speciale la stampa - Liceo Classico Scientifico XXV Aprile

SPECIALE LA STAMPA
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LA STAMPA
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Marmolada, la Galleria Rosso, galleria d’attacco italiana verso le linee austriache
Le lezioni
della Storia
CHRISTOPHER CLARK
CAMBRIDGE (GRAN BRETAGNA)
N
ella primavera del 2011
ero nel bel mezzo della
stesura di un capitolo
sulla guerra italo-turca
del 1911, un conflitto
scoppiato quando il Regno d’Italia
attaccò e invase il territorio ottomano oggi conosciuto come Libia.
Questa guerra, ormai quasi completamente dimenticata, fu la prima
nella quale un aeromobile fu utilizzato come mezzo di ricognizione
per segnalare le posizioni nemiche
all’artiglieria; fu inoltre la prima occasione nella quale vennero effettuati
bombardamenti aerei, utilizzando ordigni sganciati dagli aeroplani e dai
dirigibili italiani.
Avevo a malapena cominciato a
scrivere, quando giunse la notizia dei
nuovi attacchi aerei in Libia. Esattamente cent’anni dopo, le bombe cadevano ancora una volta sulle città libiche e sui quotidiani si leggevano gli
stessi nomi - Tripoli, Bengasi, Sirte,
Derna, Tobruch, Zauia, Misurata dei giornali del 1911.
SEGUE A PAGINA XVI
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
I
.
Cento anni dopo la Grande Guerra:
quante e quali eredità ha lasciato
l’evento bellico che cambiò il mondo?
Molte più di quante immaginate.
Ve le raccontiamo in queste pagine
realizzate con i nostri partner europei
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© LUCA CAMPIGOTTO
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LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA / IL REPORTAGE
II
La vista da Punta Linke verso il monte San Matteo: con i suoi 3632 metri, la cima fu uno dei centri nevralgici del fronte nel gruppo Ortles Cevedale
Sarajevo, terra rossa di sangue
dove l’Europa è morta due volte
Viaggio nei Balcani: nel 1914 qui scoppiò la guerra, oggi “pensano tutti al passato”
DOMENICO QUIRICO
INVIATO A SARAJEVO (BOSNIA ERZEGOVINA)
Q
ui l’Europa è morta, due volte.
A Sarajevo. Questa è una terra rossa di molto sangue. Il 28
giugno 1914 bastarono due colpi di pistola, non sembra niente; e poi, venti anni fa, ma furono mille
giorni in cui barbari versarono sangue
come se fosse acqua.
Sì, fino a noi è colato il veleno di
Sarajevo. Questo è il cuore di tenebre, da allora la coscienza europea
rantola sotto le macerie del suo universo.
Bisogna venire qui, nei Balcani, per capire gli ottusi egoismi che l’hanno assassi-
nata: in questo campo d’armi sconfinato
per l’urto tra popoli avversi, non solo tra
eserciti. La guerra, che migliora i buoni,
avvilisce i deboli, animalizza i malvagi.
Ed esalta ogni realtà umana.
Eppure questa città esorbitante annunziatrice dello sfacelo universale è
placida, grigia e gialla distesa a ventaglio su ripide montagne, son grappoli ingarbugliati di casupole, accozzaglie di
tetti minuscoli, una trama troppo intricata per poterla distinguere, dove svettano solo le cupole bulbose della cattedrale ortodossa e i minareti lanciati in
alto come giavellotti.
I muezzin non lanciano più la loro vibrante cantilena. Ma non lontano da qui,
a Gornia Maucia, ci sono i vehabi, barbuti fondamentalisti, che vivono con la sharia. Nella nubecola grigia sospesa a festone tra monte e monte che l’avvolge la
montagna boscosa sembra raccogliere il
tepore di tutto il giorno, conservare per
questi uomini che ne hanno tanto bisogno la bontà della natura.
Sì, la montagna stende le braccia e
avvolge le case. Ma è nella periferia grigia, lugubre, che a poco a poco si infervora inizia a palpitare e dopo qualche
gesto inatteso diventa viva, che conti
ancora, dopo anni, le ferite di Sarajevo:
nei palazzoni immensi di cemento sfibrato, e ti vien voglia di passarci le mani, sfiorarle ad una ad una, le cicatrici
Monte Cristallo, postazione italiana sulla cresta Zurlon verso la Croda Rossa d’Ampezzo
delle bombe e della mitraglia, sulle cuciture fatta alla svelta, da poveri, con mattoni diversi, che da lontano sembrano
croste. Nella via principale piccoli mendicanti ti inseguono con tenacia, davanti al cippo dei caduti, nella via del maresciallo Tito, scugnizzi impudenti si scaldano beffardi al fuoco degli eroi. Al mercato dei martiri, a Markale, tutto è nascosto, anche la lapide con i nomi delle
vittime, dalle casse di arance e di verdure. Contro questa serenità che già ricopre le tragedie qualcosa dentro di noi
protesta come se l’oblio non fosse una
legge di natura per lasciarci vivere ma
una voluta ingiustizia degli uomini.
Era una città che non aveva nazio-
Lagazuoi, Col dei Bos: una trincea italiana in direzione
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
III
.
Il fotografo:
“Un’avventura
nel tempo”
Cima Bocche, roccaforte austroungarica che fu al centro di combattimenti soprattutto nel biennio 1915-1916
ne, ma le comprendeva tutte, come accade talora per miracolo nella Storia,
ognuna con la propria razza, i propri
costumi la propria lingua. Oggi non
esiste più, e furono quegli spari, cento
anni fa che l’hanno uccisa.
Scelgo due luoghi per ricordare, entrambi lungo il corso della Miljiacka che
manda, nell’acqua, deboli bagliori come
di ottone antico. In questo angolo, nell’estate sciagurata di cento anni fa, il fato
per un vertiginoso attimo depose le sorti
del mondo nelle mani del tutto inaffidabili di un piccolo studente serbo, tubercolotico e forsennato, che uccise l’erede di un
impero millenario. Una data che da allora non significò più un giorno del calendario, ma un imperioso richiamo alla fine
e all’inizio di opposti periodi.
C’è un piccolo museo all’angolo fatale, uno dei pochi aperti della città: negli
altri piove dentro, hanno tagliato i finanziamenti in questo affanno di corruzione, di avidità di riguadagnare il tempo perduto con il socialismo e la guerra
dissennata. Pochi oggetti, scarne diciture che non restituiscono niente dell’immensità tragica di quel gesto e delle
conseguenze. Eppure…
È irraggiungibile la fuga delle idee, come queste si tramutino qui in rappresen-
tazioni, è misterioso il velocissimo mec- co, non vogliono che l’eroe Gavrilo su cui
canismo: le colonne dei giovani falciati fioriscono spettacoli e libri, venga dedal maglio insanguinato della Morte di- scritto come terrorista colpevole del
ventata industriale, una generazione in- Grande Massacro.
tera, il fiore dell’Europa spazzata via dalHusnija Kamberovic, direttore della guerra che stette ferma nelle trincee l’istituto storico che organizza il conveper anni e imputridì come le acque, l’ab- gno è un uomo mite, un modo di parlare
baiare dei nazionalismi e dell’odio etnico. cordiale, consueto, eppur denso di dotQui, in questo canto, è iniziato il secolo trina, di quelli che gli scolari amano, non
infelice, è stato uccisa la idea che il male è brancola scoraggiato nel labirinto minoradicato nel mondo, che, certo, è impossi- taurico di queste opposte interpretaziobile forse levarlo del tutto ma che è bello ni: «Qualcuno si è tirato indietro, è vero.
e consolatore combattere per il bene; Non importa! Abbiamo già 140 lavori
che, sì, il progresso è inevitabile e l’egoi- storici da 27 Paesi, non è male per un
smo, alla fine, sarà
istituto locale come il
piegato dalla generoL’ANNIVERSARIO DIVIDE nostro. Gavrilo Prinsità. Sono sbocciati il
resterà sempre un
In Bosnia dal 18 al 21 giugno cip
sibaritismo della
eroe per i serbi e un
ci sarà un grande convegno terrorista per gli alvendetta e le accuse
In Serbia un altro, con i francesi tri, ma non è questo
irremissibili.
Sarà per questo
l’approccio storico.
che un anniversario IL PROBLEMA DELLA MEMORIA L’attentatore fu maniancora divide. Dal 19
dai circoli mili«Non possiamo cambiare polato
al 21 giugno si terrà
tari serbi. Ma anche i
la Storia e migliorarla circoli militari auun grande convegno,
ma ci saranno alcuni ma non possiamo ignorarla» striaci volevano la
Paesi come la Serbia,
guerra. Il problema,
che ne ha organizzato un altro con la soprattutto qui per noi, è la memoria.
Francia (la vecchia alleanza dei giorni di Non possiamo cambiare la storia invenSarajevo si rinnova). A Belgrado tutto è tandoci un passato migliore, ma non
vissuto con grande fervore nazionalisti- possiamo trascurarlo perché non sa-
remmo consapevoli. Una mia allieva ha
fatto una tesi in cui voleva raccontare i
crimini commessi dai serbi contro Sarajevo, le ho suggerito di raccontare anche quelli che sono stati commessi, qui,
dentro la città».
Dell’altra guerra, quella appena finita,
ne parlano con una sorta di lugubre orgoglio, come nell’Europa al cospetto della
peste nera. I giorni della sanguinosa epopea si sono appassiti di delusione. Al caffè Boris Smoje, dove si riuniscono i ragazzi della Accademia delle belle arti l’incalzante ed espressiva eloquenza della
lingua serba giunge come uno scroscio di
acqua fresca. La via si chiama Stepan
Radic, un deputato croato ucciso negli
anni venti da un serbo. Altri delitti…
«Il problema è che a Sarajevo pensano
tutti al passato nessuno guarda avanti».
Marin Bersic è un giovane giornalista
che lavora per Al Jazeera-Balcani: «Da
voi la crisi è un momento storico, qui è
uno stato d’animo. Tutti dicono di essere
vittime, i bosniaci, i serbi, i croati. Come
nella prima guerra mondiale: tutti erano
aggrediti. Ma bisognerà prima o poi trovare qualche colpevole…».
Due mesi fa hanno trovato a Tomascica una fossa comune, si continua a
scavare...
«Su quelle montagne ho
trovato un giacimento di
meraviglie. E voglio continuare a esplorarlo». Quella
di Luca Campigotto è un’avventura che va al di là del
reportage, oltre il classico
rapporto tra un fotografo e il
suo soggetto. È l’appassionato e tenace tentativo di far
rivivere la storia di cent’anni
fa. La ricerca dello scatto
perfetto, capace di riportare
a galla una guerra lontana, il
suo fascino eroico, il suo
odore crudele. «Può sembrare un progetto difficile spiega - ma quando senti un
collegamento così forte con
un paesaggio, quando senti
che ti appartiene internamente, diventa quasi naturale. Io ho alle spalle una
formazione storica e per me
è stata ed è un’avventura
piena di echi, suggestiva, un
viaggio nel passato e anche
nella solitudine». Spopolate
e inospitali, le foto di Campigotto sono una testimonianza storica potente, d’impatto eccezionale. Sono al
centro di questo speciale
Europa e diventeranno a
breve un libro, con il patrocinio della Presidenza del
Consiglio. «Ma è un lavoro
cominciato
vent’anni fa,
quando
iniziai
fotografando in bianco
e nero il
Pasubio, il
VallortigaLuca
ra, i forti di
Campigotto
Folgaria»,
racconta. «La scorsa estate
sono tornato su in montagna, camminando tantissimo, a volte correndo qualche pericolo. Ho inseguito la
sensazione di essere il primo
ad arrivare o l’ultimo ad
andar via, qualcosa che
m’era successo solo davanti
alle piramidi d’Egitto o ad
Angkor in Cambogia. Un
paio di volte mi sono perso
di notte, ma spesso le luci
basse e l’atmosfera delle
Alpi mi hanno regalato uno
straniamento impagabile,
un viaggio nel tempo». Il
patrimonio di memoria che
le montagne continuano
ancora oggi a portare sulle
spalle sembra davvero
sconfinato. Le tracce non
serve neppure cercarle.
