20 Mercoledì 11 Giugno 2014 COMMENTI & ANALISI CONTRARIAN LA BCE HA FATTO IL SUO ORA LE BANCHE DEVONO TORNARE AI TRE GRADI DI UNA VOLTA La Bce con le ultime misure varate ha tolto qualsiasi alibi alle banche, che pur avendone la possibilità non hanno fatto abbastanza per prestare a famiglie e imprese nel quadro del primo programma Ltro. Molti banchieri dicono di avere fatto il loro dovere; forse ci sono forti differenze tra comportamenti e le medie finiscono per confondere; forse sono scuse sospette. Sta di fatto che i numeri complessivi Ignazio Visco dicono che il braccio è stato corto sul fronte degli impieghi ai privati, e assai più lungo verso i titoli di Stato. In realtà, per far ripartire i finanziamenti servirebbe anche qualcos’altro, che né la Bce né la Banca d’Italia possono fare. È cioè necessario intervenire sui meccanismi interni delle banche, da cui dipende il cambio di atteggiamento verso l’erogazione dei crediti. Lo sviluppo di sistemi di rating sempre più articolati e complessi ha progressivamente allontanato la funzione commerciale e relazionale della banca da quella creditizia. In passato, invece, con diversi gradi di delega, erano il direttore di filiale, il capo area e il direttore generale (si badi bene, tre soli livelli, non di più) a trattare con i clienti e a prendere le decisioni sul credito. Solo in pochi casi davvero complessi intervenivano organi specialistici o collegiali. Oggi, invece, anche il direttore generale o l’amministratore delegato di una banca sostengono di non poter deliberare nulla, se le strutture del rating o del monitoraggio dei rischi su crediti non si sono espressi positivamente. E se non vogliono prendere rischi i massimi vertici, che pure sono ben pagati anche per le loro responsabilità, figurarsi se lo farà un capo filiale. Alcune banche sembrano voler tornare alla figura del capo di una volta, con poteri diretti su raccolta e impieghi. Il problema è che in 15 anni di strategie dettate dalla McKinsey o da altri consulenti, si sono smantellate abitudini e professionalità per ricostruire le quali ci vorrà tempo. Anche i sistemi di remunerazione sviluppati negli ultimi anni non rendono facile il cambiamento. Oggi i comitati remunerazione sono attentissimi ai top manager e agli equilibri tra questi e i consigli di amministrazione. Nessuno invece interviene per cambiare gli effetti sui capi filiale, la cui attività, in questo particolare momento, è forse ancora più importante. Un capo, motivato e dotato di adeguati poteri, può produrre e deliberare per la sua filiale 100 operazioni da 500 mila euro in un anno. E per la banca, 50 milioni di impieghi in più per una filiale possono fare una grande differenza sul conto economico; cento filiali, 5 miliardi in più di impieghi, 100 milioni di maggiore margine d’interesse. Ma se il capo filiale è terrorizzato dal rating e dall’ufficio crediti, per paura di sbagliare non farà nulla. E farà poco anche sapendo che, se pure a fine anno centrasse il budget, verrà premiato con poche centinaia di euro di differenza, quando qualcun altro, al vertice, incasserà in proporzione mille volte di più. La mediazione tra le parti è molto più efficace se viene fatta su base volontaria P er la mediazione civile il 2013 è stato un anno molto interessante sotto il profilo statistico, perché ha consentito di effettuare rilevazioni sia in relazione a un periodo caratterizzato dall’assenza della mediazione obbligatoria (primo-terzo trimestre del 2013) sia sul successivo periodo (quarto trimestre) in cui l’obbligatorietà è stata reintrodotta (con il Decreto cosiddetto del Fare, n. 69/2013). Dai dati presentati dal dipartimento di Statistica del ministero di Giustizia nel corso di un incontro che si è tenuto presso lo studio Legance in materia di mediazione, e che ha coinvolto alcuni tra i maggiori studi legali italiani specializzati in arbitrato e mediazione, i rappresentanti della Asla (Associazione Studi Legali & Associati) e di Arbit (Associazione italiana per l’arbitrato), funzionari delle Camere arbitrali delle Camere di commercio di Roma e Milano, dell’organismo di mediazione Adr Center, e il Dott. Fabio Bartolomeo, dirigente del dipartimento di Statistica presso il ministero di Giustizia, è emerso che in circa il 50% dei procedimenti di mediazione instaurati nel 2013 l’aderente non è comparso. Il tasso di mancata comparizione dell’aderente è inoltre risultato proporzionalmente più basso nei casi di mediazione volontaria. Nel corso del dibattito è stato, di Cecilia Carrara e Francesca Salerno* inoltre, evidenziato che la mancata comparizione dell’aderente si verifica più spesso nei casi in cui tra le parti coinvolte ci sono enti assicurativi. Lo stesso trend è stato rilevato in relazione al tasso di successo: la mediazione volontaria è risultata avere, in proporzione, più successo rispetto a quella obbligatoria. In generale, nei casi in cui l’aderente compare, circa il 60% delle mediazioni si conclude con esito positivo e il raggiungimento dell’accordo. Questo tasso sale al 70% per le mediazioni volontarie, mentre è circa il 30% nei casi di mediazione obbligatoria. I dati statistici rilevati hanno inoltre evidenziato un elevato tasso di insuccesso della mediazione demandata dal giudice, che si conclude con il raggiungimento di un accordo in non più del 22% dei casi. Il dibattito tra i professionisti