La mediazione tra le parti è molto più efficace se viene

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Mercoledì 11 Giugno 2014
COMMENTI & ANALISI
CONTRARIAN
LA BCE HA FATTO IL SUO
ORA LE BANCHE DEVONO
TORNARE AI TRE GRADI
DI UNA VOLTA
La Bce con le ultime misure varate ha tolto
qualsiasi alibi alle banche, che pur avendone
la possibilità non hanno fatto abbastanza
per prestare a famiglie e imprese nel quadro
del primo programma Ltro. Molti banchieri
dicono di avere
fatto il loro
dovere; forse
ci sono forti
differenze tra
comportamenti
e le medie
finiscono per
confondere;
forse sono
scuse sospette.
Sta di fatto
che i numeri
complessivi
Ignazio
Visco
dicono che il
braccio è stato
corto sul fronte
degli impieghi ai privati, e assai più lungo
verso i titoli di Stato. In realtà, per far ripartire
i finanziamenti servirebbe anche qualcos’altro,
che né la Bce né la Banca d’Italia possono fare.
È cioè necessario intervenire sui meccanismi
interni delle banche, da cui dipende il cambio
di atteggiamento verso l’erogazione dei crediti.
Lo sviluppo di sistemi di rating sempre più
articolati e complessi ha progressivamente
allontanato la funzione commerciale e
relazionale della banca da quella creditizia.
In passato, invece, con diversi gradi di delega,
erano il direttore di filiale, il capo area e
il direttore generale (si badi bene, tre soli
livelli, non di più) a trattare con i clienti e
a prendere le decisioni sul credito. Solo in
pochi casi davvero complessi intervenivano
organi specialistici o collegiali. Oggi, invece,
anche il direttore generale o l’amministratore
delegato di una banca sostengono di non poter
deliberare nulla, se le strutture del rating o del
monitoraggio dei rischi su crediti non si sono
espressi positivamente. E se non vogliono
prendere rischi i massimi vertici, che pure sono
ben pagati anche per le loro responsabilità,
figurarsi se lo farà un capo filiale. Alcune
banche sembrano voler tornare alla figura
del capo di una volta, con poteri diretti su
raccolta e impieghi. Il problema è che in
15 anni di strategie dettate dalla McKinsey
o da altri consulenti, si sono smantellate
abitudini e professionalità per ricostruire
le quali ci vorrà tempo. Anche i sistemi di
remunerazione sviluppati negli ultimi anni
non rendono facile il cambiamento. Oggi i
comitati remunerazione sono attentissimi
ai top manager e agli equilibri tra questi e i
consigli di amministrazione. Nessuno invece
interviene per cambiare gli effetti sui capi
filiale, la cui attività, in questo particolare
momento, è forse ancora più importante. Un
capo, motivato e dotato di adeguati poteri,
può produrre e deliberare per la sua filiale
100 operazioni da 500 mila euro in un anno.
E per la banca, 50 milioni di impieghi in
più per una filiale possono fare una grande
differenza sul conto economico; cento filiali,
5 miliardi in più di impieghi, 100 milioni di
maggiore margine d’interesse. Ma se il capo
filiale è terrorizzato dal rating e dall’ufficio
crediti, per paura di sbagliare non farà nulla.
E farà poco anche sapendo che, se pure a
fine anno centrasse il budget, verrà premiato
con poche centinaia di euro di differenza,
quando qualcun altro, al vertice, incasserà in
proporzione mille volte di più.
La mediazione tra le parti è molto più
efficace se viene fatta su base volontaria
P
er la mediazione civile il
2013 è stato un anno molto
interessante sotto il profilo
statistico, perché ha consentito
di effettuare rilevazioni sia in relazione a un periodo caratterizzato dall’assenza della mediazione
obbligatoria (primo-terzo trimestre del 2013) sia sul successivo
periodo (quarto trimestre) in cui
l’obbligatorietà è stata reintrodotta (con il Decreto cosiddetto del
Fare, n. 69/2013).
