GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI

GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi
RASSEGNA STAMPA
Anno 7o, n.6 - Giugno 2014
Sommario:
C'era una volta, anzi mezza……………………………………………………………………………………pag. 2
Esiste la critica fotografica in Italia? Si, no, forse…………………………………………………pag. 4
La fotografia è un (dito) indice………………………………………………………………………………pag. 7
Abbasso il selfie, viva l'autoritratto.………………………………………………………………………pag.10
Tutto un riguardar di sguardi………..………………………………………………………………………pag.12
L'Hemigway a Guidi" la Fotografia è mutazione continua"..…………………………………pag.14
Che fine hanno fatto i personaggi di alcune storiche fotografie……………………………pag.16
Il piccolo guru, Blow-Up, i bambini e le fotografie..………………………………………………pag.21
Il fotografo col suo bicchiere sulla sponda del fiume.……………………………………………pag.25
Ti vedo, non ti vedo, cioè ti parlo....………………………………………………………………………pag.27
I miraggi della fotografia…..……………………………………………………………………………………pag.29
Torino: Festival della fotografia storica.…………………………………………………………………pag.30
Considerazioni di un idiota sulla fotografia d'arte.....……………………………………………pag.31
Sei camera chiara…………………..………………………………………………………………………………pag.36
Lo choc delle neo-foto………….…………………………………………………………………………………pag.38
Fulvio Roiter……………………….……………………………………………………………………………………pag.40
Scianna e i grandi scatti della sua vita…..…………..…………………………………………………pag.42
Togliamocelo dalla faccia…..……………………………………………………………………………………pag.43
Foto mia, proteggimi dall'arte…………………………………………………………………………………pag.46
Helmut Newton e sua moglie, erotismo, paesaggi..………………………………………………pag.49
Fotografi, fotografanti e fotografisti.………………………………………………………………………pag.51
L'anarchico che ha messo a fuoco Napoli….…………………………………………………………..pag.53
……………………
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C’era una volta, anzi mezza
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Jason Eskenazi, Crimea, © Jason Eskenazi, g.c.
“Forse dovrei smettere di guardare nel mirino”,confessa Jason Eskenazi
al New York Times, non riesco del tutto a capire se con vero o ironico
disappunto.
Ma direi il secondo dei due, dal momento che delle sue involontarie
“mezze foto”, forse inquadrate meglio di quelle che aveva pensato lui tutte
intere, ha fatto un’opera,Double Zero. Che adesso potete vedere
aFotoleggendo, la la bella rassegna romana di Officine Fotografiche,
assieme a diverse altre cose interessanti.
Il fotogramma zero-zero è la fotografia che non doveva esistere. Un
embrione di foto destinato ad abortire, è l’immagine a rischio, è una
potenza che difficilmente può sfociare in atto.
Stiamo parlando, ovviamente, di pellicola. La meccanica del caricamento
dei rullini in piena luce esigeva un sacrificio. Alcuni centimetri di film, quelli
necessari per l’aggancio al rullo di trascinamento, venivano inevitabilmente
esposti alla luce, anneriti sul negativo, quindi sbiancati sul positivo.
Corrispondevano ad almeno due fotogrammi. Per maggior sicurezza, i
professionisti giravano e scattavano a vuoto tre volte prima di cominciare a
inquadrare sul serio. Ma i più tirchi, o distratti, tentavano lo scatto già dal
terzo. Magari non proprio con un’inquadratura imperdibile.
Il fotogramma zero-zero, dunque, è un azzardo, un caso, una
scommessa. La prima foto di un rullo, se tentata così, è una foto più
leggera, quasi preterintenzionale, una fotografia dispensabile, non
necessaria già in partenza. Se viene, bene, altrimenti pazienza.
Come un attore che per provare il microfono recita a mezza voce un
brano a caso della sua parte, o quel che gli viene in mente, o un “provassssì-prova”. Come un pittore che prova il colore su un bordo della tela,
senza far troppo caso alla precisione del segno.
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Sono fotografie a mezza voce, che di solito nessuno vedra, se la luce se
ne è mangiata un pezzo. Be’, non era importante.
E invece magari sì. Per l’eterogenesi dei fini estetici. Perché Eskenazi,
cinquantaquattrenne fotografo del Queens con una passione per l’Europa
dell’Est, s’è accorto che il dimezzamento dovuto dall’azzardo, anziché
togliere, aggiungeva un valore misterioso al fotogramma, un “senso di
perdita”.
E le ha pazientemente messe da parte per anni, le sue foto dimezzate.
Per lui sono “un omaggio alla pellicola: un effetto che si è perso nell’era del
digitale. Erano fotografie in divenire”.
Non solo. Quei fotogrammi incompleti, amputati, incredibilmente
erano ancora fotografie ben riuscite, ben composte, anche se non volute
così dal loro autore.
Ben composte da chi, allora? La risposta, per me, è facile: dalla
fotocamera. Vogliamo dirlo più forbitamente? Dall’inconscio tecnologico
della fotocamera. Che qui dimostra in un modo nuovo quel che Franco
Vaccari aveva capito molti anni fa: che lo strumento sa strutturare
culturalmente, esteticamente le immagini che produce anche in assenza di
una volontà specifica del fotografo.
Jason Eskenazi, Kabul, © Jason Eskenazi, g.c.
Nel caso del fotogramma zero-zero l’inconscio tecnologico funziona
in un modo particolare, che comunque Vaccari apprezzerà ugualmente :
componerecuperando l’errore, rimpastando una composizione danneggiata,
riquadrando e “salvando” l’immagine d’autore perduta.
Conosco almento un altro autore che ha fatto una cosa simile: Chris
Harding,cartoonist americano, ma lo ha fatto con l’estremo opposto della
pellicola, la coda, quella che rimane nel rullo. Niente immagini qui, solo il
confine slabbrato fra pellicola vergine e pellicola che ha preso luce.
Guardando bene, da vicino, quel bordo giratodi novanta gradi somiglia a un
orizzonte, e suggerisce paesaggi fantastici.
In questo caso, forse, parlerei addirittura di subconscio tecnologico: qui
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visualizziamo non la competenza segreta della fotocamera, ma addirittura i
suoi sogni.
In ogni caso, per Eskenazi questo corpus fotografico è “un omaggio alla
pellicola”, un saluto all’amica e compagna di tante avventure.
Lo capisco, ma credo sia a miglior ragione un esperimento sulla potenza
silenziosa di quell’altra compagna d’avventure che è la fotocamera, che
invece è ancora al fianco del fotografo. E che sa fare il suo mestiere molto,
molto bene.
Che poi, è quel che Eskenazi alla fine ricava come morale: “Quando inizi
il mestiere, fotografi senza pensarci su tanto. Ecco, forse dobbiamo pensare
meno e tornare a questo stadio primitivo”.
Mi permetto di tradurre così: l’entusiasta debuttante, insicuro di sé, è
felice quando le sue fotografie “vengono bene”, forse intuisce che una parte
del merito è della macchina, ma la lascia fare. Però in seguito, man mano
che acquista mestiere e sicurezza, diventa geloso, cerca di appropriarsi di
tutto il merito: “ora so come si fa”.
E dimentica che anche la fotocamera “sa come si fa”. Oppure lo ricorda
benissimo, ma non lo vuole ammettere, neanche a se stesso, e rivendica
caparbiamente come sua scelta consapevole certi risultati che invece lo
hanno sorpreso, che non erano come li aveva voluti, che ha semplicemente
“accettato”.
“Il caso è un apporoccio sensato alla composizione?”, si chiede James
Estrin del blogLens. Io risponderei di sì, ma non è davvero e del tutto il
“caso”, se c’è di mezzo un meccanismo programmato apposta per cavare
fuori anche dal caso qualcosa di buono.
Ogni fotografia, forse, è randomness improved, casualità aiutata. Bravo
chi se ne rende conto.
Tag: Chris Harding, film, fotografia analogica, Fotoleggendo, James Estrin, Jason Eskenazi, Lens
blog,Officine fotografiche, rullini
Scritto in analogica, Autori, Inconscio tecnologico | 26 Commenti »
Esiste la critica fotografica in Italia? Si, no, forse
di Maurizio G. De Bonis da http://www.huffingtonpost.it/
Esiste oggi una vera e propria critica fotografica in Italia? È possibile fornire
una risposta a una domanda tanto generica?
Forse bisognerebbe iniziare dal quesito che (si) pone Elisa Medde nel suo
saggio (Di cosa parliamo quando parliamo di fotografia?) inserito nel libro
intitolato Generazione critica - La fotografia in Italia dal
Duemila (Danilo Montanari Editore - 2014). La domanda appena evocata
è: che cos'è la critica e qual è il suo ruolo?
Per chi come me proviene inizialmente dalla critica cinematografica suona
un po' come un esercizio retorico, visto che in ambito cinematografico
partecipo ormai da decenni a convegni e incontri che si occupano di questo
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problema. La critica cinematografica riflette da molto tempo sul proprio
ruolo (sempre più marginale purtroppo) e, pur tra mille difficoltà e
faticando a cogliere determinate innovazioni scaturite soprattutto grazie al
web, ha assistito alla nascita di una "nuova" generazione di critici sempre
più liberi, per non dire "anarchici", rispetto alle accademie e ai poteri forti.
Elisa Medde, dunque, riflette sulle modalità per"rinnovare la pratica della
critica... per renderla stimolante, inclusiva, davvero contemporanea".
Proprio questa riflessione sembra essere la cartina di tornasole del ritardo
incredibile che la fotografia italiana (nella pratica artistica e in quella
critico/divulgativa), con le dovute eccezioni, vive tutt'ora, tra protezionismo
culturale e tendenze iper-accademiche.
Ma proprio il libro Generazione critica si mostra come un tentativo
positivo di dare voce a una "nouvelle vague" italiana fatta di studiosi nati
negli anni Settanta. Questi ultimi, grazie ad alcuni saggi, cercano di
studiare, capire e divulgare l'opera di artisti loro coetanei. Ebbene, questa
impostazione se da un lato ha fornito compattezza al percorso divulgativo
ha però innescato per l'ennesima volta quel processo di provincializzazione
che riguarda l'intero sistema della cultura fotografica italiana, pur con
alcune eccezioni.
Nonostante ciò, alcuni passaggi di questo volume possono fornire al lettore
degli spunti di riflessione di notevole interesse. Mi riferisco soprattutto ad
alcuni brani dei testi firmati da Daniele De Luigi e da Sergio Giusti. Il primo,
nel suo Brand New Real, effettua un'analisi relativa al reportage e
all'immagine documentaria che senza alcun dubbio posso definire
coraggiosa, specie per un "giovane" critico che deve sapersi barcamenare
in un sistema come quello italiano nel quale prendere una posizione precisa
può risultare professionalmente controproducente. Per chi come me insiste
da anni su determinati argomenti, generando sempre un certo sgomento
nel mondo fotografico italiano, leggere che il "reportage, ancora oggi è
incardinato in schemi ripetitivi ed è refrattario a riconoscere i propri limiti"e
che "la fotografia come documento ha subito diversi attacchi negli ultimi
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decenni, spesso non immeritati", è stata una sensazione di autentico
sollievo. De Luigi si spinge addirittura a stigmatizzare (è su questo
aspetto sono perfettamente d'accordo con lui) le "ingenue"
affermazioni di una star del mondo dei fotoreporter come James
Natchwey, il quale ha dichiarato:"una volta che hai visto, sai".
Questi passaggi, per chiunque si occupi di fotografia in modo oggettivo e
non da una posizione di (presunto) potere, sembrano evidenziare delle
ovvietà, addirittura delle banalità. Eppure, se un critico della "nuova
generazione" come Daniele De Luigi ha sentito l'esigenza di esternare in
modo lucido queste sue posizioni significa che in Italia c'è ancora bisogno di
divulgare queste idee (che evidentemente disturbano, e personalmente ne
so qualcosa). E ciò non è certo un segnale positivo.
Ne Lo spettacolo e lo spettro: la fotografia e il velo del
contemporaneo, Sergio Giusti elabora un percorso critico legato al
pensiero dello sloveno Slavoj Žižeke alla questione (anche questa se
vogliamo obsoleta, ma non per l'Italia) del valore dell'immagine nell'ambito
dei sistemi di comunicazione di massa. Ogni immagine veicolata
attraverso la televisione è falsa (tutte, dall'intrattenimento alla
pseudo
programmazione
culturale
e
sociale,
telegiornali
compresi). Tutto vero, tutto giusto, tutto però ampiamente sviluppato
(con impostazioni differenti ed esiti diversi) da significativi intellettuali del
Novecento come Pier Paolo Pasolini, Guy Debord e Jacques Lacan (per altro
citati dallo stesso Giusti).
Žižek è semplicemente arrivato con un po' di ritardo. Ha avuto il merito,
però, di andare nella fossa dei leoni (esattamente come fece Pasolini più di
quaranta anni fa), cioè in televisione, per cercare di scardinare da dentro
un sistema di comunicazione secondo il quale "solo ciò che è preparato per
essere spettacolo(anche la fotografia di reportage, aggiungo io) può
materialmente esistere".
A tal proposito, è divertente il modo in cui Giusti apre il suo saggio, e cioè
evocando la grottesca apparizione di Žižek nella trasmissione di Fabio
Fazio, Che tempo che fa. Apparizione triste e assurda esattamente
come quella che ha visto protagonista, sempre da Fazio, il cineasta e
fotografo David Lynch. Žižek e Lynch, due intellettuali (consapevoli di
quello che stavano facendo) trasformati dalla tv in immaginispettacolo costruite per esistere dentro un sistema di informazione
medio(cre), senza qualità.
Generazione critica - La fotografia in Italia dal Duemila
A cura di Marcella Manni e Luca Panaro
Danilo Montanari Editore - 2014
Pagg.61, ISBN 978-88-98120-39-0
Saggi di: Daniele Casciari, Jacopo De Gennaro, Giovanni Sellari, Guido
Meschiari, Tommaso Mori, Daniele De Luigi, Pier Francesco Frillici, Sergio
Giusti, Elisa Medde, Luca Panaro, Carlo Sala
www.danilomontanari.com
www.generazionecritica.it
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La fotografia è un (dito) indice
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Con il suo noto sarcasmo insulare, Ferdinando Scianna un giorno ha
spiegato le regole fondamentali da seguire per chi scrive un testo di
introduzione a un libro fotografico.
Ci sono due cose, diceva, che vannoobbligatoriamente scritte. La prima
è che nell’era del digitale la fotografia è morta. La seconda è che bisogna
abbandonare l’idea che le fotografie abbiano un qualsiasi riferimento con la
realtà.
Statisticamente, temo abbia ragione:è quel che si legge quasi ovunque.
Per fortuna, c’è un libro che demolisce quei due luoghi comuni. Non è un
saggio critico, non è un pamphlet polemico. A dire la verità, non è neanche
un libro in senso pieno, perché di parole scritte se ne trovano ben poche,
quasi solo foto, e senza didasdcalie.
Poco più piccolo di una cartolina, appena 64 pagine, pochi euro il
prezzo, due milioni di copie vendute dal 1992, quando in epoca pre-Web
l’editore Graf ebbe la semplice utile idea di un traduttore univerdale
tascabile. Adottato, assicura l’editore, anche dai caschi blu Onu in missione,
e dai logopedisti.
Il titolo del libretto, Point It, è anche il suo semplice manuale di
istruzioni per l’uso: non sai il nome di una certa cosa in una lingua
sconosciuta? Bene, trovala e indicala. Il gesto maleducato per eccellenza
(“Non indicare col dito!”) è riabilitato in linguaggio d’emergenza.
