Filosofia al Mare, Ortona, Luglio 2014 Globalizzazione del bene? Gereon Wolters (Università di Costanza, Germania) I. Cos’è “globalizzazione”? Vorrei iniziare il mio intervento nel modo più “frizzante” possibile, partendo cioè da una definizione tratta da Wikipedia, l’enciclopedia più globalizzata al mondo: «La globalizzazione si può definire una situazione nella quale mercati, produzioni, consumi e anche modi di vivere e di pensare sono connessi su scala mondiale in un continuo flusso di scambi che li rende interdipendenti e tende a unificarli secondo modelli comuni ma che si divide in vari settori che contengono diversi aspetti».1 Vorrei subito fornire un sintetico commento di questa definizione che organizzerò in tre punti. Iniziamo con il riferimento ai «mercati» e alle «produzioni»: uno sguardo sui label in un qualsiasi grande magazzino europeo ci mostra che nei nostri paesi parecchie fabbriche che per tanti anni erano dei veri e propri gioielli delle rispettive industrie nazionali sono state spazzate via innanzitutto dalle industrie asiatiche. Mi riferisco a Paesi come la Cina, l’India, le Filippine o il Bangladesh. A volte qui da noi si è trovato il modo di sostituire posti di lavoro, perduti nella competizione globale, tramite innovazioni in altri campi. In tutta questa vicenda, però, si assiste a una perdita notevole da parte dell’Europa. E anche il futuro dell’Asia non si mostra del tutto roseo. Le condizioni di lavoro solitamente sono terribili, gli stipendi sono minimi e i lavoratori sono spesso mantenuti come schiavi. Se passiamo poi al riferimento ai «modi di vivere» globalizzati, come si legge nella definizione di Wikipedia, è evidente che lo stile di vita – almeno nei Paesi 1 Consultato il 30 settembre 2013. – Esistono certamente esposizioni più approfondite, per esempio Marramao (2003), specialmente il Capitolo I. 1 europei – sta diventando sempre più globalizzato per non dire uniforme. La gente segue la stessa moda, mangia presso lo stesso fast food, sente la stessa musica pop, guarda gli stessi film, legge gli stessi libri e così via. Quanto ai fast food devo riscontrare che in Italia è ben evidente la più grande resistenza alla globalizzazione all’insegna di McDonald’s & Co. Non è un caso che proprio nel Bel Paese nacque il movimento slow food che – fortunatamente – nel frattempo si sta a sua volta globalizzando. Ed è ancora l’Italia che finora ha resistito alla colonizzazione da parte di Starbucks. Su Facebook gira un manifesto che annuncia l’apertura di caffetterie Starbucks in Italia, che è però un’autentica “bufala”. Speriamo che non ne preannunci l’arrivo, anche se mi auguro di cuore che le ragioni dell’attuale riserbo americano cambino. Harold Schultz, l’amministratore delegato di Starbucks, così si pronunciava il 20 Marzo 2013 nel canale televisivo in assoluto più globalizzato, l’americana CNN: «Io onestamente penso che aprire oggi un negozio in Italia data la situazione politica e economica non sia nell’interesse primario dei nostri azionisti.»2 Rimanendo all’interno del contesto della definizione Wiki, se andiamo alla terza parte della definizione, vale a dire quella relativa ai «modi di pensare» globalizzati, ci stiamo avvicinando al bene. Le concezioni del bene sono per così dire “prodotti” del pensare, così come lo è anche la scienza. Dalle nostre parti diverse concezioni del bene furono prodotte ben da due millenni e mezzo, innanzitutto nei think tanks della religione e della filosofia. Il prodotto filosofico si chiama da sempre “etica”, mentre quello religioso fa riferimento a un Dio buono e i suoi comandamenti. Nelle sezioni seguenti mi limiterò a occuparmi della produzione filosofica. Qui la prima domanda sorge spontanea: se le concezioni del bene nel mondo globalizzato fossero prodotti come quelli materiali, perché non facciamo un outsourcing della domanda del bene allo stesso modo in cui facciamo produrre i computer in Cina o eseguire l’elaborazione dei dati in India e cosi via? Potremmo per esempio lasciar stabilire all’Istituto dell’Accademia delle Scienze di Pechino se il recupero delle cellule staminali da embrioni residui dopo la fecondazione in vitro sia 2 “I think candidly opening a store in Italy today given the political issues and the economic issues I don’t think is in the primary interest of our shareholders.” – si veda: http://outfront.blogs.cnn.com/2013/03/20/outfront-extra-why-are-there-no-starbucks-in-italy (visto nel Luglio 2014). 