«Sono ovunque, con un
paesaggio severo ed eroico a
fare da sfondo», spiega
Campigotto. «Ci sono posti
come il Lagazuoi che sono
un museo a cielo aperto e ci
trovi i bossoli, il filo spinato,
le lattine. Oppure la Croda
Rossa di Sesto, dove si
arriva a un ex villaggio
austriaco a 2.600 metri di
altitudine e sembra appena
finita la battaglia. Da brividi. Eppure - ed è la cosa che
mi ha più colpito - gran
parte di chi ho incontrato
su quelle montagne, anche
chi ne conosce ogni spuntone, sembra non curarsi di
tutto questo».
Le traduzioni
I testi di questo
speciale Europa
«La Grande Guerra,
1914-2014» sono
stati tradotti dallo
Studio Melchior, Torino
del Gruppo di Fanis
Tra il Lagazuoi e il Col dei Bos: una postazione blindata
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA / I COMBATTENTI
IV
LA LEGGENDA DEL PIAVE
Quella casa vicino al fiume
racconta tre anni di battaglia
Casa Rossi a Visnadello fu requisita dall’esercito che ne fece un avamposto
Nei diari di chi l’abitò la storia di una delle poche vittorie che possiamo celebrare
M ICHELE BRAMBILLA
INVIATO A VISNADELLO (TREVISO)
Visnadello, piccola
frazione del piccolo
Comune di Spresiano in provincia di
Treviso, a quattro
chilometri dal Piave, c’è una casa che racconta una storia. Si
chiama Casa Rossi da quando è
stata costruita, cioè dal 1899.
La storia che racconta è tanto
gloriosa al punto che gli italiani
ne hanno fatto una leggenda,
«La leggenda del Piave»: «S’udiva intanto dalle amate sponde/
sommesso e lieve il tripudiar
dell’onde./ Era un presagio dolce
e lusinghiero,/ il Piave mormorò:/ Non passa lo straniero».
Per intere generazioni siamo
cresciuti con in testa quelle note
imparate a scuola. È una delle
poche vere vittorie che noi italiani possiamo celebrare. Qui,
sulle amate sponde, per tre anni
i nostri soldati ingaggiarono con
gli austro-ungarici una delle più
terribili battaglie della Grande
Guerra. Alla fine, lo stranierò
non passò.
I Rossi abitano ancora qui.
La signora che mi riceve si chiama Norina e sposò Giacomo
Rossi detto Gimo, dal quale ha
avuto due figli, Paola e Piero. Un
altro Piero, il padre di Giacomo,
aveva trentun anni nell’autunno
del 1917, quando - dopo la disfat-
A
Il diario
L’ultimo appunto dal
diario che il
Maggiore
Mario Fiore
tenne a Casa
Rossi. Pochi
giorni dopo il
Maggiore morì
nella Battaglia
del Solstizio
IL MAGGIORE FIORE
«Di chi muore in guerra
qualcosa rimane per secoli:
l’opera da loro compiuta»
ta di Caporetto - l’esercito italiano requisì la casa per farne
un avamposto del proprio comando per la resistenza sulla linea del Piave. «Le donne - racconta la signora Norina - furono
sfollate a Cento, nel Ferrarese;
il mio futuro suocero Piero fu richiamato alle armi e mandato a
Saronno, in Lombardia; in casa
rimase suo padre a ospitare i
soldati».
Erano quelli del 79esimo Bat- Soldati italiani a Casa Rossi nel 1918
taglione Zappatori del Genio, al
comando del maggiore Mario
Fiore, un napoletano nato nel
1886 e allievo dell’Accademia
militare di Torino. Su un muro
della casa, una lapide posata il
17 giugno 1934 ne ricorda la presenza.
Casa Rossi è oggi, nel blocco
principale, praticamente uguale a com’era negli anni della
Grande Guerra. Solo che allora
qui era aperta campagna; c’era
un maglio in cui si facevano attrezzi per l’agricoltura e un mulino alimentato da una derivazione del Piave, il canale Piavesella.
In sala, accanto al sofà, è rimasta una cassa di legno rivestita di rame nella quale si tenevano i fucili. «Mio padre, Luigi
Secondo Bettiol, era un ragazzo
del ’99. Fu chiamato alle armi a
17 anni e fece la battaglia del
Piave a Pederobba: lo nominarono Cavaliere di Vittorio Veneto», racconta la signora Norina,
che ha scritto le memorie di famiglia e ha conservato il diario
che il maggiore Fiore tenne in
questa casa. È un cimelio.
Visnadello dopo un bombardamento austriaco
In Casa Rossi, Fiore era arrivato nel febbraio del 1918. «Sono
qui da ieri mattina - annota domenica 24 febbraio alle ore 17 -.
Si lavora al ripristino dell’argine
regio di riva destra del Piave».
Incontra al Montello gli alleati inglesi e il suo primo impatto è
critico: «Nulla da imparare dagli inglesi. Un maggiore, comandante di una batteria inglese, ci
ha dichiarato: “Noi in Italia essere in congedo”». Ha invece
una buona impressione dei
francesi: «Molto da imparare,
soprattutto per quanto riguarda l’impiego degli aeroplani e
dell’artiglieria (...) Noi invece
lanciamo la fanteria avanti, senza una grande protezione di artiglieria. Parlando dei nostri soldati il maggiore francese così si
espresse: “Voi avete degli uomini che soffrono e che sanno ben
soffrire”».
Il 28 febbraio descrive un
bombardamento austriaco su
Spresiano («Mi ha ucciso un soldato e ferito altri otto»), il 27
marzo è critico con i suoi supe-
riori «Ci dichiarano indispensabili soltanto quando fa loro comodo. Negli altri casi ci cacciano a calci nel sedere».
L’ultimo appunto è di giovedì
13 giugno: «Calma e silenzio: solo pochi colpi di artiglieria su
Spresiano. S’avvicina o s’allontana l’offensiva austriaca?». Si
stava avvicinando. Per respingerla, alle tre del pomeriggio del 17 giugno 1918 il Maggiore
Fiore cade a San
Mauro di Bavaria, ucciso da un colpo di mitragliatrice al petto. In una lettera alla sorella Gemma aveva descritto
così chi combatte per la Patria:
«Essi sì, vanno incontro alla
morte; ma com’è diversa la loro
morte da quella che colpisce
l’uomo nella sua casa dopo lunga vita, quasi per legge naturale! La loro vita è troncata, ma
qualche cosa di essi pur rimane
per secoli e secoli: l’opera da loro compiuta, che la morte non
può distruggere e che affida i loro nomi all’immortalità».
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
V
.
Disfatta
Caporetto,
tra ottobre
e novembre 1917
gli austroungarici
sfondano
le linee
italiane
Difesa
Nel novembre
1917, le
truppe
italiane
impostarono la linea
difensiva
sul fiume
Le mappe
La ricostruzione delle
battaglie,
anche di
quelle nelle
pagine
seguenti,
è di Matteo
Pericoli
Casa Rossi in una fotografia al tempo della Grande Guerra
Casa Rossi oggi
Intervista all’erede della dinastia
e ci sono scivolate dentro come
sonnambuli».
Carlo d’Asburgo: “La Ue
è il proseguimento dell’Impero
con altri mezzi”
CATHRIN KAHLWEIT
Quale ruolo ha avuto nella
Prima guerra mondiale Suo
nonno, l’ultimo imperatore?
«Un ruolo piccolo, lui ha solo
ereditato la guerra. Anzi, si è
impegnato molto per la pace cosa che gli si è anche ritorta
contro - e ha sfruttato i contatti familiari per condurre colloqui di pace. Non penso che, all’inizio del primo conflitto
mondiale, qualcuno si potesse
immaginare in quale livello di
Dove potrebbe stare la responsabilità degli Asburgo?
«In Austria c’era un preparazione militare lacunosa, quasi non
avevamo soldati pronti all’impiego; uniformi molto belle, ma
poco più: questo è ciò che è mancato davvero».
Dopo la guerra ci fu una sollevazione contro gli Asburgo?
«No, al contrario: ci fu ancora e
sempre una grande simpatia
verso l’imperatore, gli veniva
dato atto di essersi impegnato
per la pace e per gli indigenti».
atrocità e di follia la guerra sarebbe degenerata. Gli austriaci
hanno pensato che sarebbe stata una piccola guerra, nella quale noi avremmo sistemato un po’
di cose in Serbia».
bia. Forse gli era anche chiaro di
essere visto dai serbi come nemico numero uno, poiché voleva
bilanciare - o magari ridurre - il
dominio dei serbi all’interno della popolazione slava».
Quale ruolo ha giocato il successore al trono Francesco Ferdinando?
Il dibattito sul fattore scatenante si è riacceso. Domina la
tesi che ci fosse una sorta di
ubiqua predisposizione alla
guerra. Condivide?
«No, altrimenti questo significherebbe che pensavamo di esserci resi colpevoli. Aveva molto
più a che vedere con il senso del
dovere».
«Simpatizzo per la tesi di Christopher Clark, secondo la quale
tutte le parti avevano i loro specifici interessi in questa guerra,
Suo padre operò come un roboante paneuropeo. La Storia
ha confermato il suo entusiasmo per una grande Europa?
«Francesco Ferdinando ha visto
in modo molto chiaro che la situazione della popolazione slava
era un problema-chiave all’interno dell’impero asburgico. E
vide anche le tensioni con la Ser-
Quanto poi ha fatto Suo padre,
Otto d’Asburgo, fu una sorta di
riparazione dei danni?
«Sono contento che lo sviluppo
dell’Europa sia andato
nella direzione che lui
aveva pensato. La Ue è,
con altri mezzi, il proseguimento dell’antica idea
sovrannazionale dell’impero. Esattamente ciò che ha visto e voluto Otto d’Asburgo. Le
condizioni sono cambiate, ma
noi continuiamo a lavorare all’idea di un ordinamento giuridico sovrannazionale e sul
principio di sussidiarietà».
Qual è la sua idea d’Europa?
«Nella mia attività per
“Blue Shield”, che si impegna per la protezione
dei beni culturali nei
territori di guerra, sono
spesso in Africa e vedo
come si guarda all’Europa. Gli africani considerano l’Europa orientata al futuro, è ammirata l’idea di
una corte di giustizia europea.
L’idea di Stato nazionale appartiene al secolo passato».
VI
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA / LE BATTAGLIE
LA CAMPAGNA DI GALLIPOLI
Il massacro sui Dardanelli
che fece nascere tre nazioni
Turchi, australiani e neozelandesi, allora nemici, sentono uno strano legame
E la penisola è ora meta di pellegrinaggi in memoria del mezzo milione di morti
JOSE MIGUEL CALATAYUD
ÇANAKKALE (TURCHIA)
È
una mattina d’inverno fredda e luminosa, e il traghetto attraversa
lentamente
lo
stretto dei Dardanelli da Çanakkale verso Eceabat nella
penisola di Gallipoli, nel
Nord-Ovest dell’attuale Turchia. L’imbarcazione trasporta qualche automobile, alcuni
autobus e poche persone, che
osservano il mare quasi vuoto.
L’immagine era molto diversa la mattina d’inverno del
19 febbraio 1915, quando le corazzate britanniche e francesi
iniziarono a bombardare le
fortezze che l’Impero Ottomano, alleato delle Potenze
Centrali, aveva stabilito su
entrambi i lati dello stretto.
