Fascicolo testi di letteratura cavalleresca

letteratura italiana – ams
il poema cavalleresco italiano
Antologia di testi / ii
[Poliziano, Stanze per la giostra, frontespizio, , ed. Firenze, 1500 ca.]
anno accademico 2009-2010
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Il romanzo cavalleresco (Quattro e primo Cinquecento)
Indice
 Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato
L’esordio del poema
p. 3
Le fontane di Ardenna
p. 6
Il duello di Orlando e Agricane
p. 8
La funzione del prologo
p. 12
 Angelo Poliziano, Stanze per la giostra
Esordio
Simonetta e la metamorfosi di Iulio
 Luigi Pulci, Morgante
Cantare I
p. 15
p. 16
p. 18
Il palazzo incantato e il battesimo di Morgante
p. 26
La professione di fede di Margutte
p. 28
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Matteo Maria Boiardo
L’esordio del poema e l’apparizione di Angelica
[I, i, 1-3; 9-13; 19-35]
1.
Signori e cavallier che ve adunati
Per odir cose dilettose e nove,
Stati attenti e quieti, ed ascoltati
La bella istoria che ’l mio canto muove;
E vedereti i gesti smisurati,
L’alta fatica e le mirabil prove
Che fece il franco Orlando per amore
Nel tempo del re Carlo imperatore.
2.
Non vi par già, signor, meraviglioso
Odir cantar de Orlando inamorato,
Ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
È da Amor vinto, al tutto subiugato;
Né forte braccio, né ardire animoso,
Né scudo o maglia, né brando affilato,
Né altra possanza può mai far diffesa,
Che al fin non sia da Amor battuta e presa.
3.
Questa novella è nota a poca gente,
Perché Turpino istesso la nascose,
Credendo forse a quel conte valente
Esser le sue scritture dispettose,
Poi che contra ad Amor pur fu perdente
Colui che vinse tutte l’altre cose:
Dico di Orlando, il cavalliero adatto.
Non più parole ormai, veniamo al fatto.
4.
La vera istoria di Turpin ragiona
Che regnava in la terra de oriente,
Di là da l’India, un gran re di corona,
Di stato e de ricchezze sì potente
E sì gagliardo de la sua persona,
Che tutto il mondo stimava niente:
Gradasso nome avea quello amirante,
Che ha cor di drago e membra di gigante.
5.
E sì come egli adviene a’ gran signori,
Che pur quel voglion che non ponno avere,
E quanto son difficultà maggiori
La desiata cosa ad ottenere,
Pongono il regno spesso in grandi errori,
Né posson quel che voglion possedere;
Così bramava quel pagan gagliardo
Sol Durindana e ‘l bon destrier Baiardo.
6.
Unde per tutto il suo gran tenitoro
Fece la gente ne l’arme asembrare,
Ché ben sapeva lui che per tesoro
Né il brando, né il corsier puote acquistare;
Duo mercadanti erano coloro
Che vendean le sue merce troppo care:
Però destina di passare in Franza
Ed acquistarle con sua gran possanza.
7.
Cento cinquanta millia cavallieri
Elesse di sua gente tutta quanta;
Né questi adoperar facea pensieri,
Perché lui solo a combatter se avanta
Contra al re Carlo ed a tutti guerreri
Che son credenti in nostra fede santa;
E lui soletto vincere e disfare
Quanto il sol vede e quanto cinge il mare.
8.
Lassiam costor che a vella se ne vano,
Che sentirete poi ben la sua gionta;
E ritornamo in Francia a Carlo Mano,
Che e soi magni baron provede e conta;
Imperò che ogni principe cristiano,
Ogni duca e signore a lui se afronta
Per una giostra che aveva ordinata
Allor di maggio, alla pasqua rosata.
9.
Erano in corte tutti i paladini
Per onorar quella festa gradita,
E da ogni libroe, da tutti i confini
Era in Parigi una gente infinita.
Eranvi ancora molti Saracini,
Perché corte reale era bandita,
Ed era ciascaduno assigurato,
Che non sia traditore o rinegato.
10.
Per questo era di Spagna molta gente
Venuta quivi con soi baron magni:
Il re Grandonio, faccia di serpente,
E Feraguto da gli occhi griffagni;
Re Balugante, di Carlo parente,
Isolier, Serpentin, che fôr compagni.
Altri vi fôrno assai di grande afare,
Come alla giostra poi ve avrò a contare.
11.
Parigi risuonava de instromenti,
Di trombe, di tamburi e di campane;
Vedeansi i gran destrier con paramenti,
Con foggie disusate, altiere e strane;
E d’oro e zoie tanti adornamenti
Che nol potrian contar le voci umane;
Però che per gradir lo imperatore
Ciascuno oltra al poter si fece onore.
12.
Già se apressava quel giorno nel quale
Si dovea la gran giostra incominciare,
Quando il re Carlo in abito reale
Alla sua mensa fece convitare
Ciascun signore e baron naturale,
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Che venner la sua festa ad onorare;
E fôrno in quel convito li assettati
Vintiduo millia e trenta annumerati.
13.
Re Carlo Magno con faccia ioconda
Sopra una sedia d’ôr tra’ paladini
Se fu posato alla mensa ritonda:
Alla sua fronte fôrno e Saracini,
Che non volsero usar banco né sponda,
Anzi sterno a giacer come mastini
Sopra a tapeti, come è lor usanza,
Sprezando seco il costume di Franza. […]
24.
- Magnanimo segnor, le tue virtute
E le prodezze de’ toi paladini,
Che sono in terra tanto cognosciute,
Quanto distende il mare e soi confini,
Mi dàn speranza che non sian perdute
Le gran fatiche de duo peregrini,
Che son venuti dalla fin del mondo
Per onorare il tuo stato giocondo.
19.
Mentre che stanno in tal parlar costoro,
Sonarno li instrumenti da ogni banda;
Ed ecco piatti grandissimi d’oro,
Coperti de finissima vivanda;
Coppe di smalto, con sotil lavoro,
Lo imperatore a ciascun baron manda.
Chi de una cosa e chi d’altra onorava,
Mostrando che di lor si racordava.
25.
Ed acciò ch’io ti faccia manifesta,
Con breve ragionar, quella cagione
Che ce ha condotti alla tua real festa,
Dico che questo è Uberto dal Leone,
Di gentil stirpe nato e d’alta gesta,
Cacciato del suo regno oltra ragione:
Io, che con lui insieme fui cacciata,
Son sua sorella, Angelica nomata.
20.
Quivi si stava con molta allegrezza,
Con parlar basso e bei ragionamenti:
Re Carlo, che si vidde in tanta altezza,
Tanti re, duci e cavallier valenti,
Tutta la gente pagana disprezza,
Come arena del mar denanti a i venti;
Ma nova cosa che ebbe ad apparire,
Fe’ lui con gli altri insieme sbigotire.
26.
Sopra alla Tana ducento giornate,
Dove reggemo il nostro tenitoro,
Ce fôr di te le novelle aportate,
E della giostra e del gran concistoro
Di queste nobil gente qui adunate;
E come né città, gemme o tesoro
Son premio de virtute, ma si dona
Al vincitor di rose una corona.
21.
Però che in capo della sala bella
Quattro giganti grandissimi e fieri
Intrarno, e lor nel mezo una donzella,
Che era seguita da un sol cavallieri.
Essa sembrava matutina stella
E giglio d’orto e rosa de verzieri:
In somma, a dir di lei la veritate,
Non fu veduta mai tanta beltate.
27.
Per tanto ha il mio fratel deliberato,
Per sua virtute quivi dimostrare,
Dove il fior de’ baroni è radunato,
Ad uno ad un per giostra contrastare:
O voglia esser pagano o baptizato,
Fuor de la terra lo venga a trovare,
Nel verde prato alla Fonte del Pino,
Dove se dice al Petron di Merlino.
22.
Era qui nella sala Galerana,
Ed eravi Alda, la moglie de Orlando,
Clarice ed Ermelina tanto umana,
Ed altre assai, che nel mio dir non spando,
Bella ciascuna e di virtù fontana.
Dico, bella parea ciascuna, quando
Non era giunto in sala ancor quel fiore,
Che a l’altre di beltà tolse l’onore.
28.
Ma fia questo con tal condizione
(Colui l’ascolti che si vôl provare):
Ciascun che sia abattuto de lo arcione,
Non possa in altra forma repugnare,
E senza più contesa sia pregione;
Ma chi potesse Uberto scavalcare,
Colui guadagni la persona mia:
Esso andarà con suoi giganti via. -
23.
Ogni barone e principe cristiano
In quella libroe ha rivoltato il viso,
Né rimase a giacere alcun pagano;
Ma ciascun d’essi, de stupor conquiso,
Si fece a la donzella prossimano;
La qual, con vista allegra e con un riso
Da far inamorare un cor di sasso,
Incominciò così, parlando basso:
29.
Al fin delle parole ingenocchiata
Davanti a Carlo attendia risposta.
Ogni om per meraviglia l’ha mirata,
Ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta
Col cor tremante e con vista cangiata,
Benché la voluntà tenia nascosta;
E talor gli occhi alla terra bassava,
Ché di se stesso assai si vergognava.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
30.
"Ahi paccio Orlando!" nel suo cor dicia
"Come te lasci a voglia trasportare!
Non vedi tu lo error che te desvia,
E tanto contra a Dio te fa fallare?
Dove mi mena la fortuna mia?
Vedome preso e non mi posso aitare;
Io, che stimavo tutto il mondo nulla,
Senza arme vinto son da una fanciulla.
33.
Stava ciascuno immoto e sbigottito,
Mirando quella con sommo diletto;
Ma Feraguto, il giovenetto ardito,
Sembrava vampa viva nello aspetto,
E ben tre volte prese per partito
Di torla a quei giganti al suo dispetto,
E tre volte afrenò quel mal pensieri
Per non far tal vergogna allo imperieri.
31.
Io non mi posso dal cor dilibroire
La dolce vista del viso sereno,
Perch’io mi sento senza lei morire,
E il spirto a poco a poco venir meno.
Or non mi val la forza, né lo ardire
Contra d’Amor, che m’ha già posto il freno;
Né mi giova saper, né altrui consiglio,
Ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio."
34.
Or su l’un piede, or su l’altro se muta,
Grattasi ‘l capo e non ritrova loco;
Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta,
Divenne in faccia rosso come un foco;
E Malagise, che l’ha cognosciuta,
Dicea pian piano: "Io ti farò tal gioco,
Ribalda incantatrice, che giamai
De esser qui stata non te vantarai."
32.
Così tacitamente il baron franco
Si lamentava del novello amore.
Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco,
Non avea già de lui men pena al core,
Anci tremava sbigotito e stanco,
Avendo perso in volto ogni colore.
Ma a che dir più parole? Ogni barone
Di lei si accese, ed anco il re Carlone.
35.
Re Carlo Magno con lungo parlare
Fe’ la risposta a quella damigella,
Per poter seco molto dimorare.
Mira parlando e mirando favella,
Né cosa alcuna le puote negare,
Ma ciascuna domanda li suggella
Giurando de servarle in su le carte:
Lei coi giganti e col fratel si libroe.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Orlando innamorato
Le fontane di Ardenna [I, iii, 32-50]
32.
Dentro alla selva il barone amoroso
Guardando intorno se mette a cercare:
Vede un boschetto d’arboselli ombroso,
Che in cerchio ha un fiumicel con onde chiare.
Preso alla vista del loco zoioso,
In quel subitamente ebbe ad intrare,
Dove nel mezo vide una fontana,
Non fabricata mai per arte umana.
38.
Questa era la rivera dello amore.
Già non avea Merlin questa incantata;
Ma per la sua natura quel liquore
Torna la mente incesa e inamorata.