ha evidenziato come possibili cause di questo fenomeno il fatto che la mediazione verrebbe demandata dal giudice in uno stadio già avanzato del contenzioso, quando le posizioni delle parti si sono ormai irrigidite, oppure il fatto che il giudice talora non fornirebbe alle parti stimoli sufficienti per pervenire a un accordo. In con- clusione, i dati raccolti testimoniano l’esistenza di una mediazione volontaria che, seppur non particolarmente diffusa, ha più successo rispetto alla mediazione obbligatoria e a quella demandata dal giudice. Sotto il profilo delle prospettive per il futuro, nel corso della discussione è stato sottolineato che la nuova disposizione, che prevede la gratuità della mediazione in caso di mancato accordo al primo incontro, dovrebbe incidere favorevolmente sul tasso di non comparizione dell’aderente, favorendo un possibile incremento anche del tasso di successo. Riguardo invece alla raccolta dei dati in relazione a numeri, durata e distribuzione geografica dei procedimenti connessi agli arbitrati rilevabili dinanzi ai tribunali civili, i partecipanti all’incontro hanno rilevato un grande interesse e utilità generali per approfondire la conoscenza e la diffusione dei dati statistici inizialmente elaborati. In tal modo sarà possibile avviare una riflessione documentata in materia, eventualmente per promuovere una maggiore efficienza nel settore, comparando i dati italiani con quelli europei, e auspicabilmente avviando un dibattito informato anche a livello di azione del legislatore. (riproduzione riservata) * Legance Avvocati Associati L’evasione fiscale internazionale è al tappeto L’ evasione fiscale internazionale, uno sport molto amato dai contribuenti più facoltosi di tutto il mondo, sembra proprio avere i giorni contati. La crisi finanziaria esplosa nel 2008, e le conseguenti necessità finanziarie di tutti i Paesi, costretti a investire cifre enormi per tappare le falle apertesi improvvisamente nei sistemi bancari più evoluti, hanno obbligato gli Stati produttori di ricchezza a dissotterrare l’ascia di guerra per sconfiggere un mostro, appunto l’evasione internazionale, che stava sottraendo loro miliardi per dirottarli nei Paesi-cassaforte. I più decisi, naturalmente, sono stati gli Stati Uniti d’America. È di pochi giorni fa la notizia che gli accordi Fatca hanno ricevuto l’adesione di 77 mila istituzioni finanziarie (tra banche, finanziarie, fiduciarie, trust e similari) in 70 Paesi del mondo. Solo in Italia sono state 457. Ma stupiscono soprattutto le 41 adesioni dall’Iraq, le 66 dalla Turchia. E le oltre 4 mila dalla Svizzera. Con gli accordi Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act) gli Usa, in sostanza, chiedono alle banche di altri Paesi di rendere loro noto il nome e i dati finanziari essenziali dei cittadini statunitensi titolari di un deposito superiore a 50 mila dollari. Una sorta di Anagrafe tributaria di Marino Longoni su scala planetaria. L’alternativa sarebbe il versamento di un’imposta del 30% sui frutti del capitale investito. L’istituzione finanziaria che si rifiutasse di collaborare non potrebbe più operare sul territorio americano. Di fatto non potrebbe più trattare nemmeno in dollari. In pratica, si tratta di una pistola puntata alla tempia, che spiega il successo dell’operazione. Soprattutto nelle piazze finanziarie che fino a pochi anni fa venivano considerate dai risparmiatori dei fortini inespugnabili. L’azione di persuasione americana è stata accompagnata anche da sanzioni multimiliardarie nei confronti degli istituti di credito che avevano manovrato per nascondere capitali americani, nonché da condanne esemplari nei confronti di contribuenti Usa, spediti per anni dietro le sbarre. Modi bruschi, ma efficaci. Efficaci al punto di convincere anche l’Ocse a modificare la propria politica di lotta all’evasione: la strategia delle liste nere, bianche o grigie volte a incentivare gli accordi bilaterali tra Stati si è infatti rivelata fallimentare. Troppo facile infatti sottoscrivere accordi fittizi fatti apposta per uscire dal- le liste di proscrizione. Così un mese fa a Parigi l’Ocse ha deciso di cambiare strategia e ha presentato un accordo, già sottoscritto da 44 Paesi, ispirato proprio al Fatca a stelle e strisce. Adesso si punta allo scambio automatico di informazioni tra i Paesi aderenti all’accordo, per gli atri si prepara una lista nera. Il problema è che non si capisce ancora come avverrà questo scambio di dati: le regole del nuovo modello Ocse dovrebbero essere chiarite a fine ottobre a Berlino in occasione di un Forum mondiale sulla trasparenza fiscale con l’obiettivo di condividere le prime informazioni nel 2017 sui conti intrattenuti dal 31 dicembre 2015 in avanti. Una differenza importante tra Fatca e Ocse è che nel Fatca la soglia minima per avviare la segnalazione è di 50.000 dollari, mentre nel modello dell’Ocse tale limite non esiste. Non sarà facile mettere a punto un meccanismo efficace, visto che dietro l’Ocse non c’è la forza politica degli Usa, bensì 44 Paesi con obiettivi e ambizioni molto diversi tra loro. Ma in queste condizioni la voluntary disclosure, già operativa in alcuni Paesi e ancora allo studio in altri, tra cui l’Italia, diventa per molti contribuenti l’ultima ciambella di salvataggio. (riproduzione riservata)
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