Città di memoria

Mario Maffi
Città di memoria
Viaggi nel passato e nel presente
di sei metropoli
www.mariomaffi.it
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti
di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione
di quanti avessero a vantare ragioni in proposito.
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com
Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd
Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore
© il Saggiatore S.r.l., Milano 2014
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
Città di memoria
A mio padre e a mia madre, nel ricordo;
e a Zoë e Nila, che viaggeranno
Il passato è una narrazione che ci assorbe. Non c’è bisogno
di passaporto, giri l’angolo ed è con te.
iain sinclair, White Chappell, Scarlet Tracings (1987)
Quel luogo, come d’altronde tutta la città, era un palinsesto
scritto, cancellato e poi di nuovo riscritto.
teju cole, Città aperta (2011)
Tutto quello che hai visto ricordalo, perché tutto quello che
dimentichi torna a volare nel vento.
canto navajo
Sommario
Prima di partire
11
New York. Il cancello d’ingresso
15
New Orleans. Sentieri e crocevia
75
Parigi. Da una collina all’altra, e in mezzo il fiume
131
Manchester-Salford. Racconto di due città
191
Londra. Laggiù, a est
261
Appendice
341
Ringraziamenti
359
Prima di partire
Ho sempre pensato che certi luoghi sono come calamite, che
ti attraggono se passi nei paraggi. In modo impercettibile,
senza che tu te ne renda conto. Basta una strada in discesa,
un marciapiede assolato oppure all’ombra. O magari un forte temporale che ti porta esattamente dove dovevi approdare.
Patrick Modiano, Nel caffè della gioventù perduta (2007)
Non vorrei che chi si appresta a leggere i capitoli seguenti si aspettasse di trovarvi altrettante miniguide alle rispettive metropoli. Non ve ne sono. O, meglio, ve ne sono: ma hanno un aspetto molto particolare. Per esempio, non ci
troverete la storia ufficiale, i crocevia culturali sanzionati dall’industria del turismo, i percorsi che, con l’uso e l’abuso, hanno scavato solchi apparentemente ineluttabili nelle carte di quelle metropoli – i musei e i palazzi, le chiese e i
locali, lo shopping e il tempo libero, i personaggi e le élite… Ci troverete invece altre geografie e altre storie, e il loro dialogare, il loro intrecciarsi e accavallarsi: scenari materiali, profili di case e reticoli di strade e, dentro, i vissuti
individuali e collettivi, la commedia e il dramma, il passato e il presente, le
tracce ancora da scoprire, le mappe da (ri)portare alla luce, le complesse stratificazioni di senso. I luoghi parlano anche quando sono silenziosi: forse, soprattutto quando sono silenziosi (o paiono ridotti al silenzio). Sono lì, intorno
a noi: ci passiamo in mezzo, a volte li vediamo senza guardarli, li consideriamo poco più di un dato di fatto – e andiamo oltre. Eppure, da essi si sprigiona un magnetismo singolare e a quel magnetismo dobbiamo abbandonarci, se
non vogliamo ricadere in quei solchi predisposti e perderci così un «sottotesto» che ci dice la metropoli in un modo nuovo: fascinoso, forse sconcertante,
addirittura sconvolgente.
Fin da quando, bambino, ho cominciato ad andare in giro con i miei (che,
nei limiti del loro possibile, erano appassionati viaggiatori), ho appreso che
viaggiare è molto più che collegare due punti nello spazio con una linea retta;
che esistono varianti, deviazioni e convergenze, vie fuori mano, sentieri oscuri,
persino tortuosi, ma densi di attrazioni e significato; che i luoghi contengono
molto più di quanto, a prima vista, ci mostrano; e dunque che è più rivelato-
12 Città di memoria
re – lo avrei letto molto tempo dopo nei libri di William Least-Heat Moon o
di Jonathan Raban – «viaggiare in profondità» che limitarsi a spostamenti «in
superficie». Così, ho imparato ad abbandonarmi a quel magnetismo e a quelle atmosfere, a lasciare che, «in modo impercettibile» come scrive Modiano,
fossero essi a guidarmi nei miei vagabondaggi prima (da inesperto flâneur),
nelle mie esplorazioni poi (da più consapevole rabdomante): «strade in discesa, marciapiedi assolati, forti temporali» – e tutto il resto, che per l’appunto ti
porta «dove dovevi approdare».
Per me, questo magnetismo ha a che fare (qui è il senso di quel «dovevi»,
ed è di qui che nascono e si sviluppano i capitoli che vi attendono) con la particolare memoria dei luoghi: con ciò che la dominante industria del turismo,
cui più o meno tutti siamo costretti a inchinarci, trascura e dimentica, con ciò
che la «storia dei vincitori» ha rimosso (o congelato in icone inoffensive), con
ciò che nel tempo si è perso o è stato calpestato tanto da non recare quasi più
l’impronta delle origini – territori (urbani, ma non solo) in cui vite collettive o individuali si sono dispiegate nell’imprevedibilità dei loro rivoli, vicende gravide di conseguenze hanno avuto corso prima di essere ridimensionate
o canonizzate, dimenticate o private dello spessore iniziale, della loro carica
di passione vissuta. Ecco allora che, sotto la superficie, annidata nei meandri
di quelle meravigliose mappe che disegniamo con i nostri tragitti fuori dagli
schemi, pulsa e a volte affiora, forse per un attimo (e allora bisogna saperla catturare), forse con violenta intensità (e allora bisogna saperla decantare), la memoria. Con l’urlo silenzioso che gli è proprio, i luoghi ci dicono la loro storia.
E, così facendo, stimolano e provocano gli interrogativi. Che cosa sta davvero nel passato-presente di quel vasto territorio in parte sconosciuto (o misconosciuto) che si apre a sud della East 14th Street di Manhattan? Che cosa
celano i sentieri e i crocevia di un French Quarter che a New Orleans è sempre più vittima sacrificale del turismo? Di quali eventi sono state testimoni le
ripide colline di Parigi e quale memoria è stata lavata via dalle gonfie acque
della Senna? Quali vicende racchiudono le strade e le anse di fiume e di canale
delle due città intrecciate insieme, Manchester e Salford? Qual è la storia vera
dell’East End londinese, ieri tenebroso nei suoi vicoli, oggi insidiato dalla tracotante e parassitaria gentrification, la speculazione edilizia che tende a cancellare il passato dal presente? Giorni smarriti, da ritrovare sul filo del tempo.