Più cavallieri antiqui per errore
Quella unda maledetta avean gustata;
Non la gustò Ranaldo, come odete,
Però che al fonte se ha tratto la sete.
33.
Questa fontana tutta è lavorata
De un alabastro candido e polito,
E d’ôr sì riccamente era adornata,
Che rendea lume nel prato fiorito.
Merlin fu quel che l’ebbe edificata,
Perché Tristano, il cavalliero ardito,
Bevendo a quella lasci la regina,
Che fu cagione al fin di sua ruina.
39.
Mosso dal loco, il cavalier gagliardo
Destina quivi alquanto riposare;
E tratto il freno al suo destrier Bagliardo,
Pascendo intorno al prato il lascia andare.
Esso alla ripa senz’altro riguardo
Nella fresca ombra s’ebbe adormentare.
Dorme il barone, e nulla se sentiva;
Ecco ventura che sopra gli ariva.
34.
Tristano isventurato, per sciagura
A quella fonte mai non è arivato,
Benché più volte andasse alla ventura,
E quel paese tutto abbia cercato.
Questa fontana avea cotal natura,
Che ciascun cavalliero inamorato,
Bevendo a quella, amor da sé cacciava,
Avendo in odio quella che egli amava.
40.
Angelica, dapoi che fu libroita
Dalla battaglia orribile ed acerba,
Gionse a quel fiume, e la sete la invita
Di bere alquanto, e dismonta ne l’erba.
Or nova cosa che averite odita!
Ché Amor vôl castigar questa superba.
Veggendo quel baron nei fior disteso,
Fu il cor di lei subitamente acceso.
35.
Era il sole alto e il giorno molto caldo,
Quando fu giunto alla fiorita riva
Pien di sudore il principe Ranaldo;
Ed invitato da quell’acqua viva
Del suo Baiardo dismonta di saldo,
E de sete e de amor tutto se priva;
Perché, bevendo quel freddo liquore,
Cangiosse tutto l’amoroso core.
41.
Nel pino atacca il bianco palafreno,
E verso di Ranaldo se avicina.
Guardando il cavallier tutta vien meno,
Né sa pigliar libroito la meschina.
Era dintorno al prato tutto pieno
Di bianchi gigli e di rose di spina;
Queste disfoglia, ed empie ambo le mano,
E danne in viso al sir de Montealbano.
36.
E seco stesso pensa la viltade
Che sia a seguire una cosa sì vana;
Né aprezia tanto più quella beltade,
Ch’egli estimava prima più che umana,
Anci del tutto del pensier li cade;
Tanto è la forza de quella acqua strana!
E tanto nel voler se tramutava,
Che già del tutto Angelica odiava.
42.
Pur presto si è Ranaldo disvegliato,
E la donzella ha sopra a sé veduta,
Che salutando l’ha molto onorato.
Lui ne la faccia subito se muta,
E prestamente nello arcion montato
Il parlar dolce di colei rifiuta.
Fugge nel bosco per gli arbori spesso:
Lei monta il palafreno e segue apresso.
37.
Fuor della selva con la mente altiera
Ritorna quel guerrer senza paura.
Così pensoso, gionse a una riviera
De un’acqua viva, cristallina e pura.
Tutti li fior che mostra primavera,
Avea quivi depinto la natura;
E faceano ombra sopra a quella riva
Un faggio, un pino ed una verde oliva.
43.
E seguitando drieto li ragiona:
- Ahi franco cavalier, non me fuggire!
Ché t’amo assai più che la mia persona,
E tu per guidardon me fai morire!
Già non sono io Ginamo di Baiona,
Che nella selva ti venne assalire,
Non son Macario, o Gaino il traditore;
Anci odio tutti questi per tuo amore.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
44.
Io te amo più che la mia vita assai,
E tu me fuggi tanto disdignoso?
Vòltati almanco, e guarda quel che fai,
Se ‘l viso mio ti die’ far pauroso,
Che con tanta ruina te ne vai
Per questo loco oscuro e periglioso.
Deh tempra il strabuccato tuo fuggire!
Contenta son più tarda a te seguire.
45.
Che se per mia cagion qualche sciagura
Te intravenisse, o pur al tuo destriero,
Serìa mia vita sempre acerba e dura,
Se sempre viver mi fosse mistiero.
Deh volta un poco indrieto, e poni cura
Da cui tu fuggi, o franco cavalliero!
Non merta la mia etade esser fuggita,
Anci, quando io fuggessi, esser seguita. 46.
Queste e molte altre più dolci parole
La damigella va gettando invano.
Bagliardo fuor del bosco par che vole,
Ed escegli de vista per quel piano.
Or chi saprà mai dir come si dole
La meschinella e batte mano a mano?
Dirottamente piange, e con mal fiele
Chiama le stelle, il sole e il cel crudele.
47.
Ma chiama più Ranaldo crudel molto,
Parlando in voce colma di pietate.
"Chi avria creduto mai che quel bel volto Dicea lei - fosse senza umanitate?
Il poema cavalleresco italiano - testi
Già non me ha il cor amor fatto sì stolto
Ch’io non cognosca che mia qualitate
Non se convene a Ranaldo pregiato;
Pur non die’ sdegnar lui de essere amato.
48.
Or non doveva almanco comportare
Ch’io il potessi vedere in viso un poco,
Ché forse alquanto potea mitigare,
A lui mirando, lo amoroso foco?
Ben vedo che a ragion nol debbo amare;
Ma dove è amor, ragion non trova loco
Per che crudel, villano e duro il chiamo,
Ma sia quel che si vôle, io così l’amo."
49.
E così lamentando ebbe voltata
Verso il faggio la vista lacrimosa:
- Beati fior, - dicendo - erba beata,
Che toccasti la faccia graziosa,
Quanta invidia vi porto a questa fiata!
Oh quanto è vostra sorte aventurosa
Più della mia! Che mo torria a morire,
Se sopra lui me dovesse venire. 50.
Con tal parole il bianco palafreno
Dismonta al prato la donzella vaga,
E dove giacque Ranaldo sereno,
Bacia quelle erbe e di pianger se appaga,
Così stimando il gran foco far meno;
Ma più se accende l’amorosa piaga.
A lei pur par che manco doglia senta
Stando in quel loco, ed ivi se adormenta.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Il duello di Orlando e Agricane
[I, xviii, 29-53; I, xix, i, 6-16]
29.
Orlando ed Agricane un’altra fiata
Ripreso insiem avean crudel battaglia;
La più terribil mai non fo mirata:
L’arme l’un l’altro a pezo a pezo taglia.
Vede Agrican sua gente sbaratata,
Né li pô dare aiuto che li vaglia,
Però che Orlando tanto stretto il tene,
Che star con seco a fronte li conviene.
35.
Però te voglio la vita lasciare,
Ma non tornasti più per darmi inciampo!
Questo la fuga mi fe’ simulare,
Né vi ebbi altro libroito a darti scampo.
Se pur te piace meco battagliare,
Morto ne rimarrai su questo campo;
Ma siami testimonio il celo e il sole
Che darti morte me dispiace e duole. -
30.
Nel suo secreto fie’ questo pensiero:
Trar fuor di schiera quel conte gagliardo,
E poi che occiso l’abbia in su il sentiero
Tornar alla battaglia senza tardo;
Però che a lui par facile e legiero
Cacciar soletto quel popol codardo;
Ché tutti insieme, e il suo re Galafrone,
Non li stimava quanto un vil bottone.
36.
Il conte li rispose molto umano,
Perché avea preso già de lui pietate:
- Quanto sei - disse - più franco e soprano,
Più di te me rincresce in veritate,
Che serai morto, e non sei cristiano,
Ed andarai tra l’anime dannate;
Ma se vôi il corpo e l’anima salvare,
Piglia baptismo, e lasciarotte andare. -
31.
Con tal proposto se pone a fuggire,
Forte correndo sopra alla pianura;
Il conte nulla pensa a quel fallire,
Anci crede che il faccia per paura;
Senza altro dubbio se il pone a seguire.
E già son gionti ad una selva oscura;
Aponto in mezo a quella selva piana
Era un bel prato intorno a una fontana.
37.
Disse Agricane, e riguardollo in viso:
- Se tu sei cristiano, Orlando sei.
Chi me facesse re del paradiso,
Con tal ventura non lo cangiarei;
Ma sino or te ricordo e dòtti aviso
Che non me parli de’ fatti de’ Dei,
Perché potresti predicare in vano:
Diffenda il suo ciascun col brando in mano. -
32.
Fermosse ivi Agricane a quella fonte,
E smontò dello arcion per riposare,
Ma non se tolse l’elmo della fronte,
Né piastra o scudo se volse levare;
E poco dimorò che gionse il conte,
E come il vide alla fonte aspettare,
Dissegli: - Cavallier, tu sei fuggito,
E sì forte mostravi e tanto ardito!
38.
Né più parole: ma trasse Tranchera,
E verso Orlando con ardir se affronta.
Or se comincia la battaglia fiera,
Con aspri colpi di taglio e di ponta;
Ciascuno è di prodezza una lumera,
E sterno insieme, come il libro conta,
Da mezo giorno insino a notte scura,
Sempre più franchi alla battaglia dura.
33.
Come tanta vergogna pôi soffrire
A dar le spalle ad un sol cavalliero?
Forse credesti la morte fuggire:
Or vedi che fallito hai il pensiero.
Chi morir può onorato, die’ morire;
Ché spesse volte aviene e de legiero
Che, per durare in questa vita trista,
Morte e vergogna ad un tratto s’acquista. -
39.
Ma poi che il sole avea passato il monte,
E cominciosse a fare il cel stellato,
Prima verso il re parlava il conte:
- Che farem, - disse - che il giorno ne è andato? Disse Agricane con parole pronte:
- Ambo se poseremo in questo prato;
E domatina, come il giorno pare,
Ritornaremo insieme a battagliare. -
34.
Agrican prima rimontò in arcione,
Poi con voce suave rispondia:
- Tu sei per certo il più franco barone
Ch’io mai trovassi nella vita mia;
E però del tuo scampo fia cagione
La tua prodezza e quella cortesia
Che oggi sì grande al campo usato m’hai,
Quando soccorso a mia gente donai.
40.
Così de acordo il libroito se prese.
Lega il destrier ciascun come li piace,
Poi sopra a l’erba verde se distese;
Come fosse tra loro antica pace,
L’uno a l’altro vicino era e palese.
Orlando presso al fonte isteso giace,
Ed Agricane al bosco più vicino
Stassi colcato, a l’ombra de un gran pino.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
41.
E ragionando insieme tuttavia
Di cose degne e condecente a loro,
Guardava il conte il celo e poi dicia:
Questo che or vediamo, è un bel lavoro,
Che fece la divina monarchia;
E la luna de argento, e stelle d’oro,
E la luce del giorno, e il sol lucente,
Dio tutto ha fatto per la umana gente. -
47.
Rispose il conte: - Quello Orlando sono
Che occise Almonte e il suo fratel Troiano;
Amor m’ha posto tutto in abandono,
E venir fammi in questo loco strano.
E perché teco più largo ragiono,
Voglio che sappi che ‘l mio core è in mano
De la figliola del re Galafrone
Che ad Albraca dimora nel girone.
42.
Disse Agricane: - Io comprendo per certo
Che tu vôi de la fede ragionare;
Io de nulla scienzia sono esperto,
Né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
E roppi il capo al mastro mio per merto;
Poi non si puoté un altro ritrovare
Che mi mostrasse libro né scrittura,
Tanto ciascun avea di me paura.
48.
Tu fai col patre guerra a gran furore
Per prender suo paese e sua castella,
Ed io qua son condotto per amore
E per piacere a quella damisella.
