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CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
Biomarcatori e accertamento del rischio cardiovascolare per la prevenzione
primaria: un aggiornamento
Lauren G. Gilstrap, Thomas J. Wang
Cardiology Division and Department of Medicine, Massachusetts General Hospital, Harvard Medical School, Boston, USA
Traduzione a cura di Maria Stella Graziani
ABSTRACT
Interest in cardiovascular biomarkers in primary prevention has increased dramatically in the past decade. This
increase has been fueled by an improved understanding of cardiovascular pathophysiology, as well as novel
technologies for biomarker identification. In this review we provide a brief overview of recent concepts in the
evaluation of screening biomarkers, because biomarkers may behave differently when used for screening as opposed
to diagnosis or disease staging. The following specific biomarker examples are then discussed, with a focus on data
from primary prevention studies: high-sensitivity C-reactive protein, B-type natriuretic peptide, lipoprotein-associated
phospholipase A2, and high-sensitivity troponin T. The article concludes by addressing novel platforms for biomarker
discovery, reviewing recent examples from the field of metabolomics. An ongoing challenge is to develop screening
strategies that can identify individuals at risk for cardiovascular events well before symptoms appear. For this
purpose, the measurement of soluble biomarkers could be an important adjunct to traditional cardiovascular risk
assessment. Recent studies highlight both the strengths and limitations of “novel” circulating biomarkers, and suggest
that substantial work is still needed to identify biomarkers that are sufficiently accurate and cost-effective for routine
use in primary prevention.
INTRODUZIONE
L'interesse per l'utilizzo dei biomarcatori nella
prevenzione primaria del rischio cardiovascolare è
considerevolmente aumentato negli ultimi dieci anni.
Questo interesse è stato sostenuto dai successi ottenuti
negli studi di biologia molecolare e genetica, che hanno
fornito nuove informazioni sulla fisiopatologia
cardiovascolare e messo contemporaneamente a
disposizione nuove piattaforme per la scoperta di
marcatori (1). Un altro fattore che ha contribuito ad
aumentare l’attenzione su potenziali esami per
screening precoce è stato il realizzare che i fattori di
rischio tradizionali (ad es., ipertensione, iperlipidemia,
fumo, diabete) non sono in grado di spiegare
completamente la variabilità interindividuale nel rischio
cardiovascolare. Ad esempio, un’ampia percentuale di
individui che soffrono di malattia cardiovascolare hanno
pochi o nessun fattore di rischio (2).
La sfida per clinici, ricercatori e laboratoristi è quella
di sviluppare strategie di screening in grado di
identificare,
in
modo
sicuro,
accurato
ed
economicamente vantaggioso, gli individui a rischio di
eventi cardiovascolari molto prima che i sintomi
appaiano. Gli interventi di prevenzione possono infatti
essere più efficaci in questo periodo, in quanto
l'aterosclerosi richiede decenni prima di manifestarsi. La
misura di nuovi biomarcatori potrebbe essere una
componente importante di queste strategie. Sebbene
biomarcatore possa essere qualsiasi cosa in grado di
riflettere un processo biologico – dai marcatori genetici
agli esami di “imaging” – i marcatori circolanti sono
particolarmente attraenti perchè sono facili da misurare e
generalmente in modo più riproducibile (3).
Considerato che i biomarcatori si possono
comportare in modo diverso quando sono utilizzati a
scopo di screening rispetto a quando sono usati a scopo
diagnostico o di stadiazione della malattia, è stata
sviluppata una distinta modalità di valutazione dei
biomarcatori usati a scopo di screening. Inizieremo,
quindi, questa rassegna con una breve introduzione
relativa ai concetti utili per la valutazione dei biomarcatori
nello screening. Presenteremo in seguito qualche
esempio specifico tratto dalla letteratura recente,
discutendo solo di biomarcatori circolanti.
*Questo articolo è stato tradotto con il permesso dell’American Association for Clinical Chemistry (AACC). AACC non è responsabile
della correttezza della traduzione. Le opinioni presentate sono esclusivamente quelle degli Autori e non necessariamente quelle
dell’AACC o di Clinical Chemistry. Tradotto da Clin Chem 2012;58:72-82 su permesso dell’Editore.
Copyright originale © 2011 American Association for Clinical Chemistry, Inc. In caso di citazione dell’articolo, riferirsi alla pubblicazione
originale in Clinical Chemistry.
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
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IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
CONSIDERAZIONI GENERALI
Morrow e de Lemos hanno evidenziato tre criteri
utilizzabili per la valutazione di nuovi biomarcatori: a) che
siano facili da misurare, b) che forniscano informazioni
aggiuntive a quelle già disponibili e c) che siano in grado
di influenzare la gestione del soggetto (4). Il primo
criterio è semplice da verificare. Infatti, uno dei vantaggi
dei biomarcatori circolanti è che esistono metodi
standardizzati e riproducibili per la misura della maggior
parte dei biomarcatori di interesse. Al contrario, può
essere difficoltoso verificare il secondo criterio, cioè se la
misura del nuovo marcatore aggiunge informazione. In
cardiologia, un biomarcatore è utile solo se fornisce
informazioni aggiuntive a quelle fornite dai fattori di
rischio tradizionali. Il modo migliore per valutare
statisticamente questo contributo aggiuntivo in
popolazioni a basso rischio è oggetto di discussione;
sono stati proposti diversi approcci, che vengono
descritti nella sezione successiva.