Del resto, la fotografia non è stata definita un segno indicale? Be’, il
dibattito su Peirce è feroce e io me ne tengo alla larga, ma di sicuro è un
segno indicante. Fate la prova. Cuscino, aspirina, autobus, pomodoro…:
puntate il dito “e tutto il mondo vi capirà”.
In un mio libro, Point It mi è servito per chiarire qualche punto fermo
sulle caratteristiche della fotografia come messaggio. In particolare sul
rapporto fra le parole, le cose e le immagini.
Un tema che piacque molto a un grande filosofo del Settecento,
Jonathan Swift, ingiustamente declassato a scrittore di libri di fantasy.
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Il suo Gulliver, viaggiatore semantico, a un certo punto sbarca a
Lagado, città immaginaria abitata da sapienti, proprio mentre vi si svolge
un curioso esperimento sul linguaggio: l’abolizione delle parole.
Per comunicare, i lagadesi avrebbero dovuto servirsi esclusivamente di
oggetti da mostrare all’interlocutore alla bisogna. Riportando dunque la
comunicazione fra uomini alla solida, indiscutibile aderenza alle cose.
Purtroppo, ben presto gli ardimentosi linguisti inventati da Swift
s’imbattono in una difficoltà insormontabile: è impossibile girare il mondo
portando sulle spalle giganteschi fagotti pieni di tutti gli oggetti di cui si
pensa di aver bisogno per comunicare. E l’esperimento fallisce.
Forse sarebbe riuscito se gli scienziati di Lagado avessero
preventivamente inventato la fotografia. Che miniaturizza l’aspetto delle
cose facendo e evaporare il peso, ma lasciandone intatto il senso.
Che è poi quel che fa il nostro libretto del viaggiatore: vocabolario
“comprensibile in tutte le nazioni civili che usano più o meno gli stessi tipi
di utensili”, per usare proprio le parole dello scrittore inglese.
Che cosa ci dice dunque Point It, che la fotografia è la lingua universale
di cui andava in cerca Lagado? Non esageriamo. Puntando
appropriatamente il dito a pagina 13 posso dire a un cameriere coreano o
inuit “voglio un’aragosta” (che lui ci accontenti, è un altro discorso).
Ma di certo, a ditate, non potrò comporre una frase come “no grazie, le
fragole mi fanno venire l’orticaria”. Tantomeno spiegare la politica italiana
al vicino di tavolo.
La fotografia, me lo avete sentito dire altre volte, manca di verbi. Ma a
quanto pare manca anche di molti sostantivi e aggettivi generici e astratti:
l’orticaria ad esempio non c’è e non potrebbe esserci, né nel libretto né nei
fagotti di Lagado.
Eppure, entro certi limiti, la sostituziione della parola con l’immagine
funziona benissimo. Sopra i banconi dei fast-food e sui menù dei ristoranti
etnici ci sono le fotografie delle portate, anche un muto può ordinarle senza
sbagliarsi. Se indicate al cameriere l’immagine di un hamburger al
formaggio, è piuttosto improbabile che vi serva un frappé.
Dunque nelle fotografie siamo quasi sempre in grado di riconoscere
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qualcosa di effettivo e concreto, oggetti appartenenti alla realtà, e di
condividere questo riconoscimento con altri anche senza parlare.
Grazie alle fotografie possiamo addirittura accedere a un livello
elementare di generalizzazione di quegli oggetti (può darsi che, non avendo
la pera che avete indicato, il cameriere, avendo capito che avete voglia di
frutta, vi controproponga un’albicocca).
Sento già l’obiezione: anche un disegno può servire allo scopo, anche
un disegno poco realistico, simbolico. Un fiore disegnato da un bambino
può non somigliare a nessun fiore esistente in botanica, ma noi ci vediamo
e capiamo “fiore”.
Certo, per chiedere una mela a un fruttivendolo thailandese può bastare
disegnarla con un po’ di abilità. Ma già chiedere un cappuccino, con solo
una matita in mano, diventa un problema: disegno una tazzina fimante, e
mi arriva un tè. Un disegno (tranne forse disegni molto realistici,
molto fotografici) si ferma a un limite. Questo limite credo sia la vecchia
bistrattata soglia fra indice e icona.
In realtà, Point It non contiene immagini di oggetti generici. Contiene
fotografie di oggettispecifici (a pagina 13 non c’è l’immagne di un’aragosta
ideale, c’è la foto di una creta aragosta che è stata reale), oggetti che però
possiamo indicare per chiederne di simili.
La frase sottintesa dal dito puntato dunque non è “voglio
un’aragosta” e neppure, ovviamente “mi porti proprio questa aragosta”
ma: “vede? Questa è la foto di un’aragosta. Sa di cosa parliamo? Bene, ne
vorrei anch’io una”. Sarebbe come indicare l’aragosta che il nostro vicino ha
già nel piatto. Mica vogliamo che il cameriere gliela porti via per darla a noi.
Il signore, qualunque ncosa pensi della referenzialità fotografica, nons
arebbe d’accordo.
La differenza puiò essere sottile, ma per una filosofia della fotografia è
importante. Col dito indice, su una foto, non tocchiamo l’idea platonica di
un certo oggetto, ma la forma fenomenica (tradotta in immagine) di un
oggetto singolare. E questo può avere le sue controindicazioni. Perché una
fotografia racconta un oggetto specifico, e di questo dice molte più cose di
quelel che pensiamo o vogliamo che dica.
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Esempio: a pagina 23 ci sono fotografie di camere da letto. Due letti
singoli, un letto matrimoniale. I primi hanno una coperta a fiori rossi
sgargiante, il secondo una coperta bianca. Se indico la foto con i due letti
al concierge, gli sto dicendo chenon voglio una camera matrimoniale ma
una a due letti singoli, oppure che adoro le coperte colorate?
Se indico un piatto, che nella foto è bianco, voglio un piatto purchessia
o voglio un piatto bianco? E come faccio per dire che il mio piatto è sporco
e ne voglio uno pultio? Se indico la bottiglia del whisky, che nella foto ha
l’etichetta Jack Daniel’s, voglio un whisky qualunque o un Jack Daniel’s? Se
indico La Coca-Cola, mi andrà bene anche la Pepsi?
E ancora, se indico la foto del museo a un addetto dell’ufficio turistico,
gli sto chiedendo quali musei ci sono in città, dov’è il museo delle antichità
greche, o dovè quel proprio quel fregio lì?
Morale: come linguaggio universale, la fotografia fa un po’ fatica a
cavarsela fra particolare e generico, fra generale e specifico. Insomma il
suo vocabolario è semanticamente ambigo e confuso, le sue mille parole a
volte non sono ben scandite.
Ma una cosa è certa, che anche quando non ci aiuta, anche quando il
cameriere insiste a versarci il Jack Daniel’s invece del Ballantine che
avremmo preferito, dimostra che le fotografie sono sempre fotografie di
qualcosa.
Tag: Charles S. Peirce, Ferdinando Scianna, Graf, icone, indice, Point It, segno, Semiotica
Scritto in icone, Semiotica, Senza categoria, turismo | 11 Commenti »
Abbasso il selfie, viva l'autoritratto
di Marie McGrory, dal blog PROOF di http://www.nationalgeographic.it
FOTOGALLERIA Quando National Geographic ha chiesto ai suoi lettori di
provare a fotografare se stessi, i risultati sono stati al di sopra delle
aspettative
PRECEDENTE
SUCCESSIVO
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Secondo me la femminilità di una donna è insita nel modo in cui porta i capelli. Questa sono io, sopra un vetro, che
metto in evidenza la mia femminilità.
-Helene Barbe, National Geographic Your Shot
Vedi anche

170 anni di autoscatti

La mania del selfie
secondo i fotografi di NG
Il selfie: in una giornata tranquilla, è probabile che ne veda una ventina
sui social network. In altre giornate, potete star certi che ne vedo a
centinaia.
Di recente, per l'iniziativa Your Shot, i fotografi di National Geographic Mark
Thiessen e Becky Hale hanno chiesto ai lettori di cimentarsi con
l'autoritratto. Devo dire che inizialmente non ero affatto entusiasta
dell'idea. L'avvento del selfie mi ha lasciata molto perplessa riguardo la
scarsa originalità della sua interpretazione. Unselfie è tra le immagini più
facili in assoluto da scattare; in fondo molti di noi hanno una macchina
fotografica puntata in faccia ogni volta che prendono in mano il telefono.
I selfie sono un modo per mettere in mostra un nuovo taglio di capelli o il
vestito dela domenica. O un modo in cui un gruppo di persone può scattarsi
una foto senza dover interagire con uno sconosciuto.
Scattati a distanza di braccio o allo specchio, i selfie sono diventati
un'immagine talmente comune per me che mi ero quasi dimenticata il
luogo meraviglioso e vulnerabile da cui hanno avuto origine. Naturalmente,
nell'editare le foto commissionate per Your Shot, ho visto un buon numero
di selfie classici. E anche questi hanno il loro perché, in determinate
situazioni. Tuttavia, dopo un paio di settimane di arrivi di foto, ho
cominciato a sentirmi meglio, e mi è tornato alla mente un termine che era
rimasto fuori dal mio vocabolario per troppo tempo: autoritratto.
Un autoritratto non è un selfie. È una fotografia splendida, che rivela
qualcosa del suo autore. Un buon autoritratto è estremamente difficile da
realizzare. Dopo aver passato in rassegna migliaia di queste immagini, sono
rimasta colpita nel constatare che le foto finali, quelle selezionate, erano
quasi tutte prive di volti riconoscibili. Non c'è bisogno di vedere il volto di
una persona per percepirne l'essenza... la battaglia di Ocean con il cancro,
la lotta di Katrina con l'invecchiamento, l'amore di Amanda per la
panificazione...
Queste immagini mi hanno ricordato il motivo per cui mi piaceva tanto
studiare autoritrattistica nei miei corsi di fotografia alle superiori.
Nell'autoritratto l'artista mostra se stesso così come vuole essere visto,
rivelando qualcosa di profondamente personale, illustrando qualcosa che
non è in grado di spiegare a parole.
Tutte queste riflessioni hanno dato vita a un'animata discussione nel nostro
ufficio sugli autoritratti che più amiamo: qualcuno ha ricordato l'autoritratto
"riflessivo" di Maynard Owen Williams, qualcun altro Untitled 96 di Cindy
Sherman. Ricordando opere più recenti, a me è venuto alla mente il lavoro
di Kyle Thompson. In conclusione, questo progetto sull'autoritratto ha
decisamente rivitalizzato il mio amore nei confronti di quei momenti crudi e
rivelatori in cui il fotografo rivolge la macchina fotografica verso se stesso.
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Tutto un riguardar di sguardi
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Due si sono perse. Due sole, su duecento circa. Solo due, l’un per cento.
Quota fisiologica, anzi decisamente bassa.
Gli autori del volume Revisioning Venice, lo storico della fotografia
Angelo Maggi e il fotografo Giampaolo Romagnosi, chiedono scusa, ma in
due casi, due vedute veneziane minori di Ferdinando Ongania, non è stato
proprio possibile capire dove le foto furono scattate, e quindi non è stato
possibile rifotografarle.
Curioso, perché per quasi tutte le altre il problema sembra essere stato
l’opposto: nulla o quasi è cambiato, e le vedute create un anno fa
sembrano del tutto identiche a quelle create centovent’anni fa.
Forse anche per la scelta volutamente mimetica di stampare le foto di
adesso, si suppone siano immagini digitali, nella stessa tonalità brunoseppia di quelle di allora - ammesso che gli originali di Ongania (apprendo
da Alberto Novo, che ringrazio, trattarsi di heliogravure) avessero proprio
quella tonalità e non sia anche questa una scelta, diciamo, di “color
nostalgia”. In ogni caso, questa omologazione tonale fa sicuramente parte
di quel che dirò alla fine.
Per distinguerle a volte bisogna inoltrarsi nei dettagli, più edilizi che
architettonici, nei particolari mininimi, come nel gioco “trova le differenze”
della Settimana Enigmistica, oppure sbirciare l’abbigliamento di un
passante. Tutto questo ci dice, credo, alcune cose su Venezia e alcune sulla
fotografia, e soprattutto alcune cose sulla fotografia di Venezia.
Quel che cambia, a volte, è solo la sicura mano pittoresca degli operatori
di Ongania, che sapevano come comporre alcuni piccoli dettagli, come (nel
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fotoconfronto che vi mostro) l’ombra che si ritrae per incorniciare di sole il
pozzo al centro della calle, una condizione di luce che era piuttosto difficile
da replicare.
I progetti rifotografici, almeno da quando Mark Klett negli anni Settanta
si mise sulle tracce dei fotografi esploratori ottocenteschi del West
americano, non sono più una novità, e neppure una curiosità: sono un
genere fotografico che ha ormai una sua storia e una sua dignità.
Architettonica, documentaria, artistica. Temo di avere contribuito anch’io a
qualcosa del genere, diversi anni fa, per un volume di Franco Fontana.
Solo che il loro scopo apparente, il più ovvio, il primo che viene alla
mente, quello cioè di istituire un fotoconfronto attraverso il tempo, di
permettere
una
storia
comparata
dell’evoluzione
dell’ambiente
antropizzato, forse non è la loro vera natura.
C’è qualcosa di specifico fotografico nel fascino, indiscutibile, che
hanno i fotoconfronti a distanza di tempo. Ultimamente sono diventati una
specie di gioco virale, non potevi aggirarti in rete senza trovare qualcuno
che aveva “scoperto” il divertimento di sovrapporre una vecchia veduta,
una foto d’archivio, una cartolina, magari brandendola in mano, a distesa di
braccio, al paesaggio com’è diventato oggi. La pubblicità se n’è accorta e,
come sempre fa, ha sfruttato l’idea.
Né gli uni né l’altra però vogliono produrre documenti sul trascorrere
del tempo e la mobilità degli spazi. È la pura e semplice possibilità di
sovrapporre due sguardi a distanza di tempo che attira e affascina.
È un’altra, credo, delle proprietà esclusive della fotografia, che mi
piace molto andare a cercare. Solo la fotografia rende possibile ri-guardare
uno sguardo già guardato. Ricalcarlo e ripeterlo variandolo nella continuità.
Perché la fotografia è condivisione di sguardi, nello spazio e – ecco
qui – anche nel tempo. Caro postero, ti affido il mio sguardo su questo
luogo. Quando vorrai, riguarda attraverso i miei occhi, con i tuoi, e mescola
i nostri sguardi. Ammettetelo, è una bella magia. Una comunione umana
del tutto particolare e molto emozionante. Sono certo che Romagnosi
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potrebbe confermare quel che dico.
Quanto a Venezia, riguardare gli antichi sguardi talvolta ha qualcosa
di – diciamolo – deludente. Venezia cambia poco. Quasi niente. In qualche
caso, la fotografia di oggi sembra addirittura più antica di quella di ieri:
forse dipende dall’effetto di certi “restauri conservativi” che creano una
patina di passato che in passato non c’era…
Eppure Venezia è cambiata parecchio, nel corso millenario della sua
storia. La città medievale non è quella rinascimentale che non è quella
ottocentesca.
Ma ad un tratto sembra aver smesso di cambiare, almeno nel suo cuore
più conosciuto e frequentato. Fatti salvi gli arredi urbani di servizio, i
motoscafi, e poco altro, Venezia ha bloccato la sua immagine urbana più o
meno alla seconda metà dell’Ottocento.
Vuol dire qualcosa che quella sia anche l’epoca della fotografia
commerciale, degli album Ongania, appunto, da vendere ai turisti, delle
cartoline illustrate, dei chiari di luna (fatti con una monetina in camera
oscura…) di Carlo Naya?