Gli Alleati volevano controllare i Dardanelli e arrivare fino
a Costantinopoli, sul Bosforo.
La grande offensiva navale ebbe luogo un mese più tardi: 18
corazzate, accompagnate da
missili e cacciatorpedinieri, riuscirono a raggiungere la parte
più stretta del passaggio. Il risultato fu di tre corazzate affondate e di altre tre danneggiate.
MUSTAFÁ KEMAL
Disse: «Non vi ordino
di combattere
vi ordino di morire»
IL CONSOLE SERGI
Dice: «Quando l’Australia
era un Paese giovane
creò uno spirito nazionale»
Gli Alleati, allora, decisero
di attaccare via terra. Il 25
aprile, i soldati britannici
sbarcarono nell’estremo sud
della penisola. Le forze australiane e neozelandesi, o
Anzac, sigla inglese, giunsero
su una stretta spiaggia nella
costa occidentale, conosciuta
poi come Baia dell’Anzac.
Oggi, la penisola di Gallipoli accoglie il traghetto tra il
freddo e il vento, in un paesaggio di piccole spiagge ripide e sentieri che serpeggiano
tra le colline ricolme di pini. E
di tombe.
Lapidi bianche, piccoli monumenti ed enormi memoriali
che sorgono in continuazione
su entrambi i lati del percorso, e che danno forma ai 32 cimiteri nei quali giacciono i
soldati della fazione alleata.
Inoltre, vi sono almeno 28 fosse comuni nelle quali le truppe ottomane seppellirono i
propri caduti.
Il giorno dello sbarco, i
turchi riuscirono a contenere l’attacco, ma nell’Anzac
presto restarono senza munizioni. Mustafá Kemal, tenente colonnello di 34 anni,
parlò ai suoi soldati: «Io non
vi ordino di combattere, vi
ordino di morire. Nel tempo
che impiegheremo a morire,
altri comandanti e altri soldati verranno a prendere il
nostro posto».
Baia dell’Anzac
Nella foto, un soldato dell’Anzac mette in salvo un commilitone durante
l’offensiva di Gallipoli: i soldati dell’Anzac erano australiani o neozelandesi
Le sue truppe, armate unicamente di baionette, si lanciarono allo scontro con australiani e neozelandesi, che
furono arginati.
Dopo il conflitto, Kemal
guidò i turchi nella Guerra di
Indipendenza contro gli Alleati e, nel 1923, diventò il fondatore della Repubblica Turca. Ricevette il titolo di Ataturk, o «padre dei turchi». Oggi,
la Turchia commemora la difesa ottomana di Gallipoli come il momento chiave che diede origine alla concezione
moderna dell’attuale repubblica.
Durante la campagna, una
tregua consentì agli australiani e ai neozelandesi di fraternizzare con i turchi, per quello che sarebbe stato l’inizio di
un’amicizia molto particolare.
La sofferenza condivisa finì
per far nascere gesti di cameratismo. I turchi lanciavano
datteri e dolci all’altro lato
della terra di nessuno e gli alleati rispondevano con carne
in scatola e sigari.
«La Campagna di
Gallipoli fu molto
importante per lo
spirito australiano,
quando eravamo ancora un Paese giovane e desideroso di mostrare alla patria
ancestrale che eravamo cresciuti», riflette Nicholas Sergi, console australiano a Çanakkale, che estende quest’impressione ai suoi vicini
neozelandesi.
Oggi, Çanakkale e la Penisola di Gallipoli sono diventati
un luogo di pellegrinaggio. Il
25 aprile, giorno dello sbarco,
per l’Australia e la Nuova Zelanda è l’Anzac Day, festa nazionale che commemora la
campagna e che prevede manifestazioni ufficiali anche a
Gallipoli. Non solo la Turchia,
dunque, ma anche gli oceanici, considerano quella campagna alla base della nascita
delle loro nazioni.
Nel 1915, tra dicembre e
gennaio, gli Alleati, sconfitti
dalla resistenza turca e dall’asprezza delle condizioni,
sgomberarono la penisola.
Benché le cifre esatte non siano note, si stima che ciascuna
fazione registrò circa 250 mila morti, sia a causa dei combattimenti che delle malattie.
Mezzo milione di morti, dei
quali circa 120 mila sono seppelliti a Gallipoli.
«A quegli eroi che versarono il proprio sangue e persero
la vita, ora siete sul suolo di
un paese amico, perciò riposate in pace. Per noi, non ci sono differenze tra i Johnny e gli
Mehmet che giacciono insieme qui nel nostro paese»,
scrisse Ataturk nel 1934 per
commemorare la battaglia.
Oggi, ormai notte, il traghetto torna verso Çanakkale. Un’enorme scritta illuminata su una delle colline rompe l’oscurità. Sono le parole
del poeta turco Necmettin
Halil Onan.
«Viaggiatore fermati!
La terra che calpesti
Una volta fu testimone della fine di un’era».
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
VII
.
Stallo
La campagna alleata
di Gallipoli
durò quasi
un anno,
dal febbraio 1915
al gennaio
1916
Svolta
La battaglia di
Verdun
iniziò il 21
febbraio
1916 e
terminò a
dicembre
del 1916
VERDUN E DINTORNI
Dove le armi chimiche
colpiscono ancora
Cent’anni dopo, il suolo ai confini tra Francia e Belgio è avvelenato dal conflitto
BENOÎT HOPQUIN
VERDUN (FRANCIA)
S
ituato a qualche chilometro da Verdun, il luogo è come un pezzo di
tundra nella Francia
orientale. Qualche raro
lichene, qualche muschio rinsecchito che si aggrappa tenacemente al suolo, mentre tutto intorno la
foresta sprigiona verso l’alto le sue
molteplici essenze. La radura ha
un soprannome ben noto agli
agenti forestali e ai cacciatori: la
Place à gaz (piazza del gas). La ragione di tale toponimo è
conosciuta da pochi altri. In questo sito, dopo
l’armistizio, furono trasportati per essere
«neutralizzati» centinaia di migliaia di obici inesplosi provenienti
dai campi di battaglia circostanti.
Duecentomila di questi ordigni
appartenevano all’arsenale chimico tristemente dispiegato sui campi della prima guerra mondiale.
Il suolo conserva gli strascichi
di tale produzione, trabocca di
metalli pesanti, rame, piombo,
zinco ma soprattutto arsenico e
perclorato d’ammonio. La concentrazione di arsenico è da mille a diecimila volte più elevata
che nell’ambiente naturale. Il
terreno è inquinato e acido a tal
punto che solo tre tipi di piante
riescono a sopravvivervi. Nel
2005 le autorità francesi decisero recintare il luogo e successivamente, nel 2012, di interdirne
formalmente l’accesso.
La Piazza del gas non è il solo
danno ambientale lasciato dietro di sé dalla guerra del 1914-18.
Sull’antica linea del fronte, in Fort Vaux, nei pressi di Verdun, uno dei centri della battaglia
Francia e in Belgio, molti luoghi
che conservano le stigmate ecologiche del conflitto. Dopo la fine
della guerra, i poteri pubblici
hanno delimitato una zona rossa
che includeva i luoghi principali
dello scontro.
Lo Stato ha rilevato i terreni
più colpiti, ha piantato foreste su
di essi e non si è più preoccupato
di questi sacrari. Sotto la spinta
dei residenti inconsapevoli dei
rischi, le altre zone sono state
poco a poco rimesse a coltura o
edificate. «L’amnesia è generale
da un secolo a questa parte»,
constata Jacky Bonnemains, responsabile dell’associazione ecologica Robin des Bois.
Jacky Bonnemains lotta da 14
anni contro questo problema.
Secondo lui, le armi della Grande Guerra continuano ad avvelenare l’uomo. L’arsenico contenuto nel terreno raggiunge le falde
freatiche. Il piombo delle granate satura altri terreni. Materiali
non degradabili come il mercurio, contaminano l’ambiente per
molto tempo, se non per sempre.
Circa il 15% dei miliardi di obici utilizzati durante il conflitto è
rimasto inesploso; una parte di
tali munizioni resta interrata. La
brigata degli artificieri di Metz,
che si occupa di tre dipartimenti
sull’antica linea del fronte, registra mille richieste d’intervento
l’anno, trattando, su questa sola
porzione delle antiche trincee,
da 45 a 60 tonnellate di munizioni. «Noi siamo gli spazzini dei
campi di battaglia», spiega Christian Cléret, responsabile di questa squadra di undici persone,
egli stesso figlio di un artificiere.
L’artificiere vanta trent’anni
di esperienza, in base ai quali sa
valutare al primo sguardo il tipo
e la pericolosità degli obici, delle
granate e di altri residuati del
passato. «Più passa il tempo, più
si pone il problema della sensibilità. Gli involucri sono resi fragili
dalla permanenza nel terreno in
un ambiente umido, afferma. Tali condizioni accelerano il processo d’invecchiamento».
Circa il 2% delle munizioni ritrovate è di tipo chimico, principalmente contenenti iperite (gas
mostarda), fosgene e difosgene.
Christian Cléret e i suoi uomini
hanno imparato a trovarle. «In
caso di dubbi, si procede a una
radiografia». Nel 1997, dopo la
firma da parte della Francia della Convenzione che proibisce lo
stoccaggio di armi chimiche, è
stato avviato un progetto per un
centro di trattamento. Nella migliore delle ipotesi, l’impianto
dovrebbe aprire nel 2016. Gli obici chimici verranno trattati in
una camera di detonazione stagna e i residui recuperati e trattati in altre unità specializzate.
Dopo la guerra, i paesi belligeranti nascosero le munizioni non
utilizzate, in particolare quelle
chimiche, in luoghi classificati
top secret. In Francia, migliaia
di tonnellate di esse sono infatti
state immerse nel lago d’Avrillé
(Maine e Loira) o sepolte nel crepaccio Jardel (Doubs). In Belgio,
una parte degli stock giace al largo di Zeebruge. Le autorità militari non avevano evidentemente
pensato al dopo. «Quando i popoli vogliono scendere in guerra,
non si preoccupano troppo delle
generazioni future», constata
Jacky Bonnemains.
VIII
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA / INSEGNARE LA STORIA
Germania
“Il mio asso nella manica
è portare i ragazzi in visita
al Museo delle forze armate”
FRITZ SCHÄFFER
INGOLSTADT
Non è mai semplice affrontare i temi
della modernità in classe, soprattutto
nelle scuole superiori: troppi aspetti ancora
discussi e discutibili, troppe questioni
ancora aperte. Così vicina eppure
così apparentemente lontana, la Grande Guerra
è anche la Grande Dimenticata
di molti programmi scolastici
Per tutte le lezioni di Storia si
pone naturalmente la domanda di come si possa risvegliare
l’interesse negli alunni, e se un
fatto storico per non risulti
troppo astratto. In linea di
massima, per la Prima guerra
mondiale c’è interesse per le
conseguenze
concrete sulle persone. Nel mio ginnasio ad Ingolstadt viene proposta anche la visita al Museo
bavarese delle forze armate.
Qui una mostra permanente illustra la vita quotidiana al
fronte, oppure gli stenti delle
famiglie in patria; qui di norma
si riesce davvero a far avvicinare i ragazzi al tema. Vi si trovano ricostruite delle trincee,
Schäffer,
47 anni,
insegna
Storia al
ginnasio
di Ingolstadt, Alta
Baviera
si può saggiare il peso degli zaini
militari. Se la visita guidata al
museo non si sofferma troppo
sui dettagli, nei ragazzi rimangono delle impronte importanti.
Ma non per tutte le scuole c’è
la fortuna di avere un tale museo
in città, anche se molti colleghi
vengano con le loro classi da fuori. E ben più difficili si presentano le lezioni su aspetti pure
astratti della guerra mondiale.