Molte fiate son stato per onore
E per la fede mia sopra alla sella;
Or sol per acquistar la bella dama
Faccio battaglia, ed altro non ho brama. -
43.
E così spesi la mia fanciulezza
In caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
Né mi par che convenga a gentilezza
Star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
Ma la forza del corpo e la destrezza
Conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete ed al dottore sta bene:
Io tanto saccio quanto mi conviene. -
49.
Quando Agricane ha nel parlare accolto
Che questo è Orlando, ed Angelica amava,
Fuor di misura se turbò nel volto,
Ma per la notte non lo dimostrava;
Piangeva sospirando come un stolto,
L’anima, il petto e il spirto li avampava;
E tanta zelosia gli batte il core,
Che non è vivo, e di doglia non muore.
44.
Rispose Orlando: - Io tiro teco a un segno,
Che l’arme son de l’omo il primo onore;
Ma non già che il saper faccia men degno,
Anci lo adorna come un prato il fiore;
Ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
Chi non pensa allo eterno Creatore;
Né ben se può pensar senza dottrina
La summa maiestate alta e divina. -
50.
Poi disse a Orlando: - Tu debbi pensare
Che, come il giorno serà dimostrato,
Debbiamo insieme la battaglia fare,
E l’uno o l’altro rimarrà sul prato.
Or de una cosa te voglio pregare,
Che, prima che veniamo a cotal piato,
Quella donzella che il tuo cor disia,
Tu la abandoni, e lascila per mia.
45.
Disse Agricane: - Egli è gran scortesia
A voler contrastar con avantaggio.
Io te ho scoperto la natura mia,
E te cognosco che sei dotto e saggio.
Se più parlassi, io non risponderia;
Piacendoti dormir, dòrmite ad aggio,
E se meco parlare hai pur diletto,
De arme, o de amore a ragionar t’aspetto.
51.
Io non puotria patire, essendo vivo,
Che altri con meco amasse il viso adorno;
O l’uno o l’altro al tutto serà privo
Del spirto e della dama al novo giorno.
Altri mai non saprà, che questo rivo
E questo bosco che è quivi d’intorno,
Che l’abbi riffiutata in cotal loco
E in cotal tempo, che serà sì poco. -
46.
Ora te prego che a quel ch’io dimando
Rispondi il vero, a fé de omo pregiato:
Se tu sei veramente quello Orlando
Che vien tanto nel mondo nominato;
E perché qua sei gionto, e come, e quando,
E se mai fosti ancora inamorato;
Perché ogni cavallier che è senza amore,
Se in vista è vivo, vivo è senza core. -
52.
Diceva Orlando al re: - Le mie promesse
Tutte ho servate, quante mai ne fei;
Ma se quel che or me chiedi io promettesse,
E se io il giurassi, io non lo attenderei;
Così potria spiccar mie membra istesse,
E levarmi di fronte gli occhi miei,
E viver senza spirto e senza core,
Come lasciar de Angelica lo amore. -
9
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
53.
Il re Agrican, che ardea oltra misura,
Non puote tal risposta comportare;
Benché sia al mezo della notte scura,
Prese Baiardo, e su vi ebbe a montare;
Ed orgoglioso, con vista sicura,
Iscrida al conte ed ebbelo a sfidare,
Dicendo: - Cavallier, la dama gaglia
Lasciar convienti, o far meco battaglia. -
4.
Giunse a traverso il colpo disperato,
E il scudo come un latte al mezzo taglia;
Piagar non puote Orlando, che è affatato,
Ma fraccassa ad un ponto e piastre e maglia.
Non puotea il franco conte avere il fiato,
Benché Tranchera sua carne non taglia;
Fu con tanta ruina la percossa,
Che avea fiaccati i nervi e peste l’ossa.
54.
Era già il conte in su l’arcion salito,
Perché, come se mosse il re possente,
Temendo dal pagano esser tradito,
Saltò sopra al destrier subitamente;
Unde rispose con l’animo ardito:
- Lasciar colei non posso per niente,
E, se io potessi ancora, io non vorria;
Avertila convien per altra via. -
5.
Ma non fo già per questo sbigotito,
Anci colpisce con maggior fierezza.
Gionse nel scudo, e tutto l’ha libroito,
Ogni piastra del sbergo e maglia spezza,
E nel sinistro fianco l’ha ferito;
E fo quel colpo di cotanta asprezza,
Che il scudo mezo al prato andò di netto,
E ben tre coste li tagliò nel petto.
55.
Sì come il mar tempesta a gran fortuna,
Cominciarno lo assalto i cavallieri;
Nel verde prato, per la notte bruna,
Con sproni urtarno adosso e buon destrieri;
E se scorgiano a lume della luna
Dandosi colpi dispietati e fieri,
Ch’era ciascun di lor forte ed ardito.
Ma più non dico: il canto è qui finito.
6.
Come rugge il leon per la foresta,
Allor che l’ha ferito il cacciatore,
Così il fiero Agrican con più tempesta
Rimena un colpo di troppo furore.
Gionse ne l’elmo, al mezo della testa;
Non ebbe il conte mai botta maggiore,
E tanto uscito è fuor di cognoscenza
Che non sa se egli ha il capo, o se egli è senza.
Canto xix
1.
Segnori e cavallieri inamorati,
Cortese damiselle e graziose,
Venitene davanti ed ascoltati
L’alte venture e le guerre amorose
Che fer’ li antiqui cavallier pregiati,
E fôrno al mondo degne e gloriose;
Ma sopra tutti Orlando ed Agricane
Fier’opre, per amore, alte e soprane.
7.
Non vedea lume per gli occhi niente,
E l’una e l’altra orecchia tintinava;
Sì spaventato è il suo destrier corrente,
Che intorno al prato fuggendo il portava;
E serebbe caduto veramente,
Se in quella stordigion ponto durava;
Ma, sendo nel cader, per tal cagione
Tornolli il spirto, e tennese allo arcione.
2.
Sì come io dissi nel canto di sopra,
Con fiero assalto dispietato e duro
Per una dama ciascadun se adopra;
E benché sia la notte e il celo oscuro,
Già non vi fa mestier che alcun si scopra,
Ma conviensi guardare e star sicuro,
E ben diffeso di sopra e de intorno,
Come il sol fosse in celo al mezo giorno.
3.
Agrican combattea con più furore,
Il conte con più senno si servava;
Già contrastato avean più de cinque ore,
E l’alba in oriente se schiarava:
Or se incomincia la zuffa maggiore.
Il superbo Agrican se disperava
Che tanto contra esso Orlando dura,
E mena un colpo fiero oltra a misura.
8.
E venne di se stesso vergognoso,
Poi che cotanto se vede avanzato.
"Come andarai - diceva doloroso
- Ad Angelica mai vituperato?
Non te ricordi quel viso amoroso,
Che a far questa battaglia t’ha mandato?
Ma chi è richiesto, e indugia il suo servire,
Servendo poi, fa il guidardon perire.
9.
Presso a duo giorni ho già fatto dimora
Per il conquisto de un sol cavalliero,
E seco a fronte me ritrovo ancora,
Né gli ho vantaggio più che il dì primiero.
Ma se più indugio la battaglia un’ora,
L’arme abandono ed entro al monastero:
Frate mi faccio, e chiamomi dannato,
Se mai più brando mi fia visto al lato."
10
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
10.
Il fin del suo parlar già non è inteso,
Ché batte e denti e le parole incocca;
Foco rasembra di furore acceso
Il fiato che esce fuor di naso e bocca.
Verso Agricane se ne va disteso,
Con Durindana ad ambe mano il tocca
Sopra alla spalla destra de riverso;
Tutto la taglia quel colpo diverso.
11.
Il crudel brando nel petto dichina,
E rompe il sbergo e taglia il pancirone;
Benché sia grosso e de una maglia fina,
Tutto lo fende in fin sotto il gallone:
Non fo veduta mai tanta roina.
Scende la spada e gionse nello arcione:
De osso era questo ed intorno ferrato,
Ma Durindana lo mandò su il prato.
12.
Da il destro lato a l’anguinaglia stanca
Era tagliato il re cotanto forte;
Perse la vista ed ha la faccia bianca,
Come colui ch’è già gionto alla morte;
E benché il spirto e l’anima li manca,
Chiamava Orlando, e con parole scorte
Sospirando diceva in bassa voce:
- Io credo nel tuo Dio, che morì in croce.
13.
Batteggiame, barone, alla fontana
Prima ch’io perda in tutto la favella;
E se mia vita è stata iniqua e strana,
Non sia la morte almen de Dio ribella.
Il poema cavalleresco italiano - testi
Lui, che venne a salvar la gente umana,
L’anima mia ricoglia tapinella!
Ben me confesso che molto peccai,
Ma sua misericordia è grande assai. 14.
Piangea quel re, che fo cotanto fiero,
E tenia il viso al cel sempre voltato;
Poi ad Orlando disse: - Cavalliero,
In questo giorno de oggi hai guadagnato,
Al mio parere, il più franco destriero
Che mai fosse nel mondo cavalcato;
Questo fo tolto ad un forte barone,
Che del mio campo dimora pregione.
15.
Io non me posso ormai più sostenire:
Levame tu de arcion, baron accorto.
Deh non lasciar questa anima perire!
Batteggiami oramai, ché già son morto.
Se tu me lasci a tal guisa morire,
Ancor n’avrai gran pena e disconforto. Questo diceva e molte altre parole:
Oh quanto al conte ne rincresce e dole!
16.
Egli avea pien de lacrime la faccia,
E fo smontato in su la terra piana;
Ricolse il re ferito nelle braccia,
E sopra al marmo il pose alla fontana;
E de pianger con seco non si saccia,
Chiedendoli perdon con voce umana.
Poi battizollo a l’acqua della fonte,
Pregando Dio per lui con le man gionte.
11
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Boiardo, Orlando innamorato
La funzione del prologo morale
I, xvi, 1-2
1.
La bella istoria che cantando io conto,
Serà più dilettosa ad ascoltare,
Come sia il conte Orlando in Franza gionto
Ed Agramante, che è di là dal mare;
Ma non posso contarla in questo ponto,
Perché Brunello assai me dà che fare;
Brunello, il piccolin di mala raccia,
Qual fugge ancora, e pur Marfisa il caccia.
2.
Ed avea tolto il corno al conte Orlando,
Sì come io vi contai, quella matina,
E Balisarda, lo incantato brando
Che fabricato fu da Falerina;
E nel canto passato io dicea quando
Intrava quel giottone a ogni cucina,
Non aspettando a' figatelli inviti,
Pigliando e grossi sempre e rivestiti.
I. xxviii, 1-2
1.
Chi provato non ha che cosa è amore,
Biasmar potrebbe e due baron pregiati,
Che insieme a guerra con tanto furore
E con tanta ira se erano afrontati,
Dovendosi portar l'un l'altro onore,
Ch'eran d'un sangue e d'una gesta nati:
Massimamente il figlio di Melone,
Che più della battaglia era cagione.
2.
Ma chi cognosce amore e sua possanza,
Farà la scusa di quel cavalliero;
Ché amore il senno e lo intelletto avanza,
Né giova al provedere arte o pensiero.
Giovani e vecchi vanno alla sua danza,
La bassa plebe col segnore altiero;
Non ha remedio amore, e non la morte;
Ciascun prende, ogni gente ed ogni sorte.
La situazione comunicativa
I, xix, 1
1.
Segnori e cavallieri inamorati,
Cortese damiselle e graziose,
Venitene davanti ed ascoltati
L'alte venture e le guerre amorose
Che fer’ li antiqui cavallier pregiati,
E fôrno al mondo degne e gloriose;
Ma sopra tutti Orlando ed Agricane
Fier’opre, per amore, alte e soprane.