2 bene o male. Potremmo poi chiedere a buon prezzo all’Indian Council for Philosophical Research a Nuova Delhi di determinare una volta per sempre cos’è il bene in generale? E così via dicendo. Un tale outsourcing del pensare ci permetterebbe di chiudere interi dipartimenti o, forse, perfino università e risparmiare così tanti soldi. In una situazione sempre più difficile per le università, il fatto che finora, a quanto pare, a nessun politico sia venuto in mente di fare una proposta simile, è forse un barlume di speranza. Certo, ci potrebbero essere da parte dei politici semplicemente ignoranza o disinteresse. Non vorrei far passare sotto silenzio, però, il fatto che perfino in questo ambiente sempre più egoistico, aggressivo e volgare sia sopravvissuta una convinzione civile, ossia che, diversamente da tanti processi produttivi e prestazioni di servizi, la “produzione” di concezioni filosofiche del bene è legata alla nostra vita e alla nostra cultura a tal punto che solo noi possiamo farla. Rendere outsourcing il discorso sul bene sarebbe come rendere outsourcing noi stessi. Resta la domanda, se anche per la filosofia del bene vale quel «continuo flusso di scambi che rende mercati, produzioni, consumi etc. interdipendenti e tende a unificarli secondo modelli comuni», come si legge nella definizione Wiki. II. Cos’è il bene? Per chiarire meglio questo punto, dobbiamo per prima cosa occuparci del concetto del bene. Il bene in senso filosofico ha a che fare con le nostre azioni morali., Quando definiamo “buona” un’azione, ciò dipende solo dal gusto o dai nostri sentimenti? Il regno del bene è paragonabile all’ambito culinario? Se uno ammazza la sua famiglia, possiamo limitarci ad alzare le spalle e a dire de gustibus non est disputandum (non si deve discutere sui gusti), come in un ristorante cinese, se qualcuno si mangia con gusto un cagnolino? Una tale posizione sul concetto di bene piena di “rassegnazione” viene confermata da una panoramica superficiale sulla storia della filosofia: qui ci si rende subito conto che una definizione unica e universale del bene non esiste. Il concetto del bene è piuttosto legato a differenti ambienti storici e culturali. Inoltre, già nel campo della filosofia antica, è stato messo 3 in rilievo un aspetto ulteriore del relativismo del bene. Platone nella Repubblica evidenzia una distinzione importante. Ci sono due tipi fondamentali di beni: “Beni che amiamo per se stessi, oppure per i vantaggi che arrecano (per esempio avere intelligenza, vista e salute)”.3 Questa distinzione mi sembra essenziale per la nostra domanda “cos’è il bene?”. Nell’antichità troviamo diverse proposte che riguardano il bene in sé, cioè le cose che sono intrinsecamente buone: Platone e il suo allievo Aristotele parlano perfino di un sommo bene. Lo chiamano eudaimonia, vale a dire felicità. La felicità come sommo bene caratterizza essenzialmente l’intero pensiero antico.4 Ci sono però notevoli differenze su cosa significhi felicità e su come sia possibile ottenerla. Secondo Platone essa consiste innanzitutto in uno stato d’animo che risulta da una vita retta e virtuosa. Aristotele condivide la concezione platonica del sommo bene come felicità, ma più di Platone accentua il mezzo indispensabile per raggiungerla: la razionalità (ma anche l’apporto di desideri ed emozioni), una disposizione naturale dell’uomo, che è indispensabile per trovare quel giusto mezzo tra gli estremi, che caratterizza una virtù (etica e non dianoetica). Così, per realizzare per esempio la virtù del coraggio si deve trovare il giusto mezzo tra gli estremi della viltà e della temerarietà. Epicuro, invece, in piena età ellenistica, propone una nuova e rivoluzionaria concezione della felicità, che colloca al centro dell’attenzione il corpo materialmente connotato. La felicità epicurea non consiste più nel vivere virtuosamente o almeno le virtù - che rimangono fondamentali anche in Epicuro - sono strumentali al piacere. Nella sua recente e magistrale presentazione della filosofia epicurea Francesco Verde scrive in merito: “Il piacere è il nucleo centrale dell’etica di Epicuro”. 