Dai dati presentati dal dipartimento di Statistica del ministero
di Giustizia nel corso di un incontro che si è tenuto presso lo studio
Legance in materia di mediazione, e che ha coinvolto alcuni tra
i maggiori studi legali italiani
specializzati in arbitrato e mediazione, i rappresentanti della Asla
(Associazione Studi Legali & Associati) e di Arbit (Associazione
italiana per l’arbitrato), funzionari delle Camere arbitrali delle
Camere di commercio di Roma
e Milano, dell’organismo di mediazione Adr Center, e il Dott.
Fabio Bartolomeo, dirigente del
dipartimento di Statistica presso
il ministero di Giustizia, è emerso
che in circa il 50% dei procedimenti di mediazione instaurati nel
2013 l’aderente non è comparso.
Il tasso di mancata comparizione
dell’aderente è inoltre risultato
proporzionalmente più basso nei
casi di mediazione volontaria.
Nel corso del dibattito è stato,
di Cecilia Carrara
e Francesca Salerno*
inoltre, evidenziato che la mancata comparizione dell’aderente
si verifica più spesso nei casi in
cui tra le parti coinvolte ci sono
enti assicurativi. Lo stesso trend
è stato rilevato in relazione al tasso di successo: la mediazione volontaria è risultata avere, in proporzione, più successo rispetto a
quella obbligatoria. In generale,
nei casi in cui l’aderente compare, circa il 60% delle mediazioni
si conclude con esito positivo e il
raggiungimento dell’accordo.
Questo tasso sale al 70% per le
mediazioni volontarie, mentre è
circa il 30% nei casi di mediazione obbligatoria. I dati statistici
rilevati hanno inoltre evidenziato un elevato tasso di insuccesso
della mediazione demandata dal
giudice, che si conclude con il
raggiungimento di un accordo in
non più del 22% dei casi. Il dibattito tra i professionisti ha evidenziato come possibili cause di
questo fenomeno il fatto che la
mediazione verrebbe demandata dal giudice in uno stadio già
avanzato del contenzioso, quando
le posizioni delle parti si sono ormai irrigidite, oppure il fatto che
il giudice talora non fornirebbe
alle parti stimoli sufficienti per
pervenire a un accordo. In con-
clusione, i dati raccolti testimoniano l’esistenza di una mediazione volontaria che, seppur non
particolarmente diffusa, ha più
successo rispetto alla mediazione
obbligatoria e a quella demandata
dal giudice.
Sotto il profilo delle prospettive
per il futuro, nel corso della discussione è stato sottolineato che
la nuova disposizione, che prevede la gratuità della mediazione in
caso di mancato accordo al primo incontro, dovrebbe incidere
favorevolmente sul tasso di non
comparizione dell’aderente, favorendo un possibile incremento
anche del tasso di successo.
Riguardo invece alla raccolta dei
dati in relazione a numeri, durata e distribuzione geografica dei
procedimenti connessi agli arbitrati rilevabili dinanzi ai tribunali
civili, i partecipanti all’incontro
hanno rilevato un grande interesse e utilità generali per approfondire la conoscenza e la diffusione
dei dati statistici inizialmente elaborati. In tal modo sarà possibile
avviare una riflessione documentata in materia, eventualmente per
promuovere una maggiore efficienza nel settore, comparando i
dati italiani con quelli europei, e
auspicabilmente avviando un dibattito informato anche a livello
di azione del legislatore. (riproduzione riservata)
* Legance Avvocati Associati
L’evasione fiscale internazionale è al tappeto
L’
evasione fiscale internazionale, uno sport molto amato
dai contribuenti più facoltosi di tutto il mondo, sembra
proprio avere i giorni contati.