Autobiografia (del narratore)
II, iv, 1-3
1.
Luce de gli occhi miei, spirto del core,
Per cui cantar suolea sì dolcemente
Rime legiadre e bei versi d'amore,
Spirami aiuto alla istoria presente.
Tu sola al canto mio facesti onore,
Quando di te parlai primeramente,
Perché a qualunche che di te ragiona,
Amor la voce e l'intelletto dona.
2.
Amor primo trovò le rime e' versi,
I suoni, i canti ed ogni melodia;
E genti istrane e populi dispersi
Congionse Amore in dolce compagnia.
Il diletto e il piacer serian sumersi,
Dove Amor non avesse signoria;
Odio crudele e dispietata guerra,
Se Amor non fusse, avrian tutta la terra.
3.
Lui pone l'avarizia e l'ira in bando,
E il core accresce alle animose imprese,
Né tante prove più mai fece Orlando,
Quante nel tempo che de amor se accese.
Di lui vi ragionava alora quando
Con quella dama nel prato discese;
Or questa cosa vi voglio seguire,
Per dar diletto a cui piace de odire.
II, xxxi, 1-2
1.
Il sol girando in su quel celo adorno
Passa volando e nostra vita lassa,
La qual non sembra pur durar un giorno
A cui senza diletto la trapassa;
Ond'io pur chieggio a voi che sete intorno,
Che ciascun ponga ogni sua noia in cassa,
Ed ogni affanno ed ogni pensier grave
Dentro ve chiuda, e poi perda la chiave.
2.
Ed io, quivi a voi tuttavia cantando,
Perso ho ogni noia ed ogni mal pensiero,
E la istoria passata seguitando,
Narrar vi voglio il fatto tutto intiero,
Ove io lasciai nel bosco il conte Orlando
Con Feraguto, quel saracin fiero,
Qual, come gionse in su l'acqua corrente,
Orlando il ricognobbe amantinente.
12
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
La varietas del racconto III, v, 1-2
1.
Còlti ho diversi fiori alla verdura,
Azuri, gialli, candidi e vermigli;
Fatto ho di vaghe erbette una mistura,
Garofili e viole e rose e zigli:
Traggasi avanti chi de odore ha cura,
E ciò che più gli piace, quel se pigli;
A cui diletta il ziglio, a cui la rosa,
Ed a cui questa, a cui quella altra cosa.
2.
Però diversamente il mio verziero
De amore e de battaglia ho già piantato:
Piace la guerra a l'animo più fiero,
Lo amore al cor gentile e delicato.
Or vo' seguir dove io lasciai Rugiero
Con Rodamonte alla zuffa nel prato,
Con sì crudeli assalti e tal tempesta,
Che impresa non fu mai simile a questa.
Armi e amori e «cavalieri antiqui»
II, viii, 1-2
1.
Quando la terra più verde è fiorita,
E più sereno il cielo e grazioso,
Alor cantando il rosignol se aita
La notte e il giorno a l'arboscello ombroso;
Così lieta stagione ora me invita
A seguitare il canto dilettoso,
E racontare il pregio e 'l grand'onore
Che donan l'arme gionte con amore.
2.
Dame legiadre e cavallier pregiati,
Che onorati la corte e gentilezza,
Tiratevi davanti ed ascoltati
Delli antiqui baron l'alta prodezza,
Che seran sempre in terra nominati:
Tristano e Isotta dalla bionda trezza,
Genevra e Lancilotto del re Bando;
Ma sopra tutti il franco conte Orlando,
II, x, 1-3
1.
Se onor di corte e di cavalleria
Può dar diletto a l'animo virile,
A voi dilettarà l'istoria mia,
Gente legiadra, nobile e gentile,
Che seguite ardimento e cortesia,
La qual mai non dimora in petto vile.
Venite ed ascoltati lo mio canto,
De li antiqui baroni il pregio e il vanto.
2.
Tirative davanti ed ascoltate
Le ecelse prove de' bon cavallieri,
Che avean cotanto ardire e tal bontate
Che ne' perigli devenian più fieri.
Vince ogni cosa la animositate,
E la fortuna aiuta volentieri
Qualunche cerca de aiutar se stesso,
Come veduto abbiam lo esempio spesso.
Il poema cavalleresco italiano - testi
3.
E nel presente dico de Ranaldo,
Che, essendo apena de un periglio uscito,
A sotto entrare a l'altro era più caldo,
Né se fu per incanto sbigotito.
Benché Aridano, il saracin ribaldo,
Lo avesse già per tale arte schernito,
Con Balisardo or torna al parangone,
Spezzando incanto ed ogni fatasone.
II, xii, 1-4
1.
Stella de amor, che 'l terzo cel governi,
E tu, quinto splendor sì rubicondo,
Che, girando in duo anni e cerchi eterni,
De ogni pigrizia fai digiuno il mondo,
Venga da' corpi vostri alti e superni
Grazia e virtute al mio cantar iocondo,
Sì che lo influsso vostro ora mi vaglia,
Poi ch'io canto de amor e di battaglia.
2.
L'uno e l'altro esercizio è giovenile,
Nemico di riposo, atto allo affanno;
L'un e l'altro è mestier de omo gentile,
Qual non rifuti la fatica, o il danno;
E questo e quel fa l'animo virile,
A benché al dì de ancòi, se io non m'inganno,
Per verità de l'arme dir vi posso
Che meglio è il ragionar che averle in dosso,
3.
Poi che quella arte degna ed onorata
Al nostro tempo è gionta tra villani;
Né l'opra più de amore anco è lodata,
Poscia che in tanti affanni e pensier vani,
Senza aver de diletto una giornata,
Si pasce di bel viso e guardi umani;
Come sa dir chi n'ha fatto la prova,
Poca fermezza in donna se ritrova.
4.
Deh! non guardate, damigelle, al sdegno
Che altrui fa ragionar come gli piace;
Non son tutte le dame poste a un segno,
Però che una è leal, l'altra fallace;
Ed io, per quella che ha il mio core in pegno,
Cheggio mercede a tutte l'altre e pace;
E ciò che sopra ne' miei versi dico,
Per quelle intendo sol dal tempo antico:
II, xiii, 1-2
1.
Il voler de ciascun molto è diverso:
Chi piace esser soldato, e cui pastore,
Chi dietro a robba, a lo acquistar è perso,
Chi ha diletto di caccia e chi d'amore,
Chi navica per mare e da traverso,
E quale è prete e quale è pescatore;
Questo in palazo vende ogni sua zanza,
Quello è zoioso, e canta e suona e danza.
13
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
2.
A voi piace de odir l'alta prodezza
De' cavalieri antiqui ed onorati,
E 'l piacer vostro vien da gentilezza,
Però che a quel valor ve assimigliati.
Chi virtute non ha, quella non prezza;
Ma voi, che qua de intorno me ascoltati,
Seti de onore e de virtù la gloria,
Però vi piace odir la bella istoria.
II, xxiv, 1-3
1.
Quando la tromba alla battaglia infesta
Suonando a l'arme sveglia il crudo gioco,
Il bon destrier superbo alcia la testa,
Battendo e piedi, e par tutto di foco;
Squassa le crine e menando tempesta
Borfa le nare e non ritrova loco,
Ferendo a calci chi se gli avicina;
Sempre anitrisce e mena alta ruina.
2.
Così ad ogni atto degno e signorile,
Qual se raconti, di cavalleria,
Sempre se allegra lo animo gentile,
Come nel fatto fusse tuttavia,
Manifestando fuore il cor virile
Quel che gli piace e quel ch'egli disia;
Onde io di voi comprendo il spirto audace,
Poi che de odirme vi diletta e piace.
3.
Non debbo adunque a gente sì cortese
Donar diletto a tutta mia possanza?
Io debbo e voglio, e non faccio contese,
E torno ove io lasciai ne l'altra stanza
Di Feraguto, che il monte discese,
E Rodamonte con tanta arroganza
Che de i lor guardi e de la orribil faccia
Par che il cel tremi e il mondo se disfaccia.
Il valore dell’amore per i cavalieri
II, xviii, 1-3
1.
Fo gloriosa Bertagna la grande
Una stagion per l'arme e per l'amore,
Onde ancora oggi il nome suo si spande,
Sì che al re Artuse fa portare onore,
Quando e bon cavallieri a quelle bande
Mostrarno in più battaglie il suo valore,
Andando con lor dame in aventura;
Ed or sua fama al nostro tempo dura.
Il poema cavalleresco italiano - testi
2.
Re Carlo in Franza poi tenne gran corte,
Ma a quella prima non fo sembiante,
Benché assai fosse ancor robusto e forte,
Ed avesse Ranaldo e 'l sir d'Anglante.
Perché tenne ad Amor chiuse le porte
E sol se dette alle battaglie sante,
Non fo di quel valore e quella estima
Qual fo quell'altra che io contava in prima;
3.
Però che Amore è quel che dà la gloria,
E che fa l'omo degno ed onorato,
Amore è quel che dona la vittoria,
E dona ardire al cavalliero armato;
Onde mi piace di seguir l'istoria,
Qual cominciai, de Orlando inamorato,
Tornando ove io il lasciai con Sacripante,
Come io vi dissi nel cantare avante.
II, xxvi, 1-3
1.
Il vago amor che a sue dame soprane
Portarno al tempo antico e cavallieri,
E le battaglie e le venture istrane,
E l'armeggiar per giostre e per tornieri,
Fa che il suo nome al mondo anco rimane,
E ciascadun lo ascolti volentieri;
E chi più l'uno, e chi più l'altro onora,
Come vivi tra noi fossero ancora.
2.
E qual fia quel che, odendo de Tristano
E de sua dama ciò che se ne dice,
Che non mova ad amarli il cor umano,
Reputando il suo fin dolce e felice,
Che, viso a viso essendo e mano a mano
E il cor col cor più stretto alla radice,
Ne le braccia l'un l'altro a tal conforto
Ciascun di lor rimase a un ponto morto?
3.
E Lancilotto e sua regina bella
Mostrarno l'un per l'altro un tal valore,
Che dove de' soi gesti se favella,
Par che de intorno il celo arda de amore.
Traggase avanti adunque ogni donzella,
Ogni baron che vôl portare onore,
Ed oda nel mio canto quel ch'io dico
De dame e cavallier del tempo antico.
14
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Angelo Poliziano, Stanze per la giostra
Proemio, I, 1-4
1.
Le gloriose pompe e’ fieri ludi
della città che ‘l freno allenta e stringe
a magnanimi Toschi, e i regni crudi
di quella dea che ‘l terzo ciel dipinge,
e i premi degni alli onorati studi,
la mente audace a celebrar mi spinge,
sì che i gran nomi e i fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
2.
O bello idio ch’al cor per gli occhi inspiri
dolce disir d’amaro pensier pieno,
e pasciti di pianto e di sospiri,
nudrisci l’alme d’un dolce veleno,
gentil fai divenir ciò che tu miri,
né può star cosa vil drento al suo seno;
Amor, del quale i’ son sempre suggetto,
porgi or la mano al mio basso intelletto.
3.
Sostien tu el fascio ch’a me tanto pesa,
reggi la lingua, Amor, reggi la mano;
tu principio, tu fin dell’alta impresa,
tuo fia l’onor, s’io già non prego invano;
di’, signor, con che lacci a te presa
fu l’alta mente del baron toscano
più gioven figlio della etrusca Leda,
che reti furno ordite a tanta preda.
4.
E tu, ben nato Laur, sotto il cui velo
Fiorenza lieta in pace si riposa,
né teme i venti o minacciar del celo
o Giove irato in vista più crucciosa,
accogli all’ombra del tuo santo stelo
la voce umil, tremante e paurosa;
o causa, o fin di tutte le mie voglie,
che sol vivon d’odor delle tuo foglie.
