempo da dedicargli, ed ero abbastanza sicura che non avrebbe avuto problemi a trovarne una. Qualche giorno più tardi, mia madre mi rispedì a New York con una valigia di vestiti nuovi, colpi di sole ai capelli («Così Otto ti adorerà», sussurrò), e una delle sue scodelle di ceramica vetrificata, che dovrebbe portarmi fortuna. Per qualche tempo l’ho lasciata sul tavolino, poi l’ho avvolta nella carta e l’ho messa sotto il letto. Se mi avesse davvero portato fortuna, non sarei stata perennemente frustrata al lavoro e Jacob non sarebbe sparito dalla mia vita. Ma cerco di non pensare troppo a lui in questi giorni. Abbiamo tre settimane di prove prima dell’inizio della stagione primaverile. È il momento di imparare nuovi balletti, di provare quelli che ripetiamo regolarmente negli spettacoli, ed eseguirne altri che non danziamo dall’anno scorso. Il programma giornaliero parte con tranquillità, per dar modo a tutti di rientrare nei propri corpi di danzatori dopo la pausa, e poi si intensifica a mano a mano che ci avviciniamo alla stagione degli spettacoli. Per quanto nessuno abbia ricevuto nuove parti all’ultimo minuto, perché quando arrivano rappresentano il picco di ansietà della stagione, il periodo di prove si rivela stressantissimo. Poiché siamo chiamati a provare i balletti che poi danzeremo nelle serate, trascorriamo un sacco di tempo a preoccuparci di sapere a quali prove saremo assegnati. Una sera, dopo una lunga giornata a studiare di nuovi balletti, Jonathan mi prende sotto braccio e cammina accanto a me fino a casa lungo la Columbus Avenue. «A stento riesco a vedere il tramonto», riflette. «È sempre buio pesto quando finiamo». Guardo in alto le sottili nubi viola. Ha proprio ragione. Quando è stata l’ultima volta che ho visto il tramonto di New York? «È affascinante», dico. «Dovremmo apprezzare le cose come questa più spesso». Accanto a me, Jonathan fa un saltello di eccitazione. «Muoio dalla voglia di tornare a casa in tempo per vedere Models of the Runway». «Come sei intellettuale», lo stuzzico. «Non mi sono mai spacciato per studioso», replica. Per qualche minuto procediamo in silenzio. «Detesto il periodo di prove», sbotto. «Davvero?», chiede guardandomi sorpreso. «Ma non ti piacciono le serate libere?» «Mi rendono ansiosa», ammetto. «Che cosa ti rende ansiosa nel fatto di uscire prima?». Faccio spallucce. «Non so che fare quando non ballo». Jonathan storce le labbra e assume un’aria pensierosa. «Già, ora che me lo dici, anch’io non vedo l’ora di tornare sul palco. Sono stufo marcio di stare accanto a Caleb nelle prove di Wonder/Ponder. È un cavolo di gnoccolone». «È strano, non appena le nostre vite si fanno leggermente meno impegnative, mi manca la folle intensità. Che c’è di sbagliato in me?» «Il dottor Jonathan sa cosa c’è di sbagliato in te», risponde, dandomi buffetti sulla mano. «Tu soffri di una malattia che chiamanodanza. Tieni, prendi un paio di queste…», e mi allunga le sue scarpette da balletto, «e chiamami domattina». «Oh, ma dài», ridacchio. E gli lancio dietro le scarpette, mentre il sole scende lento dietro i palazzi di New York City. 30 Quando si apre la stagione primaverile, mi trovo nella forma migliore di sempre. Ho perso due chili rispetto alla stagione invernale. Il seno si è ridotto ed è più pressato sulle costole (Bernadette mi ha cucito altri due intimi). E allora fa nulla se non ho tempo per apprezzare i piccoli boccioli rosa che si schiudono sugli alberi vicino all’Avery Center. Fa nulla se ho smesso di mangiare pane, ho smesso di controllare la posta elettronica, ho smesso di rispondere al telefono. Mia madre, per la disperazione, ha imparato a scrivere messaggini al cellulare. Chiamami ogni tanto xchè non lo fai? scrive.Papà t vuole bene. Superoccupata, le ho risposto. Tvb. Una mattina, mentre esco dall’ascensore, diretta verso il camerino prima della lezione di gruppo, quasi mi scontro con Roman Fielding. Alto e muscoloso, è uno dei ballerini principali, quindi non penso di averci mai scambiato una singola parola. Abbassa il naso aquilino verso di me. «Scusa», dico cercando di togliermi dalla sua strada. Lui si ferma, e io mi blocco appresso a lui. I suoi occhi scuri dalle folte ciglia mi scrutano il volto. «Non sorridi più, Hannah», afferma. Ed entra in ascensore senza aggiungere una sillaba. Mentre mi affretto verso il camerino, mi meraviglio del fatto che sa chi sono e che abbia notato l’espressione del mio viso. La stragrande maggioranza dei danzatori trascorre il proprio tempo a notare particolari di se stessi, non degli altri. D’altronde è nostro compito esaminarci negli specchi dello studio in modo da correggere le nostre imperfezioni. Che Roman abbia ragione? Ho davvero smesso di sorridere nelle ultime settimane? Decido di fare un esperimento: prima di entrare in camerino, mi stampo in faccia un sorriso luminoso e, spero, apparentemente sincero. «’giorno, signore», saluto. Daisy mi guarda dalla sua postazione, dove si sta cucendo le scarpette. «Che faccia strana hai oggi», dichiara. Forse Roman aveva ragione. Ma chi se ne importa del sorriso? Le mie braccia sono di nuovo stecchini. E già vedo scritto «Hannah Ward» sulla lista dei casting, proprio sotto al nome di un grande assolo. Dopo la lezione di gruppo, decido di fermarmi in sala e provare le piroette. Non sono mai stata particolarmente brava nei giri, soprattutto a sinistra; mi mettono sempre una certa ansia addosso. Essere in coppia con Luke, poi, non è certo d’aiuto, visto che è sempre lì lì per farmi cadere. Tutto intorno a me danzatori saltano e piroettano come matti, provando trucchi o ripassando la coreografia dei prossimi balletti. Luke sta provando i suoi giri doppi, e Julie esegue furiosi fouetté, come fa dopo ogni lezione, con i capelli ricci che le svolazzano intorno; spera di essere presa per la parte di Odette nel Lago dei cigni in questa stagione. Mi concentro sulla mia immagine allo specchio, mentre mi preparo in un’ampia posizione in quarta, con il peso principalmente sulla gamba davanti. Con uno scatto sono in passé, sbirciandomi nello specchio, uno-due-giù, e di nuovo uno-due-giù. Perdo l’equilibrio dopo il giro e sbuffo per l’esasperazione. Quando provo le piroette a sinistra, inciampo in modo rocambolesco già alla prima rotazione. «Dannazione!», impreco sottovoce. Inspiro e preparo la piroetta a destra, uno-due-giù, e uno-due-giù. «Non così veloce», sento dire da qualcuno. Improvvisamente Zoe mi si para davanti, con il viso ancora arrossato per il grand allégro. «Prova a portare questo braccio al petto», mi suggerisce. Mi afferra il braccio sinistro e aggiunge: «Lo lasci troppo lungo in avanti». Devo ammetterlo, come primo istinto mi risento nei suoi confronti per aver pensato di dovermi dare un consiglio. Ma quando tento di nuovo il giro, stavolta quasi colpendomi il petto con il braccio sinistro, riesco a farne uno triplo. Sorrido. «Perfetto», esclama Zoe annuendo. «Non so se era perfetto», ammetto. «Ma mi sembrava buono. Grazie». Zoe sorride. «Non c’è di che. Vuoi provare di nuovo?» «Non voglio portargli sfiga», rispondo. Ma lo ripeto ugualmente. Mi dico che è solo una sequenza di montaggio e che tutto questo lavoro extra verrà ripagato. Poi eseguo una piroetta tripla dopo l’altra e il body mi si impregna di sudore, così con Zoe torno in camerino per cambiarmi prima delle prove. Sulla mia postazione c’è un enorme mazzo di tulipani gialli. «Wow», esclamo. Corro a leggere il bigliettino, sperando disperatamente che siano da parte di Jacob. Ma chiaramente non è così: i fiori sono un regalo di Matt. «Bene, bene, e chi è questo Matt adesso?», chiede Zoe, sbirciando da dietro la mia spalla. «È quello che grida “U-huu!” dalla prima fila durante gli inchini. È un pazzo ballettomane», spiego. «Non mi dice niente», ribatte lei. «Ha un Patek Philippe». Si piega e annusa uno dei boccioli gialli. «Ah, sì. Il figaccione che manda fiori e palloncini alle ragazze. L’anno scorso è uscito con Serena e Olivia». Scrollo le spalle; sono certa che sta cercando di farmi incavolare. «Mi pare. Così ha detto anche Daisy». Zoe sbircia il bigliettino. «“Ci si ricorda un’atmosfera perché delle fanciulle, là, hanno sorriso”», legge e poi mi guarda perplessa. «Che cavolo vuol dire?» «Non so», rispondo strappandoglielo di mano. «È una citazione di Proust, a quanto pare». «Chi?» «Uno scrittore francese. Matt è anche un francofilo». «Che uomo pieno di passioni. Mi piace», dice Zoe con un ghigno. «Forse ti piacerebbe», suggerisco. Mi spinge con un piede. «Uscite insieme?». Sospiro mentre fatico a liberarmi dai collant sudati. «È una faccenda complicata». «Dice che questi fiori si aggiungono a un regalo che sta per arrivare». «Sì, non so cosa intenda», replico. «Ma guardati», dice spintonandomi più forte. «Diciannove anni senza nemmeno un bacio e adesso due ragazzi ti stanno dietro contemporaneamente. In pratica sei come me ora». Mi limito a scrollare le spalle. Ma tra me e me penso: io e te non siamo per niente uguali. Alla fine riesco a sfilarmi i collant e rovisto nella borsa del teatro in cerca di un altro paio. «Non penso che Jacob mi stia dietro in questo momento». «Perché l’hai snobbato di nuovo». Borbotto. «Diciamo che abbiamo litigato. È già abbastanza complicato superare la giornata qui dentro senza scoppiare in lacrime o rompersi un importante complesso muscolare. Non saprei come aggiungerci anche un appuntamento. Cioè, trovo incredibile che alcuni dei ballerini più anziani siano sposati. Dove trovano il tempo e l’energia?». Zoe si mette a sedere sulla sedia e inizia a lisciarsi i capelli biondo lucente con le dita. «Dai, Hannah! Sono sposati con altri ballerini». «Va bene, allora, dove lo trovi tu il tempo di frequentare qualcuno e continuare a mantenere la tua carriera?» «Tutti abbiamo tempo, è solo una questione di priorità. Se volessi veramente vedere Jacob, lo faresti». Zoe toglie il tappo di un rossetto Chanel ed esamina il colore pensierosa, prima di applicarlo sul dorso della mano. «Lo fai sembrare così semplice», mi lamento. Zoe fa spallucce, poi si mette accuratamente il rossetto davanti allo specchio. «Mi faresti quel trucco viola sfumato sugli occhi che usi tu ogni tanto? Starebbe una favola con questo colore». Sospiro. «Va bene». Zoe batte le mani per la gioia e stende delicatamente sull’occhio una linea definita del suo ombretto NARS. «Chiudi gli occhi», ordino. Siedo a cavalcioni su una sedia di fronte a lei e mi chino in avanti così tanto che i nostri visi quasi si toccano. Zoe sta ferma immobile. Con l’indice le picchietto sulla palpebra l’ombretto lavanda in polvere. «Ehi, Han?», mi chiama. «Dimmi». «Ti ricordi quando curiosavamo tra i trucchi di mia madre e cercavamo di metterceli?». Sorrido pensando alla splendida toeletta con specchio di Dolly e alla sua collezione di bottigliette di profumo e di sciarpe di seta. Stendo con delicatezza un viola più scuro sulla palpebra superiore di Zoe. «E ti ricordi quando hai provato i suoi stivali leopardati di Dior e non sei riuscita più a sfilarteli per tipo tre quarti d’ora?», scherza. «Oddio, erano