DOSSIER 145 KMQ DI TRIVELLE SELVAGGE E AIR GUN IL PIANO DI RENZI PER BUCARE L'ITALIA E IL SUO MARE Un'area di 145 chilometri quadrati , di cui ben 123 in mare. Un territorio poco più vasto dell'intera Grecia che rischia di venire perforato per estrarre petrolio o per cercarlo attraverso detonazioni subacquee. Un rischio sempre più concreto a causa delle norme scellerate contenute nel decreto del governo Renzi ribattezzato "Sblocca Italia", che di fatto rendono più semplice l'iter per avviare le trivellazioni. I dati emergono dall'analisi delle istanze presentate dalle società petrolifere al Ministero dello Sviluppo Economico: 120 richieste di cui 67 per la ricerca di idrocarburi in terraferma, 45 per la ricerca in mare e 8 per la prospezione in mare. Ci sono i 14.510 chilometri quadrati di mar Adriatico dove la Spectrum Geo Limited ha chiesto di poter affondare le trivelle. Una striscia lunga di mare che dall'Emilia Romagna arriva fino al largo della Puglia. Non contenta, la Spectrum ha chiesto anche di poter continuare le operazioni ancora più a Sud, sempre in Adriatico, su un'area vasta 16.300 chilometri quadrati che dalle acque al largo del Gargano arriva fino al Salento. C'è poi la Schlumberger italiana, filiale della società americana leader mondiale nei servizi petroliferi: sono della Schlumberger ben 4 istanze che vanno da un'area di 21 mila chilometri quadrati al largo della Sardegna ai 4 mila chilometri quadrati nel cuore del Golfo di Taranto fino al Canale di Sicilia. Tutte trivelle pronte a scattare in aree marine di fondamentale importanza per la biodiversità del mar Mediterraneo, a ridosso di siti di interesse comunitario, di zone protette speciali e di aree archeologiche. C'è il cosiddetto santuario dei cetacei (balene e delfini) detto Pelagos nel mar Tirreno, o i banchi dove si riproducono buona parte delle specie marine del Mediterraneo, quelli del Canale di Sicilia. SITUAZIONE ATTUALE Al momento, in Italia sono vigenti ben 202 concessioni di coltivazione di idrocarburi, di cui 133 in terraferma e 69 in mare. A queste vanno aggiunti i 96 permessi di ricerca in terraferma e i 22 nel sottofondo marino che sono stati già accordati. La produzione nazionale di olio greggio ammonta a 5.482.766.474 kg nel 2013, mentre quella di gas ha raggiunto, sempre lo scorso anno, i 7.652.966.392 smc (standard metro cubi). TRIVELLE, CONVIENE A LIVELLO ECONOMICO? Anche se i fatturati delle aziende petrolifere non sono tra i più trasparenti, stando alla produzione 2013 e ai prezzi di vendita di gas e olio greggio, la stima degli introiti in Italia è di ben 6,5 miliardi di euro solo con la vendita delle materie prime estratte. Una cifra importante. Peccato però che, a dispetto di quanto dicono i sostenitori dei signori del petrolio (una schiera folta in Italia, a cui si è aggiunto di recente anche il governatore della Sicilia Rosario Crocetta), il ritorno per le casse dello Stato sia più che misero. Stando ai dati dello stesso Ministero dello Sviluppo economico, nel 2013 i ricavi dalle royalty sono stati di poco superiori ai 420 milioni di euro. DESTINATARI DEL GETTITO Per produzioni Anno 2013 (€) Destinatari Per produzioni Anno 2012 (€) Per produzioni Anno 2011 (€) Totale gettito Anno 2013 (€) 1. Stato 0,00 57.338.138,80 21.747.033,45 79.085.172,25 2. Regioni 0,00 195.185.068,28 189.453,13 195.374.521,41 583.680,96 32.358.564,01 0,00 32.942.244,97 0,00 93.224.035,28 0,00 93.224.035,28 0,00 19.445.698,36 0,00 19.445.698,36 583.680,96 397.551.504,73 21.936.486,58 420.071.672,27 3. Comuni Fondo riduzione 4. carburanti prezzo 5. Aliquota ambiente e sicurezza Totale Fonte: Ministero dello Sviluppo economico Di questi, ben 93 milioni sono andati al Fondo di riduzione prezzi carburanti. Di cosa si tratta? In sostanza è un fondo che viene destinato ai cittadini delle aree oggetto di estrazione petrolifera. In Basilicata, che è la principale regione produttrice di petrolio (due terzi dell'oro nero estratto proviene dalla terra del Parco del Pollino), queste risorse sono state ripartite con un buono di 140 euro per famiglia. Un buono per far cosa? Ma per comprare benzina, ovviamente (il costo mensile per famiglia è di 128 euro, secondo l'Istat). Ecco dunque che quasi un quarto delle poche risorse che ritornano ai cittadini, in realtà, finiscono nuovamente nelle tasche dei petrolieri. Petrolieri che, non contenti, continuano a battere i pugni sul tavolo per chiedere un abbattimento delle royalty (citando i casi norvegese e britannico). In Sicilia, Crocetta ha promesso che terrà congelate le aliquote (che ). Eppure, fino a pochi anni fa (il 2011) erano le stesse compagnie petrolifere a decantare ai propri investitori le agevolazioni fiscali italiane: a pagina 7 del rapporto annuale della Cygam (società petrolifera con interessi nell’Adriatico) si parla del nostro paese come il “migliore per l’estrazione di petrolio offshore”, sottolineando la totale “assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti”. Cosa è cambiato da allora? Nulla. Eppure le compagnie si sentono oggi più forti al tavolo delle