5 Questa definizione del sommo bene come piacere fu subito fraintesa fino a oggi e considerata come un mero e volgare “edonismo”: per noi un “Epicureo” è, infatti, una 3 Platone, Repubblica 357b. 4 La storiografia recente, in effetti, soprattutto dopo gli studi sul pensiero antico di Pierre Hadot, ha sottolineato come la filosofia antica, in sostanza, non sia altro che un insieme organizzato di “raccomandazioni” o “esercizi” spirituali per l’ottenimento della felicità che per un Greco di V e IV secolo a.C. è qualcosa di concretamente ottenibile e realizzabile qui e ora in questa vita. 5 Verde (2013), p. 162. 4 persona che gode nel mangiare, nel bere bene, nel fare sesso ecc. e che non si interessa più di null’altro. Dallo stesso Epicuro, però, il piacere fu definito in maniera assai diversa: esso “coincide direttamente con l’assenza di dolore nel corpo e con l’assenza di turbamento nell’anima”.6 Il piacere epicureo, quindi, è tutt’altro che un volgare edonismo: esso è “intrinsecamente legato alla sottrazione del dolore piuttosto che all’aggiunta continua (e smodata) di piaceri di diversa natura.” 7 Non vorrei dilungarmi in questa sede sulle concezioni del bene nel Medioevo e nel Rinascimento fino al Settecento. Si comprende bene che nella maggior parte dei casi il riferimento a Dio come fonte e criterio del bene era essenziale. Il gran numero di concezioni distinte del bene fino a oggi suggerisce, che come in cucina, anche in riferimento al bene vale il motto “non si deve discutere sui gusti”. Dubito però che sia veramente così. Esistono, infatti, azioni che sono reputate dappertutto e in qualsiasi società come mali, per esempio l’omicidio, il furto, la frode e così via. Altre azioni, invece, vengono considerate dappertutto come bene, per esempio l’onestà, la prontezza nel soccorrere, l’amore verso i genitori ecc. Inoltre, in tutte le culture troviamo uno strumento affascinante per giudicare moralmente le azioni. Noi stessi l’abbiamo imparato fin da bambini: la cosiddetta regola aurea, la regola d’oro.8 Una delle tante formulazioni è: “Fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te!”. Con la regola d’oro facciamo un primo passo al di là dell’idea che il bene fosse solo una questione di gusto. Possiamo dire, piuttosto, che la regola d’oro è una formulazione semplice di ciò che i filosofi chiamano “universalizzazione”, ovvero un tipo di generalizzazione degli orientamenti delle nostre azioni. La regola “Fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te!” ci dice, infatti, di evitare da parte nostra azioni che non vorremmo vedere eseguite dagli altri su di noi. Degli orientamenti possono essere morali solo se in situazioni equivalenti essi valgono per tutti. La formulazione più elaborata di questo principio è forse il cosiddetto imperativo categorico di 6 Verde (2013), ibid. 7 Verde (2013), p. 167. 8 Le voci „Golden Rule“ risp. “Goldene Regel” nelle versioni inglese e tedesca di Wikipedia forniscono ulteriori citazioni da scritti importanti di altre culture. Per il Cristianesimo si vede anche Matteo 7, 12 e Luca 6, 31. 5 Immanuel Kant (1724-1804): "Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale"9. Con l’idea kantiana di “universalizzazione” comincia una tradizione di concezioni del bene, che viene chiamata “deontologica”, cioè legata al dovere. Nella prospettiva deontologica il bene non consiste più in valori concreti come nel vivere virtuosamente o nel piacere di Epicuro. Il bene è diventato piuttosto un qualcosa di formale: le azioni sono moralmente buone, se seguono l’imperativo categorico. Accanto alla linea deontologica kantiana c’è un altro approccio che non lascia il bene al gusto individuale, il cosiddetto utilitarismo, anch’esso esito dell’Illuminismo del Settecento. L’utilitarismo fu “inventato” dall’Inglese Jeremy Bentham (1748-1832). Secondo Bentham il bene consiste nella “massima felicità del maggior numero possibile di persone”. Esso, quindi, viene definito dalle conseguenze del nostro agire. Per questo motivo, l’utilitarismo che ha segnato innanzitutto la tradizione anglosassone, viene anche chiamato “consequenzialismo”. 