«Ricordati di ricordare» ammoniva Henry Miller. E allora memoria significa pure un gioco di specchi: fra quella racchiusa in queste città come in uno
scrigno da forzare (quel passato che è giusto dietro l’angolo, che – scriveva
William Faulkner – «non è morto, non è nemmeno ancora passato», e proprio
per questo ci aiuta a comprendere il presente e a prepararci al futuro) e quel-
Prima di partire 13
la che agisce in noi, raccogliendo e selezionando, disponendo i ricordi (di ambienti, persone, eventi) su piani sempre diversi, sempre stimolanti. Così, questi
viaggi nel passato-presente di alcune metropoli sono un doppio esercizio di
memoria: i luoghi che ricordano e il ricordo dei luoghi. Nei capitoli che seguono, dunque, troverete differenti stratificazioni: alcune vi riveleranno quartieri e aspetti sconosciuti di questa o quella città, microcosmi che disvelano il
macrocosmo, in modo tale da farci rivedere (forse) l’immagine complessiva,
troppo spesso usurata e privata di significato reale, che di essa abbiamo o non
cessiamo di ricevere; altre riportano alla luce eventi grandi e piccoli che con il
tempo sono sprofondati nell’oblio o sono stati imprigionati in caselle ideologiche, in costruzioni identitarie; altre ancora ripropongono itinerari che troppo
facilmente, nella fretta del turismo di massa, rischiamo di perderci. Poi ci sono
anche le stratificazioni della mia memoria: città che ho frequentato per anni,
ma ormai molto tempo fa; città che ho «scoperto» da poco; città cui non smetto di tornare – altre mappe, dunque, fisiche e mentali, quelle splendide mappe
che si aprono davanti ai nostri occhi: a condizione di lasciare da parte il navigatore dell’automobile o le app sul cellulare e di chiudere le guide ufficiali, cedendo invece volentieri al fascino della curiosità e della scoperta.
Sempre, come dice il canto navajo, ricordando.
Avvertenza
I capitoli che seguono sono stati scritti nell’arco di poco più di due anni, in
un ordine diverso da quello in cui compaiono qui: ci ha pensato la memoria
(per così dire, quella breve e quella lunga) a disporli in questa sequenza. Che
consiglio di rispettare, sebbene essi siano, entro certi limiti, indipendenti l’uno dall’altro.
New York. Il Lower East Side.
New York. Il cancello d’ingresso
1. Al mattino mi alzavo presto e, mentre preparavo il caffè nel cucinino inondato di sole, mi sintonizzavo sulla National Public Radio e ascoltavo la New
York Philarmonic diretta da Kurt Masur; poi, con la tazza fumante, andavo a
sedermi sull’ampio davanzale al quarto piano del 310 di East 4th Street e iniziavo la giornata guardando giù, in strada. Era un momento magico. Il quartiere si stava svegliando, le vie erano sgombre, poche persone in giro ancora
torpide di sonno, i suoni radi del silenzio (il grido dei gabbiani, qualche sirena
lontana di ambulanza o di battello, lo stridio di una frenata), il tempo non ancora teso, non ancora afferrato e strappato dal vortice. All’angolo con Avenue
C, però, i soliti instancabili giocatori di domino avevano già aperto il tavolino, e presto sarebbero ricominciati i traffici della via, gli andirivieni e i saluti,
gli accordi con una stretta di mano e le discussioni a voce alta, un litigio trascinato forse dalla sera, quindi i bambini a gruppi verso la scuola e le donne
con la sporta o il carrello, le code e le attese nervose e la ricerca di un lavoro,
di un job («Un Lavoro / un lavoro qualunque / un posto con cui affrontare a
viso aperto la giornata / con forza e con vigore…»: Bimbo Rivas l’aveva declamata più volte, quella sua poesia, con voce stentorea). A sinistra, a est, il sole
prendeva d’infilata la strada; dalla parte opposta, giungevano brillii di fiume
e odorosità di mare; a lato dello stabile di fronte, l’ampio spiazzo abbandonato
che collegava la East 4th alla East 5th era un rigoglio di verde, qualche sentiero
tra cespugli selvaggi e l’abbozzo di un paio di orticelli; più in là, verso gli alti
casermoni grigi su Avenue D, la sequenza di edifici vuoti annunciava una bidonville di catapecchie in cartone e compensato.
Indugiavo a lungo, rannicchiato su quell’ampio davanzale, la tazza in mano,
giocando a rimpiattino con i minuti che correvano. Faticavo a staccarmene: era
16 Città di memoria
come esaminare la mappa prima di mettersi in viaggio, annusare l’aria e cogliere la direzione del vento (finestre, balconi, affacci di bar e di locali: ho sempre amato questi punti di osservazione, da cui guardare e impregnarsi della vita
semplice di un luogo). Poi, quando giù aveva inizio la partita di domino (colpi secchi, legno contro legno), mi riscuotevo, mi accingevo a scendere anch’io
in strada, a inaugurare davvero il nuovo giorno: forse avrei fatto sosta da Casa Adela su Avenue C per una rapida colazione, oppure mi sarei spinto fino al
Cafè Orlin su St. Mark’s Place (due gradini per scendere e il basso soffitto decorato a riquadri), e di lì avrei cominciato i miei giri – lungo East Broadway o
su per le scale del Tenement Museum a Orchard Street o del Chinatown History Museum su Mulberry Street affollata (le bancarelle di frutta e verdura esotiche), oppure a scambiare due chiacchiere con Moe Albanese e l’anziana madre
nella storica piccola macelleria di Elizabeth Street (in vetrina, alcune foto arricciate di loro due con Martin Scorsese), o l’appuntamento con Chino Garcia
nell’ufficio al pianterreno di Charas, il community center nell’enorme edificio
di East 9th Street, o con la poetessa Fay Chiang nel suo appartamentino colmo
di carte e disegni, una mostra alla Gas Station o un’iniziativa per difendere il
giardino all’angolo di Avenue B e East 6th Street minacciato dalla speculazione edilizia… Il quartiere mi si apriva davanti, la mappa si animava d’incanto.
Il quartiere era il Lower East Side di Manhattan, New York City, e da anni
era diventato una mia strana «casa lontana» – home away from home. Strana,
perché con il tempo il mio coinvolgimento con le sue realtà e le sue dinamiche, le sue storie e i suoi abitanti, i protagonisti e la gente comune, era cresciuto, si era come dilatato occupando tanta parte di me: dalle caute incursioni in
un limpido novembre 1975, quando m’era stato raccomandato di non andarci dopo il tramonto, alle più sistematiche ricognizioni di un autunno 1983, e
via via il resto, settimane e mesi, anno dopo anno, nell’arco di un quindicennio abbondante, e poi oltre – il dispiegarsi di palinsesti sempre più fitti, geografie sociali e culturali che in seguito, di città in città (ma anche di fiume in
fiume), non hanno cessato di accompagnarmi come strumenti di lavoro e di
conoscenza, non hanno cessato di stupirmi e affascinarmi per quanto hanno
da rivelare e raccontare. Avevo incontrato il Lower East Side in alcuni testi più
o meno autobiografici di immigrati tra fine Ottocento e inizi Novecento: Abraham Cahan, Jacob Riis, Marcus Ravage, Rose Cohen; avevo letto di luoghi ed
eventi, di mean streets traversate da aneliti e passioni, di drammi individuali,
di urti e percorsi intricati in cui tuttavia non cessava di fluire un senso di comunità, di solidarietà collettiva, esperienze palpitanti rese vivide dalle parole
del ricordo, dall’evocazione della memoria.