strettissimi!». «E poi sei entrata nel panico, perché pensavamo che mamma stesse arrivando dall’ingresso, e invece era solo Gladys!». «Tu a momenti te la facevi addosso dalle risate!», grido. «Ma stai un po’ ferma, se no mi fai fare un pasticcio». Zoe sta seduta ferma e cerca di soffocare una risata. Con un pennellino tolgo via un po’ di brillantini. «Ecco fatto», annuncio. Mi tiro indietro per ammirare il mio capolavoro manuale. «Puoi aprire gli occhi». Si volta per specchiarsi e ruota la testa da un lato e dall’altro. «Stupendo». «Sei bellissima», dico. Ed è vero. Sorride. «Grazie. Proprio quello che mi serviva: il trucco giusto per sudare durante tutte le prove. Vuoi che ti faccio il trucco velocissima? Tanto per divertirci». Anziché risponderle, mi lascio cadere sulla sedia davanti al mio specchio. Sbarro gli occhi e gonfio le guance. «Che cavolo fai?», chiede Zoe. Ridacchio. «È la mia espressione da scimpanzé. Una nuova faccia». Zoe mi scuote davanti il suo eyeliner. «Prometti di non farla mai più», mi intima. [eBL 092] 31 Nel backstage è buio pesto, non fosse per i raggi di luce rosa intenso che penetrano dal palco. Mi alleno alla sbarra prima di infilare il costume del balletto. Un musicista suona Debussy su un pianoforte a coda lucido nell’angolo anteriore del palco. Lancio sguardi furtivi a Julie mentre mi passa davanti nei suoi furiosi piqué manège a sinistra del palco. Dal suo corpo si stendono lunghe ombre sul linoleum. Quando esce per un breve momento, si piega in avanti con le mani poggiate sulle ginocchia, respirando affannosamente. Poi prende un sorso veloce di acqua e si aggiusta il costume prima di tornare sul palco per il finale. Muta da donna a ballerina nel preciso momento in cui torna sotto i riflettori. Sospendo l’allenamento alla sbarra e mi fermo a guardare dalle seconde quinte, dietro a un’impalcatura, a cui mi reggo mentre provo plié relevé per scaldare le gambe. Julie è ammaliante. Sembra divorare lo spazio mentre si muove da un lato all’altro del palco con quasi tre piqué. Dopo qualche minuto torno alla sbarra per continuare il riscaldamento, ma con la coda dell’occhio continuo a fissare Julie che passa davanti alle quinte. Alla fine del balletto, il pubblico esplode tra gli applausi. Alcune persone gridano e invocano il suo nome, e mi pare anche di riconoscere i familiari «U-huu!» di Matt. Ma potrei sbagliarmi; potrebbe anche essere un altro ballettomane. Mi siedo a terra sul tappetino per procedere con i miei esercizi di girotonica e Pilates, quando Julie rientra dal palco dopo gli inchini. Si lascia cadere proprio accanto a me, supina con le gambe lunghe distese. Boccheggia in cerca di aria e gronda sudore, con i capelli ricci che si liberano dallo chignon. Questa persona, solo pochi istanti prima, mi aveva emozionato fino alle lacrime. Rotola su un lato e si mette a sedere con la schiena accasciata. Sul pavimento lascia una pozza di sudore. «Cavolo, se ti sfonda questa roba», dice sorridendo. «Sei stata straordinaria», replico. «Perché non mi hai sentito imprecare per tutto il tempo, mi sa», ribatte con un ampio sorriso. Gli occhi scuri le brillano per l’ilarità della cosa. Scuoto la testa. «Meglio così», afferma. «Altrimenti avrebbe rovinato sicuramente la magia della situazione». Sorrido. «Già, immagino di sì». Poi arriva Otto, spuntandoci davanti nella luce fioca. «Hai un minuto?», chiede a Julie. Lei si stacca dal pavimento brontolando, e lui la aiuta a mettersi in piedi. Prima che vadano via, Otto si volta verso di me e annuisce leggermente. Il cuore mi si blocca mentre li vedo sparire nell’oscurità. Atteggiamento particolarmente amichevole, no? Più tardi, mentre mi infilo il costume, cerco di prepararmi mentalmente al prossimo balletto. Il quarto movimento presenta salti senza sosta che mi causano crampi da matti alle gambe, e non riesco mai a prendere abbastanza aria. Al pensiero già mi manca il fiato. Come direbbe Julie, ti sfonda questa roba. Non pensarci, ricordo a me stessa. Fallo. E poi mi affretto lungo il corridoio fino alle quinte. Di solito non guardo il foglio dei casting prima delle performance, ma stasera per qualche strano motivo lo faccio. Sto in piedi sotto la fioca luce blu, spulciando l’elenco alla ricerca del mio nome. E quando lo trovo, resto letteralmente senza fiato. Sono stata convocata per studiare la parte principale di Rubies! È la seconda sezione di Jewels, senza dubbio uno dei miei balletti preferiti. Trattengo il respiro e poi lo rilascio espirando in modo misurato, lungo e lento. È il genere di parte per cui ho lavorato così duramente, il genere di parte che, se riesco a ballare bene, può attirare molta attenzione su di me. Vale a dire ottenere altre grandi parti e, infine, anche una promozione. Avrò finalmente trovato la mia strada? E la risposta è sì, potrei averla trovata. Ma non sono la sola. Perché proprio sotto al mio nome sui fogli di convocazione per le prove è indicato un altro nome: Zoe Mortimer. Anche lei proverà lo stesso ruolo, ma solo una di noi due lo eseguirà alla fine. Conclusi tutti i balletti della serata, insieme al resto del corpo di ballo, io, Zoe, Daisy e Bea ci sfiliamo stremate i costumi nel retropalco e ci stringiamo le felpe al petto. Il respiro è ancora affannato, mentre ci accalchiamo nell’ascensore, pressate le une sulle altre, in trepidante attesa che le porte si chiudano. Come al solito, si discute di passi e conteggi sbagliati, di ragazze fuori posizione. «Emma era in ritardo nella sua entrata», bisbiglia qualcuno. «Oggi ero come una mucca sul palco», si lamenta qualcun’altra. L’adrenalina ancora ci scorre in corpo, sebbene siamo state in movimento costante per dodici ore. Al piano superiore, Zoe spalanca con un calcio la porta del camerino, facendola rimbalzare contro il muro. I cardini devono essere di nuovo riparati; bisognerà avvitarli perché continuiamo a schiacciare in mezzo alla porta le scarpette da punta per ammorbidirle. Getto gli scaldamuscoli in direzione del mio borsone e li vedo cadere per terra. Rifletto se recuperarli o meno, ma il pensiero di piegarmi per raccoglierli mi fa cambiare idea. Già prima della performance i quadricipiti erano distrutti, perciò lascio gli scaldamuscoli dove sono e mi stravacco sulla sedia di fronte allo specchio per liberarmi i piedi palpitanti dalla costrizione delle scarpette. Mi sento pulsare il cuore fin negli alluci storti. Noto una goccia di sudore che mi scivola lungo la guancia mentre il petto si solleva e si abbassa. Daisy si accascia sul pavimento in moquette, le scarpette ancora allacciate ai piedi. Stende le gambe per aria e le appoggia contro il muro in cemento. «È stato terribile. Sono così imbarazzata». Singhiozza. Pensavo che fossimo in sintonia, ma non ho voglia di discutere. Sono troppo eccitata per Rubies. Bea scavalca cautamente Daisy per raggiungere la sua postazione. «Togliti le scarpette, Daze. Mi fanno male i piedi solo a guardarti». Daisy allarga le narici mentre fissa il soffitto. Poi rotola sul fianco e si accuccia mentre fa scivolare un paio di forbici attraverso tutti i punti che cuciono i nastri delle scarpette intorno alla caviglia. Le fasce di raso rosa si sciolgono, e si accartocciano sul pavimento. Daisy sfila con cautela prima un tallone poi l’altro, quindi stende di nuovo le gambe contro il muro di cemento. «Meglio così?», chiede. Zoe torna dal bagno avvolta in un asciugamano color pesca, le infradito sciaguattanti sul pavimento e residui di trucco scuro tra le pieghe degli occhi. «Insomma, dobbiamo studiare Rubies, Han», dice, come se sotto la doccia avesse appena letto il foglio del casting. «Eh, già», rispondo. «Io e te insieme, di nuovo». Le rivolgo un sorriso. Daisy si mette raddrizza, poggiandosi sui gomiti. «Che?! E io sono ancora incastrata nel corpo di ballo. È troppo ingiusto». Zoe si lascia cadere sulla sedia. «Su, vatti a mangiare una ciambella glassata». «Sii carina una volta tanto, Zoe», la riprendo. Srotolo l’elastico di capelli biondi finti dalla mia folta coda di cavallo e lo appendo alle lampadine del mio specchio, proprio nel momento in cui Zoe si avvicina e accende l’interruttore. «Attenta! Mi bruci i capelli!», grido e strappo via l’elastico di capelli finti. Ma Zoe non si scusa. Si infila un paio di collant neri e un tubino con fantasia leopardata, che deve esserle costato lo stipendio di un mese. Mi tolgo le ciglia finte a una a una e gratto la colla che le teneva su. Viene via in briciole nere che appallottolo tra le dita e, scuotendo la mano, getto nel cestino. Molte finiscono nel borsone di Zoe e, dentro di me, rido. 32 Qualche giorno dopo, terminata la pausa pranzo di un’ora, che trascorro interamente fuori ad assorbire un po’ di raggi solari primaverili, noto una shopping bag rosso acceso davanti alla porta del palco. Attaccato trovo un biglietto con il mio nome sopra. Mi guardo intorno, magari riesco a scoprire chi me l’ha lasciata, ma sono sola. Se il mio iperprotettivo padre fosse qui, mi intimerebbe di non toccare niente: «Sei a New York; chi lo sa cosa ci può essere dentro?», sbraiterebbe. Mia madre, invece, presumerebbe che si tratti di un regalo da un ammiratore. È sempre così romantica. Nella borsa trovo una scatola avvolta in carta marrone, è molto leggera. Corro nel camerino per aprirla. Per quanto abbia voglia di strappare l’involucro e scoprire cosa contiene, mi costringo a leggere prima il biglietto. Ci vediamo davanti alla porta del Met, sabato prossimo alle 20, è scritto sul foglietto. Serata di gala, M. Un brivido di eccitazione mi corre lungo il corpo: Matt vuole portarmi a un gala dell’opera! Ed essendo un ballettomane incallito, deve sapere che sono libera; quella sera viene presentato un programma speciale senza performance del corpo di ballo. Come al solito, dà per scontato che accetterò il suo invito. Dopotutto, quand’è che ne ho rifiutato uno? Mai, dopo quella sera in cui l’ho conosciuto, quando non sono andata al party di Chloë Sevigny. Sono combattuta solo perché ho programmato una lezione aggiuntiva in palestra. Scarto il regalo. Sulla confezione color crema campeggia una scritta semplice ma elegante: Zac Posen. Tolgo il coperchio, sposto gli strati di carta velina e resto senza fiato quando intravedo qualcosa di giallo. Lo tiro fuori dalla scatola: un abito da sera senza bretelle, giallo ranuncolo, in un tessuto favoloso, che mi scivola tra le dita come fatto d’aria. Oh mio Dio, penso. È per me? Mi spoglio velocemente e indosso il vestito; è aderente con taglio princesse e ricade completamente sul pavimento. Mi calza a pennello. Proprio in quel momento la porta si apre e sento che le risate si bloccano all’improvviso. «Che ti sei messa?», squittisce Zoe, correndo verso di me. «Dove l’hai preso? Non dirmi che l’hai comprato con quello stipendio di merda che ti ritrovi». Tocca la stoffa con riverenza. Anche Daisy si avvicina per esaminarmi. «Cavolo», esclama. Zoe si butta sulla sedia. «Qualcuno potrebbe dire che sembri una banana avvolta là dentro», dichiara, «ma non io. Sei stupenda. Davvero, dove l’hai preso, questo vestito?». Mi rendo conto che in pratica Zoe mi ha appena comunicato che sembro una banana, ma guardandomi allo specchio, so che si sbaglia. Sono fantastica. «È un regalo», rispondo, voltandomi per ammirare il modo in cui lo scollo a V sulla schiena mi cade esattamente alla base della colonna. Zoe esclama: «Il ballettomane! Perché di certo il tipo universitario non può mica permettersi uno Zac Posen. Dimmi un po’ per che razza di motivo ti ha regalato quel vestito». «Me lo ha comprato per accompagnarmi al gala del Metropolitan Opera». Non riesco a contenere la sorpresa nella voce. O meglio, l’orgoglio: non posso far altro che sentirmi orgogliosa di ricevere un regalo così costoso. A questo punto, Zoe lancia un urlo e batte il pugno sul tavolo. «Ma no, ci voglio andare pure io!». «Fatti portare da uno dei tuoi ragazzi», suggerisco. «Sono single al momento, Hannah Banana», ribatte lei. «Ecco, lo sapevo», replico. «Tu pensi davvero che sembro una banana». «No, non è vero», risponde con un ghigno. Daisy dà una spinta alla spalla di Zoe. «Dài, è meravigliosa». «Ma certo che lo è», aggiunge Zoe. «Meravigliosa… e matura». «Ora ti ammazzo. E non scherzo», la minaccio. Ridacchia. «La smetto, la smetto. Scusami». Mi sfilo il vestito dalla testa e lo poggio delicatamente sulla mia sedia. Zoe mi allunga il body. «Se ti serve un paio di scarpe…», offre. Ora la sua voce è più gentile. «Ti ringrazio». Sorride. «Sempre a disposizione». «Il dottor Shapiro dice che il giallo indica ottimismo e gioia», cinguetta Daisy. «Davvero?», rifletto. «Spero abbia ragione». 