Indipendentemente dal fatto che un marcatore sia
utilizzato a scopo di screening o a scopo diagnostico o
prognostico, esso deve necessariamente influenzare la
gestione clinica. Dato che sono stati condotti pochi studi
randomizzati per la valutazione dei biomarcatori in
prevenzione primaria, poco si conosce circa l'impatto
sugli “outcome” clinici delle strategie di prevenzione
basate sui biomarcatori. La sezione sulla proteina C
reattiva (CRP) illustra alcuni dei problemi affrontati per
produrre le necessarie evidenze.
Una considerazione specifica quando si tratti di
misurare biomarcatori per lo screening del rischio
cardiovascolare è la potenziale importanza delle sorgenti
non cardiache di variabilità, considerato che si tratta di
interpretare differenze di concentrazione che sono
tipicamente molto più piccole di quelle osservate nei
pazienti acuti. Questa variabilità può essere
particolarmente rilevante per i marcatori che hanno
origini extra-cardiache, come la CRP, che aumenta negli
stati flogistici o in seguito ad aumento del peso corporeo.
Del resto, questa variabilità è importante anche per
biomarcatori di origine cardiaca, come il peptide
natriuretico di tipo B (BNP), che è influenzato da fattori
non cardiaci come sesso (5, 6), stato degli ormoni
sessuali (7, 8) e peso corporeo (9-13). La comprensione
di questi effetti è essenziale per decidere se attivare la
determinazione dei biomarcatori nei pazienti
ambulatoriali.
VALUTAZIONE STATISTICA
Per dimostrare la rilevanza clinica di un marcatore,
l’associazione statisticamente significativa tra il
marcatore stesso e la malattia cardiovascolare è
necessaria, ma non sufficiente (14). La significatività
statistica in questo caso indica solamente che la
concentrazione plasmatica media del biomarcatore è
diversa tra gli individui con malattia e quelli senza
(oppure tra coloro che hanno o non hanno avuto un
particolare evento). Considerato che le distribuzioni delle
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biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
concentrazioni del marcatore tra soggetti affetti e non
affetti possono sovrapporsi in modo importante, il valore
della determinazione del marcatore in un dato individuo
può essere limitato, anche in presenza di
un’associazione significativa nella popolazione (15). Per
la verifica dell’utilità di nuovi biomarcatori sono stati
perciò proposti tre ulteriori criteri statistici: la
discriminazione, la calibrazione e la riclassificazione
(Tabella 1).
La discriminazione è la capacità del marcatore di
distinguere coloro che svilupperanno la malattia da
coloro che non la svilupperanno (16). Questa capacità
può essere definita dall’area sottesa alla curva ROC
(AUC) o statistica c (16). La statistica c è funzione della
sensibilità e specificità di un esame a tutti i valori soglia
diagnostici. La sensibilità di un esame è relativa alla sua
capacità di rilevare la malattia quando questa è
presente, ovvero la probabilità dei veri positivi. La
specificità è relativa alla capacità dell’esame di
escludere la malattia quando questa non è presente
(probabilità di veri negativi). La statistica c varia tra 0,5
(l’esame non fornisce alcuna informazione) e 1,0
(discriminazione perfetta) (17). In generale, una
statistica c >0,7 è considerata buona. La statistica c per
malattia coronarica (CHD) basata sui fattori di rischio
tradizionali (ad es., sotto forma di “Framingham risk
score”) è ~0,75 (18). Di conseguenza, il valore di un
nuovo marcatore può essere stimato calcolando di
quanto aumenta il valore della statistica c quando il
nuovo esame viene aggiunto ai fattori di rischio
tradizionali. Si ritiene che un esame aggiunga
informazioni clinicamente utili quando è in grado di
aumentare il valore della statistica c di almeno 0,05 (19).
Non esiste al momento un consenso sull’importanza di
aumenti inferiori della statistica c (da 0,01 a 0,05), che
possono, almeno in parte, dipendere dal valore di
partenza. Ad esempio, un aumento da 0,75 (ottenuto con
il “Framingham risk score”) a 0,77 (ottenuto
aggiungendo a questo il nuovo marcatore) può essere
più rilevante che uno spostamento da 0,50 a 0,55.
La calibrazione è riferita alla concordanza tra il
rischio previsto e quello osservato, che viene verificata
confrontando le stime del rischio con l’incidenza reale
degli eventi (20). Il più comune modello statistico di
questo tipo è la statistica di Hosmer-Lemeshow. Le stime
del rischio con un valore P >0,05 sono considerate ben
calibrate in quanto non si osserva una differenza
significativa tra l’incidenza degli eventi previsti e quelli
effettivamente osservati. La capacità di prevedere il
rischio è clinicamente rilevante in quanto le decisioni
terapeutiche sono spesso basate sulla stima del rischio
futuro (20). Se il rischio cardiovascolare di un
determinato paziente è particolarmente elevato, sarà più
probabile che il clinico inizi una terapia farmacologica
tesa ad abbassare il colesterolo LDL (con le statine) o a
ridurre il rischio trombotico (con l’aspirina). D’altra parte,
se il rischio è basso, i possibili effetti avversi dei farmaci
utilizzati possono sorpassare in importanza i probabili
benefici della terapia. Le stime ottenute con questo
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
Tabella 1
Principali criteri per verificare il valore incrementale di nuovi biomarcatori. Adattata da rif. 16
Analisi
Tipologia
Descrizione
Vantaggi
Limiti
Statistica di HosmerLemeshow
Calibrazione
Verifica la concordanza
tra la quota di eventi
previsti e osservati in
analisi longitudinali
Verifica l’accuratezza
della previsione del
rischio (base per le
decisioni cliniche)
Relativamente insensibile alle
differenze tra modelli.