Il nostro piano didattico di
[testo raccolto da Johann Osel]
Tre Cime di Lavaredo, caposaldo austriaco
Il monte friulano Pal Piccolo, dove è possibile visitare i resti delle trincee e dei baraccamenti
Abbiamo chiesto ai giornali partner
del progetto Europa di cercare insegnanti
di Storia particolarmente appassionati
al tema, maestri veri, impegnati ogni giorno
nella trasmissione del sapere:
ecco che cosa ci hanno raccontato
dei loro sforzi, mai banali, per coinvolgere
i loro ragazzi nel racconto del Novecento
Bavarese
storia non è suddiviso in modo
molto dettagliato per quanto
concerne la distribuzione degli
argomenti sulle ore. Per la Prima guerra mondiale vengono
elencati blocchi tematici di massima, come la «nuova dimensione della guerra di posizione,
l’impiego di uomini e mezzi e
conseguenze sulla popolazione
civile». Così spetta al docente
decidere su quali punti concentrarsi e anche, ad esempio, fino a
che livello di dettaglio trattare
gli avvenimenti al fronte.
In particolare il punto di svolta della Storia collegato all’ingresso degli Usa nella guerra e
alla Rivoluzione d’ottobre non è
affatto conosciuto da parte di
molti studenti e studentesse.
Sono alunni dell’ottavo anno,
per la maggior parte quattordicenni. Si può pretendere la pura
nozione, ma che i ragazzi davvero comprendano è molto più difficile. Manca anche il tempo per
potersi confrontare su questi temi. E, certamente, il tema del
nazionalsocialismo riscuote tra i
ragazzi un interesse notevolmente maggiore rispetto alla
Prima guerra mondiale.
Francia
“Parliamo solo della violenza
senza spiegarne le ragioni”
IANNIS RODER
SAINT-DENIS
Uno studente francese affronta
tre volte, nel corso del suo percorso scolastico, le trincee fangose e gli assalti cruenti di quel
conflitto. Dall’ultimo anno di
scuola primaria, alla terza liceo
passando per la scuola media,
studia la
Grande
Guerra
progredendo nel contenuto, ma
con lo stesso approccio.
Durante le 4-5 ore che i professori di storia di scuola media
e superiore devono dedicare al
conflitto, le problematiche selezionate dai programmi nazionali non mirano a una conoscenza
approfondita della guerra e delle poste in palio, ma incitano gli
insegnanti a concentrarsi su determinati aspetti, a discapito
dell’apprendimento globale dell’argomento. Una volta affrontati
rapidamente gli aspetti militari,
sono le violenze di massa a costituire la tela di fondo e l’asse di studio principale.
Quindi della battaglia di Verdun, simbolo della guerra di trincea e di un livello di violenza allora
inaudito, il percorso didattico del
professore deve permettere di
comprendere il fenomeno di mobilitazione totale delle società in
guerra. Di fatto la guerra non viene considerata come il punto di
arrivo delle tensioni internazionali, della rivalità delle potenze
europee, della creazione di alleanze, ma unicamente dal punto di
vista della sofferenza e di una
guerra di nuove dimensioni, che
sottintende il coinvolgimento di
immensi eserciti, stati e industrie,
ma anche di popolazioni civili.
La sofferenza dei combattenti
sui campi di battaglia sminuisce il
confronto franco-tedesco, quella
delle popolazioni civili resta sullo
sfondo o viene descritta in occasione dei massacri di massa di cui
il genocidio degli armeni rappresenta un esempio emblematico.
La Prima guerra mondiale non
viene insegnata in quanto tale. Il
trauma del fronte, lo stravolgimento delle società in guerra e le
violenze dei genocidi preludono
allo studio del secondo conflitto
mondiale, quasi a meglio far comprendere che la Prima guerra
mondiale è il punto di partenza di
un percorso che conduce al culmine della violenza di massa, raggiunto in occasione della Seconda
guerra mondiale.
*Professore di Storia in un
collegio della banlieue parigina
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
Italia
“Il segreto è far capire
che in quelle vicende
ci sono le radici del presente”
ROBERTO SANDRUCCI
ROMA
n Italia la Prima guerra mondiale è materia di studio per
l’ultimo anno delle medie e
delle superiori; al tema si dedica
uno spazio importante nel programma.
Parlare: per spiegare ai giovani la Prima guerra mondiale
non esiste modo migliore. Bisogna raccontare che
l’odio si costruisce, che i sentimenti degli esseri umani utili
per fare la guerra si possono
fabbricare. E quindi bisogna capire chi aveva interesse, e perché, a costruire quell’odio. Questo vuol dire interrogarsi sulle
cause economiche, politiche, sociali e culturali del conflitto; sul
ruolo della propaganda, ad
I
A Roma
Sandrucci è
professore
di Storia
e Filosofia
al Liceo
scientifico
Newton
di Roma
esempio; o, in Italia, sull’interventismo della maggior parte degli
intellettuali.
È poi necessario trattare la
guerra empiricamente, come
evento con la sua cronologia, i
suoi dati, le sue vicende; inserendo il tutto nel quadro internazionale e italiano di quel tempo.
Sono professore di ruolo da 18
anni e sono un sostenitore della
lezione tradizionale. Ritengo che
l’aula rimanga il volano di qualsi-
asi ragionamento: è lì che ci incontriamo come coscienze quando l’insegnante parla o legge e
quando raccoglie le considerazioni, i dubbi, le richieste di approfondimento dei ragazzi. È nell’aula che l’insegnante lega il passato al presente.
Il legame più immediato è con
la guerra in Jugoslavia degli Anni
Novanta. Parlo del clima di sfiducia democratica che c’era in quel
periodo in Italia e in Europa, della
convinzione che i partiti fossero il
male della nazione, che il singolo
potesse fare «la differenza», del
culto della personalità forte, derivato dal romanticismo. Attribuisco molta importanza alla dimensione culturale della guerra. Appassiona la possibilità di smascherare i discorsi menzogneri, i
populismi, i sofismi della politica,
dell’economia e della cultura.
Parlare del primo Novecento significa riflettere sulle origini della
società di massa, con le sue istituzioni, il suo lessico politico, le sue
tensioni: nella guerra entrano eserciti, partiti, movimenti, apparati
statali. È a scuola, è nello studio, che
ciò che è avvenuto cento anni fa può
rimanere vivo, pieno di senso.
[testo raccolto da Flavia Amabile]
Gran Bretagna
“I miei obiettivi? Superare
gli stereotipi del fango
e la miopia del nazionalismo”
JONATHAN LISHER
EDIMBURGO
La Prima guerra mondiale
non è realmente insegnata nelle scuole inglesi. Quasi tutti i
bambini del Paese conoscono
gli avvenimenti della guerra
del 1914-1918, ma solamente
nel ristretto contesto di un
conflitto combattuto
tra due
nazioni,
il Regno Unito e la Germania.
Tutto ciò che imparano può
essere riassunto in una parola:
trincee.
Nella stragrande maggioranza delle scuole inglesi, gli
insegnanti di storia si concentrano principalmente sugli
aspetti della guerra che più
hanno visto coinvolto il nostro
Scozzese
Lisher
insegna
Storia
al Fettes
College
nella capitale scozzese,
Edimburgo
Paese. Il risultato di questa prospettiva è che la battaglia delle
Somme (1916), dominata dagli
inglesi, riceve una grande attenzione, mentre la battaglia di Verdun (1916), egualmente importante ma vinta dai francesi, è
quasi sempre trascurata.
E così, la Prima guerra mondiale, nei ricordi di scuola della
maggior parte degli inglesi, finisce per significare fango, filo spinato e mitragliatrici che sputa-
.
IX
no fuoco sulle trincee del Fronte
occidentale. Perché? Perché
questa è stata l’esperienza della
maggior parte dei soldati inglesi, un vissuto entrato a far parte
della nostra cultura nazionale.
La domanda che sorge più
comunemente, dal nostro punto di vista britannico-centrico,
è: «Il feldmaresciallo Douglas
Haig era veramente uno ”stupido”?» O, in altre parole, il ritratto di Haig offerto da Geoffrey
Palmer in Black Adder, in cui il
generale, al sicuro a chilometri
dal fronte, gioca con i soldatini
sulla cartina, rappresenta veramente un quadro accurato
della realtà storica?
Il dibattito sulla questione,
che dura ormai da quattordici
anni, probabilmente avrà fatto
rivoltare più volte il feldmaresciallo nella tomba, alimentando
al contempo il mito secondo cui i
soldati britannici sarebbero stati «leoni guidati da somari», abbandonati a se stessi dai ricconi
al potere. Un mito che senza
dubbio ha un suo fondamento
nella realtà, ma che rappresenta
certamente un pigro stereotipo
semplicistico, facile da insegnare e da tramandare nel tempo.
La Marmolada vista dal Monte Padon
Spagna
Polonia
La Prof che racconta il conflitto
con il film di Stanley Kubrick
“Per farmi capire chiedo aiuto
a Otto Dix e Bertrand Russell”
J. A. AUNIÓN
MADRID
Sullo schermo, il colonnello
francese soffia nel fischietto
con tutte le forze, con la pistola
in mano, affinché i suoi soldati,
in un attacco suicida, escano
dalla trincea per conquistare
una posizione strategica. L’offensiva, impossibile sin dal
principio, termina in
un disastro e il comando decide di processare e condannare
a morte alcuni uomini per codardia, per dare l’esempio.
Quando arriva il momento
di spiegare la Prima Guerra
Mondiale, la professoressa di
storia Pepa Chico Pajares ha
l’abitudine di far vedere ai
suoi alunni il film «Orizzonti
di gloria», diretto nel 1957 da
Stanley Kubrick e interpretato
da Kirk Douglas, perché illustra molto bene, ci racconta,
quella guerra di trincea in cui si
combatteva metro dopo metro,
o la pressione dell’opinione
pubblica francese sulle decisioni dell’Esercito.
All’inizio, quando scoprono
che il film è in bianco e nero, i ragazzi borbottano un po’, «fino a
quando non vengono coinvolti»
ed entrano nella storia, spiega
questa docente con oltre trent’anni di esperienza. In Spagna,
la Grande Guerra si insegna a
tutti gli alunni dell’ultimo anno
della scuola obbligatoria, ossia il
quarto anno di Eso, a 15 anni.
All‘interno di un vastissimo programma che inizia con la caduta
dell’Antico Regime, la Rivoluzione francese e che arriva fino ad
oggi, in alcuni libri di testo la Pri-
ma guerra mondiale non è inclusa come argomento a sé stante,
ma è unita all’Imperialismo europeo della fine del XIX secolo.
«È troppo poco», sostiene la
professoressa. Ma più che per il
fatto che la Spagna non prese
parte alla Prima Guerra Mondiale, attribuisce ciò alla quantità di argomenti da insegnare:
«Prima si arrivava alla Seconda
guerra mondiale; ora c’è la guerra fredda, la caduta del muro di
Berlino e si arriva fino ai giorni
nostri. Ma il tema affascina me e
anche i ragazzi. È uno dei nostri
argomenti principali, insieme
alla Seconda Guerra Mondiale».
Perché? «Perché nonostante
siano ragazzi del XXI secolo, il
XX secolo per loro è certamente
il più vicino. Inoltre, grazie ai
film è entrato nell’immaginario
collettivo».
ANNA DZIERZGOWSKA
VARSAVIA
emo che i miei studenti
non scoprano molto delle
gesta dell’esercito polacco
durante la Prima guerra mondiale. Spero che capiscano perché è
chiamata la Grande Guerra. E
che ricordino cosa di cela dietro
alle parole «Niente di nuovo sul
fronte
occidentale».
Il vantaggio dello studio del
XX secolo per gli studenti che
non ha Storia come materia dell’esame di Stato è la libertà dai
vincoli imposti dall’esame. Lo
svantaggio è che io non tanto insegnolaStoria,malafaccioconoscere.