Venezia non è rimasta fedele a se stessa, ma alle immagini
commerciali di se stessa, alle immagini di massa di se stessa disseminate
nel mondo con la volonterosa collaborazione di milioni di viaggiatori e di
turisti.
Esiste una Venezia immaginaria, una Venezia di immagini, eppure più
stabile e solida di quella vera, una Venezia diffusa nei cassetti, sugli
scaffali, nelle immagini mentali di milioni di persone lontane, che ha preso il
sopravvento sulla Venezia della storia, e le impedisce, nel bene e nel male,
di seguire la storia, perché è quella Venezia che ci si aspetta di ritrovare, in
quel vero lavoro gigantesco di rifotografia permanente che è la fotografia
dei turisti.
Venezia è incatenata alle sue stesse fotografie. Nessuno potrà
liberarne l’immagine, se non forse nuove fotografie. Per questo, finora,
rifotografarla è una ridondanza un po’ deludente. Ma quella plasmata dalle
neo-foto come sarà?
Tag: Angelo Maggi, Carlo Naya, Ferdinando Ongania, Franco Fontana, Giampaolo
Romagnosi, Mark Klett, rephotographing, rifotografia, Venezia
Scritto in architettura, generi, turismo | 11 Commenti »
L’Hemingway a Guidi «La fotografia è mutazione
continua»
di Gian Paolo Polesini da http://messaggeroveneto.gelocal.it/
La virata romagnola ti giunge forte e chiara. Quell’arrotondare le parole
combinato con l’atteggiamento affabile, tipico delle gente dell’Italia di
mezzo sponda adriatica, è smistato dal maestro cesenate durante una
lunga chiacchiera. Guido Guidi, riferimento assoluto della fotografia urbana,
abbellirà lo studio con un premio Hemingway, «per la visione del paesaggio
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non ecologista né memoriale - dice proprio così la motivazione - eppure
dissacratoria rispetto a quella tradizionale...». A calamitare la giuria è stato
un libro, uno dei tanti a sua firma, Guido Guidi. Cinque paesaggi 19831993. Per conoscerlo meglio l’opportunità è vicina: oggi, alle 18.30,
all’ufficio spiaggia 2 di Lignano, dove l’artista dialogherà con Alberto Garlini.
Salta invece l’incontro con Abraham Yehoshua in programma domani, alle
18.30 al Kursaal: lo scrittore sarà a Lignano per la cerimonia di sabato sera
(cui si accederà su invito).
- Guidi, lo trova un giudizio corrispondente?
«Guardi, io sono lo spettatore del mio lavoro. Tento di conoscere il mondo,
m’interrogo su cosa c’è da vedere. Ecologista? Più meno che più. Inquadro
senza maschera e senza intenzione alcuna di convertire chicchessia. La mia
è solamente una posizione frontale. Ci pensa la macchina poi a dare il
responso. Diceva Antonioni: “La poesia della fotografia si forma guardando
il risultato”. C’è un processo infinito capace di trasformarmi scatto dopo
scatto. Quello precedente indica nuove strade a quello successivo. Una
mutazione continua».
- Il signor Ernest ha trovato posto nella sua biblioteca?
«Da giovane li sfogliai quasi tutti i romanzi. Incontri letterari necessari se
frequenti una facoltà creativa. Architettura, per precisare. Comunque
ricordo un aneddoto sullo scrittore. Hemingway e Marc Evans si
frequentavano a Cuba. Il fotografo di Liverpool finì i soldi e spiegò all’amico
il motivo di quella valigia in mano. Restò ancora a lungo, l’americano gli
pagò il soggiorno. Piccole storie utili a comprendere l’anima vera di certi
personaggi».
- Folgorato dalla macchina fotografica?
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«Percepivo un’attrazione, diciamo a quindici anni, sebbene studiassi con
tenacia le tecniche di pittura. Era una specie di slogan di fine Ottocento: «I
fotografi sono pittori falliti».
- Be’, adesso ’sta affermazione è andata in prescrizione...
«Diciamo che quadri e fotografie godono di una stretta parentela. Della
camera oscura ne scrisse persino Leonardo, in un Rinascimento ricchissimo
di straordinari dipinti. Come vede l’intreccio è alquanto antico».
- È vero che lei si costruì un apparecchio da solo?
«Non fu un’impresa, mi creda. Avevo soltanto bisogno di uno strumento di
grande formato, totalmente assente nel mercato. E mi divertii a
sperimentare. D’altronde è fondamentale non seguire le orme altrui».
- Com’è cambiata in tanti decenni di sguardi la natura italiana?
«Che le periferie, un mio pallino sin dagli inizi, ormai sono diventate il
centro di molte città. Brutte? Può darsi, disadorne, squallide, a volte,
eppure affascinanti nella loro eterna malinconia. Può darsi, poi, che la
fotografia dia una svolta al senso, non certo alla prospettiva».
- Dalla pellicola al digitale. Rivoluzione pari a quella del cinema
quando dal muto si passò al sonoro?
- Direi meglio dal bianco e nero al colore, e dico come paragone. È
cambiato indubbiamente il passo del mestiere. ben più semplice adesso
maneggiare sistemi autonomi. Basta schiacciare il pulsante e guardare
subito il risultato. Vuol mettere la suspense dell’immagine che si forma
galleggiando nella bacinella? Io continuo così. Il digitale lo uso soltanto
quando insegno. Per praticità».
- Italo Zannier, lo spilimberghese. Fu il suo mentore...
«Fondamentale conoscenza. Mi insegnò la storia. Bisogna stringere in
pugno il passato di qualsiasi lavoro, metti meglio i piedi nel futuro».
Che fine hanno fatto i personaggi di alcune
storiche fotografie?
di Federica Proietti da http://cultura.notizie.it/
Che una foto vale più di mille parole è vero, ma non è mai stata raccontata
tutta la sua storia …
“The Afghan Girl” è uno dei più famosi ritratti che il mondo abbia mai visto.
L’articolo prosegue dopo il video
Il suo villaggio era stato appena bombardato, i suoi genitori uccisi, e aveva
camminato attraverso le montagne per raggiungere il campo dei rifugiati.
Era apparsa sulla copertina del National Geographic nel giugno del 1985,
che aveva poi ottenuto migliaia di lettere da persone che volevano
mandarle soldi, adottarla, e sposarla. Il National Geographic la ha definita
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la fotografia più famosa nella loro storia.
17 anni dopo, Steve McCurry decise di cercarla e finalmente dopo una
lunga ricerca e diverse indagini riuscì a trovarla. Il suo nome è Sharbat
Gula. Vive in montagna a Tora Bora con il marito e tre figli.
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L’8 giugno. 1972, Nick Ut stava scattando delle foto al di fuori del villaggio
di Trang Bang, nel Sud Viet Nam. Kim Phuc di 9 anni era con la sua
famiglia quando gli aerei Sud vietnamiti li scambiarono per soldati. Era
nuda perchè i suoi vestiti erano stati bruciati. Da sinistra a destra sono: i
fratelli Phan Thanh Tam, Phan Thanh Phouc, Kim Phuc, ed i suoi cugini Ho
Van Bon, e Ho Thi Ting.Nick Ut e alcuni altri giornalisti le avevano salvato la
vita correndo in ospedale ed ottenendo delle cure per lei e per i suoi
parenti. Nick Ut ha vinto il Premio Pulitzer nel 1973 per questa fotografia.
Quando era adolescente, Kim Phuc è stata accettata alla facoltà di
medicina, ma è stato costretta a uscire dal regime comunista. Nel 1982, il
primo ministro del Vietnam le permise di andare a studiare a Cuba. Nel
1997, ha fondato la Fondazione Kim Phuc, che fornisce assistenza medica e
psicologica a bambini vittime di guerra. Ora lei è un medico, moglie e
madre di due figli e risiede in Canada.
Ninalee Craig è la donna in questa leggendaria fotografia “American Girl In
Italy” scattata da Ruth Orkin nel 1951. Ninalee ha detto, ” Alcune persone
vogliono usarlo come un simbolo di molestie nei confronti di donne, ed è
quello per cui abbiamo combattuto tutti questi anni. Non è un simbolo di
molestie. E’ un simbolo di una donna in un tempo assolutamente
meraviglioso! ” Nel 1951 aveva 23 anni, aveva appena lasciato il suo
lavoro, e aveva trascorso più di sei mesi in viaggio attraverso la Francia, la
Spagna e l’Italia da sola, qualcosa che poche donne facevano allora.
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Oggi Ninalee Craig ha 86anni ed è nonna di dieci nipoti e bisnonna di sette.
Vive a Toronto, in Canada con il marito. Qui lei indossa lo stesso scialle che
indossava nella famosa fotografia.
“Il Nirvana Baby”, fotografato da Kirk Weddle, è una delle più famose
copertine di album nella storia della musica. “La mamma era alla mia
sinistra, e aveva soffiato una boccata di aria sul viso del bambino”, ricorda
Kirk. «Allora lo immergemmo e dopo lo scatto lo tirammo fuori. Lo abbiamo
fatto due volte. ” Il Dipartimento della direzione artistica della discografica
aggiunse poi l’amo da pesca e la banconota del dollaro come rifiniture.
Il bambino Nirvana ha ora 22 anni. Il suo nome è Spencer Elden ed è uno
studente d’arte presso l’Art Center College of Design. I suoi genitori sono
stati pagati 200 dollari per la fotografia originale. Spencer dice che ancora
oggi si presenta al popolo come il ” Bambino Nirvana “.
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“Wait For Me, daddy” è una delle fotografie più famose della Seconda
Guerra Mondiale scattata nel 1940 a New Westminster, Canada , da Claude
Dettloff non appena il Reggimento BC marciò in guerra. Il piccolo Warren
Bernard di 5 anni si liberò da sua madre per dare un ultimo addio a suo
padre. Questa fotografia è stata descritta in Life Magazine.
Cinque anni dopo aver scattato la fotografia, Dettloff seppe che il sergente
Jack Bernard tornò a casa dalla guerra. Oggi Warren “Whitney” Bernard ha
79 anni e vive con la moglie Ruby a Tofino. Ha tre figli e tre nipoti.
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Cinque amici sono stati fotografati da Ringo Starr nel corso del primo
viaggio dei Beatles negli Stati Uniti nel 1964. I ragazzi avevano saltato la
scuola per inseguire i Beatles mentre erano in città. Bob Toth ha detto di
essere stato sospeso da scuola per tre giorni. Tuttavia, 40 anni dopo, il suo
preside ha ammesso che era stata una “buona idea”.: Bob Toth, Gary Van
Deursen, Suzanne Rayot, Arlene Norbe e Charlie Schwartz.
La foto è stata ricreata nel 2013, dopo l’appello di Ringo Starr per avere
informazioni dei cinque adolescenti che egli immortalò in una Chevrolet
Impala con la sua macchina fotografica. Il viaggio per riunirli è stato
organizzato dalla NBC. Come nel 1964 la vettura è stata guidata da Gary
Van Deursen, ora 68 anni, che ha descritto la ricerca di Starr per gli amici
49 anni dopo come ” una cosa incredibile, non sapevo che avesse neppure
scattato una fotografia”.
Queste fotografie e le storie che si nascondono dietro ognuna di loro sono
semplicemente affascinanti. Ho guardato la “American Girl In Italy” e mi
sono sempre chiesta che cosa rappresentasse. E’ bello scoprire quale fosse
il vero significato.
Più
informazioni
phuc, Nirvana
su: afghan
girl, american
girl, fotografia, kim
Il piccolo guru, Blow-Up, i bambini e la fotografia
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
C’era una volta un piccolo profeta cileno dal sorriso timido che cercò di
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salvare il mondo dal mondo stesso.
Sergio Larrain, Passage Bavestrello, Valparaiso, Chile, 1952.
© Sergio Larrain / Magnum Photos, g.c.
Era armato solo di «un rettangolo nella mano»: la cornice di
un’immagine. Si chiamava Sergio Larrain e si considerava un «cacciatore di
miracoli», come tutti i fotografi non presuntuosi.
Ed è come fotografo che lo troverete citato nei libri, è come fotografo
che lo vedete ricordato in questa retrospettiva delle sue opere, a due anni
dalla scomparsa, nel castello di Bard incastrato fra le Alpi che forse gli
avrebbero ricordato le Ande del suo esilio di meditazione.
Perché, è vero, Larrain, l’amico di Henri Cartier-Bresson e di Pablo
Neruda, fu fotografo e lo fu nell’Olimpo dei reporter, recluta sudamericana
dell’agenzia Magnum, ma lo fu per poco più di una decina d’anni. Per il
resto della sua vita fu… chi lo può dire davvero.
Un guru, un viaggiatore, un mistico eremita, un filosofo, forse un
emarginato, un uomo fragile spesso a rimbalzo tra Lsd e psicanalisi. Un
uomo pieno di amore per la vita. Un vagabondo del dharma. «Il vagabondo
di Valparaiso» lo battezzò proprio Neruda, sfogliando il suo capolavoro, il
ritratto di quella «rosa immonda», la città «appesa sulle colline, poema che
lega le Ande e il Pacifico».
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Circolano leggende, su di lui. La più insistente vuole che sia stata una
sua fotografia, scattata nei primissimi Sessanta a Parigi, di sera, vicino a
Nôtre Dame, una misteriosa scena d’amore colta senza volerlo dall’obiettivo
nell’ombra della cattedrale, a ispirare da lontano il film Blow Up di
Michelangelo Antonioni.
Dicono che Julio Cortazar, che era anche lui a Parigi all’epoca, vide
quella foto e ci imbastì un racconto noir, protagonista un fotografo: Las
babas del diablo. Antonioni avrebbe letto il racconto, eccetera. Ma nessuno
dei tre ha mai parlato di questo complicato triangolo, e Agnès Sire,
curatrice della mostra e amica di Larrain, a domanda risponde scettica: «la
trama quasi poliziesca di Cortazar non appartiene all’universo di Sergio».
Chissà. Era un universo pieno di cose. E di svolte improvvise. Larrain,
“el Queco” per gli amici, era nato in una famiglia ricca di Santiago, figlio di
un architetto rinomato, aveva studiato ingegneria forestale a Berkeley, un
ragazzo quadrato e promettente.
Nel 1949, col suo primo stipendio, comprò due cose. Un flauto
traverso, che restituì presto al negozio. E una Leica IIIC, «non perché
volessi fotografare, solo perché era l’oggetto più bello in vetrina».
Però la usò. Vagabondò con lei nelle strade, cercando. Ne fece il
suo karma: «una buona fotografia nasce solo in uno stato di grazia».
Cominciò a pubblicare, sul Cruzeiro. Storie, luoghi, reportage. Qualche
divinità della lente lo aveva caro. Mandò le sue fotografie al MoMa: il
grande Edward Steichen gliene comprò quattro, «fu come se mi fosse
apparsa la Vergine in camera».
Viaggiò. Europa, Oriente. A Parigi conobbe il pontefice del reportage:
Cartier-Bresson, che lo apprezzò e lo chiamò in Magnum. Le sue foto
somigliavano di più, per inquietudine e sabotaggio dei canoni, a quelle del
ribelle Robert Frank: ma con HCB aveva in comune l’umanesimo, l’amore
per le forme pure, il fascino per il buddismo, l’idea che le fotografie sono un
dono dell’istante, una soglia che conduce al senso. Le chiamava le sue
satori.
Fece il reporter, lo fece pure bene. Per Paris Match, lo scoop delle foto
del matrimonio fra lo Scià di Persia e Farah Diba. In Sicilia, per Life, colpo
grosso: fingendosi turista cileno scattò il ritratto all’imprendibile Genco
Russo, il padrino dei padrini, l’erede di don Calò Vizzini. Ma «la pressione
giornalistica», scrisse a HCB, «distrugge il mio amore per la fotografia».