Fornisce una misura globale,
anche se le decisioni cliniche
possono essere basate sui rischi
previsti entro un intervallo
relativamente ristretto
Verifica la quota di
soggetti riclassificati
correttamente
dall’aggiunta di nuovi
biomarcatori
Clinicamente rilevante
quando le categorie di
rischio sono legate alle
decisioni terapeutiche.
Include l’accuratezza
della riclassificazione
Sensibile a cambiamenti nel
numero di categorie di rischio e
alla scelta dei valori soglia.
Assegna lo stesso peso alle
riclassificazioni che influenzano
poco le decisioni cliniche
Statistica c (area
sotto la curva ROC)
Discriminazione
Miglioramento netto Riclassificazione
della riclassificazione
Esplora sensibilità e
specificità di un
marcatore in un ampio
intervallo di valori soglia
modello statistico dipendono dal livello basale di rischio.
Ad esempio, se un dato modello di rischio è stato
ottenuto in una popolazione a rischio elevato, ma viene
applicato in una popolazione a basso rischio, le
previsioni di rischio potrebbero essere non attendibili.
Ricalibrare il modello di rischio aggiustando le stime del
rischio basale sulla popolazione in studio può aiutare a
ridurre la sovra come la sottostima del rischio (21).
Sfortunatamente, l’applicazione di questo metodo in
campo clinico può non essere possibile. Gli operatori
solitamente hanno accesso unicamente ai punteggi di
rischio pubblicati e non possono ricalibrare tali punteggi
in base alle caratteristiche della popolazione di
appartenenza del loro paziente (16).
La riclassificazione riguarda l’abilità di un dato esame
di modificare il livello di rischio di un individuo. Dato che
la riclassificazione si basa su categorie di rischio, questo
è potenzialmente il criterio più rilevante dal punto di vista
clinico; infatti, la decisione se trattare o meno un
soggetto è spesso legata al fatto che esso sia
classificato a basso o ad alto rischio piuttosto che
sull’incidenza prevista di rischio individuale. D’altra
parte, l’utilità della riclassificazione fa affidamento
sull’esistenza di categorie di rischio ben definite. Per la
malattia cardiovascolare di solito viene usato l’algoritmo
proposto da “Adult Treatment Panel III” (22). Questo
algoritmo include i fattori di rischio tradizionali del
“Framingham risk score” e suddivide gli individui in
categorie definite a rischio basso, intermedio o elevato
sulla base del rischio di CHD previsto a 10 anni. I
soggetti a rischio basso sono quelli che hanno un rischio
previsto di eventi cardiovascolari a 10 anni <10%. I
soggetti a rischio intermedio hanno un rischio tra 10% e
19% e quelli classificati a rischio elevato hanno un
rischio previsto del 20% o più alto (23). Secondo l’“Adult
Treatment Panel III”, gli individui classificati a rischio
Facilmente
comprensibile.
Mancanza di affidabilità
per specifici valori soglia
o particolari categorie
Difficoltà per i nuovi marcatori di
aumentare il valore della statistica
c quando i marcatori esistenti
discriminano bene
elevato sono eleggibili a un trattamento più aggressivo
(terapia con statine) con un obiettivo di colesterolo LDL
<70 mg/dL (14). Se l’aggiunta di uno o più marcatori ai
fattori di rischio tradizionali fosse in grado di modificare
la classificazione di un paziente, questo influenzerebbe il
suo trattamento.
La riclassificazione può essere descritta dal calcolo
della proporzione di individui in una popolazione che
vengono riclassificati, sebbene questo calcolo non tenga
conto se la nuova classificazione sia corretta o meno.
Pencina et al. hanno proposto una misura denominata
“miglioramento netto della riclassificazione” (NRI), che
consiste nel calcolo della percentuale netta di individui
con riclassificazione “corretta” (cioè coloro che sono stati
riclassificati nella classe superiore di rischio e hanno
avuto un evento e coloro che sono stati riclassificati in
una classe inferiore e non hanno avuto un evento) e con
riclassificazione “scorretta” (cioè coloro che sono stati
riclassificati nella classe superiore di rischio e non hanno
avuto un evento e coloro che sono stati riclassificati in
una classe inferiore e hanno avuto un evento) (24).
Questo concetto è stato recentemente ampliato
includendo un NRI “category-free”, che non dipende
dall’esistenza di categorie prefissate (25).
Ci sono ovviamente sia vantaggi che limitazioni per
ognuno dei criteri per la valutazione dei nuovi marcatori.