33 La settimana successiva, i tulipani sono fioriti tra le banchine della Broadway, e per me è arrivato il fatidico sabato sera libero, come non ne ho mai avuti prima. Mentre mi infilo nel vestito da sera scandalosamente bello di Zac Posen per il gala del Metropolitan Opera, giuro di comportarmi da brava piccola danzatrice di balletto. Mi fisso nello specchio che ho in camera. Sarò a casa per mezzanotte, assicuro a me stessa. La palestra mi aspetta comunque domattina. Gli occhi di Matt si spalancano quando mi scorge mentre attraverso la piazza per andargli incontro. «Sei magnifica», si complimenta. Lui indossa uno smoking e ha i capelli tutti tirati indietro. Devo ammettere che anche lui ha un aspetto fantastico. Sul momento evito di rispondere, mi limito a sorridere e lascio che mi prenda la mano. Zoe mi ha prestato le scarpe: un paio di sandali di Louboutin che mi fanno quasi otto centimetri più alta. «Entriamo?». Mi conduce oltre una spessa porta a vetri all’interno di un grandioso salone nel bel mondo dorato. Donne con acconciature curate, strette in creazioni piumate, lunghi abiti di lustrini e stole di pelliccia sembrano fluttuare sulla scalinata curvilinea, tra lo scintillio dei diamanti appesi al loro collo e ai lobi delle orecchie. Mi volto verso di lui prima di proseguire oltre. «Grazie», dico. «Ti ringrazio per questo». E indico il vestito. Allunga la mano e mi sfiora il braccio. «Per quanto sei bella, dovrei essere io a ringraziarti». Sorrido di nuovo. Matt potrà anche essere banale talvolta, ma di certo sa come far sentire speciale una ragazza. Nonostante si trovi accanto al teatro, non sono mai stata all’opera, perché i nostri spettacoli coincidono. Ma non appena prendiamo posto sulle nostre poltrone di velluto rosso, si apre il sipario e inizia il canto, mi rendo conto di essermi persa qualcosa di intenso. Le scenografie sono ricercate, quasi un capolavoro in movimento, e la musica… non ho mai sentito nulla di simile. «Allora?», sussurra Matt, accarezzandomi la coscia con la mano. «Cosa ne pensi del Don Giovanni?». Non rispondo; sono estasiata dai costumi e dall’assetto scenico, intimorita e senza parole. Ero convinta che il Manhattan Ballet fosse affascinante, ma l’opera è decisamente tutta un’altra storia. I cantanti raggiungono tonalità incredibili, fino ad acuti sorprendenti, come se la loro voce fosse in realtà il loro corpo, che fanno danzare. Le donne si stringono il cuore mentre cantano, come a trattenerlo perché non esploda, ancora pulsante, fuori dal petto. Di tanto in tanto mi accorgo di trattenere il respiro per qualche nuova prodezza canora. Matt mi sorride comprensivo; deve trovare affascinante il mio candore, suppongo. «Impressionante, vero?», chiede quando il sipario si chiude per l’intervallo. Annuisco entusiasta. «È incredibile». Gioca stringendo delicatamente tra le dita il tessuto del mio vestito. «Dài, vieni, ti presento alcuni amici: Charles, Will e Madison. Ci conosciamo dai tempi del Trinity». «Ah, okay», assento, ferma e in piedi, appena traballante sui tacchi. Non avevo capito che sarebbe stata una serata in gruppo, ma sono curiosa di incontrarli. Matt mi prende a braccetto e mi accompagna nella prima galleria, dove i tavoli sono imbanditi con tovaglie di lino bianco e centrotavola traboccanti di peonie fucsia. Sopra di noi sta sospeso un gigantesco lampadario di cristallo, che brilla e luccica al punto da ricordare un’esplosione di diamanti. Sotto di noi camminano gli altri spettatori dell’opera, vestiti di abiti da ballo lunghi fino al pavimento e di smoking neri. Appaiono tutti benestanti e curati fin nei minimi dettagli. Forse è così un ballo scolastico, penso. Poi rido tra me e me, quando ragiono sul fatto che in nessun ballo di fine anno si troverebbero un gruppo di vecchi in pelliccia. «Cosa c’è di così divertente, signorina Ward?», chiede Matt mentre camminiamo. «No, niente», rispondo arrossendo. «Non pensare a me». Matt mi conduce verso uno dei tavoli più grandi, dove aspettano due ragazzi e una ragazza, tutti sui vent’anni. Uno di loro, quello con i capelli più scuri, si immobilizza quando mi vede, poi quello biondo, con il papillon leggermente storto, segue il suo esempio. Getto uno sguardo a Matt, che rivolge ai due un ampio sorriso. Potrebbero benissimo essere tre fratelli: alti, slanciati e abbronzati, dai capelli fluenti e con lo stesso sorriso smagliante, perfetto, sicuro di sé. Gli occhi del ragazzo biondo si spalancano di più quando raggiungiamo il tavolo. «Vai così, Matt!», esclama, guardando in mia direzione. Si piega in un inchino e mi bacia la mano con un’espressione diabolica. «Sono Will». «Hannah. Ciao». Tiro indietro la mano, poi si avvicina il ragazzo dai capelli scuri. Ha un sorriso più amichevole. «Ti chiedo scusa per Will», dichiara. «A livello emotivo, è rimasto ai tempi uterini. Io sono Charles». «Piacere di conoscerti», rispondo leggermente più rilassata. Matt mi offre la sedia accanto a lui e io mi accomodo. Una bottiglia di champagne è conservata in un secchio d’argento alla mia destra. La ragazza snella, dai capelli biondo platino, con indosso un abito nero corto di lustrini, mi fissa con freddezza dall’altra parte del tavolo. Sta stravaccata nella sua poltrona e dondola la gamba accavallata in alto e in basso. «Hai intenzione di presentarmi per caso?». Alza un sopracciglio. «Madison, lei è Hannah», proclama Matt ubbidiente. Madison allunga l’ossuto braccio sinistro e mi stringe fiaccamente la mano. «Piacere», dice con un sorrisetto. Ovviamente non parla sul serio. La sento che mi squadra il vestito, prima di voltarsi e bisbigliare qualcosa a Will. Lei è in ghingheri dalla testa ai piedi, oltre al vestito indossa uno schianto di collana di rubini, e mi chiedo se sua madre l’abbia chiamata Madison in onore della strada. I camerieri in guanti bianchi ci servono insalatine con foglie puntute e acconciate in motivi complessi, e petali di un rosa acceso di fiori commestibili. Charles dà una gomitata a Matt e, con la bocca piena di insalata, propone: «Ehi, ragazzi, dovreste proprio venire a Ibiza la settimana prossima». «Già, Natale è stata una palla senza di te», aggiunge Will roteando gli occhi. «Me la sono svignata dalla festa di George e sono tornato a casa in jet in anticipo». Madison pizzica la gamba di Will e ridacchia. Matt si rivolge a me. «Ti va di andare a Ibiza?», chiede stendendosi nella sua poltrona e sorseggiando champagne. «Siamo nel pieno della stagione!», gli rispondo. «Sai che non posso venire». Guardo le persone sedute al tavolo. «Ecco, voi come fate a prendervi tante vacanze dal lavoro?». Matt ride. «Tutta la vita di Charles è una vacanza». Charles punta una forchetta contro Matt. «Senti chi parla». «Io lavoro», ribatte Matt infilzando una foglia di lattuga. «Ah, già, lavori per papino», puntualizza Charles. «Che ti concede intere settimane libere per fare viaggi che arricchiscono la tua persona». Matt si stringe nelle spalle. «Che ti devo dire? Il nepotismo ha i suoi vantaggi». Spingo la mia insalata per tutto il piatto, stranamente poco affamata. A stare seduta al tavolo con queste persone ho l’impressione di trovarmi in una specie di esperimento sociale. Apprendo come i ricchi riescono a vivere senza responsabilità. «Allora, cosa fai tu, Will?», chiedo. Will porta il bicchiere di champagne alle labbra e mi sorride da sopra il bordo. «Sono impegnato in due lavori», risponde. «Sono stato nel campo bancario per qualche tempo, ma non è che fosse un grande spasso. Forse io e Madison avviamo una linea di valigie insieme, vero Mad? Lei si occuperà del design, e io tampinerò i miei amici in cerca di investimenti». Una vaga espressione di disprezzo si dipinge sul viso di Madison. «Borse da viaggio, Will. Non valigie». Will agita per aria la mano. «Quello che è». «Allora sarai l’amministratore delegato delle borse?», sbuffa Matt. Will risponde con un sorriso allusivo. «Sai, le signore amano gli uomini che possono procurare loro borse all’ultima moda». Questa affermazione spinge Madison a colpirgli il braccio. «Ahia!», grida. «Immagino che nessuno di voi abbia bisogno di lavorare», affermo in tono pacato. «O Gesù, no», risponde Charles. «Sai che palle». A un tratto Madison salta su seduta e indica un punto dall’altra parte della sala. «Cavolo, quella sì che è una scelta moooltoinfelice. Guarda che si è combinata in faccia Bunny!». Charles e Matt allungano il collo, mentre io continuo a starmene seduta e prendo un lungo sorso di champagne. Will invece sembra più preoccupato dalla mano destra di Madison, che punta al suo cavallo. Ma qui a nessuno frega niente dell’opera?, mi chiedo. O di qualunque cosa abbia realmente importanza, se vogliamo dirla tutta? «Deve aver insistito troppo con l’ultimo lifting», suggerisce Charles. Nel frattempo Will striscia furtivo la mano lungo il vestito di Madison. Lei continua a picchiarlo di tanto in tanto, ma ho l’impressione che non sia effettivamente infastidita. «C’è Leo stasera?», chiede Matt scrutando la sala. «Non l’ho visto», risponde Will, versandosi un altro bicchiere di champagne. «L’anno scorso stava qui con quella modella. Tipa simpatica. Gli ho scroccato una Nat Sherman durante l’intervallo». Matt fa una pausa e si guarda di nuovo intorno. «E Chloë? Mi aspettavo ci fosse anche lei». Madison fa l’occhiolino a Matt e ridacchia. Lui sembra aver dimenticato di essere venuto con me. Per ricordarglielo, e nel tentativo di cambiare argomento, attacco a parlare a voce