Precedendo Salgado di trent’anni, cercò le origini del mondo in
Patagonia, nel Pacifico, in Oriente. Ma il suo vero mondo erano le strade del
suo continente. Che nelle sue immagini sembrano popolate solo di meninos
de rua. Bambini: uno straordinario fotografo di bambini. Con allarmata
tenerezza. Come Lu Xun, pensava che in un mondo che cannibalizza se
stesso l’unica residua speranza fosse: mettere al sicuro gli innocenti.
Aveva conosciuto un maestro di meditazione, Oscar Ichazo, studioso e
insegnante di filosofie orioentali. Per qualche anno visse nella sua comune,
ad Arica. Poi provò ancora ad affrontare il mondo. Era alla Moneda l’11
settembre 1973, il giorno del martirio di Allende: le sue foto uscirono
anonime, con quelle di altri fotografi, per evitare rappresaglie.
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Sergio Larrain, Main street of Corleone, Sicily, 1959.
© Sergio Larrain / Magnum Photos, g.c.
La tragedia del suo paese finì per convincerlo: le fotografie non
cambiano il mondo. Dal 1978 scelse l’eremo. A Tulahuèn, nel nord del Cile,
studiò la sua Via, la chiamò solo Yoga, ma era la sua, c’entrava ancora la
fotografia, ma fatta solo per se stessa, fotografia del fotografare.
Non si limitò a contemplare il «punto kath», quattro dita sopra
l’ombelico. Da quell’eremo cominciò a scrivere. Lunghe lettere battute a
macchina agli amici, ad Agnès, a HCB, omelie senza arroganza, inviti
accorati a salvare il mondo dalla corruzione, dalle convenzioni, dall’autoannientamento.
Accompagnate da piccoli libri fatti a mano, disegni a matita, pitture a
olio, poesie. Come si «mantiene la vita vivente» in un mondo di
convenzioni? Bach, scrive, ne fu capace. E come si ammansisce il
«predatore» umano?
Il fotografo protagonista del racconto di Cortazar sembra
rispondergli: «Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è
scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata ai fanciulli».
Siamo proprio sicuri che quella storia di Blow Up non sia vera?
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 25 giugno
2014]
Tag: Angès Sire, Bard, Blow Up, Calogero Vizzini, Genco Russo, Henri CartierBresson, Julio
Ichazo, Pablo
Cortazar,Life, Lu
Neruda, Paris
Xun, Magnum, Michelangelo
Match, Robert
Frank,Salvador
Antonioni, Oscar
Allende, Sebastião
Salgado, SergioLarrain, Valparaiso
Scritto in fotogiornalismo, Storie, Venerati maestri | Un Commento »
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Il fotografo col suo bicchiere sulla sponda del fiume
di Leonello Bertolucci da http://www.ilfattoquotidiano.it/
Paolo Ventura, Iraq, 2008 (courtesy @HastedKraeutlerGallery)
Il tempo è azione, la fotografia è istantanea quindi più si riferisce ad una
cosa statica più è vera.
(Philippe Daverio)
Cosa ci fa un fotografo con un bicchiere in riva al fiume? E’ solo la
metafora stessa di ciò che fa il fotografo: immerge per un attimo il
bicchiere (la sua macchina fotografica) nel fiume che scorre (la vita)
riempiendolo
(scattando).
Già, è questo contemporaneamente il grande limite della fotografia e la
sua grandiosa unicità: da un flusso che scorre davanti all’obbiettivo
preleva un frammento, una quantità infinitesima; ferma, congela e ci
consegna – ad arbitrio del fotografo – una parte per il tutto; ma fino a
che punto rappresentativa di questo tutto?
Un limite, questa sua “fissità”, questa sua immobilità, che da sempre la
fotografia ha cercato di bypassare con tecniche e scorciatoie nel tentativo di
surrogare il movimento: il mosso, il panning, la sequenza, eccetera.
Oppure, per converso, proprio la comprensione scientifica del movimento si
è avvalsa della fotografia e della sua capacità di scomporlo e “farlo a pezzi”
per mostrarlo nel suo farsi.
A partire da questa sua peculiarità, la domanda delle domande sulla
fotografia è sempre la stessa: ma davvero può, e quanto può, una
fotografia rimandare al fatto e alla scena che si sono svolti (svolgersi
significa avere un andamento variabile) davanti alla macchina fotografica?
Non è un caso se la fotografia è ritenuta da molti la più ambigua tra le
rappresentazioni della realtà (ammesso che possa tentare di
rappresentarla…).
Ci stiamo inoltrando in un paradosso: la fotografia, considerata “lo
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specchio del reale”, vista comeil meno fedele tra gli specchi possibili.
Insomma: la parte per il tutto non è detto che funzioni, e quanti sono gli
autori in grado di mettere davvero tutto il fiume in un bicchiere?
Fuor di metafora, rispetto a un momento preciso fissato nel fotogramma la
vita ha avuto un prima e un dopo: ve n’è traccia e consapevolezza dentro a
quel rettangolo?
Philippe Daverio, da fine osservatore e curioso prima che attento studioso
di estetica, arte, comunicazione, in un’intervista sulla fotografia ha detto la
frase riportata all’inizio del post.
Egli è scettico sulla possibilità che l’istantaneità di una foto sia in grado di
rappresentare adeguatamente un’azione, e conclude dunque che la
fotografia si avvicina alla realtà quanto più il soggetto è “senza vita”, privo
di un divenire e in qualche modo svuotato del tempo che scorre: la
natura morta è perciò, secondo Daverio, il solo soggetto fotografabile senza
presunzione, l’unica possibilità di raccontare la verità tramite la fotografia.
Molto interessante, e naturalmente molto opinabile.
E allora, visto che navighiamo tra i paradossi, con un magnifico paradosso
rispondo a Daverio e rilancio.
Prendiamo la fotografia dei marines in Iraq visibile all’inizio: una foto
d’azione, puro reportage in zona di guerra. Azione che più azione non si
può: soldati in azione. Dietro quel muro con l’effigie di Saddam Hussein
immaginiamo colpi, spari, esplosioni, urla, paura, adrenalina, nemici, cambi
continui di situazione. Cosa potrà mai riportarci questa fotografia di tutto
ciò? Forse molto poco, dando così ragione a Daverio.
Ma la notizia è questa: i soldati che vedete sono pupazzi e tutta la scena
è un diorama, un fantastico “presepe” realizzato in maniera certosina dal
fotografo Paolo Ventura nel suo studio.
Egli ricostruisce mondi e visioni che prima immagina e solo
successivamente materializza, in miniatura, davanti al suo obbiettivo. Poi,
finalmente, li fotografa. Ogni foto presuppone settimane di lavoro per il
Paolo Ventura artigiano e una frazione di secondo per il Paolo Ventura
fotografo.
O meglio: tutta la vita del Paolo Ventura fotografo artigiano.
Dunque, la scena di guerra in Iraq è una natura morta senza azione
né
svolgimento.
Eccolo il paradosso: stando alle parole di Daverio, essendo tecnicamente la
foto di una cosa statica e inanimata, la foto della guerra in Iraq di Paolo
Ventura è la più vera tra tutte le foto di guerra possibili, mentre noi
sappiamo essere totalmente inventata e artificiale.
Ma forse… volando un po’…
Forse, con uno scarto del pensiero, fuori da troppi schemi e schermi, è
invece proprio così: la foto di guerra di Paolo Ventura, fatta di compensato,
stracci e cartapesta, è la più vera di tutte le foto di guerra mai scattate, con
buona pace di Bob Capa, Eugene Smith, Don McCullin, James Nachtwey e
via elencando.
Nel senso che è la più coincidente tra la visione che il fotografo ha della
guerra e quello che ne restituisce in fotografia. Vista così – ancora in pieno
paradosso – l’operazione fotografica ha bisogno di una “ricostruzione” per
aderire totalmente alla verità; quale verità? Non certo un’imprendibile
verità oggettiva, ma la verità intima e personale del fotografo, ciò che
lui immagina verità.
In questo percorso non c’è alcuna distorsione, alcuna forzatura, alcuna
truffa.
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Finta senza finzione, falsa senza falsificazione, quella di Paolo Ventura è
forse davvero la fotografia più vera, e in ogni caso la più onesta.
Commenti (6)
Più formazioni su: Fotografi, Fotografia, Fotoreporter, Iraq, Philippe Daverio.
Email
Ti vedo, non ti vedo, cioè ti parlo
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Mi sto divertendo come un ragazzino a imparare come si usa Snapchat.
Pian piano capisco, l’unica cosa che forse non riuscirò a capire è perché
dovrei usarlo.
Ma questa domanda, ormai mi sono convinto, con le piattaforme
di sharing è superflua, o si risponde da sé. Si condivide per condividere,
punto. E non è detto che sia una cosa insensata. Condividere è una bella
cosa.
La domanda, piuttosto, è questa: perché dovrei preferire proprio questo
modo di condividere le immagini, che è molto particolare, come sapete.
Con Snapchat le foto che spedisco ai miei contatti, infatti, restano sullo
schermo del destinatario per pochi secondi, poi scompaiono per sempre. Io
che le spedisco ne conservo copia, ma loro no.
Al suo apparire, la app col fantasmino in giallo è stata accolta come
una bizzarria. Oppure, e c’è del vero, come uno strumento ideale per
il sexting: quella piccola perversione erotica che consiste nel far vedere ad
altri le proprie foto sessualmente esplicite. Con Snapchat è un vedo – non
vedo più, che qualcuno può trovare molto sexy ed eccitante, ma non troppo
compromettente. Come aprirsi l’impermeabile in pubblico e chiuderlo
subito, ci capiamo.
Ma a parte questo uso diciamo amatoriale, a cosa può servire
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condividere immagini che il destinatario avrà appena il tempo di intuire,
certo non di esplorare, certo non di apprezzare come immagini?
Appunto: non sono davvero immagini, almeno non lo sono più nel
senso che la cultura occidentale ha dato alla parola: oggetti visuali
permanenti. Sono un’altra cosa. Cosa? Sono ancora fotografie?
Certo che sì. Sono mutazioni del fotografico. La stirpe delle neofoto si
sta velocemente specializzando, articolando in specie e generi. La fotografia
autodistruggente di Snapchat porta semplicemente all’estremo una
tendenza già implicita nella condivisione della fotografia su altre
piattaforme: la progressiva trasformazione delle fotografie da deposito a
flusso
Su Flickr, per dire, le fotografie sono ancora largamente deposito:
archivio, scatola virtuale, album, benché conservato nella nuvola. Su
Facebook gli album ci sono ancora, e vengono a volte sfogliati dagli amici,
ma già contano molto di più le ultime foto postate, quelle che compaiono
nella colonna delle notizie, quelle condivise sulle bacheche personali. Su
Instagram, prevale decisamente il flusso: risalire a foto postate anche solo
una settimana fa è faticoso e chiaramente disincentivato dal meccanismo.
Su Snapchat, esiste solo il flusso. Senza alcuna scatola della memoria,
risuona solo l’eco dell’ultima immagine condivisa, che rimane per un po’
nella
nostra
mente.
Dissoluzione
dell’immagine?
Alleggerimento
impressionante del senso? No, trasformazione dell’immagine in cose che
conosciamo bene. Da millenni. Che cosa?
Parole. Le fotine di Snapchat sono come le parole di una
conversazione. Le parole di un dialogo orale, anche le più belle del mondo,
anche un “ti amo”, scompaiono nel momento stesso in cui vengono
pronunciate. Di loro resta solo l’impressione che ci hanno lasciato
nell’anima.
Snapchat porta all’estremo, almeno finora, la mutazione del
fotografico in pratica conversazionale. Non stravolge il modo tradizionale
delle relazioni: semplicemente aggiunge alla relazione in modalità verbale,
mimica, gestuale, una nuova gamma di segni, una relazione visuale che sta
assolutamente sullo stesso piano delle parole, dei gesti, delle espressioni
del volto, e questo accade per la prima volta nella storia delle immagini.
È una opportunità, a mio parere, entusiasmante. Se la sappiamo
usare bene, abbiamo una modalità relazionale in più. E sta tutta nello
spirito e nella tradizione della fotografia, che è sempre stata condivisione
fra esseri umani di sguardi gettati sul mondo.
Forse per questo si sta affermando con una velocità che a me
personalmente sorprende: se sono vere le statisticheche trovo segnalate
su Photoskine (Linda sei sempre una eccellente scout), Snapchat ha
superato Facebook e stracciato Instagram per numero di immagini caricate
ogni giorno.
Ah, ovviamente per ogni nuova legge c’è un nuovo inganno, ed è del
tutto possibile, a chi riceve una foto biodegradabile, catturarla e renderla
permanente. Servono un po’ di prontezza e le dita come tentacoli di un
polipo, ma ogni device è in grado di scattare uno screenshot mentre
l’immagine effimera è ancora sul display (ma che diavolo di lingua sto
parlando?).
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Snapchat aggirato: lo screenshot di una foto che avrebbe dovuto dissolversi sette secondi
dopo…
Però è un po’ come se, durante una conversazione, uno dei due
interlocutori avesse nascosto nel taschino un registratore acceso, senza che
l’altro lo sappia. Non si fa. È maleducato.
Comunque ho provato, con l’aiuto di mio figlio che ormai
appartiene alla stirpe con mutazione genetica del pollice girevole, e
funziona. Ho anche notato che Snapchat se ne accorge e manda al mittente
un messaggio allarmato di avviso: guarda che Xy ha catturato la tua
immagine! Quindi, porcellini del sexting, non vi fidate troppo del vedo –
non vedo più…
L’occhio vuole sempre la sua parte.
Tag: condivisione, Facebook, Flickr, fotografia, Instagram., sexting, sharing, Snapchat
Scritto in after photography, condivisione, fotografie private, Immagine e Internet | 10 Commenti »
I miraggi della fotografia
di Lucia Trisolini da http://www.unisob.na.it/
"Non occorre che le fotografie diano delle risposte ma che pongano delle
domande". La differenza secondo Michele Smargiassi, autore del blog
Fotocrazia su repubblica.it è tutta lì: nelle domande che la fotografia
nonostante l' uso e l'abuso delle moderne tecnologie riesce tuttora a porre.
Si è tenuta nella sala d'ercole a Palazzo Reale la seconda officina della
Repubblica delle idee dal titolo "la fotografia e i suoi miraggi". Bandite nel
corso del dibattito tutte le nostalgie su ciò che è passato, sulla presunta
autenticità delle fotografia analogica e sulla innegabile falsità di quella
digitale. Attraverso una serie di immagini proiettate sullo schermo in sala,
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Michele Smargiassi ha dimostrato come in passato anche la fotografia
analogica sia stata capace di mentire alla storia con decisioni umane e
inconscio-tecnologiche. "Per difenderci da una foto falsa dovremmo sapere
cos'è una foto vera. Ma una foto non è mai vera, può solo assomigliare al
vero", ha osservato. In questa prospettiva, ha detto: "Photoshop non deve
essere considerato il male assoluto. Può servire al venditore di fumo ma è
altrettanto meraviglioso perché capace di inventare mondi".
Nel corso del tempo sono cambiati gli strumenti tecnici che permettono di
immortalare un evento e con la diffusione di smartphone e tablet chiunque
può essere in grado di farlo. "Ma non mi sento minacciato dai fotografi
improvvisati, ha detto Smargiassi- il mestiere del fotoreporter è di tutt'altra
natura". Il suo compito è quello di comporre le testimonianze, di rendere
comprensibile la causa che ha condotto all'effetto immortalato
nell'immagine. "Ho riso quando ho letto sui giornali che, in occasione del
terremoto in Emilia, anche stavolta tweetter era arrivato prima del
giornalista. È come dire che il ferito sotto le macerie è arrivato prima del
fotografo", ha ironizzato Smargiassi. Oggi esiste il selfie che ha reso la
fotografia "conversazionale" ma che non è giornalismo, solo una nuova
poetica fotografica.