La statistica c (discriminazione) è facilmente
comprensibile in quanto è funzione della sensibilità e
specificità dell’esame e non è basata su specifici valori
soglia o categorie. Ciononostante, è spesso difficile che
un nuovo marcatore sia in grado di migliorare la statistica
c quando i modelli esistenti, come ad esempio il
“Framingham risk score”, sono già in grado di
discriminare correttamente. I biomarcatori potrebbero
fornire informazioni clinicamente importanti anche se
incrementano di poco i valori della statistica c. La
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
55
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
statistica secondo Hosmer-Lemeshow (calibrazione)
verifica l’accuratezza delle stime del rischio, sulle quali
molte decisioni cliniche sono basate. Tuttavia, come già
detto, è possibile che sia necessario ricalibrare i modelli
quando essi vengono applicati a popolazioni diverse.
Inoltre, analogamente a quanto accade con la
discriminazione, può essere difficile misurare il
miglioramento quando i modelli di base sono già ben
calibrati (ad es., quando la statistica secondo HosmerLemeshow mostra già un valore di P >0,05). La
riclassificazione possiede una forte rilevanza clinica in
quanto molte linee guida fanno tipicamente riferimento a
categorie di rischio predeterminate. La dipendenza della
riclassificazione dal numero delle categorie di rischio e
dalla scelta dei valori soglia è già stata accennata in
precedenza. Inoltre, la riclassificazione generalmente
non prende in considerazione se l’eventuale
spostamento di classificazione del rischio porterà a una
modifica nella gestione clinica del soggetto (16). E’ stato
perciò proposto che gli studi riguardanti i marcatori nella
prevenzione primaria descrivano le loro prestazioni
secondo ognuno di questi criteri complementari (26).
BIOMARCATORI SPECIFICI
Negli ultimi dieci anni, numerosi marcatori sono stati
proposti. Discuteremo qui di seguito alcuni esempi di
marcatori già definiti (CRP, BNP) come pure alcuni
marcatori tra quelli più recentemente proposti [fosfolipasi
A2 associata alle lipoproteine (Lp-PLA2) e troponina
misurata con metodi altamente sensibili]. Esamineremo
poi i risultati che si possono ottenere da una delle nuove
piattaforme proposte per la scoperta di nuovi
biomarcatori (metabolomica). Questi esempi devono
essere considerati puramente illustrativi in quanto non
esauriscono l’elenco dei nuovi biomarcatori cardiaci
disponibili.
CRP misurata con metodi altamente sensibili
La CRP è stata scoperta da Tillett e Francis nel 1930.
Fu così denominata perché la proteina, trovata nel siero
di pazienti con infiammazione acuta, era in grado di
reagire con il polisaccaride C del pneumococco (27). La
CRP è una proteina di fase acuta, prodotta
prevalentemente dagli epatociti in risposta alla
stimolazione da parte di inteleuchina 6 e “tumor necrosis
factor-α” (28). Tipicamente, la CRP si lega alla
fosfocolina espressa sulla superficie di cellule morte o
morenti, attivando il sistema del complemento attraverso
il complesso C1Q (29).
La CRP è una proteina pentamerica con una
struttura discoidale anulare, che contiene 224
amminoacidi per monomero. Le concentrazioni circolanti
di CRP possono aumentare fino a 50.000 volte il valore
basale in caso di flogosi acuta (ad es., in corso di
infezione) entro 6 ore dall’evento, con un picco a 48 ore.
Dato che l’emivita della proteina è costante, il grado di
aumento della sua concentrazione plasmatica è
determinato dalla severità della causa scatenante (30).
56
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
La variabilità intraindividuale (CVI) di CRP negli individui
sani è stata studiata da diversi gruppi. Macy et al. hanno
riscontrato una CVI del 42% e una variabilità
interindividuale (CVG) del 93% (31). L’indice di
individualità (CVI/CVG) di 0,46 è simile a quello di altri
analiti quali il colesterolo totale. Un altro studio, che ha
coinvolto i partecipanti del “Framingham Heart Study”, ha
esaminato la stabilità della classificazione dei soggetti
rispetto alla misurazione di CRP su un lungo periodo di
tempo. Nell'intervallo tra due misure (con una media di
16 anni l’una dall’altra), approssimativamente metà dei
~2000 soggetti studiati rimaneva all’interno dello stesso
quintile di concentrazione di CRP (32).
Negli scorsi 15 anni, più di 20 studi epidemiologici
hanno dimostrato un’associazione significativa tra
l’aumento dei valori di CRP misurati con un metodo a
elevata sensibilità e il rischio di un primo evento
cardiovascolare, in soggetti asintomatici (33-35). Una
metanalisi della “US Preventive Services Task Force”,
che ha incluso 22 studi, ha mostrato che concentrazioni
di CRP ≥3 mg/L erano associate a un aumento del
rischio di malattia cardiovascolare del 60% (36). Rimane
tuttavia ancora da definire quanto l’aggiunta della misura
di CRP migliori l’accuratezza predittiva dei modelli
utilizzanti i fattori di rischio tradizionali. Gli studi condotti
in popolazioni a basso rischio hanno generalmente
rilevato un modesto aumento del valore della statistica c
(da 0 a 0,02) in seguito all’aggiunta di CRP (37). Gli
stessi studi hanno dimostrato un aumento modesto o
addirittura assente nelle stime globali di calibrazione.