In parallelo, c’era stato l’incontro con l’intera New York, con le sue «mil-
New York. Il cancello d’ingresso 17
Un vicolo di fine Ottocento in uno scatto di Jacob Riis.
le luci», con il caleidoscopio sempre cangiante delle sue aspre contraddizioni,
la metafora vivente del secolo – l’altra megalopoli accanto a Londra e a Parigi, il suo fascino duro, la Medusa bellissima e minacciosa, odiata-amata da
innumerevoli cantori, da Theodore Dreiser a Lou Reed, vista sorgere dalle acque da milioni di immigrati e percorsa da migliaia e migliaia di disperati nella vana ricerca del «sogno americano» o – più angosciosamente – di un’ardua
sopravvivenza, sfuggente e maestosa, alta nelle sue ricche torri, profonda nel
suo sottosuolo, sprezzante di bellezze e lacera di miserie. La mappa si allargava e infittiva, le stratificazioni e i sedimenti si accumulavano, le articolazioni
e le ramificazioni si complicavano, e l’acqua delle scoperte che andavo facendo sembrava correr via tra le dita da ogni parte. Così, dopo uptown e midtown,
dopo Queens e Brooklyn, Staten Island e il Bronx, dopo il Greenwich Village
e SoHo, giorno dopo giorno sempre tornavo nel quartiere, in quella che tante volte avevo sentito chiamare, anche da newyorkesi d.o.c., la «terra incognita a sud della 14th Street».
18 Città di memoria
2. La East 14th Street forma il margine settentrionale del Lower East Side. Imboccatela una mattina presto. È una via larga di larghi marciapiedi, bella da
percorrere specie quando i vecchi edifici in mattoni sono accarezzati dal sole o i ghiacci d’inverno scivolano sulle scale antincendio delle loro facciate: da
Union Square (usuale piazza di manifestazioni politiche), poco oltre il complesso di caseggiati anni trenta di Stuyvesant Town, giunge fino all’East River,
là dove svetta massiccia la centrale elettrica della ConEd, muri rossi e ciminiere bianche. Il confine orientale è tutto opera dell’East River, che disegna un gomito e si avvia a confluire, sulla punta di Manhattan, nell’Hudson River e nel
mare, ed è scavalcato da tre ponti, il Williamsburg Bridge, il Manhattan Bridge e il Brooklyn Bridge, altrettante vie di fuga verso altri quartieri (ricordate
La città nuda, di Jules Dassin, del 1948, con l’inseguimento finale di Ted De
Corsia giù per l’altra larga e fascinosa Delancey Street e su per le incastellature del Williamsburg Bridge?). La laica cattedrale del Brooklyn Bridge, quell’armonioso dialogo fra pietra e acciaio, e le sue convolute rampe d’accesso fino a
City Hall segnano il ristretto confine meridionale, a due passi da Wall Street,
dalla Borsa, dallo Juggernaut politico-finanziario della città e del mondo (una
forzata contiguità storico-urbanistica, che vorrà pure – lo vedremo – dire qualcosa); infine, a ovest, risalendo verso nord, il margine risulta più frastagliato:
corre lungo Centre Street e Lafayette Street, rientra leggermente a Houston
Street, segue la Bowery storta e, non lontano da Washington Square e dal campus della New York University (altra contiguità piena di implicazioni), s’infila
per un breve tratto nella Third Avenue e giunge presto all’incrocio con la East
14th Street. Da dove siete partiti.
In mezzo, la planimetria è sghemba: fra la East 14th Street e East Houston
Street è un reticolo regolare, orientato in direzione est-ovest e contrassegnato da streets numerate e da avenues alfabetiche e numeriche (dal fiume: D, C,
B, A, First, Second, Third); a partire da East Houston Street, s’inclina leggermente in direzione sud-sudest, pur conservando vie e isolati paralleli: Stanton,
Rivington, Broome, Grand, Essex, Ludlow, Allen, Eldridge, Chrystie… Ma a
sud di East Broadway (e in parte già di Delancey Street), ecco che forma grovigli, con le lunghe arterie vicine al fiume che sboccano in labirinti confusi di
viuzze, altri nomi che dicono storie e vissuti geografici e sociali: Canal, Bowery, Cherry, Mulberry, Henry, Madison, Monroe, Division, Bayard… È una
separazione rivelatrice, perché la sezione meridionale, contorta e arruffata, risale all’epoca della «vecchia New York», olandese e inglese, mentre quella geometrica rimanda al Commissioners’ Plan del 1811 che disegnò la «nuova New
York» a partire da un piano regolatore basato su un reticolo (grid) di strade e
di lotti equivalenti, per facilitarne in prospettiva la vendita. Fu così che, fin da
New York. Il cancello d’ingresso 19
principio, il Lower East Side contenne già in sé il «vecchio» e il «nuovo», il passato e il presente, l’Europa e l’America.
Ricordo di aver maniacalmente percorso queste strade da un capo all’altro,
mappa, taccuino e piccolo registratore in mano, per imprimere bene nella memoria visiva quella planimetria sghemba, il modo in cui le strade convergono
o divergono, gli angoli retti e quelli acuti, gli scorci vicini e le prospettive lontane, stupito dalle sovrapposizioni urbanistiche, dalle sedimentazioni etniche
e culturali e dalle alternanze architettoniche: dagli edifici più che centenari,
con ancora qualche tetto spiovente e qualche abbaino (giù dove la Bowery si
prolunga, verso il fiume, in Catherine Street) all’affollarsi di già raffinati stabili tardo-ottocenteschi in mattoni oggi rosso-anneriti (gli alti gradini d’accesso, cariatidi e omenoni, le facciate con trabeazioni in terracotta e, su in alto, i
cornicioni decorati con fantasia a delimitare i tetti piatti), dagli sparsi isolati
di superstiti civettuole brownstones ai massicci blocchi di tenements affollati e
decorati da rugginose scale antincendio, fino ai moderni, brutti casermoni di
edilizia popolare – la storia densa di quasi due secoli di afflussi e di alternanze, di mutamenti e di mutazioni, che mi si svelava a ogni crocevia, a ogni attraversamento di soglia. Una sorta di memoria scolpita nella pietra, disegnata
sulle facciate e sugli elementi architettonici, incisa sui marciapiedi, distribuita
a tre dimensioni su mosse planimetrie.