Comprensibili, però, nel corso della discussione, le nostalgie degli anziani,
uno dei quali prendendo la parola ha detto: "Ho rovesciato i mie cassetti
per tenere in mano una fotografia di mio nonno; oggi se i giovani
rovesciassero un'intera casa, non la troverebbero". Colpa di queste foto
fast-food che hanno fatto perdere il gusto della buona tavola in fotografia e
la bellezza di conservare i ricordi. "Tutto vero, ha detto Smargiassi- con la
proliferazione di scatti fotografici è chiaro che i giovani avranno
sicuramente un rapporto diverso con le immagini rispetto al passato. Ma
non bisogna disperare. Fino a 3 anni fa non avremmo neppure immaginato
un dibattito del genere e non è detto che le cose non cambieranno. Ne
riparliamo tra 5 anni".
Torino: Festival della fotografia storica
di G.C. da http://www.pensieridintegrazione.it/
Dall’Australia degli aborigeni all’Alaska dei ghiacciai o di ciò che ne resta,
passando per una Mantova sott’acqua dopo l’alluvione del 1917, i navigli di
Milano e i birrifici del Biellese, per poi spingersi oltre le sponde dei fiumi del
Congo. È un affascinante viaggio spazio-temporale quello proposto da
“Memorandum”, il festival della fotografia storica che sta facendo tappa a
Torino fino al 20 luglio, nel Palazzo della Regione Piemonte in piazza
Castello 165. La quarta edizione della rassegna dedicata alla fotografia
storica presenta 14 nuove mostre provenienti da altrettanti archivi e tutte
ad ingresso gratuito. Un “tour fotografico” partito da Biella, che è approdato
a Torino al Palazzo della Giunta regionale del Piemonte e in seguito
toccherà Roma e Mantova.
Il fulcro del percorso di questa edizione di Memorandum è il progetto
fotografico–scientifico di Fabiano Ventura, fotografo e alpinista, che ha
documentato gli effetti dei cambiamenti climatici in Alaska, Caucaso e
Karakorum negli ultimi cento anni. Partendo dagli scatti di Vittorio Sella,
Ardito Desio, Massimo Terzano, Mor Von Dechy e Wlliam Osgood Field,
30
Ventura ha ripreso, ghiacciaio dopo ghiacciaio, le stesse identiche
inquadrature. Ne scaturisce un confronto fra storico e contemporaneo che
lascia stupefatti, sia per la bellezza delle immagini, sia per il profondo
mutamento del pianeta che rivelano.
L’esposizione è aperta al pubblico dal martedì alla domenica dalle 11 alle
19, con giorno di chiusura il lunedì.
Questo il programma completo:
Sulle tracce dei ghiacciai - Alaska, Caucaso e Karakorum: le fotografie
contemporanee di Fabiano Ventura a confronto con le immagini storiche di
cinque archivi internazionali. Magreb 1934 - Viaggio nell’Africa del Nord
1964-2014 a 50 anni dalla morte di Guglielmo Alberti, Centro Studi
Generazioni e Luoghi - Archivi Alberti La Marmora, Biella. L’Africa di
Giacomo Savorgnan di Brazzà, Archivio Storico Capitolino, Roma. Disegnati
con la luce: installazione video realizzata con materiali delle scuole di tutto
il Piemonte. Obiettivo sul fotografo - Un secolo di operatività del Gabinetto
fotografico Nazionale, ICCD Istituto Centrale del Catalogo e della
Documentazione, Roma. La memoria dell’aborigeno - L’arte fotografica di J.
W. Lindt, Museo Nazionale Preistorico Etnorafico “L. Pigorini”, Roma. Il
viaggio della lana, DocBi Centro Studi Biellesi, Biella. La dolcezza inquieta,
Archivio di Luigi Cavagna, Voghera. Il Movimento FLUXSUS 1962-2012,
Archivio Garghetti, Milano. I navigli di Chierichetti, Archivio Chierichetti,
Milano. Storia di una piccola grande birra, Archivio Birrificio Menabrea,
Biella. Cartoline dalla città sott’acqua, Archivio di Stato di Mantova. “19211953 Immagini dall’archivio privato del fotografo Franco Bogge”, Archivio
Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. Scatti d’autore, Festivaletteratura,
Mantova (in mostra sotto i portici di Piazza Castello).
Ad organizzare l’evento, l’Associazione Stilelibero e il Museo Regionale di
Scienze Naturali del Piemonte. In allegato, l’invito all’inaugurazione e una
foto in mostra.
Considerazioni di un idiota sulla foto d’arte
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Fotocamera per fotografie concettuali. Funziona ad acqua, anche calda.
31
(Avviso ai naviganti: questo è un articolo polemico e idiosincratico, direi
anzi che è un articolo idiota, da ἰδιώτης, ossia personale, privato, riferito a
se stesso. Dunque chi prevede di arrabbiarsi leggendolo, lo salti, e passi al
successivo).
La “giovane fotografia d’arte”, guai a chi la tocca. Per aver espresso
un suo parere personale, anzi un suo disinteresse personale verso certi
fotografi contemporanei che ”copiano quello che hanno fatto i pittori con
cinquanta, cento, anni di ritardo”, Gianni Berengo Gardin è stato
recentementedescritto su un blog di critica d’arte più o meno come un
fotografo rigido, privo di curiosità, diffidente e chiuso, che rilascia opinioni
facilone, superficiali e banali, vittima assieme alla sua generazione di
fotografi di un senso di inferiorità e di autodifesa, infine sfidato a sostenere
le sue affermazioni davanti a un “democratico” consesso di “fotografi-artisti
(e non), critici, galleristi, storici della fotografia e direttori di festival e
musei”. Mah…
Berengo è un signore, io invece sono un “idiota”, e non ho problemi a
fare esempi, senza necessità di fare nomi perché, ahinoi, non è questione
di persone, ma di tendenze quasi di massa…
Eccoti dunque, o giovane artista fotografo, una lista parziale,
incompleta e aggiornabile di suggerimenti per creare i tuoi prodotti,
etichettandoli come fotografia d’arte, in modo che sicuramente non
piacciano a me, ma piacciano a molti.
Parti per una profonda emotiva commovente indagine sul tuo vissuto,
fotografa tutti gli oggetti della tua esistenza, non ti chiedere perché a
qualcuno dovrebbe fregargliene qualcosa di come vivi il tuo vissuto, sei un
artista! Il tuo vissuto è universale! Parti con la tazza incrostata del tuo
gabinetto, prosegui col tuo spazzolino da denti spelacchiato. Anche i
tampax usati possono andare. Non avere limiti né pudori.
Donne nude. Non si sbaglia mai. Mica roba porno, eh. Erotismo
sublimato. Mettici specchi (molto simbolici), ottimo un crocifisso, molte
corde, macchie di incerta provenienza, magari sangue, così si capisce che
le tue foto non servono ai ragazzini per farsi le pippe. Se poi ti inventi uno
pseudonimo giapponese, hai fatto bingo.
Racconta con le foto l’alzheimer di tua nonna, povera stella, i suoi
oggetti, a lei ormai incomprensibili, la sua desolata camera da letto, la sua
modesta cucina, il suo telefonino orfano, mi raccomando mettici ampie dosi
di sfocatura metaforica e di ombre belle chiuse che suggeriscano il dramma
della perdita del mondo interiore, così il cliente si commuove.
Lavora sul corpo delle donne, col corpo delle donne, se sei una
fotografa usa il tuo stesso corpo, autoritratto e doviziosamente esposto in
tutti i suoi quarti e tagli, e se qualcuno osa fare dell’ironia dagli del solito
maiale maschilista.
Costruisci una storia romanzesca partendo da un album di fotografie
trovato su una bancarella, rifotografalo, filtralo, rimasticalo, devi solo avere
l’accortezza di chiamarlaarchive-art, oppure mash-up, in italiano rimediazione, infatti in genere sono lavori molto, molto rimediati.
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Serbatoio della creatività della fotocamera per foto concettuali.
Componi giganteschi cataloghi di oggetti in posa, meglio se
sovresposti, sottesposti, calligrafici, strapazzoni o neo-blossfeldiani, a colori
o in bianconero ma mi raccomando sempre in tonalità omogenee perché
magari il cliente cerca una nuance che stia bene in cadenza con il
rivestimento del divano; comunque guarda, per non sbagliare fai sempre
una serie in scala di grigi e bianchi, che stanno bene su tutto, fidati.
Studia
un
reportage
empatico
sul clocharddietro
casa, che
naturalmente
dovrai
presentare
come
un
poeta
negletto,
unoswami incompreso e affascinante, mostra la sua branda, il suo pattume,
il taccuino su cui scrive cose profondissime (però solo di sbieco, che non si
leggano davvero), la scatoletta di tonno che è il suo misero pasto,
naturalmente fai tutto con “grande rispetto per la dignità della persona” e
producilo su grande formato in stampa fine art.
Descrivi una comunità attraverso i ritratti: pianta una cabina di posa in
piazza, attacca ai muri dei volantini e aspetta che il narcisismo popolare
faccia il suo effetto, li avrai tutti in fila davanti all’obiettivo, dài che il
fotografo ci fa il ritratto, poi ce ne regala anche una copia, e tu in due
giorni ti fai una collezione di facce di anziani, facce di giovani, facce di
bambini, mi raccomando le rughe in megapixel e la perfetta definizione dei
peli sulle orecchie… Ci sono tutti? Bene, hai spiegato il mondo attraverso la
fisiognomica, Lombroso è vivo e scatta insieme a te.
Puoi fare lo stesso con i disastri della guerra spiegati con i ritratti dei
soldati, o delle mamme dei soldati, o ancora meglio delle mamme dei
soldati che mostrano la foto dei figli soldati morti in guerra. O con il
dramma dell’emarginazione raccontato con una bella galleria di facce di
emarginati, o con l’immigrazione raccontata dalle facce di di immigrati. Il
volto è lo specchio dell’anima, no? C’è bisogno d’altro? Vogliono qualcosa
più dell’anima? Il contesto? Ma sei un artista, mica un fotogiornalista!
Paesaggi, ritratti, still-life, puoi fare qualsiasi vecchia cosa purché
sia destrutturata:qualsiasi immagine banale diventa intellettuale, per
esempio, se la dividi in due, tre, dieci, ottanta frame e ne fai un bel
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fotomosaico alla Hockney.
In alternativa: scegli la nebbia. Nebbia fitta, fumo avvolgente, che
ricopre e smussa tutto, immergi qualsiasi soggetto nella nebbia e vedrai
che funziona, cos’hai fotografato? Non si capisce, dunque è arte. Ricorda,
un fotografo artista non vende quella cosa orrenda che è la realtà, vende
fumo.
Compra un bel supermacro e fai foto de-contestualizzate di dettagli
di oggetti, libri antichi, pentole, giocattoli, gusci di cozze, quel che cavolo
trovi in giro senza faticare tanto, poi cerca un critico che te le giustifichi
come “anti-realistica suggestione della cosalità”.
Essenzializza. Spoglia. Minimalizza. Togli. Una linea d’orizzonte. Mare
che confina col cielo. Nebbia che sfuma nella nebbia. Le distese omogenee
di qualsiasi cosa, purché irriconoscibile, sono oro. Meno c’è, nelle tue foto,
più lo spettatore intimidito pensa che ci sia.
Oppure inventati un personaggio: basta una modella, un amico,
vestili come dei deficienti, mettili in posa come delle bambole, in situazioni
incongrue o provocatorie, qualcuno troverà tutto molto dissacrante e
destabilizzante, e dopo, per dirla alla Cochi e Renato , “la galleria
fotografica adiacente / ti lancia sul mercatooooo / sottostanteeee”.
Non trascurare i teatrini di pupi tardo-decadenti, huysmansiani e
para-surrealisti, basta un po’ di sartoria teatrale e qualche passaggio al
mercato delle pulci, con cento euro di materiale di base te la cavi, un’amica
che ti fa da modella la trovi, poi osa: metti un maiale vivo su un frigorifero,
vedrai che qualcuno apprezza. Sangue, polvere, un salto dal macellaio a
prendere un po’ di frattaglie fresche (“Oh, ma quanti gatti c’ha a casa
lei?”), aiutano. Ah, poi bisogna desaturare bene, che mica deve sembrare
una “fotografia realistica” eh, ci capiamo.
Paciuga, spennella, mix-media, andrà bene tutto, ricorda le paroline
magiche, giclée, carta cotone, stampa su tela… ricorda che fai parte di una
grande tradizione ultracentenaria, quella dei fotografi che si vergognano di
fare fotografie.
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Perlustra luoghi desertificati, fabbriche dismesse, appartamenti
fatiscenti, cerca bene, c’è sempre la scrivania con gli oggetti “che sembrano
essere stati abbandonati all’improvviso”, la stanza “che ancora porta i segni
di chi la abitò”, carte da parati slabbrate, muri con la muffa e cacche di
topo valgono come il tesoro di Alì Babà, gli oggetti diventano orfani e
metonimici, erompe il senso della perdita, vai vai, che vai sul sicuro.
Fai una gita al mare d’inverno, si mangia bene e non c’è gente, poi
dopo la frittura mista e il caffettino fatti un giro in spiaggia e fotografa le
sdraio con la neve, gli ombrelloni coperti dal cellophane, non ti sbattere
tanto, il resto lo fai in post, tutte le visioni “straniate” di luoghi fuori
stagione vanno forte.
Vuoi restare in città? Fai un bel giretto col vespone, cerca vedute
urbane senza qualità, le periferie da cross-processare, fotografare
sbilenche, risaturare, ipersaturare, filtrare, flashare, crea alienazione
urbana a colpi di livelli e istogrammi di Lightroom. Avrai fatto un grande
“lavoro di analisi dello spazio contemporaneo”.
Filtra. Senza pudore, come i ragazzini: instagramma, clicca, stonda,
sfuma i bordini in nero, carica i colori: naturalmente la tua è una
consapevole assunzione dei linguaggi di massa, tu lo fai in maniera
intelligente perché sei l’artista, anzi la tua è una critica culturale alla nonfotografia di quei decerebrati col telefonino.
E naturalmente scegli la tua strada personale e unica, senza
timore scegli se vuoi stare fra i gurskini, i ruffini, i ghirrini, i becherini, gli
hoferini, i salgadini, i witkinini, i wallini, i fontanini, i lachapellini, gli arakini,
i maccurrini (se vedo in mostra un altro reportage sul Maha Kumb Mela o
sulla festa di Holi, giuro, chiamo la questura), nonché le woodmanine, le
goldinine, le shermanine…
Molte di queste cose, in realtà, quando le ho viste per la prima volta,
mi hanno incuriosito, interessato, in qualche caso convinto. Purtroppo
hanno colpito molti altri, che le hanno copiate senza neppure capirle per
intero.
Gli epigoni che pensano o fanno finta di non esserlo sono la malattia
dello scambio culturale. In questo non sono d’accordo con Berengo Gardin:
i nuovi fotografi artisti non copiano i pittori di cent’anni fa, si copiano
soprattutto fra loro, ma senza ammetterlo.
Eppure in generale tutte queste cose che vi racconto le vedo realizzate
di solito con maestria tecnica invidiabile, con padronanza assoluta degli
strumenti, e con una notevole capacità di assorbire, far proprio e riproporre
uno stile.
Non c’è dubbio, sono cose da professionisti dell’immagine.
Dell’immagine come processo, voglio dire. Ma verso quale meta procede il
processo?