10 Queste due concezioni moderne e universalistiche del bene, la deontologia e il consequenzialismo, nella maggior parte dei casi giungono a risposte simili. Esse hanno anche in comune il fatto che si tratta di approcci razionali e illuministici. Ciò significa che, a differenza del Millennio precedente, non vengono più invocati Dio e i suoi rappresentanti terreni per insegnarci cosa sia il bene, ma solo la propria ragione e la propria buona volontà. Ambedue sono fallibili. Ciononostante, le concezioni universalistiche del bene sono le migliori risposte, che si potevano fornire da 250 anni alla domanda del bene. Non è esagerata l’affermazione che le concezioni illuministiche del bene hanno segnato sia lo sviluppo sia lo stato attuale dei sistemi politici e giuridici in Occidente. Tra i loro frutti più preziosi va menzionata la teoria dei diritti fondamentali dell’uomo, che ha trovato il suo culmine dal punto di vista politico nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” delle Nazione Unite, firmata a Parigi nel 1948. 9 „Handle nur nach derjenigen Maxime, durch die du zugleich wollen kannst, dass sie ein allgemeines Gesetz werde.“ Kant , Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Akad. Ausg. IV, p. 421. 10 Stranamente lo stesso Bentham era uno de critici della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen di 1789; per un riassunto della posizione di Bentham si vede Hoffmann (2012). 6 Di seguito mi limiterò a trattare della globalizzazione del bene nella forma della globalizzazione dei diritti dell’uomo. Prima di parlare della “Dichiarazione” del 1948 vorrei dare uno sguardo agli altri tentativi della globalizzazione del bene. III. Globalizzazione del bene La Grecia antica non era minimamente interessata ad alcuna globalizzazione del bene. Oggetti di rispetto morale reciproco erano solo i cittadini (polites) della propria polis, cioè della propria città, e, al massimo, delle poleis alleate. Perfino nella propria polis non tutti beneficiavano di uguale rispetto morale. Si comprende perfettamente che possedere degli schiavi era cosa ben compatibile con la propria felicità e che lo status e la condizione morale delle donne erano di gran lunga inferiori rispetto agli uomini! Il filosofo australiano Peter Singer ha osservato nella storia intellettuale dell’Occidente un Expanding Circle, cioè un cerchio in espansione degli esseri che possono richiedere rispetto morale, un cerchio, che a suo avviso ha ormai superato addirittura i limiti della specie umana, includendo anche animali provvisti della capacità di soffrire. A mio avviso Singer ha pienamente ragione a definire questo sviluppo millenario “moral progress”.11 A questo punto dobbiamo arrestarci per fare una distinzione importante, vale a dire quella tra ciò che è fattuale e ciò che è normativo. Sappiamo bene che nel mondo odierno la schiavitù è ancora molto diffusa, anche se è forse proibita dalla legge. Le donne nella maggior parte del mondo sono emarginate o, quanto meno, hanno diritti minori rispetto a quelli degli uomini, per non parlare degli animali in grado di provare sofferenza. Il cerchio in espansione di esseri che meritano identico rispetto morale non descrive, quindi, un fatto del nostro mondo. È piuttosto una norma, un imperativo, che aspetta ancora di essere realizzato universalmente. Ciò che vale per l’expanding circle di Singer, vale anche per le concezioni storiche del 11 Singer (2011). 7 bene in generale. Sono tutte proposte normative, solo a volte effettivamente seguite dagli uomini. Più spesso però la realtà morale non corrisponde alle norme. Ognuno di noi, eccetto i pochi santi, fornisce esempi d’incoerenza morale quasi ogni giorno. Per non creare eccessivo imbarazzo, scelgo un esempio del Settecento: Thomas Jefferson, autore principale della “Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti” (1776), si esprimeva così: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi vi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità»12. Al tempo stesso Jefferson nel corso della sua vita possedeva circa 600 schiavi e aveva avuto almeno cinque figli dalla sua schiava Sally Hemmings. Per quanto ne sappiamo, Jefferson – insieme alla maggior parte dei suoi contemporanei – non si è mai accorto dell’ovvia contraddizione tra i suoi ideali illuministici e il suo status di padrone di schiavi, di cui sfruttava il loro lavoro, possibilmente abusandone perfino sessualmente.13 Negli States ci sono voluti quasi due secoli per agiungere negli anni Sessanta del secolo scorso all’uguaglianza razziale. Torniamo