Prendete Tompkins Square Park. Dalla East 14th Street vi basta scendere lungo Avenue A e ci siete: giusto nel cuore di quella parte del Lower East
Side disegnata a reticolo regolare, fra Avenue A e Avenue B, East 10th e East 7th
Street, con St. Mark’s Place che vi sbocca da un lato e prosegue dall’altro come
East 8th Street. Quattro ettari di parco, viottoli recintati e verde intenso, olmi
antichi, lunghi rami protesi a formare volte sulle strade, campi da gioco urbani, un paio di monumenti; intorno, case ottocentesche a tre o quattro piani, ragnatele di scale antincendio sulla facciata, alti gradini d’accesso, ingressi
con colonne e colonnine e decorazioni in colori diversi, seminterrati a vista,
mattoni rossi e pietra grigia, guglie e finestre ad arco di un paio di chiese, una
biblioteca, parecchi bar e caffè, tante piccole botteghe, negozi di frutta e verdura e di «tutto un po’», un alto edificio imponente dall’ingresso istoriato in
stile anni venti del Novecento, altri edifici bassi più recenti, su certe pareti gigantesche scritte antiche di pubblicità, un’architettura varia e spesso raffinata.
In origine: terre basse, prati aperti, marcite, paludi d’acqua salata (fiume e
mare sono vicini) – il più ampio ecosistema dell’isola di Manhattan, con i sentieri indiani che corrono a qualche distanza su luoghi più elevati (oggi: Bowery,
Broadway); da metà Seicento, di proprietà della famiglia Stuyvesant, discendente di Pieter Stuyvesant, ultimo direttore generale della colonia olandese di
20 Città di memoria
I disordini del 1874 a Tompkins Square Park.
Nieuw Amsterdam; nel 1829, regalo alla città di New York, a condizione che i
terreni rimangano spazio pubblico; quindi, bonifica, creazione del parco intitolato all’uomo politico e governatore di New York Daniel D. Tompkins, destinazione dell’area intorno a una classe medio-alta; poi, il panico economico
del 1837 (la bolla finanziaria che esplode, le banche che falliscono o bloccano
i pagamenti in moneta, la disoccupazione record) rallenta e ferma l’espansione a nord della città. Il parco è inaugurato nel 1850, quando la zona circostante comincia già a essere destinazione di immigrati (in prevalenza irlandesi e
tedeschi), e diviene subito cuore pulsante del quartiere.
Cuore pulsante, e luogo di tensioni contrastanti. 1857: una manifestazione
di disoccupati è sciolta con violenza dalla polizia; 1863: in piena Guerra civile,
in seguito all’introduzione della leva obbligatoria, scoppiano i «disordini della leva» (Draft Riots), durante i quali il malcontento di larghi strati della classe
lavoratrice immigrata, la più direttamente colpita dalla misura, viene incanalato e indirizzato in maniera selvaggia contro la comunità nera; gennaio del
1874: una manifestazione di tremila disoccupati, con la partecipazione di militanti operai della Prima Internazionale, è assalita e dispersa con folle brutalità dalla polizia a cavallo, parecchi feriti e decine di arresti in quello che passa
alla storia come il «Tompkins Square Massacre» (Justus Schwab, gestore di un
New York. Il cancello d’ingresso 21
saloon sulla East 1st Street divenuto punto di ritrovo del variegato mondo radical dell’epoca, è arrestato per aver sventolato una bandiera rossa durante il corteo); 1877: un’altra manifestazione di alcune migliaia di lavoratori si scontra
con la Guardia nazionale… E giusto per cancellare questa sua caratteristica di
convergenza di dimostrazioni antagoniste, nel 1936, Robert Moses (il barone
Haussmann della New York capitale del xx secolo, responsabile di alcune delle
più controverse iniziative urbanistiche in quei decenni), ridisegna il parco, introducendovi il labirinto di viottoli recintati da ringhiere e cancellate in ghisa.
Ma in qualche modo la tradizione trasgressiva si mantiene: negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, mentre avanza la crisi delle metropoli statunitensi
e il degrado s’impadronisce del quartiere, intorno al parco s’insediano i primi
nuclei della cosiddetta controcultura, i beats (Jack Kerouac vi ambienta inizialmente I sotterranei, del 1958, prima di trasportare la storia a San Francisco, che
nel frattempo è diventata la nuova Mecca beat) e poi le comuni, i gruppi radicali, gli yippies e le Pantere Nere, il Peace Eye Bookstore e il complesso rock dei
Fugs (Ed Sanders, Tuli Kupferberg, Ken Weaver).
Facciamo ora un salto nel tempo. Per alcune settimane, nell’autunno del
1987, prima che mi casa diventasse il 310 di East 4th Street (una «Mario’s Room»
presso l’attivista Howard Brandstein e soprattutto l’appartamento della fotografa Marlis Momber, caldo occhio del quartiere), abitai su Avenue A sopra
Tompkins Square Park, due stanze in fila, una sistemazione irregolare e singolare perché semiclandestina (l’ho già descritta in New York. L’isola delle colline, e dunque non ci tornerò su), e vidi crescere nel parco una bidonville di
senzatetto (ce n’erano parecchie, in quegli anni, in giro per la città: erano dette Bushvilles, come, dopo la crisi del ’29, erano dette Hoovervilles – in nome dei
rispettivi presidenti… ), il gonfiarsi di inevitabili tensioni, le schermaglie iniziali di un’incalzante gentrification. L’anno dopo, agosto 1988: l’amministrazione cittadina proclama un coprifuoco nell’area e la polizia interviene per
sgomberare la bidonville; ne segue una notte di scontri che coinvolge giovani, militanti e personalità locali: il disegnatore-scrittore Eric Drooker rimane
ferito ed è arrestato; il giornalista-cineasta Clayton Patterson documenta con
un video l’azione delle forze dell’ordine; il poeta Allen Ginsberg, allora abitante a due passi, sulla East 13th Street, ricorda scene analoghe di vent’anni prima.