alta. «Insomma, da quanto venite all’opera?» «In pratica da quando ero un bambino», risponde. «Davvero?». Ho qualche difficoltà a immaginare Matt da bambino, un giovanotto in jeans anziché in smoking e Patek Philippe. «Ti piace più del balletto?» «Come si fa a paragonare un mucchio di persone di mezza età, che cantano completamente vestite a un palco strapieno di giovani donne mezze nude che ballano?», replica. Madison ride maliziosa e lo schiaffeggia con un angolo del fazzoletto. «Porco», lo etichetta affettuosamente. Non riesco a stabilire con certezza chi mi infastidisca di più in questo momento, se Matt o i suoi amici. «Sai, certe frasi ti fanno sembrare proprio uno stronzo», affermo. Ride. «Dài, scherzavo». Si avvicina e mi stringe la mano. «Non è il vero motivo per cui preferisco il balletto». Allora attacca a spiegare le affinità tra le due forme d’arte. Charles, Will e Madison sono intenti a discutere del recentissimo soggiorno di riabilitazione di un loro comune amico. Inizio a vagare con la mente. La voce di Matt interrompe il flusso dei miei pensieri. «Ti piace quest’entrée?», chiede. «Ottimo», rispondo. Abbasso lo sguardo sul piatto davanti a me. «Adoro le capesante». Non mi ero nemmeno resa conto che era stata servita la portata successiva. Infilzo una capasanta, ma non la mangio. Invece, prendo un sorso d’acqua e vorrei che Jacob fosse qui con me. Al termine dello spettacolo ci uniamo a tutta la gente luccicante che si riversa nella nottata. Mi dirigo verso la strada, quando Matt mi raggiunge e mi ferma. «Hannah», mi chiama affettuosamente. «Tu sei così elegante, e i miei amici sono proprio dei primitivi». Annuisco perché sono d’accordo. Suppongo che forse questa sia la cosa più vicina a una scusa che riesce a mettere insieme. A dirla tutta, io penso che anche lui sia un po’ primitivo, ma sicuramente non gli dirò niente. Mi mette una mano sotto il mento e mi solleva il viso dolcemente. Si china, e le sue labbra incontrano le mie, in un’atmosfera cento volte più calda dell’aria. Io esito, ma la sua bocca e la sua lingua sono così insistenti. Mi preme contro una parete dell’edificio e con le mani mi raggiunge i capelli. Mi bacia profondamente. Lo stordimento che avverto forse deriva dal vino, o magari no. Forse è il modo in cui Matt mi bacia, sembra così appassionato e insolitamente ponderato. Esperto. Dopo un minuto, mi tiro indietro. «Io non voglio questo», ammetto. Lui, cingendomi con un braccio, mi attira a sé. «Sì che lo vuoi. Vieni a casa mia», mi sussurra tra i capelli. «È proprio dall’altra parte del parco». E se fossi Zoe, andrei con lui. Uscire con un mecenate del balletto? Persino Otto approverebbe. Guarderebbe Matt e vedrebbe il simbolo dei dollari, più di quanto già non faccia. «Non posso», continuo sottovoce. «Perché no?». Perché non voglio, penso. Ma non mi va di essere sgarbata. «Ho una matinée domani», rispondo. «Dài, cos’è una notte?», chiede Matt. «Forza. Il mio appartamento ha la migliore vista sul parco». Faccio un passo indietro e poso lo sguardo sul bellissimo vestito che mi ha comprato. «Non credo che questa cosa funzioni per me». Quando alzo di nuovo lo sguardo, un’espressione di totale sorpresa si dipinge sul viso di Matt. «Che vuoi dire?». Potrei addurre un centinaio di scuse sulla mia carriera e su qualunque altra cosa, ma decido di essere sincera. «C’è un’altra persona», confesso, pur non sapendo se sia ancora vero. Allo stato dei fatti, Jacob ha chiuso definitivamente con me. Faccio un altro passo indietro. «Ma grazie per questa serata. Grazie mille». Poi gli do le spalle e mi affretto verso la strada, dove un taxi sembra che stia aspettando proprio me. Entro chinando la testa e mi rilasso sullo schienale sintetico, sollevata di essere sola. 34 «Partiamo dall’assolo», ordina Otto. Il pianista sfoglia gli spartiti, mentre gli occhiali gli scivolano sul dorso del naso. Zoe cammina spedita verso il centro del palco, con le scarpette da punta che sbattono rumorosamente sul pavimento, fino a trovare la posizione con un suono sordo. Io sto alla sua destra e siamo decisamente troppo vicine. Proviamo Rubies già da due settimane, ed è giunto il momento della prova generale. «E…». Otto fa un cenno al pianista perché cominci. Curvo le dita nelle scarpette e sento l’energia che si sprigiona da esse. Espiro e mi posiziono in arabesque. Spingo i fianchi in avanti ed espiro ancora, quando le gambe si sfiorano. Barcollo lievemente sul piede d’appoggio, ma mi riprendo rapidamente per i piqué. Con la coda dell’occhio vedo Zoe avanzare a piccoli passi verso di me, ma mi sforzo di immaginare di essere sola. Mi concentro soltanto sull’esecuzione di movimenti ampi e pieni, che si integrano l’uno nell’altro. Otto sta seduto proprio davanti a me, ma ignoro il suo sguardo inflessibile. Non lo faccio per lui. Quando la musica incalza, mi si serra il petto e centellino con calma i respiri dal naso. Contrastare le avvisaglie dello sfinimento è sempre la parte più difficile. È una lotta mentale, prima che fisica. Come volevasi dimostrare, verso la fine non riesco a prendere aria sufficiente, e inizio a provare una sensazione familiare di soffocamento. È solo momentaneo, è solo momentaneo, penso. Ma mi sento come se stessi annegando. Non appena arrivo all’ultima serie di giri, spengo la mente e li eseguo. Se ci ragiono troppo, rischio di vacillare. Non pensarci, fallo. Mi lascio trasportare dalle piroette. Mi inchiodo sull’ultima posa. Sento Zoe che boccheggia accanto a me. «Okay», afferma Otto con calma. E poi va via. «Sembrava che avessi qualcosa al ginocchio nella doppia piroetta», riferisce Zoe rivolta verso di me. «Hai qualche problema al tendine?». Sul suo viso non c’è altro che falsa preoccupazione. «Sto bene», le rispondo, per quanto a dire il vero il mio tendine ha visto giorni migliori. «Me lo auguro», aggiunge. «Perché quelle piroette sono una parte importante dell’assolo, e non penso che Otto rischierebbe quel ruolo su qualcuno malfermo». «In quel caso, la cosa farebbe comodo a te, no?», chiedo bonaria. Per un attimo sembra sorpresa. Poi sorride, mostrando una serie di piccoli denti perfetti, il risultato di diecimila dollari di interventi ortodontici, da quanto sono venuta a sapere. «Oh, suvvia Hannah. Sai bene che sarei felice per te se ottenessi la parte». Mi piego in avanti per raccogliere la felpa e gli scaldamuscoli. «Ma certo», ribatto. Ma nessuna delle due crede veramente a ciò che ha detto. Torniamo verso il camerino in silenzio, e lei sale sul tetto a fumare. Mi siedo davanti allo specchio tenendomi la testa tra le mani. Già lo sforzo fisico è un lavoraccio; perché si deve aggiungere la competizione a peggiorarlo? Dopo la prova generale, vado a fare fisioterapia, in una sala compressa tra i distributori automatici e l’area lavanderia, che dispone del fascino e dello spazio di uno sgabuzzino delle scope. Sulle familiari pareti in mattoni color cenere, sono appesi a caso poster sulle età anatomiche, oltre a due specchi con grossi adesivi di dinosauri a decorarne i bordi. Ci sono due lettini per i massaggi e alcune mensole di compensato. Su quelle più in basso sta esposta una scorta di Voltaren, cerotti, impacchi di ghiaccio, e bende, mentre su quelle in alto sono poggiate una coppia di stampelle e un coprigesso. «Ciao, Hannah! Come va?». Frannie, la fisioterapista, mi riserva un ampio sorriso mentre conficca un gomito nel polpaccio di Adriana. «Ho quasi finito qui». «Ciao», rispondo. Mentre aspetto il mio turno, scorro il foglio degli appuntamenti di fisioterapia, che divide la giornata in blocchi da dieci minuti per massaggi, aggiustamenti, e così via. Vedo il nome di Daisy qualche casella sotto la mia; si lamenta da qualche tempo della spalla sinistra. Il foglio viene mandato di sopra in mattinata, e in pochi minuti si riempiono tutti gli spazi. Guardo Frannie sfruttare il peso della parte superiore del proprio corpo per fare pressione sul muscolo di Adriana, che geme forse in un misto di piacere e dolore. Un attimo dopo, Frannie le dà una pacca sul piede, e lei scende lentamente dal lettino. «Ti spiace se faccio un po’ di ultrasuoni?», chiede Adriana mentre si cosparge il piede con un sacco di gel blu. «Fai quello che ti serve, tesoro. Sai come funziona?», domanda Frannie. «Sono espertissima», risponde Adriana mentre sposta una leva e gira una manopola sull’apparecchio. Si strofina in senso circolare quella sostanza appiccicosa blu sulle ossa metatarsali con un manico in metallo, mentre le onde sonore attraversano in profondità i suoi tessuti, generando un calore lieve (e, si spera, curativo). Salgo sul lettino. «Allora, che posso fare per te?», chiede Frannie. La sua espressione dolce e gentile si trasforma in un sorriso. «Mi sono stirata di nuovo il tendine», comunico. Cerco di sembrare disinvolta, ma avverto una fitta di panico nella voce. «Oh, cara. Balli stasera?». Frannie fa un gesto per indicarmi di stendermi pancia in giù. «Ne ho due oggi». Sospira semplicemente mentre mi sistemo nell’incavo per la testa, che mi preme su fronte e guance. «Ho bisogno di una magia», dichiaro dal buco per il viso. «Io non so come fate voi ragazze», afferma Frannie, mentre si stende con il peso del corpo sulla mia gamba. Non è propriamente un massaggio rilassante, ma sono sicura che lei si preoccupa per me e vuole farmi sentire meglio. Chiudo gli occhi e immagino che le mani di Frannie siano quelle di mia madre che, con il suo tocco, mi assicura che va tutto bene. Dopo qualche minuto Frannie mi dà una leggera pacca sul piede, e io sollevo la testa dall’incavo sul lettino. Sulla fronte mi ritrovo un’impronta rossa dentellata. «Perché non torni stasera prima dello spettacolo per farti qualche infiltrazione di calore e un po’ di stimolazioni a microcorrente?», mi suggerisce. «Okay, grazie», rispondo. «Passerò». Raccolgo le mie cose, ma sono riluttante ad andare via. È un’esperienza così rara che qualcuno si prenda cura di noi in questo mondo, che ogni momento di gentilezza sembra incredibilmente prezioso. Mentre mi dirigo nel backstage per prepararmi al primo balletto della serata, Harry mi intercetta e mi allunga una busta con un’alzata di spalle imbarazzata. «Da parte di Mattie», spiega. «È stata sveglia fino a tardi per scrivertelo, ma non ha voluto mostrarmi cos’era. San Valentino è passato già da un bel po’, ma lo sa il cielo che quella ragazzina segue un tempo tutto suo». «Devo allenarmi alla sbarra», replico, guardando a stento lui o la busta. «La apro quando finisco». «Certo, certo, non c’è problema», ribatte Harry. Abbassa la testa e mi saluta andando via. Ma mentre mi stiro i polpacci alla sbarra, mi domando se ho urtato i suoi sentimenti in qualche modo. Mi sarei anche potuta fermare per trenta secondi a guardare il bigliettino di sua figlia no? «Hai sentito di BaryshniMoss?», chiede Jonathan. «Che?». Mi stendo sulla gamba e sento i muscoli allungarsi. Poi capisco che non parla con me, ma con Daisy, che sta seduta ai suoi piedi come un discepolo. «A quanto pare, Kate Moss sta, diciamo, studiando danza, e lei e Barysnhikov