15
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Simonetta e la metamorfosi di Iulio (I, 37-59)
37.
Era già drieto alla sua desianza
gran tratta da’ compagni allontanato,
né pur d’un passo ancor la preda avanza,
e già tutto el destrier sente affannato;
ma pur seguendo sua vana speranza,
pervenne in un fiorito e verde prato:
ivi sotto un vel candido li apparve
lieta una ninfa, e via la fera sparve.
43.
Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d’erba;
lo inanellato crin dall’aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
38.
La fera sparve via dalle suo ciglia,
ma ‘l gioven della fera ormai non cura;
anzi ristringe al corridor la briglia,
e lo raffrena sovra alla verdura.
Ivi tutto ripien di maraviglia
pur della ninfa mira la figura:
parli che dal bel viso e da’ begli occhi
una nuova dolcezza al cor gli fiocchi.
44.
Folgoron gli occhi d’un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l’aier d’intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.
39.
Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator li suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
all’ombra ch’e suoi nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.
45.
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d’ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.
40.
Tosto Cupido entro a’ begli occhi ascoso,
al nervo adatta del suo stral la cocca,
poi tira quel col braccio poderoso,
tal che raggiugne e l’una e l’altra cocca;
la man sinistra con l’oro focoso,
la destra poppa colla corda tocca:
né pria per l’aer ronzando esce ‘l quadrello
che Iulio drento al cor sentito ha quello.
46.
Sembra Talia, se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l’asta;
se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s’arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l’è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
41.
Ahi qual divenne! ah come al giovinetto
corse il gran foco in tutte le midolle!
che tremito gli scosse il cor nel petto!
d’un ghiacciato sudor tutto era molle;
e fatto ghiotto del suo dolce aspetto,
giammai li occhi da li occhi levar puolle;
ma tutto preso dal vago splendore,
non s’accorge el meschin che quivi è Amore.
47.
Ell’era, assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta,
di quanti fior creassi mai natura,
de’ quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.
42.
Non s’accorge ch’Amor lì drento è armato
per sol turbar la suo lunga quiete;
non s’accorge a che nodo è già legato,
non conosce suo piaghe ancor segrete;
di piacer, di disir tutto è invescato,
e così il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sé loda e ‘l viso e ‘l crino,
e ‘n lei discerne un non so che divino.
48.
Già s’inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l’erba, lenta lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei null’altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò soffrire,
con qualche priego d’arrestarla tenta;
per che, tutto tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò dicendo:
16
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
49.
«O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m’assembri certo;
se dea, forse se’ tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal cel grazia, qual sì amica stella,
ch’io degno sia veder cosa sì bella».
50.
Volta la ninfa al suon delle parole,
lampeggiò d’un sì dolce e vago riso,
che i monti avre’ fatto ir, restare il sole:
ché ben parve s’aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch’un marmo per mezzo avre’ diviso;
soave, saggia e di dolceza piena,
da innamorar non ch’altri una Sirena:
51.
«Io non son qual tua mente invano auguria,
non d’altar degna, non di pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto soggiogata alla teda legittima;
mia natal patria è nella aspra Liguria,
sovra una costa alla riva marittima,
ove fuor de’ gran massi indarno gemere
si sente il fer Nettunno e irato fremere.
52.
Sovente in questo loco mi diporto,
qui vegno a soggiornar tutta soletta;
questo è de’ mia pensieri un dolce porto,
qui l’erba e’ fior, qui il fresco aier m’alletta;
quinci il tornare a mia magione è accorto,
qui lieta mi dimoro Simonetta,
all’ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
e spesso in compagnia d’alcuna ninfa.
53.
Io soglio pur nelli ociosi tempi,
quando nostra fatica s’interrompe,
venire a’ sacri altar ne’ vostri tempî
fra l’altre donne con l’usate pompe;
ma perch’io in tutto el gran desir t’adempi,
e ‘l dubio tolga che tuo mente rompe,
meraviglia di mie bellezze tenere
non prender già, ch’io nacqui in grembo a Venere.
54.
Or poi che ‘l sol sue rote in basso cala,
e da questi arbor cade maggior l’ombra,
già cede al grillo la stanca cicala,
già ‘l rozo zappator del campo sgombra,
Il poema cavalleresco italiano - testi
e già dell’alte ville il fumo essala,
la villanella all’uom suo el desco ingombra;
omai riprenderò mia via più accorta,
e tu lieto ritorna alla tua scorta».
55.
Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che ‘l ciel tutto asserenò d’intorno,
mosse sovra l’erbetta e passi lenti
con atto d’amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l’erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.
56.
Che de’ far Iulio? Ahimè, ch’e’ pur desidera
seguir sua stella e pur temenza il tiene:
sta come un forsennato, e ‘l cor gli assidera,
e gli s’aghiaccia el sangue entro le vene;
sta come un marmo fisso, e pur considera
lei che sen va né pensa di sue pene,
fra sé lodando il dolce andar celeste
e ‘l ventilar dell’angelica veste.
57.
E’ par che ‘l cor del petto se li schianti,
e che del corpo l’alma via si fugga,
e ch’a guisa di brina, al sol davanti,
in pianto tutto si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri amanti,
e pargli ch’ogni vena Amor li sugga;
or teme di seguirla, or pure agogna,
qui ‘l tira Amor, quinci il ritrae vergogna.
58.
«U’ sono or, Iulio, le sentenzie gravi,
le parole magnifiche e’ precetti
con che i miseri amanti molestavi?
Perché pur di cacciar non ti diletti?
Or ecco ch’una donna ha in man le chiavi
d’ogni tua voglia, e tutti in sé ristretti
tien, miserello, i tuoi dolci pensieri;
vedi chi tu se’ or, chi pur dianzi eri.
59.
Dianzi eri d’una fera cacciatore,
più bella fera or t’ha ne’ lacci involto;
dianzi eri tuo, or se’ fatto d’Amore,
sei or legato, e dianzi eri disciolto.
Dov’è tuo libertà, dov’è ‘l tuo core?
Amore e una donna te l’ha tolto.
Ahi, come poco a sé creder uom degge!
ch’a virtute e fortuna Amor pon legge».
17
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
Luigi Pulci, Morgante
Cantare I
1
In principio era il Verbo appresso a Dio,
ed era Iddio il Verbo e ’l Verbo Lui:
questo era nel principio, al parer mio,
e nulla si può far sanza Costui.
Però, giusto Signor benigno e pio,
mandami solo un degli angel tui,
che m’accompagni e rechimi a memoria
una famosa, antica e degna storia.
7.
Ma il mondo cieco e ignorante non prezza
le sue virtù com’io vorrei vedere.
E tu, Fiorenzia, della sua grandezza
possiedi e sempre potrai possedere:
ogni costume ed ogni gentilezza
che si potessi acquistare o avere
col senno, col tesoro e colla lancia,
dal nobil sangue è venuto di Francia.
2.
E tu, Vergine, figlia e madre e sposa
di quel Signor che ti dètte la chiave
del Cielo e dell’abisso e d’ogni cosa
quel dì che Gabriel tuo ti disse Ave,
perché tu se’ de’ tuoi servi pietosa,
con dolce rime e stil grato e soave
aiuta i versi miei benignamente
e ‘nsino al fine allumina la mente.
8.
Dodici paladini aveva in corte
Carlo, e ‘l più savio e famoso era Orlando;
Gan traditor lo condusse alla morte
in Roncisvalle, un trattato ordinando,
là dove il corno e’ sonò tanto forte:
"dopo la dolorosa rotta quando...",
nella sua Comedìa Dante qui dice,
e mettelo con Carlo in Ciel felice.
3.
Era nel tempo quando Filomena
con la sorella si lamenta e plora,
ché si ricorda di sua antica pena,
e pe’ boschetti le ninfe innamora,
e Febo il carro temperato mena,
ché ‘l suo Fetonte l’ammaestra ancora,
ed appariva appunto all’orizonte,
tal che Titon si graffiava la fronte,
9.
Era per pasqua, quella di Natale:
Carlo la corte avea tutta in Parigi:
Orlando, com'io dico, è il principale;
èvvi il Danese, Astolfo ed Ansuigi;
fannosi feste e cose triunfale,
e molto celebravan san Dionigi;
Angiolin di Baiona ed Ulivieri
v'era venuto, e 'l gentil Berlinghieri.
4.
quand’io varai la mia barchetta prima
per obedir chi sempre obedir debbe
la mente, e faticarsi in prosa e in rima,
e del mio Carlo imperador m’increbbe;
ché so quanti la penna ha posti in cima,
che tutti la sua gloria prevarrebbe:
è stata questa istoria, a quel ch’io veggio,
di Carlo, male intesa e scritta peggio.
10.
Eravi Avolio ed Avino ed Ottone,
di Normandia Riccardo paladino,
e 'l savio Namo e 'l vecchio Salamone,
Gualtieri da Mulione, e Baldovino
ch'era figliuol del tristo Ganellone:
troppo lieto era il figliuol di Pipino,
tanto che spesso d'allegrezza geme,
veggendo tutti i paladini insieme.
5.
Diceva Leonardo già Aretino
che s’egli avessi avuto scrittor degno,
com’egli ebbe un Ormanno e ‘l suo Turpino,
ch’avessi diligenzia avuto e ingegno,
sarebbe Carlo Magno un uom divino,
però ch’egli ebbe gran vittorie e regno,
e fece per la Chiesa e per la Fede
certo assai più che non si dice o crede.
11.
Ma la Fortuna attenta sta nascosa
per guastar sempre ciascun nostro effetto.
Mentre che Carlo così si riposa,
Orlando governava in fatto e in detto
la corte e Carlo Magno ed ogni cosa;
Gan per invidia scoppia, il maladetto,
e cominciava un dì con Carlo a dire:
- Abbiàn noi sempre Orlando a obedire?
6.
Guardisi ancora a San Liberatore,
quella badia là presso a Menappello
giù nell’Abruzzi, fatta per suo onore,
dove fu la battaglia e ‘l gran flagello
d’un re pagan, che Carlo imperadore
uccise, e tanto del suo popul fello,
e vedesi tante ossa, e tanti il sanno
che tante in Giusaffà non ne verranno.
12.
Io ho creduto mille volte dirti:
Orlando ha in sé troppa presunzione.
Noi siàn qui conti, re, duchi a servirti,
e Namo, Ottone, Uggieri e Salamone,
per onorarti ognun, per obedirti;
che costui abbia ogni reputazione
nol sofferrem, ma siam deliberati
da un fanciullo non esser governati.
18
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
13.
Tu cominciasti insino in Aspramonte
a dargli a intender che fussi gagliardo
e facessi gran cose a quella fonte.
Ma se non fussi stato il buon Gherardo,
io so che la vittoria era d'Almonte;
ma egli ebbe sempre l'occhio allo stendardo,
che si voleva quel dì coronarlo:
questo è colui c'ha meritato, Carlo.
19.
Poi si partì, portato dal furore,
e terminò passare in Pagania;
e mentre che cavalca, il traditore
di Gan sempre ricorda per la via.
E cavalcando d'uno in altro errore,
in un deserto truova una badia,
in luoghi scuri e paesi lontani,
ch'era a' confin tra' Cristiani e' Pagani.
14.
Se ti ricorda, già sendo in Guascogna,
quando e' vi venne la gente di Spagna,
il popol de' cristiani avea vergogna
s'e' non mostrava la sua forza magna.
Il ver convien pur dir quando e' bisogna:
sappi ch'ognuno, imperador, si lagna.
Quant'io per me, ripasserò que' monti
ch'io passai in qua con sessantaduo conti.
20.