D’altra parte, gli investigatori del “Women's Health
Study” hanno riportato che l’aggiunta di CRP comportava
una riclassificazione di una percentuale importante di
individui, comprendenti approssimativamente il 20% di
quelli a rischio intermedio. La maggior parte di queste
riclassificazioni (~75%) di individui a rischio intermedio
erano riclassificazioni in una classe di rischio inferiore
(37).
Lo studio JUPITER (“Justification for the use of
statins in primary prevention: an intervention trial
evaluating rosuvastatin”) è un ampio studio di
prevenzione primaria, che ha utilizzato un trattamento
con una statina particolarmente potente (rosuvastatina)
(38). L’impiego dei valori di CRP come uno dei criteri di
inclusione rende questo studio uno dei pochi studi
randomizzati che prevedono una terapia guidata da un
biomarcatore. Lo studio ha arruolato quasi 18.000
individui (maschi >50 anni e femmine >60 anni) con
concentrazioni di colesterolo LDL <130 mg/dL e CRP >2
mg/L. Lo studio è stato interrotto precocemente a causa
di una riduzione di ~40% dell’“end point” cardiovascolare
composito nel gruppo in trattamento con la statina
rispetto al gruppo placebo. Considerato che lo studio
non ha randomizzato gli individui con CRP <2 mg/L, non
è chiaro se uno screening eseguito con CRP sia in grado
di identificare soggetti che trarrebbero beneficio dal
trattamento con statine. Nel 2010, la linea guida dell’
“American College of Cardiology Foundation/American
Heart Association” per la valutazione del rischio
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
Figura 1
Rischio relativo di malattia cardiovascolare (CVD) negli individui con valori basali di BNP o NT-proBNP situati nel terzo superiore
rispetto a quelli situati nel terzo inferiore, secondo le caratteristiche dei diversi studi. Riprodotta con autorizzazione da Di Angelantonio
et al. (46).
cardiovascolare negli adulti asintomatici ha classificato
in classe IIa la raccomandazione di misurare la CRP nei
soggetti adulti con colesterolo LDL <130 mg/dL come
aiuto alla decisione se utilizzare o meno le statine (39).
In generale, la raccomandazione di misurare la CRP per
la valutazione del rischio cardiovascolare negli uomini di
età >50 anni e nelle femmine di età >60 anni era
classificata in classe IIb.
BNP
Il BNP è un componente della famiglia di ormoni nota
come peptidi natriuretici, che sono sintetizzati
primariamente nel cuore in seguito alla distensione della
parete miocardica (40). Il gene che codifica per BNP
(NPPB) produce dapprima un preproBNP. Da questo si
genera poi un precursore di 108 amminoacidi, il proBNP.
Infine, per opera di una serina-proteinasi denominata
corina, viene generato il frammento C-terminale
biologicamente attivo (BNP maturo) insieme al
frammento N-terminale inattivo (NT-proBNP). Nel
plasma è possibile misurare sia il BNP che il NT-proBNP,
ma quest’ultimo ha un’emivita più lunga (1-2 ore rispetto
a 20 min). In una popolazione ambulatoriale, più del 90%
degli individui mostra concentrazioni misurabili di NTproBNP, mentre solo il 70% ha concentrazioni misurabili
di BNP (41).
Sia
BNP
che
NT-proBNP
aumentano
considerevolmente nello scompenso cardiaco acuto
(42), il che li rende marcatori di una certa importanza per
la diagnosi di scompenso cardiaco. Degno di nota è il
fatto che, all’interno dell’intervallo di riferimento, si
osserva una variabilità significativa dei valori di BNP tra
individui apparentemente sani e che questa variazione è
importante da un punto di vista prognostico (43). Ad
esempio, nel “Framingham Offspring Study”
concentrazioni di BNP >20 ng/L erano associate a un
aumento del rischio di eventi cardiovascolari, ictus,
scompenso cardiaco e mortalità totale in percentuale
variabile dal 60% al 200% in un periodo medio di
monitoraggio di 5,2 anni (45). Una recente metanalisi di
40 studi prospettici, circa metà dei quali condotti in
prevenzione primaria, ha trovato una forte associazione
tra concentrazioni di BNP e rischio cardiovascolare
(Figura 1) (46). Minimi aumenti di BNP potrebbero
riflettere uno stress della parte ventricolare causato da
ischemia subclinica, elevato post-carico o aumento
dell’attivazione neurormonale. E’ interessante osservare
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
57
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
che l’associazione tra BNP e eventi cardiovascolari futuri
persiste anche dopo aggiustamento per i dati delle
misure ecocardiografiche standard (45).
Meno dati sono disponibili sulla capacità della misura
di BNP di migliorare la discriminazione, la calibrazione o
la riclassificazione per predire gli eventi cardiovascolari
rispetto ai fattori di rischio tradizionali. Nella coorte
“Malmo Diet and Cancer” il NT-proBNP è stato misurato
assieme a CRP, Lp-PLA2, regione intermedia della
proadrenomedullina e cistatina C (41). Nel corso di più di
12 anni di monitoraggio, NT-proBNP era in grado di
predire gli eventi coronarici e cardiovascolari, anche
dopo aggiustamento per CRP e altri marcatori.