Intorno al parco, oltre al Life Café, fucina di molta avanguardia artistica negli anni ottanta e novanta (oggi mi risulta chiuso), le tracce del passatopresente sono, o erano, numerose: per esempio, il Leshko Café (altra vittima
recente dell’avanzante speculazione edilizia) e l’Odessa Restaurant, punti di riferimento della numerosa comunità ucraina, la Library aperta nel 1907 nell’edificio sul lato nord del parco e disegnata dalla ditta di architetti McKim, Mead
22 Città di memoria
and White (è loro la firma su tanto straordinario stile beaux arts in
giro per Manhattan) e, lì vicino, su
Avenue B, la casa in stile Gothic Revival, costruita a metà Ottocento,
dove per qualche tempo abitò il be
bopper Charlie Bird Parker. Oppure, sempre su Avenue B, la Christodora House, sedici grigi piani in
stile American Perpendicular, aperta nel 1928 come settlement house
Un cartoon di Eric Drooker.
(iniziativa caritatevole-assistenziale che offriva vitto e alloggio a residenti poveri o immigrati recenti, oltre a lezioni di inglese e di cultura generale)
e inaugurata con un gran concerto dei fratelli Ira e George Gershwin, nati a
Brooklyn ma assidui frequentatori del mondo teatral-musicale del Lower East
Side: chiusa l’esperienza della settlement house a fine anni cinquanta, l’edificio fu occupato da varie realtà sociali e politiche e, a metà anni ottanta, dopo
alterne vicende e un triste abbandono, trasformato in condominio di lusso –
bersaglio della rabbia dei manifestanti dell’agosto 1988. Oppure ancora, giusto dietro l’angolo, al 605 di East 9th Street, il grande complesso della Public
School 64 che, lasciato dalla città a fine anni settanta (nella mia prima visita a New York, andavo a trovare una persona che abitava di fronte e ricordo
nel pomeriggio lo sciamare vociante dei bambini), divenne la sede di Charas,
l’importante centro comunitario fondato da un gruppo di giovani portoricani ex membri di famigerate gang cittadine – fino a qualche anno fa, quando
fu sgomberato dalla polizia, venduto a peso d’oro a uno speculatore edilizio e,
ancora oggi, abbandonato a se stesso. Poco oltre, sempre sulla East 9th Street
ma verso il fiume, quasi all’angolo con Avenue D, abitava il piccolo David
Schearl, protagonista del romanzo semiautobiografico di Henry Roth Call It
Sleep (1934), una delle grandi opere-testimonianza scaturite dalla lunga esperienza del Lower East Side.
È dunque ora di raccontare la storia di questo quartiere.
3. Una storia che inizia in verità (l’abbiamo visto) con la nascita stessa di New
York e si può quindi seguire sulle sue mappe. Le ho qui sott’occhio mentre scrivo, queste mappe, riunite nel bel libro di Robert T. Augustyn e Paul E. Cohen,
Manhattan in Maps. 1527-1995, con quei nomi così evocativi: The Maggiolo
Map, The Gastaldi Map, The Velasco Map, e via via quelle del passato olandese
New York. Il cancello d’ingresso 23
e inglese e infine americano, incerte, ingenue, a volte addirittura fantastiche,
quasi da «isola che non c’è», fino al Castello Plan del 1665-1670, la prima veramente dettagliata della «Città di Amsterdam nella Nuova Olanda»; e poi le altre nei secoli, sempre più precise, sempre più ufficiali, a fissare la città com’è o
a proiettarla in un futuro da inventare: il fascino che si sprigiona da quelle linee, da quelle sistemazioni, da quei tentativi di catturare la vita che scorre nelle strade e negli edifici, negli spazi e nelle dimensioni attuali o in quelli ancora
da predisporre o da usare per scopi specifici (le mappe dei pompieri, della metropolitana, delle compagnie di assicurazione, dei grattacieli, fino a quelle del
«pericolo rosso» o del «vizio»…).
Prendo dunque il Castello Plan: la punta meridionale dell’isola di Manhattan, isolati grandi e piccoli, edifici pubblici e privati con tetti spioventi alla moda olandese, strade e giardini, un grosso forte completo di contrafforti e batterie
(battery) e un ampio (broad) tracciato (way) che da esso si sviluppa in direzione nord, il porto a est con un canale d’acqua (water) dolce e salata che si addentra e a un certo punto si sdoppia in un ramo laterale diretto a ovest, un lungo
muro (wall) a nord che protegge la città dagli spazi aperti, dalle terre ancora incolte, appena punteggiate da qualche fattoria, da qualche viottolo di campagna.
Qui, il Lower East Side esiste soltanto, in quelle terre aperte nella fascia rettangolare a destra (un terzo della mappa), come terrain vague – se non, addirittura, come un tardo «hic sunt leones». Che tuttavia presto verrà colonizzato. Ce
lo svelano i nomi d’oggi di certe vie: Bowery (dall’olandese bouwerij = fattoria),
Mulberry (= gelso), Cherry (= ciliegio), Orchard (= frutteto), Pike (= covoncino), Market (ma anche Delancey, Bayard, Baxter, Rivington o – l’abbiamo già
visto – Stuyvesant, che rimandano ai proprietari originari di appezzamenti o a
personaggi dell’epoca coloniale e postcoloniale).
Poi, man mano che la città saliva, le sparse fattorie, i frutteti e gli orti, i
viottoli e i laghetti, le marcite e i terreni avevano lasciato il posto ai primi insediamenti residenziali, appena lontani dal marasma del porto e della città
mercantile. Gli Stuyvesant e in seguito i Fish, i Rutherford, i Livingston, grandi casate, uomini politici e finanzieri, costruirono qui le loro fortune e le loro
magioni, e di lì a poco, tra fine Settecento e inizi Ottocento, in quelle strade recenti vennero ad abitare, per periodi più o meno lunghi, George Washington
(a Cherry Hill) e James Fenimore Cooper (a St. Mark’s Place). In quegli stessi
anni il giovane quartiere residenziale stava trasformandosi: il porto sempre più
attivo, le acque di uno dei laghetti (il Collect Pond), il vicino capolinea della
Boston Post Road (l’arteria più importante verso il Nord) avevano cominciato
ad attrarre alcune industrie embrionali – concerie, fabbriche di sapone, di sego, di candele. Intorno al 1805, i miasmi che si levavano dal Collect Pond di-
24 Città di memoria
Il Castello Plan ridisegnato nel 1916.
vennero tali da indurre a drenarlo grazie a un canale che lo collegava al fiume
Hudson (in seguito, ricoperto, divenne Canal Street, soggetta nel tempo a ripetute esondazioni). Inoltre, un gruppo di neri liberati si era insediato intorno a
Werpoes Hill e al Pond, nella zona che sarebbe diventata poi Chatham Square
e il famigerato incrocio di strade detto «Five Points» (Gangs of New York, di
Martin Scorsese, del 2002, è ambientato proprio qui): ma il boom economico
seguito alla guerra del 1812 (il secondo tempo della Guerra di indipendenza,
per così dire) e la trasformazione di Chatham Square nel principale luogo di
intrattenimento di una metropoli in espansione spinsero l’insediamento più
a ovest, su Thomson e Sullivan Street. L’area divenne un quartiere alla moda.