L'abate si chiamava Chiaramonte:
era del sangue disceso d'Angrante.
Di sopra alla badia v'era un gran monte
dove abitava alcun fero gigante,
de' quali uno avea nome Passamonte,
l'altro Alabastro, e 'l terzo era Morgante:
con certe frombe gittavan da alto,
ed ogni dì facevan qualche assalto.
15.
La tua grandezza dispensar si vuole
e far che ciascuno abbi la sua parte;
la corte tutta quanta se ne duole:
tu credi che costui sia forse Marte? Orlando un giorno udì queste parole,
che si sedeva soletto in disparte:
dispiacquegli di Gan quel che diceva,
ma molto più che Carlo gli credeva.
21.
I monachetti non potieno uscire
del monistero o per legne o per acque.
Orlando picchia, e non voleano aprire,
fin ch' a l'abate alla fine pur piacque.
Entrato dentro, cominciava a dire
come Colui che di Maria già nacque
adora, ed era cristian battezato,
e come egli era alla badia arrivato.
16.
E volle colla spada uccider Gano;
ma Ulivieri in quel mezzo si mise
e Durlindana gli trasse di mano,
e così il me' che seppe gli divise.
Orlando si sdegnò con Carlo Mano,
e poco men che quivi non l'uccise;
e dipartissi di Parigi solo,
e scoppia e 'mpazza di sdegno e di duolo.
22.
Disse l'abate: - Il ben venuto sia.
Di quel ch'io ho, volentier ti daremo,
poi che tu credi al Figliuol di Maria;
e la cagion, cavalier, ti diremo,
acciò che non la imputi villania,
perché all'entrar resistenzia facemo
e non ti volle aprir quel monachetto:
così intervien chi vive con sospetto.
17.
A Ermellina, moglie del Danese,
tolse Cortana, e poi tolse Rondello,
e inverso Brava il suo camin poi prese.
Alda la bella, come vide quello,
per abbracciarlo le braccia distese:
Orlando, che smarrito avea il cervello,
com'ella disse: - Ben venga il mio Orlando gli volle in su la testa dar col brando.
23.
Quand'io ci venni al principio abitare,
queste montagne, ben che sieno oscure
come tu vedi, pur si potea stare
sanza sospetto, ché l'eran sicure;
sol dalle fiere t'avevi a guardare:
fernoci spesso di strane paure.
Or ci bisogna, se vogliamo starci,
dalle bestie dimestiche guardarci.
18.
Come colui che la furia consiglia,
e' gli pareva a Gan dar veramente:
Alda la bella si fe' maraviglia.
Orlando si ravvide prestamente,
e la sua sposa pigliava la briglia,
e scese del caval subitamente;
ed ogni cosa diceva a costei,
e riposossi alcun giorno con lei.
24.
Queste ci fan più tosto stare a segno:
sonci appariti tre feri giganti,
non so di qual paese o di qual regno;
ma molto son feroci tutti quanti.
La forza e 'l mal voler giunta allo 'ngegno
sai che può il tutto; e noi non siàn bastanti:
questi perturban sì l'orazion nostra
ch'io non so più che far, s'altri nol mostra.
19
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
25.
Gli antichi padri nostri nel deserto,
se le loro opre sante erano e giuste,
del ben servir da Dio n'avean buon merto;
né creder sol vivessin di locuste:
piovea dal ciel la manna, questo e certo;
ma qui convien che spesso assai e guste
sassi che piovon di sopra quel monte,
che gettano Alabastro e Passamonte.
31.
e prometteva di farlo godere.
Orlando disse: - Pazzo saracino,
io vengo a te, come è di Dio volere,
per darti morte, e non per ragazzino;
a' monaci suoi fatto hai dispiacere:
non può più comportarti, can meschino. Questo gigante armar si corse a furia,
quando sentì ch' e' gli diceva ingiuria.
26.
Il terzo, che è Morgante, assai più fero,
isveglie e pini e' faggi e' cerri e gli oppi,
e gettagli insin qui, questo è pur vero:
non posso far che d'ira non iscoppi. Mentre che parlan così in cimitero,
un sasso par che Rondel quasi sgroppi,
che da' giganti giù venne da alto,
tanto che e' prese sotto il tetto un salto.
32.
E ritornato ove aspettava Orlando,
il qual non s'era partito da bomba,
sùbito venne la corda girando,
e lascia un sasso andar fuor della fromba,
che in sulla testa giugnea rotolando
al conte Orlando, e l'elmetto rimbomba;
e cadde per la pena tramortito,
ma più che morto par, tanto è stordito.
27.
- Tìrati drento, cavalier, per Dio! disse l'abate - ché la manna casca. Rispose Orlando: - Caro abate mio,
costui non vuol che 'l mio caval più pasca:
veggo che lo guarrebbe del restio;
quel sasso par che di buon braccio nasca. Rispose il santo padre: - Io non t'inganno:
credo che 'l monte un giorno gitteranno. -
33.
Passamonte pensò che fussi morto,
e disse: "Io voglio andarmi a disarmare;
questo poltron, per chi m'aveva scorto?".
Ma Cristo i suoi non suole abandonare,
massime Orlando, ch'Egli arebbe il torto.
Mentre il gigante l'arme va a spogliare,
Orlando in questo tempo si risente
e rivocava e la forza e la mente.
28.
Orlando governar fece Rondello
ed ordinar per sé da collezione;
poi disse: - Abate, io voglio andare a quello
che dètte al mio caval con quel cantone. Disse l'abate: - Come car fratello
consiglierotti sanza passione:
io ti sconforto, baron, di tal gita,
ch'io so che tu vi lascerai la vita.
34.
E gridò forte: - Gigante, ove vai?
Ben ti pensasti d'avermi ammazzato!
Volgiti addrieto, ché se alie non hai
non puoi da me fuggir, can rinnegato:
a tradimento ingiuriato m'hai! Donde il gigante allor maravigliato
si volse addrieto e riteneva il passo;
poi si chinò per tòr di terra un sasso.
29.
Quel Passamonte porta in man tre dardi,
chi frombe, chi baston, chi mazzafrusti:
sai che' giganti più di noi gagliardi
son, per ragion che sono anco più giusti;
e pur se vuoi andar, fa' che ti guardi,
ché questi son villan molto e robusti. Rispose Orlando: - Io lo vedrò per certo. Ed avviossi a piè sù pel deserto.
35.
Orlando avea Cortana ignuda in mano;
trasse alla testa, e Cortana tagliava:
per mezzo il teschio partì del pagano,
e Passamonte morto rovinava;
e nel cadere il superbo e villano
divotamente Macon bestemiava;
ma mentre che bestemia il crudo e acerbo,
Orlando ringraziava il Padre e 'l Verbo,
30.
L'abate il crocion gli fece in fronte:
- Va', che da Dio e me sia benedetto. Orlando, poi che salito ebbe il monte,
si dirizzò, come l'abate detto
gli aveva, dove sta quel Passamonte;
il quale, Orlando veggendo soletto,
molto lo squadra di drieto e davante,
poi domandò se star volea per fante;
36.
dicendo: - Quanta grazia oggi m'hai data!
Sempre ti sono, o Signor mio, tenuto:
per te cognosco la vita salvata,
però che dal gigante ero abbattuto;
ogni cosa a ragion fai misurata:
non val nostro poter sanza 'l tuo aiuto.
Priegoti sopra me tenghi la mano,
tanto ch'ancor ritorni a Carlo Mano. -
20
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
37.
Poi ch'ebbe questo detto, se n'andòe
tanto che truova Alabastro più basso,
che si sforzava, quando e' lo trovòe,
di sveglier d'una ripa fuori un masso.
Orlando, come e' giunse a quel, gridòe:
- Che pensi tu, ghiotton, gittar quel sasso? Quando Alabastro questo grido intende,
subitamente la sua fromba prende,
43.
Rispose il saracin con umil voce:
- Io ho fatta una strana visione,
che m'assaliva un serpente feroce:
non mi valeva, per chiamar, Macone;
onde al tuo Iddio che fu confitto in croce
rivolsi presto la mia divozione;
e' mi soccorse e fui libero e sano,
e son disposto al tutto esser cristiano. -
38.
e trasse d'una pietra molto grossa,
tanto ch'Orlando bisognò schermisse,
ché se l'avessi giunto la percossa
non bisognava il medico venisse.
Orlando adoperò poi la sua possa:
nel pettignon tutta la spada misse,
e morto cadde questo badalone,
e non dimenticò però Macone.
44.
Rispose Orlando: - Baron giusto e pio,
se questo buon voler terrai nel core,
l'anima tua arà quel vero Iddio
che ci può sol gradir d'eterno onore;
e s' tu vorrai, sarai compagno mio
ed amerotti con perfetto amore;
gl'idoli vostri son bugiardi e vani,
e 'l vero Iddio è lo Dio de' cristiani.
39.
Morgante aveva a suo modo un palagio
fatto di frasche e di schegge e di terra;
quivi, secondo lui, si posa ad agio,
quivi la notte si rinchiude e serra.
Orlando picchia, e daràgli disagio,
per che il gigante dal sonno si sferra;
vennegli aprir come una cosa matta,
ch'un'aspra visione aveva fatta.
45.
Venne questo Signor sanza peccato
nella sua madre virgine pulzella.
Se cognoscessi quel Signor beato
sanza 'l qual non risplende sole o stella,
aresti già Macon tuo rinnegato
e la sua fede iniqua, ingiusta e fella:
battézati al mio Iddio di buon talento. Morgante gli rispose: - Io son contento. -
40.
E' gli parea ch'un feroce serpente
l'avea assalito, e chiamar Macometto;
ma Macometto non valea niente;
onde e' chiamava Iesù benedetto,
e liberato l'avea finalmente.
Venne alla porta ed ebbe così detto:
- Chi bussa qua? - pur sempre borbottando.
- Tu 'l saprai tosto - gli rispose Orlando.
46.
E corse Orlando sùbito abbracciare.
Orlando gran carezze gli facea,
e disse: - Alla badia ti vo' menare.
Morgante: - Andianvi presto: - rispondea
- Co' monaci la pace si vuol fare. Della qual cosa Orlando in sé godea,
dicendo: - Fratel mio divoto e buono,
io vo' che chiegga all'abate perdono.
41.
- Vengo per farti come a' tuoi fratelli;
son de' peccati tuoi la penitenzia,
da' monaci mandato cattivelli,
come stato è divina providenzia:
pel mal ch'avete fatto a torto a quelli,
è data in Ciel così questa sentenzia.
Sappi che freddo già più ch'un pilastro
lasciato ho Passamonte e 'l tuo Alabastro. -
47.
Da poi che Iddio ralluminato t'ha
ed accettato per la sua umiltade,
vuolsi tu usi anco tu umilità. Disse Morgante: - Per la tua bontade,
poi che il tuo Iddio mio sempre omai sarà,
dimmi del nome tuo la veritade;
poi, che di me dispor puoi al tuo comando. Onde e' gli disse com'egli era Orlando.
42.
Disse Morgante: - O gentil cavaliere,
per lo tuo Iddio non mi dir villania.
Di grazia, il nome tuo vorrei sapere;
se se' cristian, deh, dillo in cortesia. Rispose Orlando: - Di cotal mestiere
contenterotti, per la fede mia:
adoro Cristo, che è Signor verace,
e puoi tu adorarlo, se ti piace. -
48.
Disse il gigante: - Gesù benedetto
per mille volte ringraziato sia:
sentito t'ho nomar, baron perfetto,
per tutti i tempi della vita mia;
e com'io dissi, sempre mai suggetto
esser ti vo' per la tua gagliardia. Insieme molte cose ragionaro,
e 'nverso la badia poi s'inviaro.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
49.
E fêr la via da quei giganti morti.