Nell’intero campione si è osservato solo un modesto
aumento della statistica c e un NRI non significativo. I
risultati erano più evidenti quando l’analisi veniva
ristretta agli individui a rischio intermedio, nei quali era
osservato un NRI significativo (dal 5% al 15%). La
maggior parte delle riclassificazioni corrette erano
riclassificazioni in categorie di rischio inferiori.
Lp-PLA2
Lp-PLA2 è una proteina di 441 amminoacidi,
codificata dal gene fosfolipasi A2, gruppo VII (PLA2G7),
che è prodotta dalle cellule infiammatorie. La proteina
circola associata prevalentemente alle LDL (meno del
20% è associata alle HDL o alle lipoproteine “remnant”)
ed è responsabile dell’idrolisi dei fosfolipidi ossidati che
si trovano nelle LDL. Più specificamente, la proteina
catalizza la degradazione (idrolisi) del fattore attivante le
piastrine in prodotti inattivi (47). E’ fortemente
sovraregolata nelle placche aterosclerotiche e può
essere direttamente coinvolta nello sviluppo
dell’ateroslcerosi (48) e nella rottura della placca (49).
Considerato che è prodotta dai macrofagi e dalle cellule
schiumose nell’intima vascolare, si ritiene che Lp-PLA2
possa essere potenzialmente più specifica per la flogosi
vascolare rispetto ad altri marcatori di infiammazione
quali la CRP (50).
Studi iniziali in vivo hanno dimostrato che sia conigli
che esseri umani con concentrazioni plasmatiche
aumentate di Lp-PLA2 hanno una dimensione maggiore
delle placche coronariche rispetto a coloro con
concentrazioni inalterate (51). Inoltre, è stato
sperimentalmente dimostrato che l’inibizione di Lp-PLA2
porta alla riduzione delle lesioni aterosclerotiche in
conigli iperlipidemici (51). Sulla base della sua ridotta
variabilità biologica, della sua specificità vascolare e
della sua associazione con la dimensione della placca
aterosclerotica, Lp-PLA2 è stata proposta come
potenziale marcatore per l’identificazione degli individui
a rischio aumentato di malattia cardiovascolare.
Esistono più di 10 studi che hanno verificato il ruolo
di Lp-PLA2 nella prevenzione primaria. Ad esempio, nel
“West of Scotland Coronary Prevention Study” è stato
dimostrato che sia CRP che Lp-PLA2 erano
significativamente associate con un aumento del rischio
cardiovascolare (52). Inoltre, dopo aggiustamento per i
fattori di rischio tradizionali, Lp-PLA2 manteneva la sua
58
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
associazione, al contrario della CRP (52). Nello studio
“Atherosclerosis Risk in Communities” le medie pesate
di Lp-PLA2 e CRP erano più alte in coloro che avevano
subito un evento coronarico rispetto a coloro che ne
erano esenti (53). Come per il BNP, ci sono pochi dati
relativi all’impatto della misura di Lp-PLA2 sulla
discriminazione, calibrazione o riclassificazione. Un
recente studio caso-controllo dal “Nurses Health Study”
ha esaminato la discriminazione operata da Lp-PLA2
nelle donne (54). L’aggiunta di Lp-PLA2 faceva
aumentare la statistica c da 0,72 a 0,733 e migliorava la
riclassificazione. In contrasto, il “Malmo Diet and Cancer
Study” non ha riportato modifiche significative nella
discriminazione e nella riclassificazione con l’impiego di
Lp-PLA2 (41).
Troponina misurata con metodi altamente
sensibili
Nel 1963, Ebashi scoprì che una nuova proteina
miofibrillare, la troponina, era essenziale per la
contrazione del muscolo cardiaco e scheletrico (55). La
troponina possiede tre subunità: C, I e T. La troponina C
è sensibile e risponde alla presenza di calcio. La
troponina T lega la tropomiosina formando il complesso
troponina-tropomiosina. La troponina I si lega all’actina
nei miofilamenti sottili e mantiene stabile il complesso
troponina-tropomiosina (56).
Le troponine cardiache sono diventate il marcatore di
riferimento per la diagnosi di infarto acuto del miocardio.
Sulla base delle linee guida di consenso, una
concentrazione plasmatica di troponina superiore al 99°
percentile della distribuzione di valori nella popolazione
sana è considerata diagnostica di infarto acuto del
miocardio. I metodi convenzionali non sono in grado di
misurare la concentrazione di troponina nella maggior
parte degli individui sani. Tuttavia, le più recenti
generazioni di metodi per la misura di troponina I e T,
definiti a elevata sensibilità, consentono di misurare
concentrazioni significativamente più basse del valore
corrispondente al 99° percentile della popolazione di
riferimento (57). I metodi a elevata sensibilità hanno
aumentato la sensibilità nella diagnosi di infarto del
miocardio e hanno introdotto altre applicazioni cliniche
potenzialmente utili (58).