Con il tempo, però, il terreno che ricopriva il Collect Pond prese a cedere e
infossarsi, e i ricchi abitanti della zona decisero di spostarsi più a nord, iniziando l’incessante «scalata» della città che sarà caratteristica di tutto l’Ottocento. Via via che le classi agiate abbandonavano il quartiere, nuovi insediamenti
immigrati ne prendevano il posto, attratti da una zona che stava diventando il
cuore mercantile e manifatturiero di Manhattan: come al solito, non appena si
creava un piccolo gruppo, numeri consistenti di connazionali lo raggiungevano
sistemandosi tutt’intorno, e con il tempo il gruppo originario ne attraeva altri
New York. Il cancello d’ingresso 25
ancora, da paesi e regioni diverse del Vecchio Mondo o dall’Oriente, in un processo di graduale proletarizzazione.
Negli anni quaranta dell’Ottocento, incalzati dalla malattia della patata, da
fame e carestie, dall’oppressivo rapporto coloniale con la Gran Bretagna, arrivarono grossi nuclei di irlandesi e si stabilirono a ovest della Bowery e a sud di
Chatham Square, Division Street e Grand Street, oltre che sul fronte del porto: perlopiù contadini immiseriti e lavoranti giornalieri, accettarono i lavori
più umili, sterratori o portuali, in condizioni di estrema povertà; e contingenti di tedeschi, molti dei quali perseguitati politici dopo i moti rivoluzionari europei, che andarono a occupare il quadrilatero irregolare a est della Bowery e
di Fourth Avenue, a sud della East 14th Street – la Kleindeutschland intorno a
Tompkins Square Park: artigiani, lavoratori specializzati, commercianti, piccoli imprenditori, colti professionisti, posizioni più elevate nella scala sociale. Poi,
dopo la Guerra civile (1861-1864), fu la volta dei cinesi che, in fuga dall’isteria
razzista che infiammava le regioni occidentali dove erano giunti già all’inizio
del secolo e si traduceva sovente in autentici pogrom («Ci rubano il lavoro!» era
già l’osceno grido che risuonava in quelle terre ancora di frontiera), si stabilirono nel nodo di stradine fra Mott, Pell e Doyers, dando vita a Chinatown: lavanderie, piccoli ristoranti, drogherie, un mondo separato, chiuso su se stesso,
anche misterioso, che stuzzicava il sensazionalismo morboso di giornalisti e turisti. Con il tempo, il quartiere cinese si sarebbe allargato, ma per decenni rimase un’enclave quasi separata, ripiegata su una storia drammatica: quella del
Chinese Exclusion Act. Me l’hanno raccontata Charlie Lai e Jack Tchen, i direttori del Chinatown History Museum di Mulberry Street (poi diventato Museum
of Chinese America, al 215 di Centre Street): nel 1882, quella legge sospendeva per dieci anni l’ingresso negli Stati Uniti di «Chinese laborers», di lavoratori cinesi; venne rinnovata nel 1892, nel 1902 fu resa permanente, e fu abrogata
solo nel 1943, per motivi legati strettamente alle necessità della Seconda guerra
mondiale. E significò la nascita di quella che fu detta la bachelor society, la «società degli scapoli»: di quei cinesi immigrati prima del 1882 con il progetto di
farsi raggiungere in seguito da mogli e fidanzate – e ora nell’impossibilità di farlo, scapoli forzati, legami separati a forza, una storia straziante di uomini soli, di
vite prosciugate, di affetti racchiusi solo nella memoria e nelle lettere (quelle lettere che Lai e Tchen raccolsero dalle soffitte e dai seminterrati di Chinatown e
posero al centro di una bellissima mostra al Museum). Una storia prolungatasi
ben oltre il 1943, perché quegli uomini soli, ormai anziani, rimasero come entità strane, ologrammi o ectoplasmi per le giovani generazioni nate nel secondo
dopoguerra, quando la comunità poté infine aprirsi. Nel lungo poema Chinatown, Fay Chiang restituisce questo senso di separatezza: «Fu la scoperta d’una
26 Città di memoria
nuova / solitudine / che minacciava / di avvolgere il cuore in un sudario / l’isolamento / in una strana terra / fra stranieri / A volte m’è parso / di vedere quella
sensazione / le sue ombre che giocavano / contro la parete / contro i pianerottoli di sopra / o giù nella tromba delle scale; / ho udito il vento fischiare / e ululare / nel pozzo d’aerazione / e ho avuto paura / che fossero i fantasmi / dei vecchi
immigrati / che piangevano sui sogni perduti / che vagavano / dopo aver perso
la speranza / e la strada del ritorno / Sentivamo i loro passi / scomparire giù per
la tromba delle scale o / nei loro appartamenti / Quando ci passavano accanto
/ mentre giocavamo nell’atrio, dicevamo: / “Bok-bok, nai ho mai?” / “Zio, come
state?” / Essi ridacchiavano e dicevano: / “Muy, muy, ho./ Nay sic jor fan, may?”
/ “Bene, sorellina. / Hai già mangiato?” / E ci allungavano monetine luccicanti / e continuavano per la loro strada / con provviste, pacchetti, / giornali; il fumo / della sigaretta che lasciava / una traccia dietro di loro» (Fay lavora ancora
a questo poema, e quando ci sentiamo per lettera o telefono mi dice che sta aggiungendo o modificando qualcosa – difficile contenere Chinatown nei versi).
Infine, negli ultimi decenni del secolo, grandi ondate migratorie si rovesciarono sulle spiagge degli Stati Uniti: più di 5 milioni di persone tra il 1881 e
il 1890, più di 3,5 nel decennio successivo, più di 8,5 fra il 1901 e il 1910. «Date a me le vostre masse stanche, povere, / ammucchiate, desiderose di respirar
libere, / i disgraziati rifiuti delle vostre spiagge formicolanti. / Mandate a me
i senza casa, sballottati dalle tempeste. / Levo il mio lume accanto alla porta
d’oro!» scriveva in quegli anni Emma Lazarus in un sonetto intitolato The New
Colossus – parole che saranno poi incise ai piedi della Statua della Libertà, alimentando sogni e illusioni, e retorica a non finire.