Orlando con Morgante si ragiona:
- Della lor morte vo' che ti conforti,
e poi che piace a Cristo, a me perdona;
a' monaci avean fatti mille torti,
e la nostra Scrittura aperto suona:
il ben remunerato e 'l mal punito;
e mai non ha questo Signor fallito;
55.
Alla badia insieme se ne vanno,
ove l'abate assai dubioso aspetta;
e' monaci, che 'l fatto ancor non sanno,
correvono all'abate tutti in fretta,
dicendo paurosi e pien d'affanno:
- Volete voi costui drento si metta? Quando l'abate vedeva il gigante,
si turbò tutto nel primo sembiante.
50.
però ch'Egli ama la giustizia tanto
che vuol che sempre il suo giudicio morda
ognun ch'abbi peccato tanto o quanto;
e così il ben ristorar si ricorda,
e non saria sanza giustizia santo.
Adunque al suo voler presto t'accorda,
ché debbe ognun voler quel che vuol Questo,
ed accordarsi volentieri e presto.
56.
Orlando, che turbato così il vede,
gli disse presto: - Abate, datti pace:
questo è cristiano e in Cristo nostro crede,
e rinnegato ha il suo Macon fallace. Morgante i moncherin mostrò per fede
come i giganti ciascun morto giace;
donde l'abate ringraziava Iddio,
dicendo: - Or m'hai contento, Signor mio. -
51.
E sonsi i nostri dottori accordati,
pigliando tutti una conclusione,
che que' che son nel Ciel glorificati,
s'avessin nel pensier compassione
de' miseri parenti che dannati
son nello inferno in gran confusione,
la lor felicità nulla sarebbe;
e vedi che qui ingiusto Iddio parrebbe.
57.
E riguardava e squadrava Morgante
la sua grandezza ed una volta e due;
e poi gli disse: - O famoso gigante,
sappi ch'io non mi maraviglio piùe
che tu svegliessi e gittassi le piante,
quand'io riguardo or le fattezze tue.
Tu sarai or perfetto e vero amico
a Cristo, quanto tu gli eri nimico.
52.
Ma egli hanno posto in Iesù ferma spene,
e tanto pare a lor quanto a Lui pare;
afferman ciò che E' fa, che facci bene,
e che E' non possi in nessun modo errare;
se padre o madre è nell'eterne pene,
di questo e' non si posson conturbare,
ché quel che piace a Dio, sol piace a loro:
questo s'osserva nello eterno coro.
58.
Un nostro apostol, Saul già chiamato,
perseguì molto la fede di Cristo.
Un giorno poi, dallo Spirto infiammato,
"Perché pur mi persegui?" disse Cristo.
E' si ravvide allor del suo peccato;
andò poi predicando sempre Cristo,
e fatto è or della fede una tromba,
la qual per tutto risuona e rimbomba.
53.
- Al savio suol bastar poche parole: disse Morgante - tu il potrai vedere
de' miei fratelli, Orlando, se mi duole,
e s'io m'accorderò di Dio al volere
come tu di' che in Ciel servar si suole.
Morti co' morti; or pensian di godere;
io vo' tagliar le mani a tutti quanti
e porterolle a que' monaci santi,
59.
Così farai tu ancor, Morgante mio;
e chi s'emenda, è scritto nel Vangelo
che maggior festa fa d'un solo Iddio
che di novantanove altri sù in Cielo.
Io ti conforto ch'ogni tuo desio
rivolga a quel Signor con giusto zelo,
ché tu sarai felice in sempiterno,
ch'eri perduto e dannato allo inferno. -
54.
acciò ch'ognun sia più sicuro e certo
come e' son morti, e non abbin paura
andar soletti per questo deserto;
e perché vegga la mia mente pura
a quel Signor che m'ha il suo regno aperto
e tratto fuor di tenebre sì oscura. E poi tagliò le mani a' due fratelli,
e lasciagli alle fiere ed agli uccelli.
60.
E grande onore a Morgante faceva
l'abate, e molti dì si son posati.
Un giorno, come a Orlando piaceva,
a spasso in qua ed in là si sono andati.
L'abate in una camera sua aveva
molte armadure e certi archi appiccati:
Morgante gliene piacque un che ne vede,
onde e' sel cinse, benché oprar nol crede.
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Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
61.
Avea quel luogo d'acqua carestia.
Orlando disse: - Come buon fratello,
Morgante, vo' che di piacer ti sia
andar per l'acqua. - Onde e' rispose a quello:
- Comanda ciò che vuoi, ché fatto fia. E posesi in ispalla un gran tinello
ed avviossi là verso una fonte,
dove e' solea ber sempre appiè del monte.
67.
E ferno a scoppiacorpo per un tratto,
e scuffian che parean dell'acqua usciti,
tanto che 'l can se ne doleva e 'l gatto,
ché gli ossi rimanean troppo puliti.
L'abate, poi che molto onore ha fatto
a tutti, un dì, dopo questi conviti,
dètte a Morgante un destrier molto bello,
che lungo tempo tenuto avea quello.
62.
Giunto alla fonte, sente un gran fracasso
di sùbito venir per la foresta.
Una saetta cavò del turcasso,
posela all'arco ed alzava la testa.
Ecco apparire una gran gregge, al passo,
di porci, e vanno con molta tempesta,
ed arrivorno alla fontana appunto,
donde il gigante è da lor sopraggiunto.
68.
Morgante in su 'n un prato il caval mena
e vuol che corra e che facci ogni pruova,
e pensa che di ferro abbi la schiena,
o forse non credeva schiacciar l'uova.
Questo caval s'accoscia per la pena,
e scoppia e in sulla terra si ritruova.
Dice Morgante: - Lieva sù, rozzone. E va pur punzecchiando collo sprone.
63.
Morgante alla ventura a un saetta:
appunto nell'orecchio lo 'ncartava;
dall'altro lato passò la verretta,
onde 'l cinghial giù morto gambettava.
Un altro, quasi per farne vendetta,
addosso al gran gigante irato andava;
e perché e' giunse troppo tosto al varco,
non fu Morgante a tempo a trar coll'arco.
69.
Ma finalmente convien ch'egli smonte,
e disse: - Io son pur leggier come penna,
ed è scoppiato; che ne di' tu, conte? Rispose Orlando: - Un albero d'antenna
mi par' più tosto, e la gaggia la fronte.
Lascialo andar, ché la fortuna accenna
che meco a piede ne venga, Morgante.
- Ed io così verrò - disse il gigante.
64.
Vedendosi venuto il porco addosso,
gli dètte in su la testa un gran punzone,
per modo che gl'infranse insino all'osso,
e morto allato a quell'altro lo pone.
Gli altri porci, veggendo quel percosso,
si misson tutti in fuga pel vallone.
Morgante si levò il tinello in collo,
ch'era pien d'acqua, e non si muove un crollo.
70.
- Quando sarà mestier, tu mi vedrai
com'io mi proverrò nella battaglia. Orlando disse: - Io credo tu farai
come buon cavalier, se Dio mi vaglia;
ed anco me dormir non mirerai.
Di questo tuo caval non te ne caglia:
vorrebbesi portarlo in qualche bosco,
ma il modo né la via non ci conosco. -
65.
Dall'una spalla il tinello avea posto,
dall'altra i porci, e spacciava il terreno;
e torna alla badia, ch'è pur discosto,
ch'una gocciola d'acqua non va in seno.
Orlando, che 'l vedea tornar sì tosto
co' porci morti e con quel vaso pieno,
maravigliossi che sia tanto forte;
così l'abate; e spalancan le porte.
71.
Disse il gigante: - Io il porterò ben io,
da poi che portar me non ha voluto,
per render ben per mal, come fa Iddio;
ma vo' ch'a porlo addosso mi dia aiuto. Orlando gli dicea: - Morgante mio,
s'al mio consiglio ti sarai attenuto,
questo caval tu non vel porteresti,
ché ti farà come tu a lui facesti.
66.
I monaci, veggendo l'acqua fresca,
si rallegrorno, ma più de' cinghiali,
ch'ogni animal si rallegra dell'esca;
e posono a dormire i breviali.
Ognun s'affanna, e non par che gl'incresca,
acciò che questa carne non s'insali
e che poi secca sapessi di vieto;
e le digiune si restorno addrieto.
72.
Guarda che non facessi la vendetta
come fece già Nesso, così morto:
non so se la sua istoria hai intesa o letta;
e' ti farà scoppiar, datti conforto. Disse Morgante: - Aiuta ch'io mel metta
addosso, e poi vedrai s'io ve lo porto:
io porterò, Orlando mio gentile,
con le campane là quel campanile. -
23
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Il poema cavalleresco italiano - testi
73.
Disse l'abate: - Il campanil v'è bene,
ma le campane voi l'avete rotte. Dicea Morgante: - E' ne porton le pene
color che morti son là in quelle grotte. E levossi il cavallo in su le schiene,
e disse: - Guarda s'io sento di gotte,
Orlando, nelle gambe, o s'io lo posso. E fe' duo salti col cavallo addosso.
79.
Noi ti potremo di messe onorare,
di prediche, di laude e paternostri,
più tosto che da cena o desinare
o d'altri convenevol che da chiostri.
Tu m'hai di te sì fatto innamorare,
per mille alte eccellenzie che tu mostri,
ch'io me ne vengo, ove tu andrai, con teco,
e d'altra parte tu resti qui meco:
74.
Era Morgante come una montagna:
se facea questo, non è maraviglia.
Ma pure Orlando con seco si lagna,
perché pure era omai di sua famiglia:
temenza avea non pigliassi magagna;
un'altra volta costui riconsiglia:
- Posalo ancor, nol portare al deserto. Disse il gigante: - Io il porterò per certo. -
80.
tanto ch'a questo par contraddizione;
ma so che tu se' savio e intendi e gusti,
e intendi il mio parlar per discrezione.
De' benefici tuoi pietosi e giusti
renda il Signore a te munerazione,
da cui mandato in queste selve fusti;
per le virtù del qual liberi siamo,
e grazia a Lui ed a te ne rendiamo.
75.
E portollo e gittollo in luogo strano,
e torna alla badia subitamente.
Diceva Orlando: - Or che più dimoriàno?
Morgante, qui non facciàn noi niente. E prese un giorno l'abate per mano,
e disse a quel molto discretamente
che vuol partir dalla sua riverenzia
e domandava e perdono e licenzia;
81.
Tu ci hai salvato l'anima e la vita:
tanta perturbazion già que' giganti
ci dètton, che la strada era smarrita
di ritrovar Gesù cogli altri santi;
però troppo ci duol la tua partita,
e sconsolati restiàn tutti quanti;
né ritener possianti i mesi e gli anni,
ché tu non se' da vestir questi panni,
76.
e degli onor ricevuti da questo
qualche volta, potendo, arà buon merito.
E dice: - Io intendo ristorare, e presto,
i persi giorni del tempo preterito;
e son più dì che licenzia arei chiesto,
benigno padre, se non ch'io mi perito:
non so mostrarvi quel che drento sento,
tanto vi veggo del mio star contento.
82.
ma da portar la lancia e l'armadura;
e puossi meritar con essa come
con questa cappa, e leggi la Scrittura.
Questo gigante al Ciel drizzò le some
per tua virtù; va' in pace a tua ventura,
chi tu ti sia, ch'io non ricerco il nome,
ma dirò sempre, s'io son domandato,
ch'un angel qui da Dio fussi mandato,
77.
Io me ne porto per sempre nel core
l'abate, la badia, questo deserto,
tanto v'ho posto in picciol tempo amore:
rendavi sù nel Ciel per me buon merto
quel vero Iddio, quello eterno Signore
che vi serba il suo regno al fine aperto.