La mia impressione: la competenza tecnica di tanti giovani foto-artisti
è notevolmente superiore alla loro immaginazione. Possiedono tutti gli
strumenti per fare qualcosa di buono, ma non sanno cosa. Sono alla
disperata di ricerca di idee che diano un senso alle cose che materialmente
sanno fare benissimo.
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Temo che sia frutto di una certa mania per i workshop ipertecnici che si
innesta su una mancanza di cultura visuale, mai imparata a scuola.
Se il problema dell’artista, un tempo, era forse avere grandi idee ma
deboli strumenti per realizzarle, un grande desiderio a cui non riusciva a
seguire l’atto, ed era quindi una sorta di impotentia coeundi, adesso
prevale un superomismo da Viagra digitale, però emotivamente frustrato:
come artista mi sento un vero stallone, purtroppo non riesco a
innamorarmi.
Ma non è una cosa di adesso. Quando i ragazzini bravini con i gessetti
andavano a studiare a bottega dall’artista-artigiano, la frustrazione del “so
come fare ma non so cosa fare” gli veniva risolta in partenza: per anni,
quel che imparavano tecnicamente a fare si esercitava su stili collaudati, su
canoni formali tradizionali, sicuri, da imparare ed applicare.
Il ragazzo di bottega prima stendeva i fondi, poi completava i
panneggi, poi magari gli veniva concesso qualche dettaglio delle mani, un
volto mai, o solo alla fine. Se era un artista davero, dopo qualche anno si
rompeva le scatole di rifare le cose del maestro e provava a cambiare
l’ovale del viso, il sorriso, la tavolozza, a fare del suo, con prudente
orgoglio. Quelli che ci riuscivano. Quelli che avevano i numeri.
Quel che accade con la fotografia, medium generoso, che accorcia
drasticamente l’apprendistato artigiano, è purtroppo questo: puoi fare, puoi
farlo benissimo, ma non saicosa fare.
Ma non c’è problema. Così come i software inclusi negli apparecchi e
quelli di post-produzione aiutano i dilettanti meno attrezzati ad evitare lo
scalino della competenza tecnica, così altri sistemi sociali dell’arte aiutano
gli aspiranti artisti senza ispirazione ad aggirare il blocco creativo. Ci sarà
sempre una galleria disposta, pagando, ad esporti come un astro nascente,
una rivista che lo confermerà, ci sarà un critico disposto, anche gratis, a
trovare alle tue opere un senso che neanche tu avevi immaginato.
Le tue cose saranno reclutate nel sistema, senza esame d’ammissione,
magari per essere subito masticate e risputate; se sei fortunato invece
saranno accettate e rilanciate. E tu ancora non saprai bene cosa hai fatto,
anche se saprai benissimo come l’hai fatto. Ma a quel punto non servirà più
darti da fare: a trovarti un senso ci penserà qualcun altro.
Beninteso, se qualcuno vuole appendersi sul divano le cose che ho
descritto sopra, scegliendo magari la cadenza giusta di colore, non ho nulla
da dire. Non ho nulla contro i complementi d’arredo. Né contro chi vuole
nobilitare con l’arte un divano letto (e riletto).
Tag: creatività, David Hockney, fotografia d'arte, Gianni Berengo Gardin
Scritto in creatività, critica, dispute | 154 Commenti »
Sei camere chiare
da http://undo.net/
PALAZZO BARBO', TORRE PALLAVICINA (BG) FINO AL 31.8
Sei fotografi dalla collezione di Massimo Minini. Immagini di Julia
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Margaret Cameron, Wilhelm Von Gloden, Ghitta Carell, Georges
Vantongerloo, Luigi Ghirri, Francesca Woodman sono ospitate nelle
sale del palazzo cinquecentesco.
Francesca Woodman, Untitled, Providence, Rhode Island, 1978, printed 2008, gelatine
silver estate
COMUNICATO STAMPA
a cura di Angela Madesani
Domenica 29 giugno, alle ore 11:00, nelle sale di Palazzo Barbò a
Torre Pallavicina, ha luogo l'inaugurazione della Mostra “Sei
camere chiare sei fotografi” della collezione Massimo Minini, a cura
di Angela Madesani.
L'evento si colloca all'interno della rassegna Odissea 2014 –
Festival della Valle dell'Oglio.
Immagini di Julia Margaret Cameron, Wilhelm Von Glöden, Ghitta
Carell, Georges Vantongerloo, Luigi Ghirri, Francesca Woodman
ospitate nelle sale affrescate del palazzo cinquecentesco. Viene
così a crearsi un dialogo tra la storia dell’arte e la storia della
fotografia attraverso sei importanti e non prevedibili protagonisti.
La scelta dei nomi è stata operata insieme alla curatrice da
Massimo Minini, che da oltre quarant’anni è titolare a Brescia di
una delle più interessanti gallerie italiane.
Minini è certo un gallerista, ma anche un attento quanto curioso
collezionista.
La tensione è quella di conoscere, di capire, di raccogliere.
La mostra conduce lo spettatore in un raffinato cammino che dalla
vittoriana Julia Margaret Cameron, che ha realizzato con la
fotografia quello che altri facevano in pittura, porta al Barone von
Glöden, con le sue atmosfere mediterranee e ai ritratti dell’alta
società di Ghitta Carell.
In Italia quasi sconosciute sono le immagini che l’artista belga
Georges Vantongerloo, firmatario del manifesto di De Stijl,
realizzava delle sue sculture.
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La mostra presenta anche i lavori di due artisti più vicini a noi,
l’americana Francesca Woodman con le sue immagini in bianco e
nero, di tematica esistenziale, e Luigi Ghirri con la sua sensibilità
per il colore e per il senso stesso delle immagini.
La mostra è accompagnata da un catalogo, edito da Shin, in cui è
pubblicata un’intervista a Massimo Minini di Angela Madesani,
realizzata in occasione della mostra.
Inaugurazione Domenica 29 giugno ore 11 , Palazzo Barbo'-via Torre 19,
24050 Torre Pallavicina (BG) - Apertura mostra: il sabato ore 17/20, domenica
ore 15/20. Ingresso gratuito
Lo choc delle neo-foto
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“Tutti fotografi!”… E adesso sfogate pure la vostra irritazione, amici
fotografi professionali. C’è poco da fare. Se lo dice ancheParis Match…
Vi ricordate lo slogan con cuifu lanciato nel 1949 l’aggressivo
settimanale francese? Le poids des mots, le choc des photos…
Non so se sarà davvero unochoc, non credo, l’iniziativa lanciata da Paris
Match per la prossima festa nazionale francese del 14 luglio.
“Costruiamo assieme il più grande album colelttivo di una sola giornata
in Francia, è l’invito semplice e suggestivo.
Spedite
alla piattaforma online già
predisposta,
le
immagini
geolocalizzate verranno via via spillate al loro posto su una mappa
interattiva della Francia. Una specie di Panoramioistantaneo.
“Mandate le vostre foto” ormai è un ritornello comune su tutti i siti del
giornalismo online. La più banale e semplice delle interazioni visuali con i
lettori.
Credo di avere già raccontato che l’idea è molto, molto più vecchia
dell’apparizione di Internet.
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E dunque pas de choc, e ormai anche pas de chic in questa giornata
dello scatto collettivo lanciata con enfasi (si conta sulle foto di tutti, dal
presidente della Repubblica in giù). La formula del ritratto fotografico
simultaneo e collettivo di un paese intero è altrettanto risaputa, fu la base
di una serie di volumi ideati dal fotografo Rick Smolan e dall’editore David
Elliot Cohen, dal titolo A Day in the Life of…, che ebbero una certa fortuna
negli anni Settanta, affidata però a uno squadrone di fotografi ben scelti.
L’idea di coinvolgere una massa di fotografi “volontari”, invece, nella
creazione di un album collettivo realizzato in un solo giorno, l’abbiamo
sperimentata prima noi, qui in Italia, sempre per un anniversario
patriottico: fu la grande impresa della Fiaf, dal titolo Passione Italia, che
per il centocinquantesimo compleanno dell’unità nazionale coinvolse 4500
fotoamatori e produsse quasi 35 mila immagini.
Neppure lo slogan “Tutti fotografi” che campeggia in testa al lancio
pubblicitario dell’iniziativa mi pare possa essere più scandaloso. Si può
discutere se fotografi equivalga a fotografanti, ma non si può negare che
oggi tutti quanti siamo in grado, in qualsiasi momento della nostra
giornata, di scattare una fotografia.
E dunque perché ve ne parlo? Per via di quella colonna di destra dove
compaiono i logodei sostenitori dell’iniziativa. Guardate bene.
Io mi sarei aspettato di trovarci almeno il marchio di una rete
telefonica. O di un providerdi servizi di condivisione di immagini: che so,
Instagram, Facebook, Flickr. Non ci sono. Forse non ne hanno bisogno, a
loro basta mettere il cesto sotto l’albero: le mele ci cadranno dentro da
sole. Spiego dopo.
Ci sono invece: una rete televisiva, una radiofonica, un’agenzia di
servizi turistici, il prestigioso Cnrs , e poi, e soprattutto: la Canon, la
federazione francese dei circoli fotoamatoriali, il Salon de la Photo, e il
festival fotogiornalistico Visa pour l’image.
Mobilitazione massiccia di istituzioni e imrpese della fotografia
tradizionale per un progetto che pende vistosamente sul versante della
neo-fotografia. Non vi sembra un po’ come se dicessero: be’, avete vinto
voi?
Ho qualche dubbio, infatti, che un’iniziativa così imponente, almeno
nelle intenzioni, possa diventarlo davvero se non si metterà in moto in
modo virale la spinta dei fotocellulari.
Proprio l’esperienza Fiaf di tre anni fa dimostrò che, sollecitando la sola
partecipazione di fotoamatori evoluti, per quanto massiccia, si può arrivare
a ordini di grandezza delle poche migliaia di persone coinvolte. Tante, in
senso tradizionale. Ma credo che l’obiettivo Paris Match sia più ambizioso,
non so, mi sembra.
Ma se lo è, e se riuscirà a totalizzare cifre più grandi, lo dovrà a
quella parte della fotografia che viene considerata una concorrente
pericolosa, una sorella infantile, da chi è solito frequentare istituzioni e
comprare macchine fotografiche evolute come quelle che portano i marchi
degli sponsor.
Di fatto, questa iniziativa mi sembra un grande placet, un tacito
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certificato di legittimazione rilasciato dalla fotografia tradizionale a quella
“disseminata”. Se non altro perché ne conferma l’ideologia, ne utilizza i
modi di condivisione e gli strumenti tecnici di restituzione (mentre gli
esempi che citavo prima avevano per destinazione essenzialmente un
libro).
In questo senso, anche se non sono direttamente coinvolti né
tecnicamente nè come sponsor, i social network dell’immagine condivisa
saranno, alla fine, i grandi beneficiari di questo gigantesco
spot pubblicitario.
Che si può dire? Che il mondo della fotografia evoluta si taglia le
gambe da solo? Che cede alla potenza del numero? Che si converte a un
mercato ormai decisivo per la sua stessa sopravvivenza?
Forse lo choc, oggi è questo. Lo choc delle neo-foto. Ed è difficile
resistergli.
Tag: David Elliot Cohen, Facebook, Fiaf, Instagram., Internet, Paris Match, Passione Italia, Rick
Smolan
Scritto in condivisione, Immagine e Internet, massificazione | 54 Commenti »
Fulvio Roiter
SPAZ IO EXC ALIBUR, VI GEVANO (PV) FINO AL 30 LUGLIO 20 14
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Amazzonia. I suoi reportage sono composti da scatti che
immortalano i volti di Indios ritratti nel loro ambiente naturale,
foglie bagnate dalla pioggia tropicale, fiumi immensi che tagliano
un verde intenso.
CO MUNICATO STAMPA
a cura di Luca Temolo Dall'Igna e Riccardo Mazzoni
Il Brasile non è solo Mondiali di Calcio e l'Amazzonia non è solo
Manaus dove l'Italia ha giocato contro l'Inghilterrà. La mostra
Amazzonia racconta attraverso lo sguardo di Fulvio Roiter, artista
colto e sensibile, un'altra Amazzonia che servizi e cronache
“mondiali” non riusciranno mai a raccontare.
Fulvio Roiter è uno dei più grandi fotografi del panorama italiano. I
suoi reportage, le sue romantiche immagini di Venezia, il suo
racconto per scatti del “Cantico delle Creature” di San Francesco
hanno commosso ed emozionato migliaia di persone.
Vincitore di numerosi premi e autore di reportage che hanno
segnato la storia della fotografia Roiter è l'autore delle emozionanti
immagini scattate in Amazzonia durante il suo primo viaggio in
Brasile.
Sono passati quasi sessant'anni da quel 1957 ma le 46 fotografie
esposte, 23 a colori e 23 in bianco e nero, restituiscono intatta
l’emozione di quei luoghi incantati: l'Altra Amazzonia che forse tra
non molto non potremo più vedere.
In questi scatti si percepisce palpabile il coinvolgimento di chi sta
dietro l’obbiettivo: volti di Indios ritratti nel loro ambiente
naturale, foglie larghissime bagnate dalla pioggia tropicale, fiumi
immensi che tagliano un verde intenso, semplici imbarcazioni di
pescatori e chiazze di vegetazione variopinta diventano dialoghi
dell’anima che commuovono e ispirano.
Questa mostra, insieme all'esposizione che si tiene presso la
Pinacoteca Civica Casimiro Ottone di Vigevano delle sue
spettacolari immagini dedicate al “Cantico delle Creature” di San
Francesco, segna l'inizio della collaborazione tra il Comune di
Vigevano, Spazio Excalibur, la galleria cittadina dedicata all'arte, il
fumetto, l'illustrazione e la fotografia, la Fondazione Franco Fossati
e Fermo Immagine il Museo del manifesto cinematografico di
Milano.
Spazio Excalibur, Corso Genova, 114 Vigevano (PV)- tutti i sab e dom 10-13 e
15-18- Ingresso libero
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Scianna e i grandi scatti della sua vita
di Leonardo Jattarelli da http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/
«I miei ritratti della memoria»
L’ultima foto del suo magnifico libro Visti&Scritti ha pensato di dedicarla al
suo portinaio di Milano, faccia rugosa, occhi buoni. Ha da poco compiuto
ottant’anni:
«E tutti in famiglia gli hanno ripetuto per l’ennesima volta che è ora di
smettere... È vero, ma è vero soprattutto che la sua vita è il lavoro. Non ha
potuto costruirsi un’alternativa. Quest’uomo mi ha insegnato molto. Ogni
volta che i miei malanni e le mie stanchezze prendono il sopravvento penso
a Edoardo, e questo mi aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva».