Tre recenti studi di coorte hanno esaminato l’utilità
clinica dei metodi di misura delle troponine dotati di
elevata sensibilità. Nello studio di Lemos et al. la
troponina T è stata misurata sia con metodo
convenzionale che a elevata sensibilità in più di 3500
adulti partecipanti al “Dallas Heart Study” (59). La
prevalenza di troponina misurabile era del 25% con il
metodo ad alta sensibilità e solo dello 0,7% con il
metodo convenzionale. Gli investigatori hanno rilevato
che le concentrazioni di troponina T misurate con il
metodo ad alta sensibilità erano associate con una
malattia cardiaca strutturale di base (diagnosticata con
risonanza magnetica) e con la mortalità cardiaca e totale
in un periodo di 6 anni di monitoraggio (Figura 2). Questa
associazione era sostanzialmente attenuata se veniva
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
cTnT category, µg/L
cTnT
Detectable
Undetectable
cTnT category, µg/L
cTnT
Detectable
Undetectable
Figura 2
Associazione fra concentrazione plasmatica di troponina T (cTnT) misurata con un metodo a elevata sensibilità e mortalità
cardiovascolare e totale.
Il segmento blu sull’asse verticale indica l’intervallo 0% - 20%. Riprodotta con autorizzazione da Lemos et al. (59).
usato il metodo di misura convenzionale. L’aggiunta di
troponina T a un modello multivariato per predire la
mortalità aumentava la statistica c (+0,02, P=0,001) e
l’indice integrato di discriminazione (0,04, P <0,001).
de Filippi e al. hanno studiato il valore prognostico
della troponina T misurata con metodo ad alta sensibilità
in più di 4200 adulti anziani (>65 anni) (60).
Concentrazioni elevate di troponina T erano associate
con lo sviluppo di scompenso cardiaco e morte
cardiovascolare. L’aggiunta della troponina ad elevata
sensibilità ai tradizionali fattori di rischio aumentava la
statistica c per scompenso cardiaco e morte
cardiovascolare di ~0,01. Analogamente, i ricercatori
dell'“Atherosclerosis Risk in Communities Study” hanno
riscontrato in ~10.000 soggetti che le concentrazioni di
troponina T misurata con metodo ad alta sensibilità
erano associate a CHD, mortalità e scompenso cardiaco
(44). L’aggiunta di troponina T misurata con metodo ad
alta sensibilità ai fattori di rischio tradizionali migliorava
in maniera modesta discriminazione e riclassificazione.
CONFRONTO FRA BIOMARCATORI
Un numero crescente di studi sta fornendo dati sul
confronto tra le prestazioni di diversi marcatori
cardiovascolari. Ad esempio, numerosi studi di coorte
suggeriscono che le concentrazioni di NT-proBNP sono
più strettamente correlate al rischio vascolare rispetto
alle concentrazioni di CRP (61-63). Analogamente, studi
recenti indicano che le misure di troponina con metodi ad
elevata sensibilità posseggono un valore predittivo simile
a quello del NT-proBNP e maggiore di quello della CRP
(44, 59). Non sorprende che i profili che includono più
marcatori si rivelino superiori al singolo marcatore (61,
63, 64), sebbene resti da stabilire la composizione
ottimale dei pannelli con più marcatori .
Inoltre, i biomarcatori possono differire nella loro
capacità di predire tipologie specifiche di eventi
cardiovascolari. Questa variabilità spesso riflette la
fisiologia specifica del singolo biomarcatore. Ad
esempio, BNP e NT-proBNP sono in grado di predire in
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
59
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
modo efficiente il rischio di scompenso cardiaco (45, 65),
cosa che non è affatto sorprendente se consideriamo la
loro associazione con lo stress della parete cardiaca.
CRP e Lp-PLA2 sono marcatori particolarmente buoni di
rischio vascolare, perché probabilmente riflettono
l’importanza della flogosi vascolare nell’aterogenesi (66).
D’altra parte, marcatori “miocardici”, quali NT-proBNP e
troponina, sono anch’essi buoni predittori di eventi
vascolari futuri, in maniera sorprendente e per ragioni
che non sono ancora state completamente comprese
(44, 67).
NUOVE PROSPETTIVE
Nuove tecnologie consentono lo studio sistematico di
proteine (proteomica) e di piccole molecole
(metabolomica) nei campioni biologici, ad esempio nel
plasma o nel siero. La proteomica e la metabolomica
hanno delle somiglianze con la genomica in quanto
forniscono un approccio diretto all’identificazione di
nuovi biomarcatori (1). A differenza dei profili genetici,
tuttavia, proteomica e metabolomica possono essere
sensibili alle influenze ambientali e fornire una
“istantanea” dello stato fisiologico corrente (Figura 3).
La metabolomica valuta le piccole molecole come
lipidi, zuccheri, nucleotidi e amminoacidi. Le attuali
piattaforme di metabolomica sono basate su due
principali tecnologie: la risonanza magnetica nucleare e
la spettrometria di massa (MS) (68). Quest’ultima
include sia GC-MS che LC-MS. Tra metabolomica e
proteomica ci sono diverse differenze che risultano
importanti da un punto di vista analitico. Il numero dei
metaboliti circolanti è sconosciuto, ma si stima che sia
nell’ordine di migliaia, quindi inferiore di diversi ordini di
grandezza rispetto al numero delle proteine. Inoltre, i
metaboliti circolanti coprono un intervallo di
concentrazioni molto più piccolo di quello delle proteine
(69). I metaboliti per loro natura riflettono un’attività che
è molto più a valle dell’espressione genica e
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
potenzialmente molto più correlata alla funzionalità
cellulare di quanto non siano le proteine. In questo
modo, i metaboliti circolanti hanno il vantaggio
potenziale di fornire informazioni immediate sulla
condizione fisiologica di un organismo, ma lo
svantaggio, sempre potenziale, di essere influenzati da
un numero importante di fonti di variabilità, che
includono la dieta, l’attività fisica e l’utilizzo di farmaci.