faranno una specie di film insieme», riferisce Jonathan. Si piega in avanti a toccarsi le dita dei piedi, pronunciando l’ultima parte della frase tra le ginocchia. «Ma dài?», esclama Daisy. Jonathan si tira su e fa un cenno con la testa, disegnando con le dita una croce sul cuore. «Quella pensa che, siccome riesce a portare un tacco diciotto su una passerella, può anche reggersi sulle punte. E allora, in bocca al lupo, Kate! Ho detto tutto». Daisy annuisce. «Assolutamente», conferma. «Ma Baryshnikov… quanto mi è piaciuto in Sex and the City». Devo soffocare una risata. Quindi è questo che pensa Daisy quando si parla di Mikhail Baryshnikov: Carrie Bradshaw? È persino più bambina di quanto credessi. Jonathan ridacchia. «Lo so. Quanto era figo». E nonostante anche lui danzi nel prossimo balletto, salta il riscaldamento per diffondere in giro notizie su Kate Moss. Concentrati, mi ripeto. Concentrati. Christine mi passa davanti in tutta fretta, borbottando nelle cuffie. Alza lo sguardo e i nostri occhi si incrociano. «Hannah, e il costume?», chiede facendo un gesto rapido con il braccio. «Sei in Fortitude, vero? Mancano dieci minuti». «Tutto sotto controllo», rispondo. Mentre mi dirigo verso il retropalco, apro il biglietto di Mattie. Cara Hannah, PER FAVORE per favore vieni alla mia squola di danza la prossima settimana il 3 maggio. Facciamo una recita. Baliamo tanto!!! Un bacio, la tua amica Matilda P.S. penzo che sei la migliore della compagnia. È molto dolce, errori di ortografia a parte. Lo conservo tra le mie cose, così posso appenderlo allo specchio in camerino, poi mi infilo nel tutù rosa che Laura regge davanti a me. 35 Alcuni giorni dopo, durante la lezione del signor Edmunds, nel pieno di uno dei noiosissimi adagio sulle note di My Favourite Things, guardo sovrappensiero il primo gruppo di danzatori sfilare in arabesque, quando sembra che Mai si sieda a terra con un avvitamento molto poco aggraziato al centro della sala. In un primo momento io e Bea ce la ridiamo, convinte che sia solo l’ennesima imprecisione di Mai. Ma quando con la testa colpisce il pavimento e smette di muoversi, iniziamo a spaventarci. Il pianista si blocca a metà fraseggio e il signor Edmunds accorre verso di lei. Anche noi ci accalchiamo tutto intorno, ma Roman strilla di farci indietro. «Lasciatela respirare», grida, scuotendo le braccia come un matto. «Spostatevi!». Tengo lo sguardo basso, comunque, mentre mi tiro indietro. Mai appare incredibilmente fragile, con i capelli così neri e la pelle completamente diafana. Riversa a terra, sembra appena una bambina. Julie chiama il 911 dal cellulare camminando nervosamente avanti e indietro per tutta la sala sulle sue lunghe ed energiche gambe. Il signor Edmunds chiede a uno dei ragazzi di portare Mai nella sala di fisioterapia, e un mucchio di danzatori lo seguono, parlottando preoccupati. Prima di rendermene conto, resto l’unica nello studio, ferma e muta a guardarmi nello specchio. Cos’è appena successo? penso. Ancora leggermente confusa, mi siedo al piano e tocco delicatamente un paio di tasti. Mi chiedo se Mai ha già ripreso conoscenza; e se così non fosse, vuol dire che è molto grave? Cerco di carpire le sirene che salgono dalla Broadway; non che riuscirei a sentirle in questa fortezza di edificio. Sento voci nell’ingresso, ed esco a vedere chi c’è. Sono solo Luke ed Emma, che si voltano verso di me con espressioni gravi e mi riferiscono che Roman ha infilato Mai in un taxi per accompagnarla in ospedale. Quando torno nel camerino, ognuno propone una sua teoria su ciò che è accaduto. «Ovviamente è malnutrita», propone Zoe mentre pesca una barretta proteica dalla borsa. «Dicono che mangi solo brodo di pollo e spinaci. Dio solo sa da dove la tira fuori tutta quell’energia sul palco». Daisy afferma: «Olivia mi ha detto che a Mai non piace per niente mangiare. Pensa che sia un’attività sopravvalutata». Non posso fare a meno di notare che le mie amiche sembrano di buon umore. Mentre le ascolto ipotizzare di quale disordine o disturbo soffra Mai, mi agito sempre di più. Sarà che anch’io ho fame (ah!, quanto mi mancano i carboidrati), ma in realtà forse sono solo preoccupata per lei. «Deve trattarsi di qualcosa di grave, ragazze», sostengo. Mi guardano inespressive. Poi Zoe sbotta: «Ma certo, Hannah» e dà un morso a una pera. Sprofondo nella sedia e prendo un sorso di acqua. Non riesco a smettere di pensare alle altre ragazze del Manhattan Ballet che si sono rovinate la vita. L’anno scorso a Lila, una ballerina di fila del secondo anno, è stato diagnosticato un problema alla tiroide, mentre una delle soliste ha sviluppato una malattia del sangue a causa delle continue diete che seguiva. Una cosa simile all’emofilia, ci ha raccontato Daisy (che ovviamente sapeva tutto a riguardo), che la costringerà a prendere medicine per il resto della vita. Sono consapevole del fatto che una certa dose di sacrifici sia necessaria per diventare un’artista. Se il balletto fosse un’attività facile, potrebbe praticarla chiunque, e non avrebbero motivo di esistere né il Manhattan Ballet, né qualunque altra compagnia di danza. Eppure mi sento come se qualcuno mi avesse scosso per le spalle. Qualche giorno dopo Mai torna in teatro per assistere ad alcune prove e per incontrare Otto. È venuto fuori che anche lei ha sviluppato una disfunzione tiroidea, e le medicine che deve assumere le gonfiano il volto al punto che è quasi impossibile riconoscerla. I suoi capelli neri appaiono sciupati e spenti. Mentre guardo Mai bere gracile una tazza di tè, comincio a chiedermi se sto facendo davvero la cosa giusta per la mia vita. [eBL 092] 36 Lunedì sera vado alla scuola di danza di Mattie, giù nel Lower East Side. Si trova alle porte di Chinatown, oltre un piccolo parco lastricato, decorato con qualche albero e circondato da una recinzione a maglia. Nel parco uomini anziani giocano a scacchi su tavolini di cemento, imbacuccati in giacche sbiadite e cappelli logori, nonostante ci siano oltre venti gradi. Passo davanti alla gente, in mano reggo una busta arancione di una salumeria di Chinatown. Nell’aria si mischiano lingue diverse, e l’inglese si sente appena. Credo di poter contare sulle dita di una mano quante volte sono scesa così a sud, e mi rendo conto che Jacob aveva ragione. Io non vivo in questa città. Sopra l’entrata della scuola è appeso uno striscione che urla «recita di primavera» a caratteri cubitali viola. Le porte sono puntellate per restare aperte, e la gente entra in piccoli sciami costanti. Mi sento nervosa e fuori luogo, non sono né un genitore né una sorella maggiore. Vorrei aver portato con me Bea, ma è a casa a curarsi un’influenza primaverile. La sala è calda e accogliente, anche se un po’ malconcia. Alla fine del corridoio un paio di porte doppie si aprono su un piccolo auditorium. Da un lato sta un palco, con tanto di tende di velluto (il dono di un vecchio cinema, a detta di Harry), e molte file di sedie pieghevoli. Prendo posto in fondo. Per qualche motivo non ho voglia che Harry mi veda. Voglio soltanto starmene seduta qui, sola e ignorata. I bambini scorrazzano dappertutto. Alcuni indossano un costume e altri si trovano lì solo per vedere i propri fratelli o sorelle. Gli strilli e le risate rimbombano contro l’alto soffitto. Noto un ragazzino paffuto, dai capelli neri, che somiglia molto a come mi immaginavo il Paulo di Jacob; sta mangiando un bastoncino di liquirizia, e ha tutto il viso macchiato di rosso. Mi domando cosa starà facendo Jacob e quali barzellette idiote gli abbiano raccontato i suoi bambini di terza elementare. Mi domando se si sia esibito da qualche parte negli ultimi tempi, e se canta mai Ragazza in tutù quando sale sul palco. Ormai da settimane un libro di Moby Dick è poggiato sul mio tavolino, ma non ho ancora iniziato a leggerlo. Se ne sta lì in attesa che finisca Frankenstein e una pila di vecchie riviste «People». «Buonasera a tutti», richiama l’attenzione una voce da un altoparlante gracchiante. «Siamo quasi pronti per iniziare». I bambini prendono posto svogliatamente, e io leggo il programma fotocopiato, che è scritto a mano, presumibilmente da uno degli studenti più grandi. «Benvenuti alla recita di primavera della Delancey Dance Academy: un gran gala», c’è scritto. Le luci infine si abbassano e le tende si alzano. Mattie danza proprio nel primo balletto. Calca orgogliosa il palcoscenico al centro di una fila di sue coetanee. I costumi sono tutti diversi, e alcuni entrano a stento nei corpi di chi li indossa. A Bernadette prenderebbe un colpo per il disgusto. Si mettono in riga, poi sollevano le mani oltre la testa e aspettano. Dietro le quinte qualcuno schiaccia Play su uno stereo, e la musica di una marcia di Sousa riempie l’auditorium. Al momento previsto le bambine iniziano a muoversi. Scivolano sulla sinistra, poi sulla destra, poi alcune di loro avanzano con dei saltelli, mentre altre si trattengono dietro, girando in semipunta. Sono troppo giovani per usare le punte, ma non ho dubbi che già sognino di farlo. Tutte le giovani danzatrici lo sognano. La gioia di quelle ragazze è contagiosa. Ricordo come mi sentivo anch’io, quando ero piccola, alla mia prima esibizione. E prima di allora, persino quando ballavo nella cantina di casa mia, davanti a un pubblico di peluche. Mattie fa parte delle danzatrici più entusiaste. Le sue gambette tozze dànno calci e saltano, e per tutto il tempo sorride a tutti tra il pubblico. Alla fine della performance gli applausi sono assordanti. Mi pare di sentire la voce di Zoe nella mia testa. Un bel 10 per l’impegno, ma è troppo rigida. Per non parlare della ciccia. Sospiro. No, Mattie non è per niente nata ballerina. Ma si sta divertendo e cerca di dare il massimo. Perché non può bastare? Resto seduta per quasi tutto il programma, nonostante lo stomaco mi rumoreggi perché ho saltato la cena. Mattie sta in altri due balletti, a quanto pare è una delle stelle della Delancey Dance Academy. Riesce a saltare fino al soffitto, ma questo non cambia il fatto che è bassa e tarchiata come un idrante. Non verrebbe in mente a nessuno che possa diventare una ballerina; non sarebbe mai accettata nella MBA. Ma poniamo che sia riuscita a entrarci. Trascorrerebbe ogni momento di veglia a paragonarsi alle altre ragazze, a quelle ragazze con i fisici smilzi da ballerine, e a odiare le sue braccia corte e il suo busto panciuto. Gli insegnanti le ripeterebbero che deve perdere peso sulla pancia e pregare perché le crescano arti più lunghi. E questa bambina vivace e solare si deprimerebbe. Se penso a tutto questo, avverto un senso di protezione nei confronti di Mattie, e mi intristisco un po’ per la bambina che ero un tempo anch’io. 37 Io e Zoe siamo convocate per provare di nuovo Rubies, questa volta sul palco, alla fine di una giornata di prove. L’area del backstage è deserta, non fosse per alcune sbarre in acciaio di allenamento, abbandonate linoleum. Nella parte anteriore del palco, vedo Zoe che gesticola, appollaiata sul sediolino del pianoforte. Lascio il borsone vicino alla sbarra