Eccolo, uno dei tanti ritratti allo specchio di un maestro della fotografia,
Ferdinando Scianna, settant’anni, di Bagheria. Il suo antico, elegante
accento siciliano mentre ti parla ha il sapore di salsedine e di sigaro, e se
sfogli il suo grande “album di famiglia” ti verrebbe voglia di averlo
conosciuto quest’uomo quand’era ragazzino e la macchina fotografica per
lui era già la stilografica dello sguardo. Ferdinando Scianna sarà a Roma
oggi all’Auditorium Parco della Musica (alle 21 al Teatro Studio, poi alle
22,30 firma copie nella libreria Notebook dell’Auditorium) per parlare del
suo straordinario libro, edito da Contrasto, ma soprattutto per un incontro
d’eccezione «che ho fortemente voluto. Perché lui non è soltanto uno che di
mestiere recita ma riesce a far coincidere la lucidità storica con la materia
del suo essere attore». Con Toni Servillo, l’ormai mitico Jep Gambardella
della Grande bellezza da Oscar «parleremo di cinema, teatro e ovviamente
di fotografia di cui è grande conoscitore. Lo conobbi un giorno mentre
recitava un testo di Eduardo, me lo fece incontrare Mimmo Palladino. Con
Toni abbiamo sempre discusso molto e questo ci ha aiutati a farci
comprendere». In “Visti&Scritti”, Scianna riesce con l’abilità di uno scrittore
dal sapore neorealista a dare corpo ad un sogno che rivendica quasi come
diritto: «Ho 70 anni e fotografo da 50. Queste cose qui si fanno solo ora e
volevo dare vita ad un libro di scritti e ritratti che non fosse soltanto una
silloge di immagini ma il racconto di un lungo dialogo. È un volume
autobiografico e le persone che ci abitano dentro appartengono alla mia
piazza». Nella piazza ci sono tutti: i volti anonimi e le facce della storia, da
una Donna con bambino ritratta a Licata nel ’67 ad un Venditore di coltelli
di Bagheria (1982) fino alla schiera degli illustri, Leonardo Sciascia e Rafael
Alberti, Jean-Luis Barrault e Jorge Luis Borges, Monica Bellucci ed Enzo
Ferrari, Emilio Greco e Renato Guttuso e Montale, Monicelli, Rosi e Roland
Barthes, Scorsese e Skàrmeta...
42
Scianna, cosa è rimasto della Bagheria dell’infanzia negli “scatti”
della sua vita?
«La rivendicazione dell’identità è un fatto inevitabile. Andai via dalla Sicilia
a 22 anni quando la mia educazione sentimentale si era ormai già arricchita
della cultura, dei sapori, delle luci dell’isola. Con tutto ciò alla fine misuri la
tua esistenza e la fotografia mi ha insegnato che gli altri siamo noi e che il
nostro destino è nelle mani di chi incontriamo».
Due personaggi su tutti hanno plasmato la sua formazione:
Leonardo Sciascia e Cartier Bresson.
«Sciascia lo incontrai quando avevo 19 anni. Lui mi trattò da grande e
apprezzò le mie foto sulle feste popolari a Bagheria. È lo scrittore,
l’intellettuale che mi ha donato una prospettiva, che mi ha strutturato. È
stato un maestro, un padre, un amico. Mi disse, una volta, che sulle
persone ci si può scrivere anche una tesi di laurea. Bresson è arrivato molto
tempo dopo, una vicinanza che è durata oltre vent’anni».
Nei 350 scatti in bianco e nero contenuti nel suo libro,
accompagnati dalle parole di un taccuino personale, si avverte il
peso della memoria...
«Perché la parola “memoria” per me è sinonimo di “fotografia”. Per la prima
volta con l’invenzione della fotografia abbiamo potuto conoscere le facce
dei nostri nonni. Siamo stati a tu per tu con le tragedie della Storia e con le
sue parentesi dolci, come le gambe della Monroe. Ogni foto costruisce
memoria, fosse anche per un solo istante».
Qual è il ritratto che le sta più a cuore?
«Sentimentalmente sono legato ad una foto che scattai a Sciascia nel ’64 a
Racalmuto. Nella parrocchia di Sant’Anna, davanti all’urna con il Cristo
morto, vidi due bambine, mi avvicinai fulmineo e con la coda dell’occhio
vidi Leonardo che si avvicinava. Aspettai che si inserisse nella scena, poi si
voltò verso di me e scattai».
E accadde qualcosa...
«Cinquant’anni dopo ricevetti una mail da una certa Antonietta La Mantia.
Mi disse che avrebbe voluto tanto una stampa di quella foto. Era lei una
delle due bambine ritratte con Sciascia. L’altra, mi disse, era morta. E come
scrivo nel mio libro, appresi quella notizia “con un dolore di lutto. Perché
quelle due bambine le ho sempre sentite parte della mia famiglia”».
+ PER APPROFONDIRE Scianna scatti vita memoria foto fotografia
Togliamocelo dalla faccia
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Credevo fosse una battuta, o tuttalpiù un giochino grafico che rimbalza qua
e là sul Web, al quale anche il vostro Fotocrate non ha saputo resistere.
Invece no, eccolo lì il cartello, visto qualche giorno fa in profumeria:
“Provate le nuove creme aeffetto Photoshop“. Sta diventando, pare,
un’espressione comune nel mondo della cosmetica, ecco un ritaglio da una
rinomata rivista femminile:
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“Il sogno di tutte? Avere a disposizione Photoshop incorporato nel nostro
specchio, per cancellare immediatamente rughe, colorito spento, pori
dilatati e macchie e ottenere un viso radioso e impeccabile in poco tempo”.
È anche una moda virale sul Web, non c’è programmino di
fotoritocco online che non abbia rapidamente aggiunto, negli ultimi tempi,
una gamma di strumenti “makeup” fatti apposta per addolcire, levigare,
plasmare i lineamenti del viso (fotografato): antirughe, fondotinta,
rossetto, eyeliner, mascara, allunga-ciglia, eccetera, tutto in un clic.
Ma per l’appunto, finora erano le trousse elettroniche che imitavano i
trucchi del visagista. La partita s’è ribaltata: adesso è il virtuosismo degli
strumenti di fotoritocco, evidentemente molto più potenti di quelli
artigianali, a prendere il sopravvento, a fare da modello, da esempio, da
parametro. La cosmetica invidia la cibernetica.
Mi chiedo, se questo è lo scenario, se abbiamo un qualche senso
contromisure come quelle invocate da due esponenti politiche americane,
bipartisan, la repubblicana Ileana Ros-Lehtinen e la democratica Lois
Capps, che invitano il mondo della pubblicità e dell’editoria femminile a
fermarsi in tempo, a smettere di proporre modelle-dee photoshoppate in
modo frustrante e irraggiungibile per le donne di questo mondo.
Non che un rischio non esista. Le diete estreme a base di pixel, che
riducono le forme delle modelle a dimensioni impossibilmente sottili, sono
state giustamente additate come istigatrici di pericolosissimi e frustranti
tentativi di emulazione da parte delle adolescenti, fonti di complessi di
inferorità e di crolli di autostima che possono anche avere conseguenze
drammatiche nei caratteri più deboli. Una serie di misure anti-photoshop
vennero inserite in Francia all’interno di una legge sulla cura dei distrubi
alimentari.
44
Siamo già oltre, temo, la possibilità di arrestare la deriva
dell’emulazione. Qualunque ragazzina, oggi, può stilizzarsi, ritoccarsi,
dimagrirsi, levigarsi con pochi colpi di mouse, otap di dita, magari
direttamente sul display dello smartphone, prima di condividere sulsocial
network preferito la propria immagine irreale, magari maldestramente e
ridicolmente pasticciata.
Ma se fosse solo un gioco di società, come appiccicare sulle proprie foto
ricordo glistickers di Hello Kitty o i cuoricini, non ci sarebbe nulla di
drammatico. Il corpo reale e il divertimento virtuale resterebbero in mondi
separati, “guarda come sarei se…” va benissimo, se resta a questo stadio
siamo ancora nella dimensione del gioco, e se la cosmetica della propria
immagine fotografica resta confinato in un mondo diverso da quello della
cosmetica da cassetto del bagno di casa. Rimane una governabile gestione
del proprio look virtuale.
Ma se i persuasori occulti e palesi, il mondo dei media, i giornali
femminili, la pubblicità dei cosmetici, se insomma tutto l’apparato
ideologico che crea il “discorso della bellezza” e dell’adeguatezza sociale
rovescia il quadro, e indica nei miracoli senza limite di Photoshop (che può
farti dimagrire fino a svanire, può lisciarti come una lastra di marmo, come
nessuna crema reale potrebbe mai fare) il modello da imitare, il parametro
da raggiungere, se l’effetto Photoshop, che ovviamente sbaraglia qualsiasi
effetto cosmetico tradizionale, diventa la pietra di paragone dimogni
cosmetica manuale, allora quella soglia di distinzione, che è una soglia di
sicurezza, temo sia stata ormai abolita.
Chi pensa che “effetto Photoshop” sia solo una divertente metafora,
dovrebbe riflettere meglio sul messaggio che questa retorica trasmette.
Quando la più importante immagine di se stessa che un’adolescente vuole
arrivi alla cerchia delle proprie amicizie non è la faccia con cui esce di casa
al mattino, ma la foto postata su Facebook, quando è a suon di likeche una
adolescente misura il proprio successo relazionale, allora “effetto
photoshop” rischia di diventare non più una scelta, ma un obbligo sociale,
per cercare disperatamente di essere “alla pari”.
Un messaggio terribilmente efficace. E non per l’abilità del pubblicitario
o del giornalista di turno. Perché dimosra come “Photoshop”, non come
nome commerciale, non come strumento reale e del tutto legittimo di
lavoro grafico, ma come metafora, idea, modello, sia già entrata nel nostro
immaginario attraverso il linguaggio, e abbia fatto il nido nell’armadio delle
nostre metafore d’uso comune.
Credo
abbia
ragione
Riccardo
Falcinelli, che
in
un
opportunissimo manuale di autodifesa dai tranelli del visuale (Critica
portatile al visual design, sul quale meriterà di tornare) definisce Photoshop
“una forma simbolica”, ossia una struttura fondamentale, ancorché
inconscia, della nostra cultura, una struttura artificiale ma scambiata per
naturale, attraverso la quale interpretiamo il mondo che vediamo, come è
stata ed è tuttora, dopo oltre mezzo millennio, la prospettiva rinascimentale
con tutte le sue regole.
La pubblicità, questo lo sappiamo tutti, è un supplizio di Tantalo, la
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pubblicità non ci vende certi prodotti di cui abbiamo bisogno, ma ci rivende
la nostra insoddisfatta brama di volerli tutti. L’immagine fotografica,
accuratamente costruita, l’ha sempre aiutata nel compito, meendoci sotto
naso merci raggiungibili per (non) soddisfare desideri irraggiungibili.
Ora l’immagine artificiale, creata in laboratorio, diventa essa stessa il
modello irraggiungibile. L’immagine pubblicitaria sta raggiungendo la sua
perfezione: non vende più merci, vende se stessa.
Ma sotto il cerone di crema o di pixel ci siamo sempre noi, esseri
grandiosamente imperfetti, e lo sappiamo. Tutto il rischio dipende da
quanto sappiamo sopportarlo, accettarlo, rivendicarlo.
Tag: Ileana Ros-Lehtinen, Lois Capps, Photoshop, Riccardo Falcinelli
Scritto in Senza categoria | 11 Commenti »
Foto mia, proteggimi dall’arte
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
In alto i fotocellulari: i musei si arrendono.
Nell’impossibilità materiale – dicono loro – di reprimere uno per uno
tutti i fotografanti fotocellularici, o nella poca disponibilità – temo io – dei
custodi a trasformarsi in repressori di scatti abusivi a tempo pieno, si
adotta la soluzione italiana: quel che non riesci a vietare, lo autorizzi.
Grazie al decreto cultura approvato il 22 maggio scorso dal Consiglio
dei Ministri, nessuno potrà più dirvi nulla se fotografate con
lo smartphone la Veneredel Botticelli, o qualsiasi altra opera d’arte esposta
da un’istituzione culturale pubblica.
L’articolo 12, infatti, corregge la normativa vigente con queste
disposizioni:
Sono in ogni caso libere, al fine dell’esecuzione dei dovuti controlli, le
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seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto,
per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o
espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio
culturale: 1) la riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non
comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a
sorgenti luminose, né l’uso di stativi o treppiedi [...].
Va da sé, ripeto, che è una specie di sanatoria. Perché questo
permesso, i visitatori dei musei se lo prendono da soli da tempo,
intrepidamente e senza alcuno scrupolo.
Selve di fotofonini s’innalzano come le lance dei guerrieri di fronte al
condottiero vittorioso, da ogni comitiva, il povero cicerone parla al vento
mentre i turisti non guardano affatto l’opera che hanno fatto tanta strada
per vedere di persona, ma la sbirciano attraverso il filtro del display.
Peggio per quei pochi visitatori obsoleti che, pervicacemente,
pretenderanno ancora di guardare l’opera a occhio nudo, sempre che
riescano a intravvederla nei varchi fra uno schermino e un altro.
Mai come oggi viaggiare è una strategia per accumulare immagini. Ma
per cosa? per farne cosa? Come Fotocrazia ha già raccontato, un
movimento organizzato di nomeInvasioni Digitali ha rivendicato il diritto di
fotocattura della visita a un museo in nome della condivisione orizzontale
della cultura, con qualche ragionamento non del tutto infondato sulle
modalità odierne di comunicazione delle esperienze vissute e della dialettica
culturale.
Del resto, erano stati i sindacati dei custodi del Louvre, già qualche
anno fa, a prenderela parti dei visitatori col dito sul clic, in nome di un
semplice atto di tolleranza: chi siamo noi per proibire al pubblico di godere
come crede l’opera, chi siamo noi per imporre un tipo di approccio (quello
classico, contemplativo e passivo) piuttosto che un altro (acquisitivo e
attivo)? Anche qui, c’è del vero.
Evito quindi giudizi snob. Però mi chiedo ancora cosa se ne faranno,
tornati a casa, i visitatori smartfonici, di quelle immaginette atroci,
deformate nella prospettiva e falsate nei colori che saranno riusciti a
catturare dalla seconda fila, magari con le teste in mezzo.
Le faranno vedere agli amici? Le verseranno tutte sui social network? In
verità, vedo più pizze in tavola e piedi in spiaggia, su Facebook e
Instagram, che Goya e Giotto. Allora è un consumo privato? Le
riguarderanno nostalgici, a casa? La scaricheranno in un hard disk, ne
faranno collezione? Come una volta avrebbero comprato le cartoline? Ma
qualsiasi foto trovata con Google e scaricata in due secondi è molto
migliore di quella fatta da sé.
Credo che non faranno nulla di tutto questo. Probabilmente non
riguarderanno mai la loro pessima foto di un Mantegna, di sicuro non più di
una volta, e presto la cancelleranno dalla memoria del fotofonino. Le uniche
immagini con qualche possibilità di secondo sguardo saranno forse i selfie a
braccio teso, ecco la mia facciona che si staglia sulla Madonna del
Cardellino, la pubblico subito su Facebook/Instagram…
Ma anche in questo caso, durerà qualche secondo, due sorrisi, e fine.
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Non si fotografa più per portare via. Si fotografa per essere lì. È del tutto
sbagliato pensare che la fotofagia bulimica dei visitatori di museo sia la
premessa a un consumo differito, domestico, privato dell’opera.
La fotografia rabdomantica da museo fa parte di una etologia
dell’incontro con l’opera. Fotografare col cellulare è un gesto che si va ad
aggiungere a quelli che accompagnano l’approccio del visitatore comune
all’opera d’arte, incombenza imbarazzante, che mette in soggezione.
Avvicinarsi. Un passo avanti, leggere il cartellino con il titolo (operazione
che in gerere dura di più della contemplazione del quadro). Passo indietro,
contemplazione assorta. E qui comincia il problema.
Cosa si fa, come ci si deve comportare quando si guarda un quadro?
Dove si deve guardare? Per quanto tempo? In che modo? Nessuno ce l’ha
insegnato a scuola. A scuola ci hanno insegnato solo a dire “che bello!”. Ma
quando siamo al museo, qualcosa dobbiamo pur fare. Immobili davanti
all’opera, attoniti, indifesi, cerchiamo ansiosamente strategie che non
possediamo.
Dove le cerchiamo? Nelle nostre protesi connettive-difensive. Il
cellulare ci viene in soccorso, fornendoci la sicurezza di un gesto tanto
inutile quanto abituale, rassicurante, consolatorio.