Devo scegliere un determinatomododiraccontarla:propongo
quello in cui la prima guerra
T
mondiale segna un momento epocale. Spiego quindi una guerra che,
sul finire del XIX secolo, era attesa
e auspicata da larga parte dell’opinione pubblica. Leggiamo testi che
raccontano come la borghesia vivesse una guerra immaginaria e
una gloria immaginaria e la confrontiamo con estratti di racconti e
di memorie dalle trincee del fronte
occidentale o con le opere di Otto
Dix. Le memorie di Bertrand Russell, i frammenti del «Dottor Faustus»oladescrizionedel«Giardino
immaginario della cultura liberale» di Steiner consentono di mostrare la narrazione modernista
sul XIX secolo come epoca di progressoeinsiemedicrisi.LaGrande
Guerra segna il punto in cui la narrazione si interrompe e dopo il quale diviene impossibile.
La Polonia è uno dei Paesi che
acquistarono l’indipendenza a se-
guito della guerra. La storia della
Grande Guerra non è la storia di
una catastrofe, ma di un avvenimento eccezionale che permise la
ricostruzione dello stato polacco
dopo 123 anni.
Nella mia scuola tutte le terze
iniziano l’anno con un viaggio a Sarajevo. Il viaggio nei Balcani permette di intavolare una discussione sul nazionalismo delle nazioni
senza Stato, tema importante anche per la storia polacca. La GrandeGuerraèancheunpuntocruciale nella storia dell’emancipazione
femminile. La Polonia introdusse il
diritto di voto per le donne già nel
1918. Fu un grande successo, taciuto nel 2008 nel corso delle celebrazioni ufficiali dell’anniversario dell’indipendenza.
* Insegnante di Storia al Liceo
classico Jacek Kuron di Varsavia
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA / I RICORDI
X
Gran Bretagna
“Wilfred diceva sempre
che un conflitto così
non aveva vinti né vincitori”
Germania
Dorothy Ellis
sposò il soldato Wilfred nel 1942
STEVEN MORRIS
LONDRA
La questione della guerra non venne fuori durante il corteggiamento. Fu
solo dopo il matrimonio che Dorothy notò la cicatrice, delle dimensioni di
una moneta da 50 centesimi, che suo marito aveva sulla gamba. «All’inizio
- racconta lei - avevamo molte altre cose di cui parlare. E come tanti uomini di allora, non era molto propenso a raccontare quanto accaduto. Ma poi
vidi la ferita e li mi disse: “È il foro di un proiettile”, e le cose cominciarono
a venire a galla un pezzo dopo l’altro».
A 92 anni, Dorothy è l’ultima vedova ancora in vita di un soldato della Prima
guerra mondiale. Lei nacque tre anni dopo la fine del conflitto e sposò Wilfred
nel 1942. Ma i suoi ricordi di Wilfred, delle loro conversazioni e i pochi oggetti che ancora conserva degli anni trascorsi dal marito sotto le armi, nel fangoso inferno del fronte occidentale, rappresentano un
legame straordinario, fragile e prezioso con la Grande Guerra: «Mio marito mi disse che era stato colpito alla caviglia e che riusciva
a malapena a camminare - racconta - si appoggiò alla spalla di un amico che lo
guidò attraverso la terra di nessuno. I proiettili sibilavano tutt’attorno a loro ma,
nonostante questo, riuscirono a non farsi colpire e a giungere dall’altra parte». I
feriti venivano caricati su degli appositi carri. Wilfred chiese se poteva salire e
riuscì a issarsi a bordo. «Si accaparrò l’ultimo posto sul carro», spiega Dorothy.
Ma la mente di Wilfred fu segnata come il corpo da quanto accaduto sul fronteoccidentale?«Miomaritodicevasemprecheisoldatisentivanocheunasimile
perdita di vite umane non avrebbe mai dovuto verificarsi. Alla fine della giornata non ci sono vincitori, solo vinti, in un modo o nell’altro. Wilfred ha sempre
detto che quella da lui combattuta avrebbe dovuto essere una guerra per fermare tutte le guerre. Ma non è stato così. Le guerre esistono ancora oggi».
Polonia
“Nel mio paese si continuò
a dire Dzien Dobry
ma anche Guten Tag”
Jozef Lewandowski
era bambino al tempo della guerra
BYDGOSZCZ
Contrariamente a quanto si possa pensare, la prima guerra mondiale fu un
periodo molto tranquillo, almeno per me e la mia famiglia. Di quei giorni non
ricordo spari, battaglie o spargimenti di sangue. La fine della guerra? Andammo a dormire in Germania e il giorno dopo ci risvegliammo in Polonia.
Non vi furono grandi festeggiamenti. Cambiarono la bandiera e tutta l’amministrazione. Nella strade di Bydgoszcz si sentivano ancora sia «Dzien dobry» che «Guten tag». I giornali tedeschi continuavano a uscire. Facevamo
la spesa dagli stessi negozianti, principalmente tedeschi.
Dopo la fine della guerra, nel 1919 a Poznan scoppiò l’insurrezione della
Grande Polonia. La situazione a Bydgoszcz rimase calma, anche se nelle
località vicine imperversavano gli scontri. E dopo l’insurrezione, le relazioni tra i polacchi e i tedeschi rimasero buone. Ci rispettavamo, anche perché
avevamo vissuto fianco a fianco per molti anni. I polacchi parlavano benissimo il tedesco. Il mio maestro di scuola era un tedesco. Parlava
piuttosto male il polacco. Ma ricordo che era una brava persona e un ottimo insegnante. In classe spesso ridevamo. Grazie a
lui ho pure imparato il tedesco. Quando, ormai diversi anni
dopo la guerra, decise di ritornare in patria i suoi allievi lo
accompagnarono alla stazione e lo salutarono piangendo.
Vi erano ovviamente anche tedeschi che non si sentivano a loro agio nella
Polonia indipendente. Attaccavano briga e cercavano di vendicarsi. Io stesso da
bambino ebbi un diverbio con il figlio del macellaio Wolf. Voleva picchiarmi perché parlavo polacco. Dovetti nascondermi a casa qualche giorno per non incontrarlo. La famiglia Wolf per fortuna si trasferì quasi subito a Danzica. Come loro,
una parte di tedeschi se ne andò. Una buona fetta rimase però a Bydgoszcz. E
vivemmo in armonia fino allo scoppio della successiva guerra mondiale.
[testo raccolto da Wojciech Bielaw]
“Primafuiinansia
permiopadre,
poipermiomarito”
Gertrud Dyck
è nata a Berlino nel 1907
ANNA GÜNTHER
MONACO DI BAVIERA
Quando Gertrud racconta la sua vita, i ricordi
fanno un balzo. Come bambini che saltano da
una pietra all’altra. Ogni balzo le viene in mente
un aneddoto. Ciò che dimentica è la piccola
stanza in una casa di riposo vicino a Monaco dove vive da tempo. Gertrud Dyck nacque a Berlino nel 1908. Durante la Prima guerra mondiale
rimase in ansia per suo padre, durante la Seconda per suo marito. Quando arrivò la Prima
guerra mondiale, in casa vivevano estranei.
Per racimolare un po’ di soldi, la madre Lina
dava in affitto le stanze a gente che era fuggita
dalle regioni dell’Est. Ogni lettera di suo padre
veniva attesa con ansia. Dal Belgio scriveva di
uomini che giocavano a biglie per la strada. I
soldati potevano tornare a casa una volta all’anno. L’anziana signora idealizza «il papà» anche a
105 anni, come fanno molte bambine, in particolare se si devono allontanare dal padre
anzitempo. La fortuna per il padre di essere sopravvissuto
alla guerra non durò a lungo. Fritz Bandow morì
per un ictus quando sua figlia aveva 14 anni. E lei
trattiene le lacrime a fatica anche dopo 90 anni.
La storia si ripete per Dyck quando scoppia
la Seconda guerra mondiale. Gerhard, suo marito, era di stanza in Norvegia; lei rimase a casa
con le figlie Margarete e Dorothea. Del «tempo
dei nazisti», così Gertrud chiama gli anni nei
quali visse nuovamente la paura, preferisce non
parlarne. Quando a 98 anni si trasferì nella casa
di riposo, vi trovò gruppi di confronto sull’epoca
della guerra. Lei si disse: «Mai più! Di questo tu
non parli, chiuso e passa oltre. Se dici qualcosa è
perché hai ancora ostilità verso le persone».
Gerhard Dyck morì nel 1977, dopo 55 anni di
matrimonio. Da quel giorno lei è vedova, ma non
ha mai perso l’allegria. Le figlie, cinque nipoti e
otto pronipoti vengono a trovarla. E lei racconta
loro le vecchie storie e canta le canzoni dell’epoca in cui sui tedeschi dominava l’Imperatore.
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
.
XI
Francia
“Dio mi ha lasciata in vita
per raccontare al mondo
del genocidio armeno”
Italia
“Così persi Augusto
il mio primo
promesso sposo”
Emma Morano
è l’europea più anziana: 114 anni
CARLO BOLOGNA
VERBANIA
Sulle alture di Monfalcone, la Caverna Vergine, ricovero lungo la seconda linea di difesa
Una postazione austro-ungarica sul Monte Sass de Stria
«Con l’Augusto sognavamo una vita insieme,
eravamo giovani e fidanzati. Era nato nel
1899, come me. Anche lui partì per andare a
combattere in montagna, con gli alpini. Ci
siamo salutati, per un po’ ho ricevuto le sue
lettere. Certo, parlavano di amore. E della
guerra. Poi le lettere non sono più arrivate. E
non ho più rivisto l’Augusto».
Emma Morano ha 114 anni, è la donna più longeva del Vecchio Continente e della sua cavalcata tra i secoli conserva ancora molti ricordi. Alcuni nitidi, altri che si confondono a mille altri
ormai sbiaditi. Oggi la nonna d’Europa abita a
Pallanza, Verbania, a 150 passi dal monumento
che dal 1932 - quattro anni dopo la morte - accoglie le spoglie del generale Luigi Cadorna, il capo di Stato maggiore dell’Italia del 1915-18. Poco
distante, centodue nomi sono ricordati sulla
modesta lapide per i caduti in battaglia. Tenenti, capitani, caporali. Ragazzi.
Storie e volti che potrebbero sovrapporsi a
quelli di Augusto, ragazzo del ’99. «Era di Villadossola - racconta Emma - . In quegli anni abitavamo in una delle case degli operai dietro
l’acciaieria. Ero giovane, mi piaceva cantare e quando la gente passava sotto la mia finestra si fermava ad
ascoltare. Anche Augusto si innamorò. Erano
gli anni dei sogni, anche se c’era la guerra. Andavamo a ballare e se non tornavamo a casa all’ora giusta mia mamma ci prendeva a bacchettate. Anch’io portavo i soldi a casa, avevo iniziato a lavorare a 13 anni allo Jutificio Ossolano,
facevamo i sacchi di juta con una macchina da
cucire lunga nove metri e guai se rompevi qualcosa, dovevi pagarlo. La mia salute era cagionevole e il medico mi consigliò di trasferirmi a Pallanza. La guerra era finita, era iniziato un altro
capitolo della mia vita». Senza Augusto, ragazzo del ’99 caduto su quei campi da battaglia che
un giorno l’Europa avrebbe riunito.
Ovsanna Kaloustian
vive a Marsiglia come molti armeni
GUILLAUME PERRIER
MARSIGLIA
Non esce più molto per le strade di Marsiglia. Si sposta piegata su un bastone,
protetta da sua figlia e dai nipotini. Ma quando le si rammenta la sua infanzia, i
suoi occhi s’illuminano e i ricordi le ritornano alla mente. Ovsanna Kaloustian a
106 anni è una degli ultimi sopravvissuti del genocidio armeno del 1915. «Dio mi
ha lasciata in vita perché possa raccontare», ripete da molti anni.