Quelle masse stanche e povere erano composte adesso da immigrati dall’area mediterranea (contadini, manovali e piccoli artigiani italiani, oltre che
spagnoli, greci, turchi, arabi) e in particolare dall’Europa orientale, da «ogni
angolo e cantuccio di Russia, Polonia, Galizia, Ungheria, Romania. […] della
Lituania, della Volinia, della Russia meridionale, della Bessarabia», come narrava Abraham Cahan nel romanzo Yekl (1896): in massima parte ebrei, ma non
solo. Fu, quest’ultima, una migrazione di massa di artigiani, operai specializzati, mercanti al minuto, professionisti, maestri, cantori di sinagoga, destinati
tutti a trasformarsi in forza-lavoro sottopagata e male alloggiata, a uso e consumo di un’economia in travolgente sviluppo. Approdavano a Manhattan dopo essere passati attraverso le forche caudine di Castle Garden ed Ellis Island
(in epoche diverse, punti d’ingresso e controllo degli immigrati); un buon numero proseguiva il viaggio verso altre città, ma la maggior parte si stabiliva a
New York, nel Lower East Side, che, da luogo di residenza di classi agiate o ricche, diventò sempre più quartiere immigrato: cancello d’ingresso all’America.
New York. Il cancello d’ingresso 27
Gli italiani s’insediarono dunque fra Mulberry Street, Mott Street ed Elizabeth Street («Elisabetta Stretta»), girato l’angolo di Chinatown, e tra First Avenue, Second Avenue, East 7th Street e East 13th Street, non lontano da ciò che
restava della comunità tedesca e dai crescenti insediamenti est-europei, che
ben presto occuparono la maggior parte del quartiere sovrapponendosi a insediamenti precedenti, creando ulteriori minicomunità, intrecciandosi a gruppi di greci, arabi, levantini, zingari – un caleidoscopio, una geografia urbana
singolare e fantastica, in cui bastava attraversare una strada per mutare lingua,
costumi, tradizioni. Nelle sue memorie The Time That Was Then (1971), Harry Roskolenko ricorda per esempio che Allen Street, tra le principali vie del
Lower East Side, una delle più convulse ed equivoche, «era tanto esotica quanto erotica per la sua segretezza, la sua oscurità, le sue melodie arabe, siriane,
greche, il tutto mescolato al profumo dei suoi tè e caffè […] una casbah arabogiudaica dei sensi» – atmosfere che il pittore realista George Luks restituì in
modo suggestivo in due dipinti del 1905, intitolati Allen Street e Hester Street.
4. Tre elementi architettonico-urbanistici dominavano questo universo congestionato: il tenement, lo sweatshop, la strada. La «questione delle abitazioni» rappresentò fin da subito una delle componenti drammatiche della vita
nel Lower East Side (e tale rimane oggi). Da un lato, si trattò di riconvertire
stabili nati per classi di abitanti diversi, come avverrà a Harlem fra Ottocento
e Novecento: gli appartamenti suddivisi in maniera spesso approssimativa, il
netto contrasto fra esterni che nella fattura testimoniavano ricchi splendori e
interni che mostravano tutte le avversità della miseria. Dall’altro, si cominciò
a costruire ex novo, sotto forma di grandi casermoni popolari, detti appunto
tenements: nelle parole dell’immigrato danese Jacob A. Riis, fotografo, giornalista e autore di una straordinaria indagine sociologica sul Lower East Side
(How the Other Half Lives, 1890), il «panorama senza fine dei tenements, fila
dopo fila fra strade di pietra, si stende verso nord, verso sud, verso ovest, fin
dove si spinge lo sguardo». Oppure ancora, almeno per alcuni anni o decenni,
si continuarono ad abitare complessi di vecchie costruzioni, sempre più fragili
e inospitali, sempre più cavernose e malsane: l’infame «Five Points» per l’appunto, all’intersezione di Baxter, Worth e Park Street, che aveva tanto scandalizzato Charles Dickens nel suo viaggio americano del 1840-1842; la non
meno famigerata «Gotham Court», a due passi da Cherry Street; il «Big Flat» a
nord di Canal Street fra Mott ed Elizabeth Street; le «Big Barracks» su Forsyth
Street; le «Mott Street Barracks» fra Bleecker e Houston Street, e decine di altri simili alveari umani.
C’erano vari tipi di tenements: il rear tenement, costruito nel cortile retro-
28 Città di memoria
stante di un altro caseggiato; il barrack tenement, con i suoi railroad flats (buie
stanzette disposte in fila come i vagoni di un treno, una sulla strada, una cieca in mezzo con annesso cucinino, una terza sul cavedio interno); il dumb-bell
tenement, con appartamenti «a manubrio» – tutti edificati in base a vecchie
leggi; e infine il new tenement, che rispondeva invece a requisiti introdotti ai
primi del Novecento con l’intento di migliorare una situazione abitativa disastrosa. Il tipo più diffuso nel Lower East Side era quello «a manubrio», che risaliva agli anni settanta dell’Ottocento: un edificio massiccio, «alto di norma
sei, sette, anche otto piani, e lungo una decina di metri, costruito su un lotto
di terreno della medesima lunghezza e della profondità di circa trenta metri»,
si legge in uno studio del 1901, intitolato The Tenement-House Problem. Vecchi o nuovi che fossero, ingressi bui, cortiletti soffocanti, scarsa ventilazione
interna, servizi e lavatoi in comune, scale antincendio ripide e malsicure (se
esistevano), stretti pozzi d’aerazione (che funzionavano piuttosto da imbuto di
odori e rumori o da canne fumarie altamente infiammabili in caso di incendio
– evento assai comune) – le caratteristiche di queste «tane di morte» o «covi di
febbre», come venivano spesso chiamati.
In quegli appartamenti soffocanti si nasceva, si viveva, si moriva – e perlopiù si lavorava. Il lavoro a domicilio, femminile e infantile, era una piaga
diffusa che aggravava ancor più le condizioni abitative e in generale di vita:
le fotografie di Riis e in seguito di Lewis Hine o di altri testimoni meno no-
I grandi casermoni popolari detti tenements.