e mi sfilo i pantaloni e la felpa da riscaldamento. Quando mi avvicino al palco, mi accorgo che Zoe sta discutendo animatamente con Otto. Di cosa parla?, penso. E dove l’ha trovato il coraggio? Il nostro attempato pianista entra dalle quinte con un mucchio di spartiti musicali sotto il braccio. Chiede cortesemente il proprio sedile, poi si aggiusta gli occhiali e sorride docile. Zoe balza in piedi e ridacchia con teatralità. Otto pronuncia qualcosa di indecifrabile e Zoe gli si avvicina così tanto che con le labbra quasi gli tocca l’orecchio. Poi saltella sul palco verso di me e mi riserva un’espressione bugiarda disegnata agli angoli della bocca. Le rispondo con un sorriso altrettanto falso. «Forza, partiamo dall’inizio, ragazze», ordina Otto. Una accanto all’altra eseguiamo la sezione di apertura, l’assolo, la coda e il finale. Qualche volta Zoe si spinge a ballare davanti a me, e io a mia volta mi sposto più vicina a lei. Rischiamo di scontrarci in alcuni momenti, e ci manchiamo per pochissimo. Questa situazione è solo colpa di Otto, se bisogna dirla tutta; ma siccome non ha senso arrabbiarmi con lui, mi limito a detestare intimamente Zoe. Quando la prova termina, mentre raccolgo le mie cose, noto che lei si intrattiene sul palco, fingendo di sciogliere il polpaccio. Qualche attimo dopo, la vedo avanzare verso Otto. Ondeggia un po’ i fianchi mentre cammina, e ha un sorriso allusivo, quasi seducente sul volto. Vorrei riprenderla, ma non ne ho proprio la forza. «Hannah, vieni!», mi chiama Jonathan praticamente urlando. Indica il foglio del casting che Sammy ha appena affisso al muro con le puntine. Lì, sotto il ruolo principale di Rubies, è scritto il mio nome. Il mio nome. Non quello di Zoe. Il cuore mi fa un salto carpiato in petto. «Congratulazioni, tesoro». Jonathan mi sorride radioso. «Oh mio Dio», sussurro. Mi mordo un labbro per contenere l’eccitazione. «Te lo meriti, Hannah. Sono così felice per te!». Ride e mi dà un bacio sulla guancia. «Non ci posso credere». È difficile contenere i gridolini di gioia. «Ti metterai quel costumino rosso sexy», esclama. «Wow, vado subito a provarlo». Lo saluto e corro nel seminterrato. Quando attraverso sfiorando la schifosa tenda del negozio di costumi, Bernadette si alza dalla sedia. Mi corre incontro e quasi mi soffoca tra i suoi enormi seni. «Siamo così fiere di te, Hannah!», si complimenta. Quindi tocca a Carole, l’altra sarta simpatica, afferrarmi con il suo esile braccio per sussurrarmi le sue congratulazioni. Non mi sorprende che Glenn, la terza sarta, finga di non notarmi; è mezzo sommersa da una montagna di tulle e poi è sempre scontrosa. Carole mi prende la mano; stringere la sua è come reggere un mucchio di rametti. Mi conduce a un appendiabiti e sceglie un costume rosso corto. «Grandi ballerine lo hanno indossato prima di te, cara», afferma. Guardo nella fodera e su un’etichetta cucita a mano vedo Harlow scritto con una Pilot nera; accanto un’altra etichetta su cui si legge Hayes. Lottie Harlow, l’étoile di Otto, e Annabelle Hayes, la mia insegnante di balletto. «Lottie aveva diciassette anni ed era magrissima», ricorda Carole nostalgica. «Avresti dovuto vederla sul palco. Magnetica», aggiunge Bernadette. «Dài, provalo». Mi spoglio e mi infilo cautamente nel costume, mentre Bernadette mi offre la sua robusta mano per tenermi in equilibrio. «Tu sei più alta di loro», dice Carole, «ma penso che vada bene». Davanti allo specchio non vedo me stessa, ma una ballerina snella e flessuosa. Il costume è in lycra rosso ciliegio, con taglio corto appena sotto la coscia. Il bustino è decorato con cristalli di rubino scintillanti, fin giù all’ombelico. «Incantevole», sussurra Carole. Il costume è vecchio e difficile da lavare, quindi emana un odore deciso. Non è esattamente odore corporeo, ma ci si avvicina parecchio. Guardandolo più da vicino, posso intravedere i punti in cui il tessuto ha perso colore per il sudore di altre ballerine, e quelli in cui i gioielli perduti sono stati sostituiti da altri che non combaciano perfettamente. Sono indecisa se essere intimorita ed elettrizzata per la storia di questo costume o piuttosto schifata dalle condizioni in cui è ridotto. «Hai perso peso?», chiede Bernadette. «Sì, credo di sì», rispondo. «Secondo me, non ne avevi bisogno». «Ma nessuno ha chiesto la tua opinione, Bernie», ribatte Carole, agitando il dito ossuto. «Hanno idee diverse lassù, al piano della strada, non è vero, cara?». Sorrido mesta. «È un mondo diverso», replico. Infilo di nuovo il body e i collant. Mentre cammino nel corridoio verso l’ascensore, stringo il pugno per aria e penso tra me e me:Sono sulla strada giusta! Più tardi chiamo i miei; saranno felicissimi. Scommetto che mio padre dirà a tutti i suoi collaboratori quanto è orgoglioso di me, e mia madre telefonerà alla nonna in Florida. Probabilmente vorranno venire a ogni spettacolo. Prendo l’ascensore per salire al quarto piano a raccontare alle ragazze la buona notizia. Quando le porte dell’ascensore si aprono, sento urla isteriche arrivare dal corridoio. I battiti del cuore accelerano, mentre corro verso l’origine del rumore. Sembra giungere dal nostro camerino e, una volta arrivata davanti alla porta chiusa, ho paura di quello che vedrò. Il rumore aumenta, e il mio respiro si fa veloce e difficile. Spalanco la porta, pronta per una caviglia fratturata, un test di gravidanza positivo, o qualcuno svenuto a terra. «Cos’è?», rantolo. «Che succede?». Al centro della stanza, sono raggruppate Bea, Zoe, Daisy e Leni, strette strette le une alle altre. Qualcuno geme. «Chi si è fatto male?», chiedo. Leni si volta verso di me con le lacrime che le rigano le guance. «Zoe ha avuto la promozione!», grida. Poi si volta di nuovo verso il gruppetto; gridano e saltano su e giù in un groviglio di braccia e di gambe. Zoe ha avuto la promozione. Mi ripeto le parole in continuazione nella testa. Il mucchio di corpi si separa, e Zoe resta nel mezzo, il viso umido e macchiato per le lacrime, con le braccia aperte a invitarmi all’abbraccio. «Hannah!», grida. Mi avvicino a lei e abbraccio il suo corpo magro come uno stecchino. Il cuore non ha smesso di martellarmi in petto. La stringo e le sue braccia mi avvolgono le spalle. Sono scioccata. Scioccata. Devastata. Assurdamente sconcertata. «Congratulazioni», bisbiglio. Mi sento come se avessi appena ricevuto un calcio nello stomaco. «Grazie», risponde. Le sue lacrime mi bagnano il collo. «Grazie tante». Si tira indietro e mi guarda negli occhi. Poi si volta verso il resto della stanza e solleva le braccia in aria. «Aaaaaaah!», urla gongolante. «Aaaaaaaaaah!». Crollo sulla sedia e intreccio le mani in grembo. «Ragazze!», strilla Daisy, indicando l’orologio. «Faremo tardi per le prove!». Raccoglie il borsone e porge a Zoe il suo. «Hannah, alzati». Ma la ignoro. Nella frenesia spariscono tutte, tranne me e Bea. Mi si avvicina e si siede accanto a me, poggiandomi una mano sul ginocchio. Volevo soltanto dirle del mio primo assolo, ma ora la bella notizia è passata completamente in secondo piano. «Tutto bene?», chiede Bea. Apro la bocca per dire qualcosa, ma non riesco a esprimermi. «Io… io non so cosa dire». Mi strappo una pellicina dal dito e fisso il vuoto. Penso alla scena di Zoe che flirtava come un’ossessa con Otto prima della prova di Rubies. Avrà qualcosa a che vedere con la promozione? «Che notizia, eh?», attacca Bea. «Adesso è una solista». Annuisco. Me ne sto seduta lì, muta, mentre Bea mi dà pacche sul ginocchio. Dopo qualche attimo alzo lo sguardo su di lei. «Ho avuto l’assolo di Rubies», mormoro. «Lo so». Bea sorride. «Le notizie viaggiano rapidamente quando Daisy è in giro. Congratulazioni. Sono molto fiera di te». «Già, grazie», dico evitando il suo sguardo. Si mette in piedi e si lega una felpa intorno alla vita. «Dài, su», mi scuote. «Dobbiamo davvero andare alle prove ora». «Ti raggiungo tra un secondo», replico sforzandomi di accennare un sorriso. Sola in camerino, mi guardo nello specchio, ma gli occhi non riescono a mettere a fuoco l’immagine. Non sono altro che una macchia biondo pallido. 38 Bea apre gli sportelli della credenza di casa mia, uno dopo l’altro, in cerca di qualcosa da mangiucchiare, ma li trova persino più vuoti del solito. Io sono sprofondata sul divano, e infilzo un poggiabicchiere con una matita. Sono le undici e mezzo di sera, e siamo semimorte per lo spettacolo. «Proprio non riesco a crederci che Zoe è stata promossa», ammetto. «Davvero? Avrebbe dato un braccio per la promozione». Bea inizia ad aprire i cassetti, come se le leccornie si nascondessero tra forchette e cucchiai. «Non hai nemmeno tortillas o cose del genere?» «No, le ho buttate quando Olivia ed Eliza sono state promosse». Spezzo la punta della matita contro il tavolino. «L’ho vista che si avvicinava a lui come se gli stesse per saltare addosso. Pensi che sia andata a letto con Otto?». Lancio la matita a terra. «Perché lei non è una ballerina migliore di me». Bea viene in soggiorno e si stravacca sul divano al mio fianco. «Hai ragione, non è più brava di te», dice annuendo. «Ma non credo che sia stata promossa per essere andata a letto con Otto. Non penso nemmeno che ci avrebbe provato. Certo, è possibile che abbia flirtato un po’ con lui. Però dài, sai quante ragazze fanno gli occhi dolci a Otto? E Zoe andrebbe dietro anche a un palo della luce, per amor del cielo!». Mi mordo il labbro e non aggiungo altro. Bea mi poggia una mano sul ginocchio e continua. «Zoe è andata avanti perché è un’istituzione nel teatro…». «Ma siamo tutte istituzioni nel teatro», sbotto. «A momenti ci dormiamo, lì dentro!». Bea annuisce comprensiva. «Ma Zoe segue sempre le prove a cui non è convocata, tanto per fare esercizio», precisa, «e non ha mai perso una sola lezione di gruppo. E soprattutto, Zoe è disposta a mollare tutto per fare la solista. Hai notato che ultimamente non esce più con nessuno? È felice di mettere da parte il resto della sua vita. Mentre non penso che per te valga più lo stesso». Cerco con gli occhi il visino grazioso e lentigginoso di Bea. Non riesco a credere che proprio lei, tra tutti, difenda Zoe. Nemmeno le piace granché. «Che vai dicendo? Mi sono spaccata il culo! Non riesco neppure a immaginarmi un impegno maggiore». «Ma hai dei dubbi ogni giorno. Io me ne accorgo», spiega con gentilezza. «No, non è vero». Mi sento bruciare il viso. Bea incrocia le braccia. «Han, sai che ti voglio bene, ma almeno sii onesta con te stessa, se non vuoi esserlo con me. So che tu ami la danza, ma sei sicura di volere una promozione?» «Mi prendi in giro? Certo che la voglio!». Balzo in piedi e inizio a vagare per la stanza. «Cosa pensi che abbia rincorso per tutta la vita?». Rovescio a terra una pila di vecchie riviste, ma non mi importa niente. «Non sono mai andata a un ballo scolastico! Non ho mai avuto un ragazzo! A stento vedo i miei genitori dall’età di quattordici anni! Non riesco nemmeno a finire di leggere un cazzo di libro!». Lacrime roventi mi bruciano le guance. «Sono sfinita ogni momento, ogni singolo giorno. Cos’altro