Ovsanna è nata nel 1907 ad Adabazar, una città a un centinaio di chilometri a
est di Istanbul. Aveva otto anni nel 1915 quando il governo dei Giovani Turchi
emanò l’ordine di deportazione degli armeni. A Adabazar, l’ordine venne ricevuto in piena estate. «Era domenica, la mamma di Ovsanna tornava dalla chiesa. Il
curato annunciò che la città doveva essere svuotata in tre giorni», racconta
Frédéric, il nipote, depositario della memoria familiare. Migliaia di armeni furono così spediti verso il deserto della Siria dentro a carri bestiame. Ma il treno che
trasportava la famiglia di Ovsanna si fermò. Venne
ordinato ai prigionieri di montare un accampamento. Furono dispersi due anni dopo e andarono a nascondersi nelle campagne circostanti.
Dopo l’armistizio del 1918, i sopravvissuti si miseroinmarciaversocasa.LafamigliadiOvsannatrovòlapropriacasacarbonizzata. Nel 1924 gli zii, le zie e i cugini s’imbarcarono per gli Stati Uniti. Quattro anni
dopo, la giovane Ovsanna salì su una nave diretta a Marsiglia. «Arrivammo a
dicembre sotto la neve», ricorda. Insieme a tanti altri: il 10% della popolazione di
Marsiglia è composto da discendenti di profughi sfuggiti al genocidio armeno. Lì
giunta Ovsanna si sistema, si mette a cucire per guadagnarsi da vivere, si sposa
con Zave Kaloustian, unico sopravvissuto di una famiglia massacrata, apre una
drogheria orientale. Continua a testimoniare per combattere il negazionismo.
«E negare il genocidio significa negare la parola di mia nonna», dice il nipote.
Spagna
“Ci accorgemmo soltanto
che i prezzi salivano
e che non c’erano più soldi”
Isidro Ramos
nacque a Aldeadávila de la Ribera (qui sopra)
CHARO NOGUEIRA
MADRID
Isidro Ramos oggi compie «cinque mesi». Cinque mesi più 103 anni: con un
secolo sulle spalle, festeggia i complimese. Nacque in un paese castigliano,
Aldeadávila de la Ribera (provincia di Salamanca), il 20 luglio 1910. Tra i suoi
primi ricordi c’è la Prima guerra mondiale. «Ne sentii parlare poco, e non me
ne resi conto. Si diceva che in Europa c’era una grande guerra. Temevo che
arrivasse in Spagna». Non arrivò, ma ebbe i suoi effetti: una prosperità economica dovuta alle conseguenze delle esportazioni. Ramos ricorda solo che
«a causa della guerra i prezzi aumentarono, le cose diventarono più care». E
in famiglia «eravamo a corto di denaro».
Parla con voce ferma e frasi brevi. Snocciola cifre. Allora, da bambino, «le
libbre di pane costavano due reali e due perras, cioè 12 centesimi», afferma.
«Una fanega di grano valeva 15 pesetas, una di segale 12, e una di orzo 11».
«Una fanega equivaleva a 43 chili. I prezzi salivano poco a poco,
diunaperraocinquereali...»affermaquestoanzianocheassicura di sapersi destreggiare con gli euro.
A metà della Grande Guerra, il piccolo Ramos iniziò un cammino che abbandonerà solo moltissimi decenni dopo: il lavoro.
«All’età di sei anni e mezzo, mio padre acquistò un gregge di pecore». Lasciò la scuola, che tornò a frequentare solo per tre mesi alle lezioni
serali, a 17 anni. Allora imparò «a leggere, a scrivere e a far di conto».
A questo conflitto ne seguirono altri, che si affollano nella memoria dell’anziano che vive in una casa di riposo in una località di Madrid. Prestò il
servizio militare nel Nord del Marocco, allora in mano spagnola, dove vide il
mare per la prima volta. Ma lo obbligarono a fare il bagno, e non gli piacque.
«Il mare non mi dispiace, ma va guardato da fuori», sentenzia. Tuttavia, ricorda l’anno del servizio militare come il periodo più bello della sua vita. Furono le sue uniche vacanze: «Non avevo niente da fare», afferma ridendo.
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA 1914-2014/ LE CELEBRAZIONI
XII
Una postazione austro-ungarica sul monte Sass de Stria, da cui si potevano difendere la Val Badia e la Val Pusteria
Italia
Quattro anni di commemorazioni
tra musei multimediali
e un film firmato da Olmi
“Un patrimonio per le future generazioni”
RAFFAELLO MASCI
ROMA
Poiché le parole hanno un senso
e un peso, l’Italia - che ripudia la
guerra secondo il dettato dell’articolo 11 della Costituzione - non
«celebra» il primo conflitto
mondiale, ma lo «commemora».
Intende cioè raccogliere il portato di questa esperienza storica e
l’impatto che ha avuto sulla vita
della popolazione, sulla cultura,
sullo sviluppo delle istituzione e
sulla memoria collettiva, e conservarlo a futura memoria,
affidandolo alle tecnologie informatiche, affinché resti per chi
verrà dopo di noi: quindi tutto
altamente scientifico, tutto
fruibile dal grande pubblico e
nulla di effimero. Il programma
di commemorazioni è stato
affidato dalla Presidenza del
Consiglio ad un comitato interministeriale presieduto al sottosegretario Giovanni Legnini, che
si avvale di un comitato storicoscientifico e - operativamente di una «unità di missione» incaricata di tradurre in fatti le
indicazioni ricevute e di armonizzare le attività promosse dai
diversi enti coinvolti. L’inizio
delle commemorazioni sarà
comune a tutti i Paesi interessati
dal conflitto e avverrà nel giugno prossimo a Sarajevo, dove la
guerra deflagrò.
Dopo di che, il programma delineato ma non ancora definitivo dato il lungo arco temporale
del suo sviluppo (2014-18) - si
articolerà in tre filoni principali.
Il primo è costituto da una serie
di convenzioni con soggetti già
di propria iniziativa interessati
dal centenario. L’idea è quella di
coordinare per evitare sovrapposizioni e dispersione di risorse. E così - per esempio - si coinvolgeranno in un più complessivo disegno i ministeri della Difesa, dell’Istruzione e dei Beni
culturali, l’Istituto per la storia
del Risorgimento, l’Istituto
Luce, l’Archivio centrale dello
Stato, la Rai, l’Archivio ligure di
scrittura popolare, l’archivio
delle memorie private di Pieve
Santo Stefano, e così via. Dopo
di che - ed è il secondo filone - si
metteranno in atto una serie di
iniziative con lo scopo di raccogliere la memoria dell’evento
bellico e di renderla disponibile
per sempre: un lavoro di ricerca,
di indagine, di collazione di
documenti scritti, visivi, sonori e
materiali, che possano confluire
in un «memoriale virtuale»
disponibile per i ricercatori, per
le scuole ma anche per i singoli
cittadini. In quest’ottica si attiveranno cinque grandi progetti:
un piano di documentazione
fotografica, l’ allestimento mu-
seale e il restauro dei 10 sacrari
militari, tra cui la «Casa della
terza Armata» che consentirà
un percorso sensoriale (visivo,
sonoro, tattile e perfino olfattivo) tra la realtà della vita al
fronte, il riallestimento del museo storico dell’Arsenale di Venezia e - infine - un itinerario
ragionato tra i luoghi
della Grande Guerra,
articolato su 1500
chilometri tra lo
Stelvio e Redipuglia. Un altro
filone - e siamo al
terzo - sarà
È la lunghezza dei percorsi
quello della ricervisitabili sui luoghi della
ca scientifica e
guerra tra lo Stelvio
storica, realizzata
e Redipuglia
con le università e gli
archivi. Da questi studi
procederanno attività
espositive e anche una collana di
pubblicazioni specifiche. Una
serie di iniziative verranno
prese, poi, dalle regioni teatro
del conflitto: Veneto, Lombardia, Friuli e Trentino. Anche
«Rai Storia» avvierà una programmazione di memoria e di
didattica per le scuole. A coronare il tutto, un film già in lavorazione – titolo provvisorio
«14-18» - scritto e diretto da
Ermanno Olmi e destinato ad
essere presentato al Festival di
Venezia.
1500
chilometri
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
Gran Bretagna
Germania
.
XIII
Francia
Tanti dubbi e tabù
Richiesta all’Unesco
Cerimonie
tra ignoranza
per i tour sui luoghi
congiunte
sui campi di battaglia e politicamente corretto dei grandi massacri
Mostra speciale a Berlino
“La gente confonde gli eventi” Un progetto controverso
A Mosca
BEN QUINN
LONDRA
BERLINO
L’anno 2014 segue una drammaturgia tristemente conosciuta: si celebra soprattutto là,
dove le battaglie tra il 1914 ed il 1918 furono più
difficili e sanguinose, e non restò nulla se non
paesaggi distrutti: nel Nord della Francia ed in
Belgio, soprattutto nelle Fiandre. I belgi commemorano anzitutto il centenario dell’attacco
tedesco alle «città martiri» e ai loro abitanti ogni luogo che venne deliberatamente distrutto dai tedeschi, tra cui anche Lovanio, la cui
biblioteca venne incenerita nel 1914. La Francia, che ha considerato a lungo
la «Grande Guerre» come
questione nazionale,
partecipa alle celebrazioni assieme a Belgio
e Gran Bretagna, in
un’azione comune, il
cui motto è «mai più
È la data della cerimonia
guerra». A Londra
congiunta tra il presidente
l’Imperial War Mutedesco Gauck
seum viene appositae il francese Hollande
mente ricostruito (http://
www.iwm.org.uk); nella
francese Peronne il Museum
Historial de la Grande Guerre viene dedicato
alla guerra con una mostra di nuova concezione (http://de.historial.org).
Il presidente francese Hollande si incontrerà Il 3 agosto 2014 in Alsazia con il presidente
tedesco Joachim Gauck: su quelli che un tempo
furono campi di battaglia si terranno numerose manifestazioni ufficiali. E in Germania,
Paese degli sconfitti, c’è una gran quantità di
mostre, progetti e pubblicazioni. A Berlino, dal
5 giugno al 7 dicembre 2014, il museo di storia
tedesca dedicherà alla Prima Guerra Mondiale
una mostra (http://www.dhm.de/ausstellungen/1914-1918). Tuttavia non è ancora stato
organizzato alcun piano generale per le manifestazioni ufficiali nella Repubblica Federale.
3
agosto
ANTOINE REVERCHON
PARIGI
Ora che nel Regno Unito incombono le celebrazioni per il centenario della guerra altrettanto pressanti si sono fatte alcune preoccupazioni in merito alle complessità che circondano il conflitto. Quale prospettiva storica
(ammesso che debba essercene una) dovrebbe guidare gli organizzatori? Il governo cerca
di glorificare le guerre contemporanee? Oppure l’ossessiva ricerca della massima correttezza politica e la paura di offendere gli europei ci portano a negare i risultati militari
britannici? E soprattutto al
pubblico importa almeno
qualcosa degli avvenimenti che ci apprestiamo a commemorare?
«Alle persone
importa molto della
guerra, anche se ne
È la cifra in sterline che
sanno pochissimo e,
il governo britannico ha
in alcuni casi, la condeciso di stanziare
fondono o ne scambiano
per le cerimonie
gli avvenimenti con quelli
della Seconda guerra mondiale», dice Sunder Katwala di
British Future, think tank che effettua sondaggi e tiene seminari in tutto il Regno Unito
per rilevare l’interesse del pubblico sul conflitto. «Uno degli aspetti più conosciuti è quello delle trincee, del fango e del fatto che i
tedeschi rappresentavano il nemico. Molto,
molto famosa è anche la Tregua di Natale.