New York. Il cancello d’ingresso 29
ti di quegli anni, fissano scene di lavoro intorno a un tavolo, le teste di donne,
bambini e bambine e qualche uomo chine su montagne di panni, o di scatole
e scatolette, o di fiori di carta, o di altri materiali destinati a passare attraverso quelle mani, sotto quegli occhi stanchi, nelle stanze già affollate e malsane, alla luce incerta di una lampada. Nel 1901, nella sola New York, c’erano
16 068 stanze d’appartamento, autorizzate dal Bureau of Factory Inspection
dello State Department of Labor, in cui aveva luogo un qualche tipo di lavoro
a domicilio, per un totale di 27 019 persone, di cui 7/9 erano donne e tra queste
6/7 lavoravano nel ramo dell’abbigliamento: la grande maggioranza di queste
stanze si trovava nel Lower East Side. Intorno al 1907, qualcosa come 60mila
bambini (stima per difetto) lavoravano a domicilio, contribuendo alle entrate familiari. Riveduta e corretta, diceva la filastrocca infantile: «Questo bimbo cuciva merletti / Quest’altro fabbricava fiori / Quest’altro cardava piume /
Quest’altro badava al piccolo per ore / E tutt’insieme sgobbavano nella stanza
chiusa e soffocante / Ora dopo ora, nella bella luminosa estate».
Ma era soprattutto lo sweatshop a regnare incontrastato nel Lower East
Side: il «laboratorio del sudore», grande o piccola galera del lavoro. New York
non fu mai città di grandi fabbriche, e Manhattan certo non poteva esserlo,
con il poco spazio a disposizione e una rendita fondiaria spietata: nacquero invece, e attrassero in particolare (ma non solo) l’industria dell’abbigliamento,
autentico volano dell’economia cittadina, laboratori ricavati in grandi stanzoni
o in strette sequenze di camere e appartamenti, e qui regnava il massimo sfruttamento. Ancora nelle parole di Riis: «Prendete la Sopraelevata della Second
Avenue a Chatham Square e risalite di mezzo miglio il rione degli sweatshops
dell’industria dell’abbigliamento. Ogni finestra aperta dei grandi tenements,
che si levano come un unico muro di mattoni su entrambi i lati della Sopraelevata, vi offre lo scorcio di uno di questi sweatshops, mentre il treno corre
via. Uomini e donne curvi sulle macchine, o intenti a stirare davanti alla finestra, mezzi nudi. […] La via è come un grosso corridoio che attraversa uno
stanzone senza fine in cui folle enormi non cessano mai di lavorare. Mattina,
mezzogiorno, sera, non c’è differenza: la scena è sempre la stessa». Una trentina d’anni dopo, le cose non erano granché mutate. Ce lo racconta l’immigrato
Marcus Ravage, nella sua autobiografia An American in the Making: The Life
Story of an Immigrant (1917): «C’erano tre tavoli smisurati che correvano in file parallele per quasi tutta la lunghezza dello stanzone. Ogni tavolo era coperto
di macchine da cucire, davanti alle quali, come galeotti incatenati ai loro posti,
sedevano gli operatori. Uomini e donne senza colletto, scarmigliati, contorti in posizioni innaturali, si muovevano a scatti, pulsando e sussultando come
leve e pistoni di un enorme congegno mostruoso. All’estremità più vicina, in-
30 Città di memoria
torno a un tavolo tondo più piccolo, sedevano un vecchio dalla barba bianca,
una ragazza e un giovane, e segnavano le camicie con una matita, imbastivano, piegavano, rifinivano. Il ronzio intermittente delle ruote, il suono scoppiettante e aspirante del motore elettrico nascosto da qualche parte, il monotono
brusio delle voci accrescevano il senso generale di oppressione della scena».
Decine di altre testimonianze, raccolte da Leon Stein, si possono leggere
in un grosso libro (Out of the Sweatshop, 1977), e restituiscono il senso di quel
vivere e lavorare: orari massacranti (spesso tredici-diciotto ore al giorno, per
sei-sette giorni alla settimana), incidenti ripetuti, ambienti resi ancor più soffocanti dalle polveri che si levavano dalle sostanze usate, la maledizione di incendi improvvisi, un mercato imprevedibile e l’incertezza di lunghi periodi di
non-lavoro (le slack seasons), arbitrii e arroganza dei capisala, una disciplina
oppressiva, multe per ogni presunta infrazione, salari bassi per una manodopera giovanissima, a volte addirittura adolescente, giunta da poco negli Stati Uniti, vulnerabile e ricattabile – lo sweatshop nel Lower East Side. Che non
scomparve nel procedere del xx secolo: Chinatown, nella sua odierna espansione ben oltre i confini originari, è un pullulare di piccoli laboratori, e lo stesso vale per altre zone downtown e midtown, o per lo stesso Lower East Side
portoricano. Leggiamo nello studio di Roger D. Waldinger, Through the Eye of
the Needle: Immigrants and Enterprise in New York’s Garment Trades (1986):
«Alle otto del mattino, appena qualche ora dopo la chiusura dei club punk,
migliaia di lavoratori cinesi e ispanici cominciano ad affiorare dalle metropolitane, diretti agli obsolescenti edifici industriali allineati lungo il corridoio
di Broadway. Gli ascensori, lenti e ansimanti, li conducono fino a loft ingombri di panni tagliati e abiti e gonne appena finiti. Sul retro, donne più anziane
e ragazze giovanissime sono chine sui tavolati della finitura, intente a tagliare fili pendenti e a dare gli aggiustamenti dell’ultimo minuto. Dietro di loro, il
vapore avvolge già gli stiratori, che stanno disponendo una gonna sulla tavola da stiro, poi abbassano la pressa, quindi la rialzano, e ripetono il gesto più e
più volte. Al di sopra del ronzio, si odono, sparati a tutto volume da un circuito chiuso locale, il ritmo incalzante della salsa o le voci acute del rock and roll
cinese. Da qualche parte, nel mezzo di questo caos, sta il boss, forse chino su
una macchina da cucire, forse impegnato a tirare sul prezzo con il fabbricante per cui si stanno cucendo gli abiti».
Camminare oggi nel quartiere con gli occhi e l’immaginazione attenti all’età, alle forme e alle strutture degli edifici che scorrono accanto (quelle vetrate,
quei portelli sulla strada, quei negozi) significa cogliere, in maniera quasi tangibile, il vissuto trascorso di intere generazioni di sweated workers: di nuovo, il
passato nel presente. E viene in mente la poesia di Morris Rosenfeld, il «poeta
New York. Il cancello d’ingresso 31
Lavoro a domicilio agli inizi del Novecento.
dello sweatshop», giunto ventiquattrenne a New York nel 1886, dopo aver trascorso tre anni nell’East End di Londra – uno dei grandi nomi della letteratura yiddish su suolo americano. Che scrive, nell’incompiuta «The Sweatshop»
(ne riporto la versione inglese):*
The machines are so wildly noisy in the shop
That I often forget who I am.
I get lost in the frightful tumult –
My self is destroyed, I become a machine.
* In «Appendice», la traduzione di tutte le poesie e le canzoni riportate per esteso nel
testo, in questo come negli altri capitoli.