dovrei fare?». Le lacrime mi scendono lungo il viso. Bea mi guarda, con i suoi occhi azzurri affettuosi e dolci. «Ma cosa pensi che succederà una volta promossa, Hannah?», mi chiede con dolcezza. «Avrai ancora meno tempo per vivere rispetto a ora. Diventerà sempre più dura». Si alza in piedi per fissarmi dritto negli occhi e sostiene il mio sguardo. «L’assolo di Rubies è una grande conquista. E probabilmente sei davvero sulla strada per la promozione. Ma devi avere le idee chiare. O hai una vita, o danzi. Non puoi pretendere di avere tutte e due le cose». «Io non voglio scegliere», piagnucolo. Una lacrima le luccica in un angolo dell’occhio mentre mi risponde. «Ma devi farlo, Hannah. Devi fare una scelta». Ho un groppo in gola mentre cerco di fare un profondo respiro. «Forse hai ragione», sussurro. «Va tutto bene, Hannah. Davvero, va tutto bene». Annuisco in silenzio. E mi rendo conto di aver proprio bisogno di un fazzoletto per il naso. Poi Bea mi stringe in un lungo e forte abbraccio. «Ora, non so tu», dice tirandosi indietro, «ma io muoio di fame. Cavolo, ordiniamo un po’ di sushi e facciamoci una bottiglia di rosso». «I menu del takeaway sono in cucina», replico tirando ancora su con il naso. Bea mi sorride. «Questa è la mia ragazza, ora ti riconosco», ribatte. Il giorno dopo vado in camerino prima della lezione e ci trovo Daisy, rossa in viso, che scaglia oggetti fuori dalla borsa del teatro. Scaldamuscoli, calze e magliette volano per tutta la stanza. Un paio di scarpette da punta mi sfrecciano accanto alla testa e vanno a sbattere contro il muro in mattoni color cenere. Impreca come un camionista all’ora di punta sulla superstrada BrooklynQueens. Il motivo? Caleb ha baciato un’altra ragazza. Per quanto non si possa definire proprio una ragazza: si chiama Margaret, ha ventisette anni ed è una delle soliste del Manhattan Ballet. È Odette nel Lago dei Cigni, e lo scorso anno il «New York Times» l’ha descritta come «una ballerina dalla fisicità emozionante». «Non posso credere che abbia trovato una che gli piace più di me», piagnucola Daisy. «Secondo te le ha guardato il culo per tutto il tempo, o no?» «Io non riesco ancora a credere che non sia gay», sussurra Zoe. Mi sento malissimo per Daisy, e tento di abbracciarla, ma lei mi respinge. «Pensi che sua madre sappia che mi sta tradendo, quel bugiardo schifoso?», sibila tra i denti. «Chiamerò sua madre». «Non farlo», suggerisce Bea con calma dall’angolo in cui si è infilata per evitare di farsi colpire dai vestiti e dalle scarpette da punta lanciati da Daisy. «Spettegolare non è la soluzione giusta. Devi parlare direttamente con Caleb». Daisy alza gli occhi al cielo e mi guarda. «Chi ha invitato qui il dottor Freud?», chiede, raccogliendo una scarpetta e scaraventandola di nuovo. «Ha ragione, Daze», ribatto. Ci ignora entrambe e sbuffa andando verso la porta. «Vado alle macchinette», sbotta. «Ho bisogno di una Coca Light e di un pacchetto di Cipster». La porta sbatte alle sue spalle, e il camerino piomba nel silenzio. Bea si alza dal suo cantuccio e inizia a raccogliere le cose di Daisy e a sistemarle. Davvero non l’ho mai vista piegare vestiti prima d’ora. «Mi dispiace tantissimo per lei», afferma. Annuisco. Mentre mi piego per aiutare Bea a raccogliere i vestiti sparsi, mi auguro che Daisy trovi la forza di reagire. «Starà bene», aggiunge Bea, come se mi leggesse nella mente. «Ma è strano, in un certo senso. Che ci serva una cosa di questo genere per ricordarci che esiste altro nella vita oltre il balletto». Bea ha ragione, ovviamente. Dimentichiamo spesso che il mondo non ruota intorno a noi e alle nostre scarpette da punta, e che le nostre delusioni (e le nostre vittorie) non dipendono tutte da decisioni di casting e dai capricci di Otto. E questo mi fa pensare a Jacob. 39 Lunedì, il sole di maggio splende dopo giorni di pioggia, e l’aria sembra quasi estiva. Mi infilo un vestitino di cotone e un paio di ballerine (mi suona sempre così strano che le chiamino così), e prendo la metropolitana, diretta in centro. Ho chiesto a Jacob di incontrarci per un caffè dopo il suo ultimo corso della giornata, e dal momento che sono in anticipo, mi siedo sulla scalinata fuori dall’edificio e guardo gli studenti della NYU correre avanti e indietro tra una lezione e l’altra, con zaini e cartelle strapieni di libri, matite e portatili. Quasi tutti indossano jeans e scarpe da tennis. Alcuni chiacchierano al cellulare, altri passeggiano con gli amici, e altri ancora cercano freneticamente di non perdere nemmeno una pagina delle loro letture mentre si infilano tra la folla di colleghi. Mi torna nella mente la voce di Zoe, lieve e lievemente canzonatoria. «I pedestri vanno all’università, Han». Un ragazzo, che non dimostra un giorno più di sedici anni, si lascia cascare su un gradino accanto a me, si accende una sigaretta e apre un libro pieno di orecchie. Ironia della sorte, è Frankenstein. Il programma di studio gli scivola fuori da una delle pagine e atterra contro la mia scarpa. Prima di restituirglielo, riesco a sbirciare il nome del corso: Femminile e Fantastico: madri, mostri e pazzia delle donne nella letteratura del XIX secolo. Jacob si avvicina, con gli occhi socchiusi per il sole, e un’espressione assolutamente indecifrabile. «Ciao», saluta. Mi alzo in piedi. «Ciao». Segue un silenzio imbarazzante. Premo la punta del piede contro i gradini, graffiando leggermente le scarpe. «Allora», accenna. Tiene le mani in tasca. «Vuoi andare a prendere un caffè o qualcos’altro?», chiede infine. Annuisco. «Volevo parlarti. Ho bisogno del tuo punto di vista». Un’espressione sorpresa gli si dipinge in volto. «Quindi non sei venuta a chiedere scusa per esserti comportata in modo orribile». Ma poi sorride. «Vuoi andare da un’altra parte?» «Per favore». Mi porge il braccio, con il gomito piegato, e io lo afferro. Toccarlo mi pervade di qualcosa di inesprimibile, un misto di aspettative e desiderio. Lo sento incredibilmente lontano da me, malgrado mi stia accanto. Il sole si riflette sui suoi capelli scuri e il vento gli soffia negli occhi. Camminiamo verso ovest, superiamo boutique e caffetterie, calzolai e lavanderie. Le ragazze escono nei loro vestiti estivi; sembrano quasi intimidite a mostrare le braccia pallide e il collo bianco delicato. Tutti i negozietti espongono mazzi di fiori: tulipani, iris, fresie. «Dove andiamo?», chiedo. È la prima cosa che dico dopo aver camminato per interi isolati. «Al fiume», risponde Jacob. Mi prende per mano, mentre attraversiamo la West Side Highway, ma non sembra un gesto romantico. Sa solo di protettivo, del modo in cui potrebbe tenere per mano uno dei suoi studenti per evitare che scappi nel traffico. Giunti dall’altra parte, raggiungiamo la riva. Dimentico sempre che Manhattan è un’isola. Sembra così massiccia, così gigantesca. Come fa a essere un pezzettino di terra schiacciata tra due rive? Alla parola isola ci si immagina la spiaggia e le palme. Ci sediamo su una panchina. Il sole risplende luccicando sul fiume. A seconda di dove si guarda l’acqua assume un colore marrone o blu. Ho talmente tante cose da raccontargli che non riesco a decidere da quale iniziare. La brezza ci sibila intorno e qualche gabbiano volteggia pigramente in aria. «Insomma», pronuncia Jacob. «Insomma», ripeto io. Giocherello con l’orlo della gonna. Non so perché non riesco a trovare le parole giuste per iniziare. Non che Jacob mi metta a disagio, al contrario. Mi rasserena; sono io stessa a mettermi a disagio. «Insomma, è successo qualcosa», attacco. «Zoe è stata promossa solista…». «Caspita, okay», ribatte annuendo. «Già, e io ho ottenuto questa parte molto importante». La sua espressione si fa sorpresa. «Ma è fantastico, Hannah!». «Già, sì, grandioso», confermo. «E credo che forse verrò promossa anch’io… a un certo punto. Ma ho parlato con Bea di questa cosa, e lei mi ha fatto, diciamo, notare che da qualche tempo sono indecisa in merito». Jacob sembra leggermente confuso. «Mi pare che ti ci sei stradedicata, cavolo». «Sì, infatti. Ma sai, la promozione finirà solo per peggiorare tutto. Avrò persino meno tempo per il resto. E inizio a rendermi conto che ci sono così tante cose che vorrei fare e vedere, e imparare». Scuoto la testa. «La verità è che non sono disposta a dare tutto per diventare una ballerina». Jacob annuisce lentamente. «Allora, cosa faresti se abbandonassi quel mondo?» «E chi lo sa?», esclamo. «Ma, insomma, ci ho riflettuto, e mi sono ricordata che mi piaceva leggere tipo le biografie di donne famose. Helen Keller e Amelia Earhart. E poi avevo questa fantasia di trascorrere qualche tempo in India. Invece adesso? Sono il genere di persona che non sa nemmeno come si prepara un toast al formaggio». Lo guardo nei suoi occhi azzurri. «Ti invidio per tutto quello che riesci a esplorare e conoscere. E voglio farlo anch’io. Voglio imparare l’italiano, stavolta sul serio, e voglio avere il tempo per andare a vedere incredibili opere d’arte. E voglio riuscire a conoscere i miei genitori». Gli occhi mi si riempiono d’un tratto di lacrime. Tengo lo sguardo fisso oltre il confine indistinto del fiume, e alcuni minuti di silenzio passano. L’acqua sciaborda sulla riva, mentre un gabbiano vola sopra le nostre teste. «Ma l’idea di lasciare mi terrorizza», proseguo infine. «Lasciare sarebbe come entrare in un programma di protezione testimoni o qualcosa del genere; non vedrei più nessuna di quelle persone in vita mia, perché io starei fuori, nel mondo reale. Sarebbe come ricominciare da zero… come trasferirmi in Kansas o in Idaho o… in New Jersey». «Be’, dài, il New Jersey è proprio dietro l’angolo», scherza Jacob sorridendo. Indica la parte opposta del fiume. «Perciò non ètanto male». Non riesco a trattenere il sorriso. Jacob mi posa una mano sul ginocchio e stringe delicatamente. «Ma la danza sarà per sempre parte di te. E poi la danza esiste anche fuori da quella specifica compagnia, no?». Annuisco, ma resto in silenzio ancora un momento, mentre le lacrime mi rigano le guance. Le asciugo con la manica. «Vieni qui». Jacob apre le braccia, e io mi ci tuffo. «Posso baciarti ora?», mi chiede teneramente. Ma non attende una risposta. Lo fa e basta. 