Tuttavia, in generale, le persone sembrano
non possedere sufficienti conoscenze storiche
e, almeno al momento, aver bisogno di aiuto
per dare un senso ai vari avvenimenti». Nel
frattempo il governo porta avanti i piani per la
commemorazione, finanziati con 50 milioni di
sterline, cifra certamente non trascurabile in
un Paese che dovrebbe osservare un piano di
austerità a lungo termine.
50
milioni
L’atto di candidatura è ornato da una colomba
stilizzata che sorvola un campo di battaglia.
Con questa allegoria alata si propone la classificazione di 80 siti francesi della guerra come
patrimonio dell’Umanità. Il progetto è solo
all’inizio. A gennaio è stato presentato a un
comitato nazionale francese che si farà carico
di depositarlo presso l’Unesco.
La domanda sarà in effetti franco-belga.
Dal 2002 la regione delle Fiandre ha fatto
iscrivere diversi luoghi della memoria del
1914-18, in particolare dei
dintorni di Ypres, nell’elenco indicativo belga. Nel
2008 la Vallonia ha
fatto lo stesso. Nello
stesso anno 12 dipartimenti francesi si
sono uniti al moviSono i luoghi francesi
mento. Nel 2012 i due
che sono stati proposti
Paesi hanno deciso di
all’Unesco come
riunire le iniziative.
«Patrimonio
Essendo impossibile
dell’Umanità»
richiedere la classificazione dell’insieme della linea del
fronte che si estende per 750 chilometri dalla
frontiera Svizzera al Mare del Nord, 105 località, nell’Est e nel Nord della Francia, nelle
Fiandre e in Vallonia, sono quindi state selezionate. Si è scelto di privilegiare cimiteri e
memoriali invece dei campi di battaglia. «Crediamo che questi siti rivestano valore universale», spiega Luc Vandael, incaricato della
missione Grande Guerra. Anche ponderata e
simbolica, la scelta risulta obbligatoriamente
arbitraria considerando l’immensa, interminabile serie di sofferenze di questa guerra. Il
suo carattere di barbarie collettiva è stato uno
degli scogli principali incontrati in fase di
costituzione del dossier. Può un massacro
essere iscritto tra i patrimoni dell’umanità?
80
siti
Commemorazioni
in sordina
in Russia,
ma Putin
inaugurerà
un nuovo
monumento
A Londra
Il museo di
guerra più
celebre è
l’Imperial
War Museum:
riaprirà in
una veste
rinnovata
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA/ LE EREDITÀ
XIV
Politica
Tecnologia
Per il movimento Le innovazioni
operaio e socialista sperimentate
in prima linea
choc e rilancio
ROBERTO GIOVANNINI
ROMA
Per il movimento operaio e socialista
europeo, e per il nascente movimento
sindacale, lo scoppio della Prima
guerra mondiale rappresenta uno
choc terribile. Nonostante la grande
forza organizzata in Paesi come Germania, Gran Bretagna e Francia, le
direzioni dei partiti socialisti e socialdemocratici non riescono nella
fatale estate del 1914 a mobilitarsi
contro la guerra; l’Internazionale va
in frantumi.
I partiti e le prime organizzazioni
sindacali (con l’eccezione iniziale dell’Italia, che conserva la neutralità fino
al maggio del 1915 e dove i socialisti
maggioritari resteranno ostili alla
guerra) vengono cooptati nello sforzo
produttivo e bellico.
Per molto tempo gli operai delle
grandi industrie
– in particolare
gli operai specializzati, decisivi
per la produzione
di macchinari e armamenti indispensabili per alimentare la
mostruosa battaglia di materiali al
fronte – non solo vengono esentati dal
reclutamento nelle fila dell’esercito,
che quasi ovunque è un esercito di contadini, ma godono anche di condizioni
salariali e alimentari particolarmente
favorevoli. In cambio, sono vietati gli
scioperi e le industrie strategiche sono
sottoposte alla disciplina militare.
Ma la guerra continua anno dopo anno a distruggere vite e risorse: mentre
sul fronte la situazione militare sembra
di stallo, peggiora gradualmente lo stato degli approvvigionamenti alimentari, il tenore di vita delle popolazioni civili, la condizione degli operai in fabbrica. Nei diversi partiti socialisti, fazioni
di minoranza cominciano dal 1916 a intrecciare un dialogo per cercare una
composizione pacifica del conflitto,
mentre in Russia esplode la Rivoluzione di febbraio e poi di ottobre del 1917.
Lo scenario cambia totalmente: la
spinta politica e sociale rivoluzionaria,
insieme alla insostenibilità dei sacrifici
e alla disperata voglia di pace, rivitalizza e trasforma in modo radicale i partiti e le organizzazioni sindacali di tutti i
paesi belligeranti. La fine del conflitto,
nel novembre del 1918, consegna alla
Storia un movimento sindacale europeo aggressivo e organizzato.
GUILLERMO ALTARES
MADRID
Il conflitto che doveva porre fine a tutte
le guerre fu in realtà l’inizio dei conflitti
moderni, l’origine delle «tempeste d’acciaio» descritte da Ernst Jünger. Lo
storico Max Hastings lo illustra con
precisione nel libro «1914. L’anno della
catastrofe», in cui narra come i soldati
francesi, con i loro vestiti dai colori brillanti, avanzarono verso il fuoco nemico
al ritmo di trombe e tamburi. «Le conseguenze furono evidenti - scrive Hastings - il 22 agosto l’esercito francese
registrò un numero di perdite che non
fu mai superato da nessun altro esercito nel corso di una guerra».
Con la Prima guerra mondiale la rivoluzione tecnica raggiunse i campi di
battaglia e cambiò per sempre le modalità di scontro tra gli eserciti. La tecnologia diventò un elemento essenziale
nell’arte della guerra. Si potrebbe sostenere che ciò era già accaduto (sarebbe stata possibile la conquista dell’America senza la polvere da sparo?
Roma avrebbe potuto conquistare il
mondo senza la superlativa organizzazione dei suoi eserciti?), ma non fu mai
così importante e tanto distruttiva, anche se per ammetterlo i militari impiegarono molte battaglie e troppe vittime.
Nel suo saggio «Porre fine a tutte le
guerre», Adam Hochschild descrive il
modo in cui queste novità fecero ingresso sul
campo di battaglia:
il sottomarino e i
bombardamenti
aerei di civili, il
carro armato (pesava 28 tonnellate e
avanzava a una velocità di tre chilometri
l’ora), gli attacchi con i gas tossici...
Ma più delle altre, l’innovazione più
importante fu il filo spinato, l’arma definitiva e anche la più semplice, che fece sì
che le guerre stagnassero nelle trincee.
Douglas Haig, discusso comandante delle forze britanniche in Francia, scrisse
con indubbia lucidità al termine del conflitto: «Alcuni fanatici sostengono che
l’aereo, il carro armato e l’automobile sostituiranno il cavallo nelle guerre del futuro, ma io credo che probabilmente,
nell’avvenire, il valore e le possibilità offerte dal cavallo resteranno sempre
enormi. Gli aerei e i carri armati sono solo accessori dell’uomo e del cavallo».
Come tante altre volte, non poteva
sbagliarsi più di così.
Geopolitica
Con la nuova mappa
del Medio Oriente
i semi dei conflitti futuri
IAN BLACK
LONDRA
La Prima guerra mondiale e i trattati che
ne seguirono ridisegnarono la mappa del
Medio Oriente con la creazione nuove realtà politiche sui territori dell’ormai
sconfitto Impero ottomano. La rivalità
tra Gran Bretagna e Francia, il crescente
nazionalismo arabo, le ambizioni sioniste
in Palestina e la nascita della Turchia moderna sono fattori che concorsero al cambiamento del volto della
regione.
L’accordo SykesPicot del 1916,
un’intesa segreta
tra Londra e Parigi, divise le terre
dell’ex Impero ottomano in zone di influenza britannica e francese. Il sistema del Mandato ideato dalla
Società delle Nazioni promise un eventuale autogoverno, non l’immediata indipendenza per la quale lo sharif Hussein
della Mecca aveva proclamato la rivolta
araba contro i turchi con l’aiuto di
Lawrence d’Arabia.
E la Dichiarazione Balfour del 1917 offrì
il sostegno della Gran Bretagna a favore
della creazione di un focolare ebraico in
Terra Santa, gettando così le basi per la nascita di Israele e del conflitto contemporaneo più complesso al mondo. Le differenze
etniche, settarie e tribali furono questioni
di scarso interesse per le potenze coloniali
che ridisegnarono i confini della regione.
L’Iraq fu creato dall’unione di tre province
ottomane dominate rispettivamente da
sciiti, sunniti e curdi. Il Paese fu separato
dal Kuwait, innescando la miccia dei conflitti che seguirono. A capo del regno fu posto un sovrano hashemita originario della
penisola arabica esiliato dalla Siria; stesso
destino hashemita toccò alla Giordania, nata dalla penna di Winston Churchill. Il Libano venne scorporato dalla Grande Siria
per creare un territorio cristiano che
avrebbe rafforzato l’influenza francese.
Ma i grandi perdenti della lotteria del
primo dopoguerra in Medio Oriente sono
stati i curdi. Oggi, questo gruppo etnico
gode di un’ampia autonomia regionale e
di una relativa pace all’interno della
struttura federale dell’Iraq, mentre in Siria controlla aree fuori portata per le forze di Bashar al-Assad. Tra i nemici di Assad vi è anche un gruppo jihadista legato
ad Al Qaeda. Il suo nome in arabo significa «Stato islamico dell’Iraq e del Levante
(Siria e Libano)», una deliberata abolizione delle frontiere del dopoguerra.
Cinema
I film si scoprono
arma di propaganda
di massa
FULVIA CAPRARA
ROMA
In una conversazione con il filosofo Bogdanov,
nel 1907, Lenin parla del cinema come di «uno
dei più importanti mezzi di istruzione delle masse». In Italia, nel 1922, Mussolini dichiara che il
cinema è «l’arma più forte dello Stato» e nel 1936
pone la prima pietra per la costruzione di Cinecittà. Basterebbero questi due proclami a testimoniare il legame che, fin dai suoi albori, ha tenuto insieme grande schermo e propaganda.
Solo negli Stati Uniti, dove nel 1914 David
Wark Griffith aveva girato «Nascita di una nazione» sulla fondazione degli Stati Uniti d’America,
furono prodotte, tra il 1915 e il 1918, 2.500 pellicole. Durante la Grande Guerra, in Usa e in Europa,
il grosso della produzione, sia che si trattasse di
cinegiornali, sia di film veri e propri, spesso anche con posizioni critiche nei confronti del primo
conflitto mondiale, aveva intenti propagandistici. In «Civilization» (1916) Thomas Harper Ince
lanciava, tra metafora e fanta-politica, il suo grido in favore
della Pace. In Francia, nel
1919, Abel Gance affidava a
«J’accuse» un potente
messaggio anti-bellico,
sottolineato dal finale in
cui le giovani vittime della
guerra si risvegliano per rinfacciare ai vivi l’inutilità del loro
sacrificio. In Italia, nella scia del successo di «Cabiria» di Giovanni Pastrone, «Maciste alpino», di
Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi (1916),
esalta i valori della battaglia spingendo il pubblico a identificarsi con l’eroe protagonista.
Ma il gioiello dell’epoca, datato 1918, è «Shoulders arms» («Charlot soldato») che illustra, sospeso tra leggerezza e tragedia, gli orrori della
vita al fronte. Molti anni dopo, quando il cinema
di propaganda, in Urss, nella Germania nazista,
nell’Italia fascista e negli Stati Uniti, sarà ormai
divenuto strumento fondamentale di orientamento delle coscienze, toccherà ancora a Charlie Chaplin, con «Il grande dittatore», dimostrare che, facendo ridere, si può lanciare il più antiguerrafondaio dei messaggi.