La crisi finanziaria esplosa nel
2008, e le conseguenti necessità finanziarie di tutti i Paesi,
costretti a investire cifre enormi
per tappare le falle apertesi improvvisamente nei sistemi bancari più evoluti, hanno obbligato
gli Stati produttori di ricchezza a
dissotterrare l’ascia di guerra per
sconfiggere un mostro, appunto
l’evasione internazionale, che
stava sottraendo loro miliardi per
dirottarli nei Paesi-cassaforte. I
più decisi, naturalmente, sono
stati gli Stati Uniti d’America.
È di pochi giorni fa la notizia
che gli accordi Fatca hanno
ricevuto l’adesione di 77 mila
istituzioni finanziarie (tra banche, finanziarie, fiduciarie, trust
e similari) in 70 Paesi del mondo. Solo in Italia sono state 457.
Ma stupiscono soprattutto le 41
adesioni dall’Iraq, le 66 dalla
Turchia. E le oltre 4 mila dalla
Svizzera. Con gli accordi Fatca
(Foreign Account Tax Compliance Act) gli Usa, in sostanza, chiedono alle banche di altri Paesi di
rendere loro noto il nome e i dati
finanziari essenziali dei cittadini
statunitensi titolari di un deposito superiore a 50 mila dollari.
Una sorta di Anagrafe tributaria
di Marino Longoni
su scala planetaria. L’alternativa
sarebbe il versamento di un’imposta del 30% sui frutti del capitale investito.
L’istituzione finanziaria che si
rifiutasse di collaborare non potrebbe più operare sul territorio
americano. Di fatto non potrebbe
più trattare nemmeno in dollari.
In pratica, si tratta di una pistola
puntata alla tempia, che spiega
il successo dell’operazione. Soprattutto nelle piazze finanziarie
che fino a pochi anni fa venivano
considerate dai risparmiatori dei
fortini inespugnabili. L’azione
di persuasione americana è stata
accompagnata anche da sanzioni
multimiliardarie nei confronti degli istituti di credito che avevano
manovrato per nascondere capitali americani, nonché da condanne esemplari nei confronti di
contribuenti Usa, spediti per anni
dietro le sbarre. Modi bruschi, ma
efficaci.
Efficaci al punto di convincere
anche l’Ocse a modificare la propria politica di lotta all’evasione:
la strategia delle liste nere, bianche o grigie volte a incentivare gli
accordi bilaterali tra Stati si è infatti rivelata fallimentare. Troppo
facile infatti sottoscrivere accordi
fittizi fatti apposta per uscire dal-
le liste di proscrizione. Così un
mese fa a Parigi l’Ocse ha deciso
di cambiare strategia e ha presentato un accordo, già sottoscritto
da 44 Paesi, ispirato proprio al
Fatca a stelle e strisce. Adesso si
punta allo scambio automatico di
informazioni tra i Paesi aderenti
all’accordo, per gli atri si prepara
una lista nera.
Il problema è che non si capisce ancora come avverrà questo
scambio di dati: le regole del
nuovo modello Ocse dovrebbero essere chiarite a fine ottobre a
Berlino in occasione di un Forum
mondiale sulla trasparenza fiscale
con l’obiettivo di condividere le
prime informazioni nel 2017 sui
conti intrattenuti dal 31 dicembre 2015 in avanti. Una differenza importante tra Fatca e Ocse è
che nel Fatca la soglia minima
per avviare la segnalazione è di
50.000 dollari, mentre nel modello dell’Ocse tale limite non
esiste. Non sarà facile mettere a
punto un meccanismo efficace,
visto che dietro l’Ocse non c’è
la forza politica degli Usa, bensì
44 Paesi con obiettivi e ambizioni molto diversi tra loro. Ma in
queste condizioni la voluntary disclosure, già operativa in alcuni
Paesi e ancora allo studio in altri,
tra cui l’Italia, diventa per molti
contribuenti l’ultima ciambella
di salvataggio. (riproduzione riservata)