In uno dei primi studi, Brindle et al. hanno esaminato
le promesse e i problemi dell’approccio allo screening
cardiovascolare con la metabolomica (70). Gli autori
hanno analizzato con risonanza magnetica campioni di
siero di individui con malattia coronarica diagnosticata
con angiografia e hanno confrontato il profilo ottenuto
con quello di soggetti sani. E’ stato così identificato un
profilo specifico che riconosceva i casi con >90% di
accuratezza. Tuttavia, un successivo studio ha verificato
che variabili comuni quali sesso e uso di statine, erano
importanti elementi confondenti di questo profilo (71).
Numerosi gruppi hanno usato l’approccio LC-MS per
ridurre la suscettibilità degli screening più generali ai
possibili elementi confondenti. Ad esempio, Shah et al.
hanno utilizzato LC-MS per costruire un profilo di 69
metaboliti negli individui con e senza malattia coronarica
inviati a un centro universitario dove si eseguiva
cateterizzazione cardiaca (72). Due componenti
principali di questa analisi, uno relativo ad alcuni
amminoacidi ramificati e l’altro ai metaboliti del ciclo
dell’urea, erano associati con la presenza di malattia
coronarica. Analogamente, il nostro gruppo ha usato
recentemente LC-MS per studiare i predittori di diabete
nel “Framingham Offspring Study” (73). 5 amminoacidi
aromatici ramificati erano fortemente associati con la
comparsa di diabete durante i 12 anni di durata dello
studio. Questi dati sono stati replicati in una coorte
indipendente di soggetti svedesi.
Un altro studio recente ha dimostrato le potenzialità
della ricerca metabolomica per chiarire l’etiologia della
malattia cardiovascolare. Wang e al. hanno usato una
Figura 3
Genoma, transcrittoma, proteoma, metaboloma e identificazione dei biomarcatori.
I numeri tra parentesi si riferiscono alla stima del numero di entità molecolari. Riprodotta con autorizzazione da Gerszten e Wang (1).
60
biochimica clinica, 2013, vol. 37, n. 1
IL MEGLIO DI CLINICAL CHEMISTRY
CLINICAL CHEMISTRY HIGHLIGHTS
metodica LC-MS non specifica per identificare profili
metabolici in campioni di soggetti con e senza infarto del
miocardio (74). Questi autori hanno identificato tre
metaboliti derivati da fosfatidilcolina-colina, betaina e
trimetilamina N-ossido, che erano associati con gli
eventi. La supplementazione dietetica con questi
metaboliti era in grado di promuovere l’aterosclerosi in
modelli animali e l’accelerazione del processo
aterosclerotico veniva inibita dalla soppressione della
flora microbica intestinale coinvolta nel metabolismo
della fosfotidilcolina.
L’analisi della espressione genica rappresenta
un’ulteriore valida tecnologia per la scoperta di nuovi
biomarcatori. Rosemberg et al. hanno recentemente
esaminato su sangue intero il profilo di espressione di 23
geni relativamente alla presenza di malattia coronarica
in soggetti non diabetici (75). A una soglia che
corrispondeva al 20% di probabilità di avere una malattia
coronarica, la sensibilità e la specificità erano 85% e
43%. Ulteriori studi sono necessari per poter validare
questo approccio e per verificare se i gruppi di analiti
ottenuti da specifiche linee cellulari possano consentire
di svelare in modo più accurato una malattia
cardiovascolare occulta.
CONCLUSIONI
I biomarcatori promettono una stratificazione del
rischio cardiovascolare più precoce e più accurata. Il loro
ruolo nelle malattie cardiovascolari acute, come infarto
del miocardio e scompenso cardiaco, è stato
ampiamente studiato. Un sempre più ampio numero di
studi ha esaminato il ruolo dei biomarcatori nella
prevenzione primaria. Al momento, nessun biomarcatore
preso singolarmente è emerso come predittore ottimale
di malattia cardiovascolare nei programmi di screening
ed è molto probabile che nessun marcatore goda di
sufficiente sensibilità e specificità per essere usato da
solo.
Le strategie del futuro punteranno probabilmente
sull’utilizzo di ampi profili di biomarcatori in sottopopolazioni più specifiche. Tali profili di biomarcatori
dovranno fornire informazioni aggiuntive e non
sovrapponibili a quelle già fornite dai marcatori o fattori
di rischio già disponibili (16). Gli approcci diretti più
innovativi, quali proteomica e metabolomica, si
dimostrano abbastanza promettenti a questo riguardo.
Ulteriori studi sono necessari anche per meglio definire
quali popolazioni sono da sottoporre a screening con
biomarcatori; un approccio troppo generalizzato, infatti,
non sembra necessario, se consideriamo che molti
soggetti vengono adeguatamente stratificati dai fattori di
rischio tradizionali.
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