all’incoerenza tra gli ideali e la realtà del bene in relazione alla sua globalizzazione. Il primo tentativo di globalizzazione del bene che conosco è l’esortazione di Gesù alla missione che troviamo nel Nuovo Testamento, per esempio nel Vangelo di Matteo (28, 19-20): “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato.” – Si comprende da sé che tutto ciò che Gesù aveva comandato corrisponde al bene. Nel corso dei secoli fino al suo culmine nel XIX secolo la missione cristiana ha assunto forme molto diverse. Quasi tutte hanno avuto in comune l’uso della spada per aumentare la forza di persuasione del 12 “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty, and the Pursuit of Happiness.” 13 Cf. Gerste (2014). L’autore riferisce di una mostra (“Slavery at Jefferson’s Monticello”) che si tiene a Philadelphia da aprile fino ad ottobre 2014. - http://www.visitphilly.com/events/philadelphia/slavery-atjeffersons-monticello/ 8 bene nella sua versione cristiana, o per meglio dire, nelle sue varie versioni. In quasi tutti i casi, la globalizzazione serviva innanzitutto per giustificare acquisizioni territoriali. Gli esempi della violenta globalizzazione cristiana abbondano. Vorrei qui ricordare solo alla fine dell’VIII secolo Carlo Magno e le guerre sassoni, poi le Crociate, l’Ordo Teutonicus, che, dopo i suoi inizi per scopi caritativi a Gerusalemme durante la Terza Crociata, si mise in marcia a partire del XIII secolo per una “crociata del nord”. Questa consisteva nella colonizzazione e nella cristianizzazione delle tribù baltiche e di diverse parti dell’attuale Polonia.14 Dicevo, che la globalizzazione cristiana del bene raggiunse il suo culmine nell’Ottocento, quando, per esempio nel mondo cattolico, venne fondato un gran numero di congregazioni religiose con il solo scopo della missione. Non è un caso che questo periodo aureo della missione cattolica coincida col colonialismo. Sotto la protezione del dominio coloniale, la globalizzazione del bene, così definita dagli stessi colonizzatori, poteva finalmente fiorire. La globalizzazione missionaria del bene a differenza di quella economica non conteneva però uno scambio. Era piuttosto una strada a senso unico. Passiamo ora dalla globalizzazione del bene in senso cristiano a quella universale già menzionata che troviamo nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” delle Nazione Unite del 1948. L’avevo caratterizzata come frutto del pensiero universalistico dell’Illuminismo europeo. Tale dichiarazione è quasi un riassunto delle diverse dichiarazioni simili che prendono le mosse con la “Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti” del 1776 e la Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen dell’Assemblea Nazionale Francese del 1789. Il fatto che la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” sia una dichiarazione delle Nazioni Unite, esprime bene questo aspetto universalistico.15 14 L’Ordo Teutonicus esiste ancor’oggi con sede centrale a Vienna. È tornato però alle sue origini caritative. Nella Wikipedia Italiana c’è un’ottima voce “ordine teutonico” (consultata nel Giugno 2014). 15 Dobbiamo però renderci conto che la “Dichiarazione” non è un trattato di diritto internazionale, ma solo una risoluzione dell’Assemblea Generale, che non obbliga giuridicamente gli Stati che l’hanno votata. Ci sono tuttavia dichiarazioni successive, che possiedono un obbligo giuridico e risultano più o meno equivalenti alla “Dichiarazione” del 1948. Si tratta del “Patto internazionale sui diritti economici e culturali” e del “Patto internazionale sui diritti civili e politici”, ambedue entrati in vigore nel 1976, ma 9 Possiamo limitarci quindi alla “Dichiarazione”. Il primo articolo recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.”16 Questo è nient’altro che una versione delle concezioni universalistiche del bene, che sono iniziate con l’Illuminismo. I diritti dell’uomo secondo la “Dichiarazione” sono per prima cosa (I) universali, cioè sono validi per tutti gli uomini; in secondo luogo (II) sono egualitari, cioè valgono per tutti nello stesso modo; sono, poi (III), categorici, cioè valgono in modo incondizionato e sono, infine (IV), individuali e soggettivi, perché sono validi per ogni singolo uomo. Esempi di tali diritti universali dell’uomo sono: il “diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” (art. 3); la proibizione della schiavitù (art. 4); il divieto di “trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti” (art. 5); una serie di articoli che assicurano l’uguaglianza nel contesto giudiziario; “il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione” (art. 16); “il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione” (art. 18); “la liberta di opinione e di espressione” (art. 19). Queste concezioni universalistiche ed egualitarie del bene non sono viste di buon occhio da tutte le culture del mondo. Spesso sono considerate come espressioni dell’imperialismo culturale occidentale.17 Innanzitutto il mondo islamico ha grande difficoltà nell’accettare queste “norme”. Non stupisce, quindi, che nel 1990 la “Conferenza Islamica dei Ministri degli Esteri” ha approvato una “Dichiarazione non ratificati però da circa 25 stati membri delle Nazione Unite, tra cui Cina, Cuba, Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Singapore e così via. 16 La versione inglese si trova sul sito delle Nazione Unite: http://www.un.org/en/documents/udhr/ 17 Si vede Barber (2012). 10 Islamica dei Diritti dell’Uomo”, che consiste di 25 articoli.18 Di particolare importanza sono gli ultimi due: L’Articolo 24 suona così: “Tutti i diritti e le libertà enunciate nelle presente Dichiarazione sono soggette alla Shari’ah Islamica.” Ciò è confermato dall’Articolo 25: “La Shari’ah Islamica è la sola fonte di riferimento per l'interpretazione di qualsiasi articolo della presente Dichiarazione.” – La fonte e il criterio dei diritti umani è quindi la tradizione giuridica islamica, basata sul Corano e le hadith, vale a dire i Detti del Profeta. Questo fondamento religioso è in forte contrasto con la concezione illuministica, egualitaria e universalizzante, che si basa sulla sola ragione. Inoltre, la Shari’ah, come ogni testo - innanzitutto ogni testo religioso - è oggetto di diverse interpretazioni, da quelle più conservatrici a quelle più liberali, come sappiamo bene dalla storia del cristianesimo. È un fatto, però, che nella maggior parte dei Paesi Islamici prevalgono interpretazioni più o meno conservatrici. Il particolarismo della “Dichiarazione Islamica” è ben evidente non solo nel riferimento generale alla Shari’ah, ma anche in articoli specifici. Così per esempio: l’Articolo 2 dichiara: “a) La vita è un dono dato da Dio e il diritto alla vita è garantito a ogni essere umano. È dovere degli individui, delle società e degli stati proteggere questo diritto da ogni violazione ed è vietato sopprimere la vita tranne che per una ragione prescritta dalla Shari'ah.” – Non c’è dubbio, che i guerrieri di Dio in diversi Paesi Islamici, quando sopprimono la vita dei loro avversari e presentano le loro teste tagliate sul Internet si sentono in piena sintonia con la Shari’ah. L’Articolo 5 dice: “Uomini e donne hanno il diritto al matrimonio e nessuna restrizione derivante da razza, colore o nazionalità”. Il contenuto di questo articolo è buono ma, diversamente dalla “Dichiarazione Universale”, non viene menzionata una restrizione derivante dalla religione. Infatti, siccome secondo la Shari’ah l’appartenenza religiosa del padre definisce quella dei figli, alle donne musulmane è proibito sposare uomini di altre religioni, mentre i maschi musulmani possono sposare donne cristiane o ebraiche. 18 http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20050107184105 (visto nel Giugno 2014). 11 L’Articolo 6 garantisce alla donna di essere “uguale all’uomo in dignità umana”, parla però di diritti e obblighi speciali e dichiara “il marito […] responsabile del mantenimento e del benessere della famiglia”. Inoltre, l’uomo può avere fino a quattro mogli, mentre alla donna musulmana è concesso un solo marito. – Restrizioni simili valgono per la libertà della religione (Introduzione, Art. 9, 10), la libertà della scienza (art. 16), l’espressione della propria opinione (art. 22). Particolarismi relativi ai diritti dell’uomo sono riscontabili però non solo nel mondo islamico. Anche in ambienti non o poco democratici africani e asiatici c’è spesso una forte polemica contro l’universalismo egualitario della “Dichiarazione Universale” delle Nazione Unite, considerato come un’imposizione occidentale sulle loro culture. Queste critiche hanno in