40 «Signore, signore», chiama Christine, schioccando le dita verso di noi. Mastica così velocemente il chewing gum che sembra quasi abbia un tic del viso. È il suo nuovo modo di combattere lo stress del lavoro. «Emeralds è in scena. Per Rubies si entra tra venti minuti. Che diamine stai facendo, Adriana? Non sei in questo spettacolo. Via!». «Qui tutto bene, Christine», grida qualcuno. «Oh Gesù, speriamo». Christine sospira, poi gira le spalle e si dirige giù per il corridoio. Laura mi sorride mentre mi aiuta a indossare il costume rosso corto, tempestato di gioielli. Mi controllo il trucco e lo chignon nello specchio. Tra un attimo inizia la mia performance inaugurale in Rubies. «Merde», augura Laura. «Sarai straordinaria». Sorrido. A pensarci, quello che facciamo è davvero stupendo. La compagnia è un insieme di un centinaio di persone totalmente diverse, provenienti dal mondo intero, accomunate tutte dalla fede nella potenza e nell’importanza dell’arte. Ci lega questo, ci tiene insieme, attraverso gli sforzi, l’intensità e la competizione. Mando un bacio a Laura e mi precipito a piccoli passi nel corridoio verso il backstage. Harry si intrattiene accanto alle impalcature e mima una standing ovation quando gli passo davanti. Poi si arrampica sulla graticcia, dove Bea attende che la performance inizi. I miei genitori, che si sono rifiutati di restare in Massachusetts quando la loro unica figlia danzava il suo primo assolo, sono seduti da qualche parte tra il pubblico invisibile. C’è anche Jacob, tra le braccia un mazzo di rose così grande da riuscire a stento a tenerlo in mano (mi ha rovinato la sorpresa inviandomi un SMS con la foto). Prima che il sipario si alzi, resto sola al buio al centro del palco e ascolto il suono del mio respiro. Talvolta, e forse questa è una di quelle occasioni magiche, la pausa prima delle note di apertura sembra dilatarsi, e i secondi si protraggono a diventare minuti, ore. Penso al momento in cui mi sono innamorata della danza, quando piroettavo tra foulard di chiffon a sette anni. Penso a mia madre che mi scarrozzava alle lezioni di balletto nel centro di Boston, e a mio padre che mi cuciva a mano l’elastico sulle scarpette da balletto. Era ossessionato dal fatto che dovessero essere perfette. Oltre la tenda rossa di velluto, il direttore batte la bacchetta sul leggio e solleva le braccia. Il pubblico è in attesa. Faccio un profondo respiro e immagino l’aria che mi riempie i polmoni. Con un cenno annuisco a Christine e mi posiziono in sous-sous. Sento la melodia di apertura dei violini. Il sipario si alza. Le luci mi investono. Per la prima volta sono sola sul palco, come ho sempre sognato. Non devo condividere con nessun altro danzatore il momento, ma solo con il pubblico invisibile. Il senso di libertà che si prova è meraviglioso, ma mi coglie alla sprovvista la solitudine che ne deriva. Prendo un profondo respiro. Poi fisso lo sguardo in avanti e guadagno il proscenio. Già da piccoli ci avvisano di quanto sia breve la carriera nel balletto. Ai tempi della terza elementare, la mia maestra di danza, la bella e magrissima signora Eaton, sosteneva: «Dovete ballare come se ogni passo fosse l’ultimo». La guardavamo con espressione vuota. Cosa ne potevamo capire allora? Avevamo otto anni: a scuola ogni singolo giorno sembrava interminabile e l’infanzia pareva dovesse durare per sempre. Ci sono voluti altri dieci anni per capire cosa intendesse la signora Eaton. Voleva dire: Il tempo è prezioso. E vola via sempre più velocemente. Restano ancora alcune settimane perché termini la stagione primaverile, e poi sarà finita, sarà tutto finito. Preparo la mia borsa del teatro, e stacco le foto e i bigliettini fissati intorno al mio specchio. Quando esco dal camerino, sarà per l’ultima volta. Qualche giorno fa ho percorso determinata il lungo corridoio verso l’ufficio di Otto. Ho ignorato la sua segretaria, che mi ribadiva con fermezza che lui era occupato, ho poggiato la mano sulla maniglia della porta e l’ho girata. Non ero mai entrata prima di allora nel suo ufficio, né mai lo avevo avvicinato senza essere invitata a farlo. Stava coi piedi poggiati su un’imponente scrivania di mogano, ma non li ha abbassati una volta chiusa la telefonata. Ha spostato lo sguardo su di me, e i suoi occhi scuri erano gelidi e solo appena interessati. Accanto a me c’era una sedia, ma trovavo troppo impertinente sedermici. E in ogni caso, ciò che avevo da dire non avrebbe richiesto molto tempo. Ho preso un respiro e ho iniziato. «Ho sempre sognato di danzare Rubies, e ora ci sono riuscita. E l’ho ballato meglio di quanto abbia mai fatto prima. A dirla tutta, è stato il momento migliore di tutta la vita». «E se continui a mantenere questo livello di lavoro e dedizione…». Ho portato avanti una mano per bloccarlo. «No». Ho scosso la testa. «Non mi interessa. Ho già sacrificato abbastanza». Ho indicato la finestra affacciata sulla città, una delle poche finestre nell’intero teatro. «C’è tutto un mondo là fuori di cui non so un bel niente. Devo dare a me stessa l’opportunità di conoscere tutto quello che è nelle mie possibilità. Voglio che la mia sia una vita straordinaria, non una vita contenuta in un unico teatro». Otto mi fissava come se non avesse la più pallida idea di chi fossi, e mi sono resa conto in quel momento che era proprio così. Quindi forse non gliene importava nulla dei miei progetti di vita, ma ho deciso di riferirglieli comunque. «Andrò all’università», ho annunciato. «Per essere parte del mondo». Poi con il braccio proteso in avanti gli ho stretto con decisione la mano. «Grazie per questa avventura, ma è giunto il momento di esplorare altro». E Otto non ha ribattuto in alcun modo. Si è limitato ad annuire, con un sorrisetto disorientato sulle labbra. Mentre procedevo lungo il corridoio, ho iniziato a piangere, non per tristezza, ma perché sapevo che la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Ero dannatamente spaventata. Ma soprattutto ero libera. Questa mattina ho ritirato il modulo per l’iscrizione alla NYU. C’è un corso di scrittura creativa che penso sia perfetto per me. Oltre al mio diploma superiore e a tre lettere di raccomandazione, devo includere un saggio su un’esperienza che mi ha reso quella che sono. Scriverò: Il mio nome è Hanna Ward. E non chiamatemi ballerina. [eBL 092] Epilogo: semestre autunnale «Dài, ti aiuto», si offre Jacob, quando mi raggiunge per afferrare la pila di fogli che reggo tra le braccia. «Che roba è, poi?». Sposto la borsa sull’altra spalla e prendo un sorso di caffè freddo. «Racconti brevi», gli rispondo. «Del seminario di narrativa». «Ce n’è uno dei tuoi?», chiede scorrendo tra i fogli. «Il mio lo consegno la settimana prossima». «Spero che parli di me», afferma. «Ho sempre voluto comparire in un romanzo». Rido. «Magari se tu scrivi un’altra canzone su di me, io scriverò una storia su di te. E visto che una storia è più lunga, per metterti in pari, tu forse dovrai scrivere altre due o tre canzoni». «Oh, Hannah era una ballerina e non del circo equestre, ma poi andò al college e divenne anche lei una pedestre», canta Jacob. «Molto divertente», dico dandogli un buffetto. «Aspetta, non è mica finita». «Non voglio sentirla», rido. «Dài, rischio di fare tardi». Mi prende per mano e camminiamo verso sud, a ridosso di Chinatown, vicino al parco dove gli anziani giocano a scacchi. «Allora, ricordati che stasera suono da Gene’s alle otto, se non vuoi perderti la mia esibizione», dichiara Jacob. «Ci sarò», ribatto. «Chiedo a Meg se vuole venire». «Chi è Meg?», chiede con aria interrogativa. Sogghigno. «Una nuova amica. L’ho incontrata alla lezione di storia dell’arte». E lei non ha idea di come si passa in piqué da un bourrée, penso ma evito di aggiungerlo. «Ti piacerà tantissimo». «Fantastico, non vedo l’ora di conoscerla». Gli do un bacio e poi attraverso la strada di corsa, diretta verso la Delancey Dance Academy. Nella classe di danza di Mattie, trenta tra bambini e bambine saltano avanti e indietro, strillando di gioia, strappandosi i cappotti di dosso per rivelare fisici diversi per forma e dimensioni. C’è una ragazza con lunghe gambe da futura ballerina e poi un’altra bassa e tarchiotta come un orsetto. Un bambino si mette in mostra provando le spaccate, mentre un altro se ne sta seduto in un angolo a mangiare ciambelline glassate. Penso a Leni sul suo tappetino di Pilates, e a Daisy che spettegola con Zoe sugli ultimissimi casting, mentre Bea rotea gli occhi. La scorsa settimana sono capitata dalle parti del teatro, e ho visto Zoe chiacchierare con Jonathan mentre tornavano dal supermercato. Li ho salutati dall’altra parte della strada, ma non penso mi abbiano visto. Sopra la testa di Zoe fluttuavano una dozzina di palloncini rossi. Dopo aver danzato nel corpo di ballo del Manhattan Ballet, tutto il resto sembra gestibile e le cose difficili delle vita ordinaria sembrano… se non semplici, perlomeno meno ardue. Penso alla compagnia quasi ogni giorno. Sono felice di averne fatto parte, e sono altrettanto felice di essermene andata. La bellezza si trova ovunque, non solo in teatro. I bambini si acquietano quando entro e prendo posto davanti alla classe. «Signore e signori», proclamo. «Ai vostri posti alla sbarra, mostratemi la prima posizione». Una corsa folle per i posti, e poi trenta paia di occhi mi puntano, in attesa di vedere cosa farò dopo. È un pubblico totalmente diverso da quello a cui sono abituata, e mi sento le farfalle nello stomaco per quanto sono nervosa. Ma raddrizzo la schiena e sorrido. «Molto bene», aggiungo. «Adesso fate un bel respiro. Balliamo». Ringraziamenti Scrivere questo romanzo è stato incredibilmente catartico, un processo arduo, che ha richiesto la partecipazione di diverse persone per essere realizzato. Questo libro non sarebbe stato possibile senza la guida e la pazienza della mia amica scrittrice Emily Chenoweth. Voglio ringraziare poi la mia straordinaria editor, Elizabeth Bewley, che mi ha scovata dandomi l’opportunità di una vita. Il mio agente letterario, Brettne Blome, è stata la più grande sostenitrice del libro sin dall’inizio di questo progetto. Grazie ai miei genitori, Fran e Bob, che mi hanno sempre incoraggiata a seguire il mio grande sogno e si sono impegnati in ciò che era fuori dalla mia portata. Un abbraccio fortissimo a mia sorella minore, Hannah, a cui spero un giorno di somigliare. Il mio compagno di avventure, Josh Charles, ha superato con me quella che credo sia stata la più grande transizione di vita che mai mi capiterà di ripetere, durante la quale ho scritto questo libro. Tesoro, se siamo riusciti a superare quello, possiamo superare tutto. La tua generosità, il tuo supporto, la tua lealtà, la tua curiosità e il tuo straordinario talento mi ispirano ogni singolo giorno. Alcune delle persone che più contano nella mia vita di rado ricevono la gratitudine che meritano. In ordine cronologico, i seguenti insegnanti di danza hanno avuto una profonda influenza sulla mia carriera nel balletto: Jill Silverman, Kristen Beckwith, Anna-Marie Homes, Alexandra Bullock, Jacqueline Cronsberg, Sandra Jennings, Gloria Govrin, Patricia McBride, Suzanne Farrell, Susan Pilarre, Kay Mazzo, Suki Schorer, Nancy Bielski e Wilhelm Burmann. Meritano un applauso con standing ovation i professori che hanno influenzato la mia visione del mondo e mi hanno fornito gli strumenti e la sicurezza per iniziare questo progetto: Christian De Matteo, Robert A. Ferguson, Nalini Jones e Erik Gray. Ringrazio Peter Martins e il New York City Ballet per avermi permesso di vivere il mio sogno di ballare con una delle migliori compagnie del mondo. È stata un’avventura incredibile, e le esperienze vissute lì, sul palco e fuori, hanno contribuito a creare la persona che sono oggi. Un ringraziamento anche ai ballettomani incalliti degli ultimi palchi. Ho ballato per voi ogni sera.
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