trattative con lo Stato italiano. I DANNI CHE NESSUNO PAGA Il primo problema legato alle trivelle è rappresentato dalle stesse operazioni di perforazione. Dopo il terremoto del 2012 in Emilia Romagna, la Regione commissionò uno studio per verificare la relazione tra sisma e attività petrolifere. Ne venne fuori un rapporto (il rapporto Ichese) che non esclude né conferma questa relazione. Di certo ci sono i danni che le operazioni petrolifere producono in mare, già a partire dalle attività di ricerca di idrocarburi. Già, perché la ricerca viene fatta attraverso la tecnica dell'air gun, che utilizza delle vere e proprie detonazioni subacquee per rilevare la presenza di petrolio nei fondali, arrecando però gravissimi danni alla fauna marina. C'è poi il problema degli sversamenti di petrolio, che in Italia è ritornato alla luce qualche tempo fa a seguito del sabotaggio del deposito che ha portato allo scarico di circa 600 mila litri di petrolio e oli nel fiume Lambro. Il rischio di sversamenti è sempre dietro l'angolo, soprattutto nelle tre piattaforme offshore italiane. Ma non solo: se il Mediterraneo è tra i mari più inquinati da idrocarburi, buona parte di questo triste record è imputabile ai lavaggi delle navi petroliere effettuati al largo. Già, perché il 20 per cento del traffico petrolifero mondiale passa proprio per il Mare Nostrum. A questo bisogna aggiungere la fitta rete di oleodotti e gasdotti, oltre alla raffinerie. Le raffinerie rappresentano uno dei maggiori rischi ambientali per il Paese. Lo scorso settembre, un incendio alla raffineria di Milazzo, in Sicilia, ha mandato a fuoco oltre un milione di litri di carburante con danni elevati all'ambiente. Un altro incendio era scoppiato pochi mesi prima, a marzo, nella raffineria di Gela, dove purtroppo, sempre quest'anno, si è verificato anche un incidente mortale in cui è morto un operaio (nel 2013, secondo i dati del Ministero dello Sviluppo, sono stati 16 gli incidenti sul lavoro legati alle operazioni di estrazione e raffinazione di petrolio, di cui 4 gravi). Tali incendi non sono un caso isolato: nel 2013 era successo alla torre dell'Eni di Taranto e ancora una volta a Gela. Ovviamente, ci riferiamo a episodi balzati agli onori della cronaca. Poco si sa su eventuali altri casi. Quel che sappiamo, invece, è l'inquinamento prodotto dalla raffinerie. Stando a uno studio di Legambiente, la Saras Raffinerie Sarde Spa nel 2010 ha emesso 3.450 tonnellate di ossido di azoto. Quella di Gela si è distinta per emissioni di ossidi di zolfo (Sox), con 16.700 tonnellate emesse pari al 12% delle emissioni totali di tutte le raffinerie italiane, e per quelle di più mercurio, con 237 kg emessi in atmosfera nel 2010. Per i composti organici volatili non metanici il primato va a Milazzo con circa 3mila tonnellate di Nmvoc emesse. Alla lombarda raffineria di Sannazzaro de' Burgondi spetta invece il primato per le emissioni di arsenico con 258 kg emessi nel 2010. Per le emissioni di nichel in atmosfera il primo posto va alla raffineria di Venezia, con 1.590 kg emessi nel 2010. Chi paga per questi danni? Purtroppo nessuno. Nonostante le norme europee e una sentenza della Corte di giustizia europea del 2010, la responsabilità ambientale in Italia è ancora una chimera. SBLOCCA ITALIA, OSSIA SBLOCCA TRIVELLE "Il decreto Sblocca Italia è di fatto un decreto Sblocca Trivelle - dice l'eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Rosa D'Amato - Del resto, le intenzioni del governo Renzi sono ben chiare e possono essere ben riassunte dalla Strategia energetica nazionale, che vuole più che raddoppiare entro il 2020 l’estrazione di idrocarburi in Italia, portandola a 24 milioni di barili equivalenti all’anno". Il cavallo di Troia che il decreto Sblocca Italia intende regalare ai signori del petrolio è essenzialmente uno: togliere alle Regioni il potere di veto sulla ricerca e sulla trivellazione di pozzi di petrolio e di metano. Tra le disposizioni del decreto, infatti, c'è quella che trasferisce d’autorità nel marzo 2015 le procedure di VIA sulle attività a terra dalle Regioni al Ministero dell’Ambiente. Inoltre, lo Sblocca Italia prevede una concessione unica per ricerca e coltivazione, in contrasto con la distinzione comunitaria tra le autorizzazioni per prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi. Infine, come denunciato da Greenpeace, Legambiente e Wwf, il decreto trasforma "forzosamente gli studi del Ministero dell’Ambiente sul rischio subsidenza in Alto Adriatico, derivante dalle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, in 'progetti sperimentali di coltivazione'". "Per tutte queste ragioni - conclude D'Amato - lo Sblocca Italia costituisce una palese violazione delle norme europee, in particolare della Direttiva Offshore 2013/30/UE e dalla nuova Direttiva 2014/52/UE sulla Valutazione di Impatto Ambientale. Contro queste violazioni abbiamo dato e continueremo a dare battaglia in Europa". DOSSIER a cura dell'Ufficio comunicazione della deputata del Parlamento europeo Rosa D'Amato (M5S - Gruppo EFDD)
© Copyright 2024 ExpyDoc