comune di dare maggior valore ai diritti collettivi piuttosto che ai diritti individuali. Ciò è evidente, per esempio, nella concezione dei “valori asiatici”, proposta innanzitutto in Paesi come Cina, Indonesia, Malaysia e Singapore. Adesso vorrei tornare alla nostra domanda sulla globalizzazione del bene. Occupandoci dei diritti dell’uomo, abbiamo visto che in culture diverse ci possono essere concezioni contrastanti e rivali sul bene. Non vedo, però, come noi in Occidente potremmo trarre giovamento dall’importazione del bene nella forma dei cosiddetti diritti dell’uomo non universali e non egualitari. Lo dico francamente: quanto alla concezione del bene concernente i diritti dell’uomo, l’Occidente non ha niente da imparare dall’Oriente o da altre parti del mondo. 19 Anzi, mi sembra che la strada dovrebbe andare nella direzione opposta. A mio avviso, la “Dichiarazione Universale” è un progresso enorme nel percorso della civilizzazione. Per la prima volta nella storia dell’umanità ogni essere umano diventa un soggetto portatore di diritti fondamentali, indipendentemente dalla sua razza, sesso, religione, nazionalità, posizione sociale e così via. 19 Si deve tener conto però, che questo non vale per tutti altri aspetti del bene. 12 Secondo me ci sono innanzitutto tre ostacoli – non di rado connessi tra loro – all’effettiva universalizzazione dei diritti dell’uomo. Le pretese religiose, innanzitutto in società, dove non c’è separazione tra stato e religione. In secondo luogo: Le ideologie razziste e nazionaliste, che pretendono una superiorità del proprio gruppo. Infine, terzo: Le dittature di ogni tipo, che possono sopravvivere solo grazie alla limitazione o alla soppressione dei diritti dell’uomo. Anche se in Europa, dal punto di vista teorico, quanto al bene non possiamo imparare nulla da altre culture, è comunque assai opportuno essere modesti. Innanzitutto vorrei ricordare qui la differenza tra l’ideale e la realtà. La realtà dei diritti dell’uomo in Occidente lascia molto a desiderare. I nostri amici americani gestiscono sempre il lager di Guantanamo, dove da anni tengono in prigionia persone senza processarle. L’anno scorso (2013) una commissione del Parlamento Europeo su criminalità organizzata, riciclaggio di denaro sporco e corruzione ha rilevato che nell’Unione Europea circa 880.000 persone lavorerebbero come schiavi e un quarto di loro come schiavi del sesso.20 Potrei continuare col massacro a Srebrenica nel 1995, in cui 7000 musulmani bosniaci furono uccisi da parte dei Serbi. Invece di continuare sul presente vorrei, per un attimo, dare uno sguardo al passato. Centocinquanta anni fa, nel 1864, e sette anni prima di farsi dichiarare infallibile, Papa Pio IX, nel cosiddetto Syllabus Errorum21 forniva un elenco di esattamente 80 errori dei suoi tempi, tra i quali la libertà di religione (15); l’uguaglianza del protestantesimo (o delle altre confessioni cristiane) come forma di cristianesimo rispetto al cattolicesimo (16); dubbi sulla competenza della Chiesa nel “definire la religione cattolica come la unica vera religione” (21); lo stato secolarizzato (19 seg.) e così via. Il Sillabo del 1864 ricorda in molti punti la “Dichiarazione Islamica” del 1990. – Un altro esempio storico per la differenza tra l’ideale e la realtà del bene è la 20 http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/fast-eine-million-sklavenarbeiter-leben-in-der-eu-a927563.html (“EU-Bericht: In Europa leben 880.000 Sklavenarbeiter“ (13.10.2013)). 21 “Syllabus” (2005). 13 Grande Guerra che cominciò cento anni fa. Per le futili ragioni delle élite europee fu tolta la vita a circa 10 milioni di persone, mentre il doppio ne uscì ferito. - Il Fascismo italiano poi certamente non fu una sorgente di bene nella forma dei diritti dell’uomo, mentre nel Nazismo tedesco fu raggiunto il livello civilizzatore più basso della storia con la Seconda Guerra Mondiale e lo sterminio degli Ebrei europei. In breve, sia la storia dei diritti dell’uomo in Occidente, sia il presente esortano alla modestia. In prima battuta dobbiamo evitare di dare avvio a nuove missioni armate a difesa dei diritti dell’uomo basati sulla ragione.22 L’esempio più disastroso è quella “crociata” (ipsissimum verbum) nell’Iraq del fondamentalista cristiano (bornagain Christian, cristiano rinato) G.W. Bush, assistito