Anche in altri casi della vita ci sono gesti che facciamo non perché
servano a qualcosa, ma per reagire a una situazione di imbarazzo con
un’attività. Quando ci inquadra una fotocamera, sorridiamo anche se non
siamo felici o non c’è nulla che ci diverta.
Una volta, ci si portava la mano alla bocca, per nascondere l’imbarazzo
(che sta di casa fra i denti, pare). Se siamo inquadrati da una videocamera,
facciamo magari ciao con la manina. Ultimamente il gesto compulsivo è
fatto di linguacce, smorfiette.
Non sono veri e propri gesti, sono reazioni corporali difensive a stimoli
di disagio. Così una delle foto-torturatrici di Abu Ghraib giustificò il suo
compulsivo pollice alzato sopra corpi martoriati di progionieri iracheni in
quei terrificanti souvenir.
Bene, di fronte al disagio in cui ci mette l’opera d’arte, il fotocellulare ci
offre un’attività preimpostata, un gesto ripetitivo abituale e facile, che
sostituisce quel rapporto che non riusciamo a stabilire con l’opera. Non
riuscendo a fare mia l’opera con gli occhi, me ne approprio con la
fotocamerina, vice-occhio tecnologico. Con lei almeno sono sicuro che
qualcosa “ho preso”.
Esperienza delegata, sguardo vicario. Lenisce quella variante della
sindrome di Stendhal che ci quando abbiamo l’impressione di non aver
“capito” l’opera d’arte che dovrebbe riempirci di emozione. Il fotocellulare,
ansiolitico del museum-goer.
Vogliamo proibire al visitatore disarmato di proteggersi come può dalla
soggezione che gli incute l’arte? Sarebbe crudele, dopo avergli sottratto
colpevolmente protezioni migliori, per esempio una seria educazione visuale
a scuola, dove l’insegnamento della storia dell’arte è stato ridotto a
dimensioni ridicole e umilianti per un paese come il nostro.
Ma il modo in cui si “consuma” un’opera d’arte non è indifferente. Ha
48
conseguenze. Cambia il modo in cui l’arte viene vista. E quindi cambia il
modo in cui viene presentata, offerta alla vista. Un approccio sempre più
filtrato dai display, in un mondo dove ogni contenuto ci giunge da un
display, solleciterà una presentazione dell’arte tendente al display. Non sto
scherzando, questa coalescenza delle opere in lightbox sta già avvenendo.
Trasformate da abili curatori in schermi luminosi, le opere d’arte
saranno pronte per la loro transustanziazione in copie più vere del vero. Il
sogno paradossale di Ando Gilardi, musei fatti solo di copie digitali ad
altissima definizione (e gli originali, a degradarsi pure in cantina) potrebbe
realizzarsi.
[Grazie a Massimo Stefanutti per la segnalazione.]
Tag: Ando Gilardi, arte, fotocellulari, fotografie, Invasionidigitali, Louvre, musei, smartphone
Scritto in fotografie private, Immagine e Internet, massificazione | 20 Commenti »
Helmut Newton e sua moglie, erotismo, amore,
paesaggi
di Paola Corapi da http://icon.panorama.it/
Lo sguardo di due grandi in mostra a Berlino
Monica Bellucci, Monte Carlo 2001 (Credit: Helmut Newton Estate)
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Nel mese di giugno 2014 la Fondazione Helmut Newton di Berlino
(helmutnewton) compie 10 anni e il museo apre le porte al pubblico con
una doppia mostra: Helmut Newton-Alice Springs: Us and Them e Sex
and Landscapes con scatti inediti di Newton (dal 5 giugno al 16 novembre
2014).
Alice Springs, all'anagrafe June Browne nella vita faceva tutt'altro, era
un'attrice. Nel '48 sposò Helmut Newton, che all'epoca era un giovane
fotografo in fuga dai nazisti e che si guadagnava da vivere scattando
ritratti. Nel 70 lo sostituì, scattando, al suo posto, una pubblicità per le
sigarette Gitanes. Da lì continuò a scattare sotto lo pseudonimo di Alice
Springs (nomignolo scelto puntando il dito a caso su una mappa
dell'Australia).
Us and Them é una mostra, diventata anche libro di Newton e di sua
moglie, un progetto che parla della loro vita insieme, che include degli
autoritratti, dei ritratti scattati reciprocamente in momenti di grande
intimità e allo stesso tempo ritratti di attori e artisti. Fotografie scattate tra
gli anni 80 e gli anni 90 fianco a fianco a Parigi.
Il progetto Sex and Landscapes, invece, viene realizzato da Newton tra il
1974 e il 2001 e indaga l'aspetto più intimo e meno noto dell'artista
mostrando scatti dei famosi nudi vicino ai suoi inediti paesaggi. Newton ci
rivela un mondo fatto di marine cupe e minacciose, statue barocche, onde
fragorose, lunghe strade in pieno deserto sotto cieli di piombo, un parco di
Berlino al crepuscolo, palazzi enigmatici di città notturne, ombre di
aeroplani, il tutto intrecciato a immagini di forte erotismo, sempre con un
tocco di grande stile e di glamour.
Così lo descrive June Newton: Non volle mai definirsi un artista. Preferiva
definirsi un mercenario che affittava il suo talento a chi pagava di più».
«Scattavo foto ovunque – racconta l'artista nella sua autobiografia - ma
non ho mai pensato che il mio lavoro fosse una forma d'arte. In ogni caso
volevo prostituire questo talento che mi era stato dato.
A Helmut piaceva molto parlare del suo lavoro, soprattutto degli aneddoti
che comportava, ma non gradiva le spiegazioni e le analisi. Tutto ciò che
aveva da dire era già nelle fotografie che, affermava, parlano da sole. E se
alle sue immagini possiamo dare infinite interpretazioni è perché l’artista vi
ha espresso in pieno le proprie complessità e contraddizioni.
Una sorta di vasta autobiografia visuale all’interno della quale l’artista non
fa distinzione fra le fotografie eseguite per un cliente o quelle scattate per
lui. E la sua vera forza sta nella capacità di rimanere fedele al suo punto di
vista in ogni circostanza.
Newton accettava la realtà ma solo per renderla sogno: fu questa - estesa
alla costante sessuale espressa in forme crudeli, ossessive- una delle chiavi
del suo successo
Helmut Newton-Alice Springs: Us and Them e Sex and Landscapes Fondazione Newton,
Berlino, dal 5 giugno al 16 novembre 2014
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Fotografi, fotografanti e fotografisti
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Via dei Fotografi, Scanno. Screenshot da Google Street View
“Se hai l’ambizione di fare fotografie migliori, di impegnarti davvero per le
tue immagini e le tue capacità. Se hai l’ambizione di guardare quel che
fanno gli altri con le loro fotografie. In questi casi, sei un fotografo”.
Bisogna proprio affrontarlo, il nodo di questa parolina, di questo
sostantivo identitario che chiunque può mettersi addosso (“siamo tutti
fotografi”) e chiunque altro può contestare (“la tua non è fotografia”).
Mi convince la definizione di Joel Colberg, critico e blogger sempre da
ascoltare (grazie a Federico Ciamei per la segnalazione) che ha sollevato
una discussione su Facebook, che qui vorrei ampliare.
Mi piace perché sgombra il campo da un equivoco lessicale: la sua
definizione prescinde dal fatto che chi la indossa legittimamente sia o meno
un professionista.
Cavare o non cavare da vivere dalle fotografie non fa il fotografo, per
Colberg, e sottoscrivo: perché “fotografo” non appartiene allo stesso
gruppo semantico di “chirurgo” o “elettricista”. Quel che fa il fotografo, dice
Colberg, è un certo atteggiamenti verso la fotografia.
Qualcuno obietta, insinuante: sì, ma mentre non puoi operare
un’appendicite in salotto, puoi cucinare una cena per gli amici, eppure non
sei lo stesso un “cuoco”. Siamo sicuri? Quando mangio bene a casa degli
amici, faccio i “complimenti al cuoco”. Diciamo che uso una metafora con
una sfumatura iperbolica? Forse.
In effetti, chi mi scrive una mail non lo chiamo “scrittore”. Ma io stesso,
che scrivo per mestiere, che ricavo da vivere dall’uso professionale
(speriamo…) delle parole, non mi definirei mai “uno scrittore”, e allora
come la mettiamo?
La mettiamo che le parole non vivono ben ordinate sugli scaffali dei
lessicografi, ma nella realtà, dove devono aderire in qualche modo alle cose
reali che descrivono.
E la fotografia, presa nella sua interezza, non è una professione, ma
una pratica. Anzi, un insieme molto vasto di pratiche che condividono l’uso
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di uno strumento e l’ideologia del complesso rapporto con la realtà che
quello strumento porta storicamente con sé.
Quando la fotografia è nata, c’erano fotografi, ma non c’erano
professionisti. E quando i professionisti fotografi arrivarono, si divisero il
campo del fotografico con gli amatori fotografi, e le storie della fotografia si
occupano degli uni e degli altri
Forse più dei secondi che dei primi, perché per molto tempo
l’innovazione, la creatività, la freschezza e la sperimentazione soni stati
soprattutto dalla parte degli amatori. E se dovessimo riservare il monopolio
della parola fotografo ai soli professionisti, ci troveremmo nel paradosso di
avere una storia della fotografia piena di non-fotografi.
Via della Fotografia, Roma. Screenshot da Google Street View
La fotografia è una pratica, dicevo, quindi chi pratica una delle sue
pratiche si definisce per quel che fa, e per come lo fa, e non per quel
che è. La definizione di Colberg, come altre simili che potrebbero esserle
affiancate, toglie la parola “fotografo” dal campo delle parole identitarie,
per assegnarla come è giusto al campo delle parole efficienti.
La differenza fra fotografo o non fotografo,in questa prospettiva, la fa
quella che Colberg chiama “ambizione”, che io mi limiterei a chiamare
“intenzione”. Badate bene: ambizione o intenzione che sia, non
garantiscono il risultato. Si può dunque anche essere cattivi fotografi.
Può darsi che questa definizione piaccia comunque ai “fotografi” che ci
tendono a distinguersi dai “fotografanti”. Può darsi che accettino di
concedere il certificato di qualità che sembra racchiuso in quella parola
anche ai non professionisti, purché condividano una certa dose di
consapevolezza, competenza, eccetera, a differenza della massa
smartphonizzata.
Sì, perché finora questa polemica sulle etichette io l’ho sentita venire
soprattutto da chi usa la parola “fotografo” non tanto per definire se stesso
in positivo, ma per definire in negativo gli altri. Io sono “fotografo” vuol
dire: “e voi non lo siete”. Una definizione più escludente che identitaria.
52
A questi, posso solo dire una cosa: attenti, la definizione con cui questo
articolo comincia si applica perfettamente anche al ragazzino Instagram.
Anche lui vuol “fare fotografie migliori” (con i filtrini), anche lui “si impegna
per le sue immagini” (le perfeziona, le organizza, le condivide), anche lui
“guarda quel che fanno gli altri con le fotografie” (infatti ci mette i like).
E allora, siamo daccapo?
All’inizio, qualcuno pensò di definire i fotografi che praticano la
fotografia con molto accanimento e grande intensità con la parola
“fotografisti”. Potrebbe andare bene questa, a chi percepisce, magari con
ragione, che i confini del suo mestiere sono sotto assedio? A me non
sembra offensiva. Parola di giornalista.
——PS Per chi non sembra aver colto il senso delle illustrazioni di questo
articolo, spiego: pensavo fosse chiaro il paradosso di queste due fotografie
che raffigurano strade intitolate ai fotografi e alla fotografia (le due parole
che i “veri fotografi” vorrebbero monopolizzare), ma sono state scattate da
una fotocamera senza fotografo.
Tag: FedericoCiamei, fotografante, fotografia, fotografo, Instagram.
, Joel Colberg
Scritto in definizioni, dispute, fotoamatori | 53 Commenti »
L’anarchico che ha messo a fuoco Napoli
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Il caso compose, il mondo sorrise, Giannini colse e fermò. Una
collaborazione ideale.
© Guido Giannini, g.c.
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Le fotografie si fanno, essenzialmente, per un motivo solo: perché il
fotografo è lì quando una fotografia chiede di esistere. Milioni di fotografie
nella storia volevano esistere, ma il fotografo non c’era, era in ritardo, o era
distratto. Guido Giannini c’era.
Lo ammetto, con un po’ di imbarazzo: prima di conoscerlo di persona,
qualche giorno fa a Napoli, il suo nome era per me uno di quelli incontrati
in qualche libro, in qualche citazione. Nei due volumi che Guido ha avuto la
gentilezza di donarmi ho riconosciuto alcune immagini in cui mi ero già
imbattuto.
Ma un fotografo non è mai una sola immagine antologizzata da qualche
parte. È un racconto che dura una vita. E quella di Giannini, classe 1930, è
una vita che dovrebbe essere raccontata.
Potrei dire di Guido quello che ne scrisse l’amico e collega Ermanno
Rea: di lui, anche adesso, “non so quasi nulla di personale”. Lui non si
racconta.
Dalle testimonianze degli amici lo so anarchico dolce e inflessibile,
sarcastico e divertito,fotografo a ondate, vocazione incastrata tra un
mestiere napoletano e un altro: compreso uno napoletanissimo, l’uomo del
banco dei pegni. So che cominciò con un’Agfa avuta in regalo, so che
Napoli è il suo gigantesco zoo umano, riserva di caccia fantastica e
inesauribile.
So che non ha mai fotografato davvero la cronaca rude, né fatto ritratti
ai potenti, se non a quelli che gli piacevano, per dire: Giulio Einaudi, Bruno
Munari, Raffaele La Capria… So che è diventato il personaggio di un
romanzo di Fabrizia Ramodino.
So che le prime foto importanti gliele comprò Pannunzio per Il Mondo. E
a dire il vero, pannunziane sono le sue fotografie migliori: stracci di vita di
strada colti a guardia bassa, quando la realtà si diverte a mettere assieme
gli opposti, ad accostare i diversi, quando la realtà prende in giro se stessa.
Non aneddoti, ma incontri fortuiti“come quello di un parapioggia e di
una macchina per cucire su un tavolo anatomico”, avrebbero detto i
surrealisti.
Un gigantesco sacco che cammina con le sue gambe, un cavallo bardato
e ormeggiato a un molo, un Calvariovivente, una nobile mendicante
violinista davanti a una vetrina di lusso, una sedia sul mare che aspetta il
marinaio Godot…
Ci sono due serie a cui Giannini ha dedicato una passione e una
costanza particolari: quella dei ragazzi che si baciano, quella dei lettori che
leggono.
Due
apparizioni
contingenti
dell’Amore
che
rapisce,
travolge, sposta le automobili…
La terza apparizione della passione è quella che non ha fotografato,
perché è quella stessa passione che fa la fotografia: è l’amore per il mondo,
amore arrabbiato, amore indulgente per le cose come sono, anche storte,
anche sbagliate. Ma so di lui che, fedele al bianco e nero, scelse la pellicola
a colori per racontare i Rom dei bordi della metropoli, e credo voglia dire
qualcosa.
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© Guido Giannini, g.c.
E mi chiedo: di cosa parlano le storie della fotografia se non parlano dei
fotografi come Giannini. E mi chiedo, che cosa è la fotografia se non è
quell’amore controverso, anarchico e dolce per il mondo.
Tag: Bruno Munari, Ermanno Rea, Fabrizia Ramodino, Giulio Einaudi, Guido Giannini, Il
Mondo, Mario Pannunzio, Napoli, Raffaele La Capria
Scritto in Autori, fotogiornalismo | Un Commento »
Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore
www.fotoantenore.org
[email protected]
a cura di G.Millozzi
www.gustavomillozzi.it
[email protected]
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