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Estratto de “Il Cavallo Rosso” di Eugenio Corti
Capitolo ventesimo e capitolo ventunesimo
[…] Sforzandosi di reprimere la propria orribile agitazione, Stefano si protese sul terrapieno
per prendere di mira qualcuna di quelle invisibile ombre che avevano ucciso il suo compagno
di squadra.
Ma non poté sparare: un urto, come un pugno in pieno petto, gli tolse ogni possibilità d’agire
ancora, di compiere un qualsiasi ulteriore sforzo: si afflosciò con lentezza dietro il terrapieno:
“M’hanno colpito al cuore” pensò. Tutt’interno il combattimento che l’aveva impegnato fino
allora continuava, ma egli ormai non ci aveva più a che fare:; altre cos, diverse e accavallantisi,
estenuavano i suoi ultimi istanti: quella fitta implacabile che sembrava al cuore il terrore, più
che della morte, del mistero che la seguiva, e il pensiero di sua madre. Ma soprattutto il dolore
… questo insopportabile dolore al petto: “Ahi, … Ahi…” Giovannino faccia-infarinata si voltò
verso di lui e annunciò livido “ho finite le munizioni”, quindi inastò la baionetta; ma Stefano
non lo udì, si lamentava adagio: “Ahi .. Ahi” Faccia-infarinata vide il guanto che il giovani si
premeva al petto rosso di sangue, udì il lamento. Stefano giaceva come ammucchiato contro lo
spalto: l’altro, deposto per un istante il moschetto, si piegò su di lui e lo tirò supino; il dolore
nel petto di Stefano diminuì un poco, cessò il suo lamento; egli tuttavia non apriva gli occhi. Li
aveva fissi su sua madre, seduta lì, nella cucina di casa, al solito posto: la mamma dalla sedia lo
guardava, lo guardava, con occhi spalancati. Stefano l’invitava: “parlate, dai, dite qualche cosa
voi, che io, con questa fitta al cuore, non posso parlare …. E non c’è più tempo, mamma, non c’è
più tempo”. La figura della madre fluttuava, fino a divenire indistinta, si dissipava: “Mamma!
Mamma!” urlò Stefano.
“Anche questo” pensò Faccia-infarinata: “anche lui! All’ultimo momento chiamano tutti la
mamma!”. Si chinò nuovamente su Stefano, che stavolta aprì gli occhi e vide quella larva di
faccia imminente. “Il Giovannino di Nomana …” pensò, come in una nebbia; poi: “No, no…” si
disse: “è … è la faccia della morte!” e compiendo un supremo sforzo alzò entrambe le braccia
per respingerla.
La sua anima abbandonò il corpo. Come quando bambino, nel cortile della Nomanella, poggiati
per gioco mani e ventre su una stanga del carro Stefano spingeva le gambe in alto e la testa in
giù per vedere il mondo capovolto, così ora intorno a lui si produsse un grande
capovolgimento.
Nello stesso istante a Nomana – a tremila chilometri di distanza – un ticchettio su un vetro
della camera da letto destò la mamma Lusìa, che lanciò un grido: “Stefano è morto! Oh, povera
me, povera me, povera me.”
Si svegliò di soprassalto Ferrante: “Come? Cosa … cosa dici?”.
“Il nostro Stefano è morto, è morto”.
“Calmati Lucia. Si sicuro hai sognato”.
“No, no Ferrante. Non è così stavolta. Lo sento stavolta, oh! Stefano è morto” e la povera Lucia,
impossibilitata a spiegarsi, cominciò a singhiozzare.
“Ascolta, se hai sognato che Stefano moriva – lo sai anche tu, no? – gli hai allungata la vita.” Ma
anche Ferrante era incerto: raramente aveva visto sua moglie in uno stato simile.
“Il vetro della finestra” esclamò la donna, indicandolo con la mano: “L’ho sentito battere al
vetro. Forse … Forse lo ha rotto?”.
“Chi? Chi ha rotto il vetro?” Ferrante indugiò un poco, poi mise con un sospiro le gambe fuori
dal letto, infilò i piedi in due logore ciabatte, e si alzò. Nella stanza non riscaldata faceva
freddo. L’uomo andò con passi dapprima incerti alla finestra, aprì gli scuri, esaminò alla
debole luce della lampadina uno per uno i riquadri di vetro infiorati di ghiaccio (fuori era
ancora buio e le persiane erano serrate) poi richiuse i due scuri.
“I vetri sono sani” disse, “e nessuno può averli toccati perché le persiane sono chiuse. Forse
hai sentito il ghiaccio scricchiolare. Lucia calmati: tu hai sognato e…”
“No, ti dico. Io non lo stavo sognando Stefano; tante altre notti sì, ma non stanotte. È stato lui a
svegliarmi, passando di qui: la sua anima. La sua anima, capisci?” parlava concitata, per poco
non si metteva a gridare.
“Queste non sono cose da dire. Domani … cioè oggi, quando si sarà fatto chiaro, potrai
parlarne con don Mario, e te lo dirà anche lui. Sentirai: questo che tu dici è, come lo chiamano?
Superstizione, ecco”. Guardò la moglie nei mansueti occhi marroni, e si sforzò di sorriderle:
“Una donna di fede come te, credere alle superstizioni! Eh? Da quando in qua?”.
“Oh no, non è così” disse Lucia: “non…” e ricominciò a piangere sommessamente. Ferrante
guardò la grossa sveglia sul canterano: spavento di sua moglie era fondato, la morte del loro
ragazzo doveva essere avvenuta cinque minuti prima, alle sette e dieci. “Ma… che razza di
ragionamento sto facendo?” si rimproverò: “Sto forse perdendo la testa anch’io?” “Vuoi
qualcosa, Lucia?” chiese alla moglie. “Che ti scaldi un po’ di caffè?”
La donna, senza smettere di piangere, fece segno di no con la testa. Poi: “Scusami Ferrante”
mormorò.
“Coraggio” le disse l’uomo “devi farti coraggio”. Lì in piedi, non sapendo bene cosa fare, si
ravviva con insistenza i baffi color pepe: “Cerca di vincerti e … insomma fatti coraggio. Guarda,
sai che ti dico? Io mi rimetto a letto” mentre lo diceva cominciò a eseguire “e anche tu ti
rimetti sotto le coperte, ecco, ecco, così; e adesso, al caldo, se credi diciamo insieme una decina
del rosario, perché nostro figlio torni sano e salvo a dispetto dei suoi sogni.”
Lucia fece segno di no, di no, scuotendo la testa sul cuscino: “Non è stato un sogno” sussurrò.
Ferrante spense la luce. […]