da una “coalizione dei volenterosi” (coalition of the willing) europei.23 L’attacco fu giustificato con una menzogna (armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein) e pretendeva di introdurre nell’Iraq la democrazia stile americano e i diritti dell’uomo. Il risultato fino adesso è più di 200.000 morti, un paese distrutto e il terrorismo islamico che avanza. Che cosa possiamo fare in Occidente se nel mondo intorno a noi osserviamo la globalizzazione del male piuttosto che quella del bene? Secondo me non possiamo fare molto. La propaganda migliore che possiamo fare per le nostre concezioni del bene consiste nel viverle, non spacciandole per vantaggi diversi, innanzitutto economici. In paesi come la Cina e nei Paesi Islamici, infatti, i social network dimostrano sempre di più come nel mondo si diffonda il messaggio dei diritti universali e egualitari dell’uomo. Certo, in Cina c’è una dittatura che opprime tante libertà, tra le quali la liberta di opinione. Lo stesso vale per le dittature islamiche. Dubito, però, che a lungo andare l’oppressione della libertà d’opinione sarà coronata da successo. Questo esito mi sembra sempre più difficile in un mondo collegato dalla rete. 22 Ci sono però eccezioni. Nel 2005 le Nazioni Unite hanno approvato a grande maggioranza una risoluzione “Responsabilità di Proteggere” (“Responsibility to Protect”) che in casi di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica permette interventi militari a condizione che il Consiglio di Sicurezza le autorizza, si veda (visto Luglio 2104): www.un.org/en/preventgenocide/adviser/responsibility.shtml 23 Tra i paesi “volenterosi” c’era purtroppo anche l’Italia. 14 Il bene nella forma dei diritti dell’uomo, inoltre, mostra una grande attrattiva. Centinaia di miglia di persone da tutte parti del mondo, dove le élite chiedono i diritti dell’uomo relativi alle loro culture, arrivano alle nostre frontiere. In questi giorni il Sud dell’Italia è il più visibile e ovvio esempio di ciò. Certo, questi flussi migratori sembrano in gran parte causati da guerre e dalle terribili condizioni economiche di vita. Sebbene forse la maggior parte dei migranti non ne sia consapevole, tali condizioni hanno a che fare con la mancanza di rispetto per il bene nella forma di diritti dell’uomo nei rispettivi Paesi di appartenenza. Questi Paesi non sono stati di diritto e in alcuni casi si tratta perfino stati falliti come la Somalia, il Congo o il Sudan. Per noi in Europa, soprattutto (ma non solo) per l’Italia, l’attrazione del bene nella forma dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto mette duramente alla prova la nostra concezione del bene: siamo chiamati a dare il buon esempio nel trattare queste persone che non abbiamo chiamato. La nostra teoria del bene nel mondo globalizzato deve diventare prassi, anche per loro che fino a poco tempo fa vivevano lontano da noi.24 Bibliografia: Barber, Benjamin R. (2012): „Jihad vs. McWorld“, in: Lechner/Bodi (eds.), pp . 2836 Bartuschat, Wolfgang (1974): voce „Gut, das Gute, das Gut“, IV (Neuzeit), in: Joachim Ritter (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. III, Darmstadt (Wissenschaftliche Buchgesellschaft), pp. 960-971 Gerste, Ronald D. (2014): „Die im Dunklen sieht man nicht – Thomas Jefferson, Idealist und Sklavenhalter“, in: Neue Zürcher Zeitung 17.06.2014 Hoffmann, Thomas (2012): “Jeremy Bentham”, in: Arnd Pollmann/Georg Lohmann (a cura di), Menschenrechte. Ein interdisziplinäres Handbuch, Stuttgart (Metzler) 2012, pp. 68-71 24 Questa prassi del bene certamente non include di concedere asilo politico a tutti che arrivano. 15 Lechner, Frank J./Boli, John (2012): The Globalization Reader, 4 a ed., Chicester GB (Wiley-Blackwell) Marramao, Giacomo (2003): Passagio a Occidente: Filosofia e globalizzazione, Torino (Bollati Boringheri) Singer, Peter (2011): The Expanding Circle: Ethics, Evolution, and Moral Progress. With a New Afterword, Princeton (Princeton University Press) (prima edizione 1981) Pio IX (1864): “Syllabus Errorum”, in: Heinrich Denzinger/Peter Hünermann (eds.), Enchiridion symbolurum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum […], 40a ed., Freiburg (Herder) 2005, pp. 798-809 Verde, Francesco (2013): Epicuro, Roma (Carocci) 16
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