Noi aspettiam vostra benedizione;
raccomandianci alle vostre orazione. -
83.
Se ci è armadura o cosa che tu voglia,
vattene in zambra e pigliane tu stessi,
e cuopri a questo gigante la scoglia. Rispose Orlando: - S'armadura avessi,
prima che noi uscissin della soglia,
che questo mio compagno difendessi,
questo accetto io, e saràmi piacere. Disse l'abate: - Venite a vedere. -
78.
Quando l'abate il conte Orlando intese,
rintenerì nel cor per la dolcezza,
tanto fervor nel petto se gli accese,
e disse: - Cavalier, se a tua prodezza
non sono stato benigno e cortese
come conviensi alla gran gentilezza,
ché so che ciò ch'i' ho fatto è stato poco,
incolpa l'ignoranzia nostra e il loco.
84.
E in certa cameretta entrati sono
che d'armadure vecchie era copiosa;
dicea l'abate: - Tutte ve le dono. Morgante va rovistando ogni cosa;
ma solo un certo sbergo gli fu buono,
ch'avea tutta la maglia rugginosa:
maravigliossi che lo cuopra appunto,
ché mai più gnun forse glien'era aggiunto.
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Il poema cavalleresco italiano - testi
85.
Questo fu d'un gigante smisurato
ch'a la badia fu morto per antico
dal gran Millon d'Angrante, che arrivato
v'era, se appunto questa storia dico;
ed era nelle mura istoriato
come e' fu morto questo gran nimico
che fece alla badia già lunga guerra;
e Millon v'è come e' l'abbatte in terra.
86.
Veggendo questa istoria, il conte Orlando
fra suo cor disse: "O Dio, che sai sol tutto,
come venne Millon qui capitando,
che ha questo gigante qua distrutto?".
E lesse certe letter lacrimando,
ché non poté tener più il viso asciutto,
come io dirò nella seguente istoria.
Di mal vi guardi il Re dell'alta gloria
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Il poema cavalleresco italiano - testi
Il palazzo incantato e il battesimo di Morgante
II, 18-41
18.
Per lo deserto vanno alla ventura:
l'uno era a piede e l'altro era a cavallo;
cavalcon per la selva e per pianura
sanza trovar ricetto o intervallo.
Cominciava a venir la notte oscura.
Morgante parea lieto sanza fallo,
e con Orlando ridendo dicìa:
- E' par ch'io vegga appresso una osteria. -
24.
Quivi vivande è di molte ragioni:
pavoni e starne e leprette e fagiani,
cervi e conigli e di grassi capponi,
e vino ed acqua per bere e per mani.
Morgante sbadigliava a gran bocconi,
e furno al bere infermi, al mangiar sani;
e poi che sono stati a lor diletto,
si riposorno intro 'n un ricco letto.
19.
E in questo ragionando, hanno veduto
un bel palagio in mezzo del deserto.
Orlando, poi ch'a questo fu venuto,
dismonta, perché l'uscio vide aperto:
quivi non è chi risponda al saluto.
Vannone in sala, per esser più certo:
le mense riccamente son parate
e tutte le vivande accomodate.
25.
Come e' fu l'alba, ciascun si levava
e credonsene andar come ermellini,
né per far conto l'oste si chiamava,
ché lo volean pagar di bagattini;
Morgante in qua ed in là per casa andava,
e non ritruova dell'uscio i confini.
Diceva Orlando: - Saremo noi mézzi
di vin, che l'uscio non si raccapezzi?
20.
Le camere eran tutte ornate e belle,
istoriate con sottil lavoro,
e letti molto ricchi erano in quelle
coperti tutti quanti a drappi d'oro,
e' palchi erano azurri pien di stelle,
ornati sì che valieno un tesoro;
le porte eran di bronzo e qual d'argento,
e molto vario e lieto è il pavimento.
26.
Questa è, s'io non m'inganno, pur la sala,
ma le vivande e le mense sparite
veggo che son; quivi era pur la scala.
Qui son gente stanotte comparite,
che come noi aranno fatto gala;
le cose ch'avanzorno, ove sono ite? E in questo errore un gran pezzo soggiornano:
dovunque e' vanno, in sulla sala tornano.
21.
Dicea Morgante: - Non è qui persona
a guardar questo sì ricco palagio?
Orlando, questa stanza mi par buona:
noi ci staremo un giorno con grande agio. Orlando nella mente sua ragiona:
- O qualche saracin molto malvagio
vorrà che qualche trappola ci scocchi
per pigliarci al boccon come i ranocchi
27.
Non riconoscono uscio né finestra.
Dicea Morgante: Ove siàn noi entrati?
Noi smaltiremo, Orlando, la minestra,
ché noi ci siam rinchiusi e inviluppati
come fa il bruco su per la ginestra. Rispose Orlando: - Anzi ci siam murati. Disse Morgante: - A volere il ver dirti,
questa mi pare una stanza da spirti:
22.
o veramente c'è sotto altro inganno:
questo non par che sia conveniente. Disse Morgante: - Questo è poco danno. E cominciava a ragionar col dente,
dicendo: - All'oste rimarrà il malanno:
mangiàn pur molto ben per al presente;
quel che ci resta, faren poi fardello,
ch'io porterei, quand'io rubo, un castello. -
28.
questo palagio, Orlando, fia incantato
come far si soleva anticamente. Orlando mille volte s'è segnato,
e non poteva a sé ritrar la mente,
fra sé dicendo: "Aremol noi sognato?".
Morgante dello scotto non si pente,
e disse: - Io so ch'al mangiare ero desto;
or non mi curo s'egli è sogno il resto.
23.
Rispose Orlando: - Questa medicina
forse potrebbe il palagio purgare. Hanno cercato insino alla cucina:
né cuoco né vassallo usan trovare.
Adunque ognuno alla mensa camina:
comincian le mascella adoperare,
ch'un giorno avevon mangiato già in sogno,
tal che di vettovaglia avean bisogno.
29.
Basta che le vivande non sognai;
e s'elle fussin ben di Satanasso,
arrechimene pure innanzi assai. Tre giorni in questo error s'andorno a spasso
sanza trovare ond'egli uscissin mai;
e 'l terzo giorno, scesi giù da basso,
in una loggia arrivon per ventura
donde un suono esce d'una sepultura,
26
Letteratura AMS 2009-2010 – Franco Tomasi
Il poema cavalleresco italiano - testi
30.
e dice: - Cavalieri, errati siete:
voi non potresti di qui mai partire
se meco prima non v'azzufferete;
venite questa lapida a scoprire,
se non che qui in eterno vi starete. Per che Morgante cominciò a dire:
- Non senti tu, Orlando, in quella tomba
quelle parole che colui rimbomba?
36.
Se tu mi lasci questa tomba aperta,
non vi farò più noia o increscimento:
ciò ch'io ti dico, abbi per cosa certa. Orlando disse: - Di ciò son contento,
benché tua villania questo non merta;
ma per partirmi di qui, ci consento. Poi tolse l'acqua e battezò il gigante,
ed uscì fuor con Rondello e Morgante.
31.
Io voglio andare a scoprir quello avello
là dove e' par che quella voce s'oda;
ed escane Cagnazzo e Farferello
o Libicocco col suo Malacoda. E finalmente s'accostava a quello,
però che Orlando questa impresa loda
e disse: - Scuopri, se vi fussi dentro
quanti ne piovvon mai dal ciel nel centro. -
37.
E come e' fu fuor del palagio uscito,
sentì drento alle mura un gran romore;
onde e' si volse, e 'l palagio è sparito;
allor cognobbe più certo l'errore:
non si rivede né mura né il sito.
Dicea Morgante: - E' mi darebbe il cuore
che noi potremo or nell'inferno andare
e far tutti i diavoli sbucare.
32.
Allor Morgante la pietra sù alza:
ecco un diavol più ch'un carbon nero
che della tomba fuor sùbito balza
in un carcame di morto assai fiero,
ch'avea la carne secca, ignuda e scalza.
Diceva Orlando: - E' fia pur daddovero:
questo è il diavol, ch'io 'l conosco in faccia. E finalmente addosso se gli caccia.
38.
Se si potessi entrar di qualche loco,
ché nel mondo è certe bocche, si dice,
donde e' si va, che di fuor gettan fuoco,
e non so chi v'andò per Euridice,
io stimerei tutti i diavol poco.
Noi ne trarremo l'anime infelice;
e taglierei la coda a quel Minosse,
se come questo ogni diavol fosse;
33.
Questo diavol con lui s'abbracciòe:
ognuno scuote; e Morgante diceva:
- Aspetta, Orlando, ch'io t'aiuteròe. Orlando aiuto da lui non voleva;
pure il diavol tanto lo sforzòe
ch'Orlando ginocchion quasi cadeva;
poi si riebbe e con lui si rappicca:
allor Morgante più oltre si ficca.
39.
e pelerò la barba a quel Caron,
e leverò della sedia Plutone;
un sorso mi vo' far di Flegeton
e inghiottir quel Fregiàs con un boccone;
Tesifo, Aletto, Megera e Ericon
e Cerbero ammazzar con un punzone;
e Belzebù farò fuggir più via
ch'un dromedario non andre' in Soria.
34.
E' gli parea mill'anni d'appiccare
la zuffa; e come Orlando così vide,
comincia il gran battaglio a scaricare,
e disse: - A questo modo si divide. Ma quel demòn lo facea disperare,
però che i denti digrignava e ride.
Morgante il prese alle gavigne stretto
e missel nella tomba a suo dispetto.
40.
Non si potrebbe trovar qualche buca?
tu vi vedresti il più bello spulezzo,
pur che questo battaglio vi conduca;
e mettimi a' diavoli poi in mezzo. Rispose Orlando: - E' non vi si manuca,
Morgante mio: noi vi faremo lezzo,
e nell'entrar ci potremo anco cuocere:
dunque l'andata starebbe per nuocere.
35.
Come e' fu dentro, gridò: - Non serrare,
ché se tu serri, mai non uscirai. Disse Orlando: - In che modo abbiamo a fare? E' gli rispose: - Tu lo sentirai.
Convienti quel gigante battezare,
poi a tua posta andar te ne potrai:
fallo cristiano, e come e' sarà fatto,
a tuo camin ne va sicuro e ratto.
41.
Quando tu puoi, Morgante, ir per la piana,
non cercar mai né l'erta né la scesa,
o di cacciare il capo in buca o in tana:
andian pur per la via nostra distesa. E così ragionando, una fontana
trovoron, dove due fan gran contesa:
eron corrier con lettere mandati,
e come micci si son bastonati.
27
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Il poema cavalleresco italiano - testi
La professione di fede di Margutte
XVIIII, 112-120
112.
Giunto Morgante un dì in su 'n un crocicchio,
uscito d'una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Dètte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: "Costui non conosco";
e posesi a sedere in su 'n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.
113.
Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
- Dimmi il tuo nome, - dicea - viandante. Colui rispose: - Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d'esser gigante,
poi mi penti' quando al mezzo fu' giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. 114.
Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
ecco ch'io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t'ho domandato
se se' cristiano o se se' saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino. 115.
Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch'a l'azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,
e molto più nell'aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
116.
e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo;
e 'l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;
117.
ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch'io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch'io non son terren da porvi vigna.
118.
Questa fede è come l'uom se l'arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d'una monaca greca
e d'un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch'avea fantasia
cantar di Troia e d'Ettore e d'Achille,
non una volta già, ma mille e mille.
119.
Poi che m'increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l'arco e 'l turcasso.
Un dì ch'io fe' nella moschea poi sciarra,
e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;
120.
anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n'ho settanta e sette de' mortali,
che non mi lasciati mai lo state o 'l verno;
pensa quanti io n'ho poi de' veniali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.
28