Società
Vittorie e sconfitte
del nuovo pacifismo
del XX secolo
RONEN STEINKE
MONACO DI BAVIERA
Bertha von Suttner, la prima donna che - nel
1905 - ricevette il premio Nobel per la pace, disse una volta con sarcasmo: «Umanizzare la
guerra sarebbe come, per un uomo seduto nell’olio bollente, abbassare la temperatura di un
paio di gradi. Oppure, come promettere di frustare un schiavo un po’ meno».
L’austriaca Suttner all’inizio del Ventesimo secolo era alla guida di un pacifismo europeo di estremo
rigore. Tuttavia, quando
scoppiò la guerra in Europa, l’esperienza nelle trincee
portò molti pensatori della
Armamenti
La prima volta del gas
ordigno crudele
e indiscriminato
MONACO DI BAVIERA
Nell’estate del 2013 lo si poteva capire. Le immagini dei bambini morti a Damasco. La rabbia
nelle parole del presidente Barack Obama. Obama parlò di una «linea rossa», e non dipendeva
dal solo numero dei morti.
L’impiego del gas velenoso come arma di
guerra oggi è universalmente
considerato come un crimine, perché è ancora vivo il
ricordo del 1915, di un
crudele esperimento che
portò a una diffusione agghiacciante.
L’esperimento iniziò il 22
aprile 1915. I soldati tedeschi,
sponda opposta a un ripensamento: lo scrittore
tedesco Kurt Tucholsky, per esempio, nei primi
giorni della guerra come preso dall’ebbrezza decise di arruolarsi.
E ora, disilluso, chiamava la guerra «una latrina mondiale, piena di sangue, filo spinato e di
inni all’odio».
Anche i pacifisti della prima ora, della scuola
di Suttner, per così dire, superarono la Prima
guerra mondiale non senza sconcerto. Al termine del conflitto i pacifisti ebbero sì molto più seguito di prima (ad esempio in Germania i gruppi
pacifisti raggiunsero i 70 mila aderenti), tuttavia erano ancora pochi in confronto ai 500 mila
membri delle associazioni di soldati.
Ma la guerra soprattutto sgretolò una parte
delle loro certezze. Prima del 1914 i pacifisti avevano ancora sognato che le guerre potessero essere completamente impedite con i trattati –
un’idea che poi si dimostrò completamente
scollegata dalla realtà del mondo.
Dopo, i movimenti pacifisti mirarono soprattutto a obiettivi più umili e realistici, come il disarmo, l’intesa tra i popoli, la riconciliazione e
anche l’umanizzazione della guerra attraverso
la rinuncia a specifiche e determinate armi particolarmente distruttive.
trincerati presso Ypres in Belgio, aprirono circa
seimila bombole d’acciaio con cloro liquido.
Il vento portò il gas, 2.5 volte più pesante
dell’aria, dall’altra parte del campo di battaglia, dove c’erano i nemici inglesi, per un fronte largo all’incirca sei chilometri. Il gas, velenoso per i polmoni, colse gli inglesi impreparati. Morirono in tremila.
Subito, tutti i contendenti avversari iniziarono a impiegare il gas: si propagava sui campi
di battaglia, rese inaccessibili e inospitali alcuni territori, danneggiò oltre un milione di persone e ne uccise 70 mila.
Una delle caratteristiche del gas velenoso,
che infine portò alla sua messa al bando a livello internazionale, è la sua crudeltà: già il 10
luglio 1917, per la prima volta, le truppe tedesche erano in grado di sparare l’agente chimico «Croce blu», che poteva penetrare nel filtro
della maschera antigas e, a causa della suo insopportabile effetto irritante, costringere a
togliersi la maschera. L’avevano ribattezzato
«Rompi-maschera».
La seconda caratteristica è il modo indiscriminato con cui il gas uccide. Non è possibile fare
una selezione. I soldati vengono uccisi allo stesso modo dei civili e dei bambini.
[R. STO.]
SPECIALE LA STAMPA
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
Forze armate
.
XV
Frontiere
Gli eserciti di popolo
I nuovi Stati europei
dall’entusiasmo
poveri, turbolenti
al disinganno all’orrore e con troppi confini
JORGE MARIRRODRIGA
MADRID
«Il tuo Paese ha bisogno di te». Quando nel settembre 1914 gli inglesi cominciarono a vedere
questo motto sui cartelloni affissi nelle strade,
ancora non si era placato l’eco dei canti patriottici che risuonarono nella stazione Victoria di Londra per i soldati che partivano per
combattere contro la Germania. Scene simili
accaddero a Parigi e Berlino. Nell’opinione
pubblica europea si era radicata l’idea che la
guerra sarebbe stata breve. «A Natale, tutti a
casa», era la frase. Con le nuove armi, le vittime giornaliere non si contavano a decine, ma a
migliaia.
La risposta al richiamo «Il tuo Paese ha bisogno di te» fu entusiasta, in centinaia di migliaia si
presentarono, e fu applicato il principio «Chi si
arruola insieme, combatterà insieme». Fu così
che si formò il Battaglione dei commilitoni di Liverpool, costituito principalmente da intermediari commerciali. Si arruolarono insieme, servirono insieme e morirono insieme. La guerra si infangò. Letteralmente. L’unico elemento che cambiava erano gli uomini che occupavano le trincee.
Nel marzo del 1916 il
Regno Unito, per la prima volta nella sua storia,
reclutò tutti gli uomini
celibi di età compresa tra i
18 e i 41 anni a eccezione dei
religiosi, dei professori, di
qualche
professionista che si occupava di
metallurgia e di coloro che erano stati dichiarati
incapaci. A maggio, toccò agli uomini sposati. A
giugno, qualche settimana dopo l’arruolamento,
le reclute furono lanciate nella battaglia della
Somme, la più grande tragedia militare nella Storia del Regno Unito.
Le vittime britanniche salirono a 419.654.
L’entusiasmo aveva lasciato spazio prima al disinganno, poi all’orrore. Negli ultimi mesi di battaglia, il governo estese l’età di arruolamento a
51 anni, che restò tale fino al 1920. «Il tuo Paese
ha bisogno di te» diventò il simbolo del sacrificio
che i civili dovettero pagare. Con gli interessi.
La fine del 1918 vide mutare radicalmente la
mappa dell’Europa centrale e orientale. Al posto dei tre potenti imperi tedesco, russo e austro-ungarico fecero la loro comparsa alcuni
Stati creati ex-novo o risorti dopo secoli. Erano
poveri, turbolenti e saldamente circondati da
una fitta rete di frontiere e dogane. Ebbero sfortuna quei popoli che, come gli ucraini, non riuscirono a conquistarsi uno Stato, perché i rivali
si dimostrarono più forti.
Quando nel settembre 1918 l’Austria-Ungheria provò di propria iniziativa a stringere contatti con le potenze occidentali e chiedere l’armistizio, il governo degli Stati Uniti, la potenza
più forte e meno provata dalla guerra, rispose
che la sua posizione era stata esposta dal presidente Woodrow Wilson nei «Quattordici punti»
già nel gennaio 1918. Oltre a prevedere pubblici
trattati internazionali, la libertà di navigazione
per mare, la soppressione delle barriere al commercio internazionale, essi auspicavano nuove
frontiere in Europa basate su principi etnici e la
rinascita della Polonia.
Come sarebbe emerso alla conferenza di Versailles nel 1919, il proposito di «frontiere basate
su principi etnici» si rivelò non soltanto utopico,
ma anche foriero di conflitti. Nell’Europa centrale i popoli erano mescolati e rivendicavano i medesimi territori. Ogni risoluzione adottata delle
grandi potenze finiva per sollevare proteste diplomatiche e non di rado anche conflitti armati.
Il più grande dei nuovi Stati era la Polonia, risorta dopo 123 anni di spartizioni. Aveva difeso le
proprie frontiere in una serie di
conflitti con la Germania, la
Lituania, l’Ucraina e la Cecoslovacchia e in una vera
guerra con la Russia rossa. Nel 1923, quando vennero finalmente definite le
frontiere polacche, la Repubblica polacca era in buoni rapporti con due soli vicini: la piccola Lettonia a
Nord e la distante Romania a Sud. A breve tale
stato di cose le sarebbe costato caro.
civili e militari furono teatro di una chirurgia sperimentale. In questo conflitto, il ricorso ad armi
nuove, in particolare ai bombardamenti massicci
e ai gas, fecero la differenza. La guerra di posizione e le trincee ebbero l’effetto di aumentare il numero di ferite al capo e al viso. Numerosi combattenti ne uscirono vivi ma storpi, mutilati, sfigurati. Si tratta delle cosiddette «gueules cassées»
(facce sfigurate) secondo l’espressione coniata in
Francia dal primo presidente dell’Unione feriti al
volto e al capo, fondata nel 1921 dal colonnello
Yves Picot.
Alla fine della Prima guerra mondiale la Francia contava 6,5 milioni d’invalidi di guerra. I chirurghi dei paesi belligeranti dovettero far fronte a
un afflusso considerevole di queste Facce sfigurate alle quali si dovette tentare di ridare un viso
umano e attenuare il calvario al momento del ritorno alla vita civile. Mancava la carne, mancavano le ossa. Si dovette ricorrere all’innesto, un’innovazione che si sviluppò per tentativi, come avvenne nello stesso periodo e per le stesse ragioni
per la trasfusione di sangue. Vennero utilizzati innesti ossei o cutanei, ma anche protesi e apparecchi che assomigliavano a strumenti di tortura,
senza riuscire a fare sempre dei miracoli, ma con
risultati molto spesso da essi ben lontani.
Economia
delle risorse e della forza lavoro. L’industria fu organizzata in 170 «associazioni di guerra» basate su
precedenti consorzi di settore. Il programma arrestò il crollo della produzione e riuscì a soddisfare le
necessità dell’esercito, anche se l’industria dei consumi e l’agricoltura subirono una contrazione. I
prezzi dei prodotti alimentari di prima necessità
crebbero di otto volte durante la guerra e milioni di
tedeschi soffrirono la fame, poiché le razioni garantivano 700-900 calorie al giorno.
La mobilitazione bellica della Germania fece
impressione sui bolscevichi: nel 1918 Lenin introdusse in Russia il «comunismo di guerra», un’economia basata sulla nazionalizzazione generale e
su requisizioni forzate. Ma l’economia pianificata
piaceva ai politici di diverso orientamento. Nel periodo interbellico, segnato da una pesantissima inflazione e dalla Grande Crisi, si diffuse l’idea che il
capitalismo portasse caos e una sperequazione
delle forze produttive. L’estrema sinistra e l’estrema destra ritenevano che causasse l’arricchimento di pochi e la miseria delle masse, mentre l’economica pianificata avrebbe consentito l’equa distribuzione del reddito. Dopo la Grande Crisi furono sperimentate diverse forme di pianificazione in
molti Paesi, non solo in quelli totalitari come Germania e Urss, ma anche in Polonia.
[A. LES.]
giormente rilevanti in un certo numero di Paesi (come ad esempio la Gran Bretagna). Ed è
del tutto evidente che determinate mode, come quella dello stile androgino detto «garçonne», evocavano l’emancipazione dei codici
femminili tradizionali.
Attenzione però a non giudicare solo dalla
superficie: in realtà l’occupazione femminile
era già in aumento prima del 1914 e inoltre,
una volta finita la guerra, molte donne fecero
ritorno alle mansioni precedenti.
La femminilizzazione del lavoro era limitata e dipendeva dai settori. Si presentava superiore nei settori bancario, del commercio e
delle libere professioni. Inoltre, alle donne venivano negati parecchi diritti (in Francia, il diritto di voto per le donne risale solo al 1944. In
Germania, venne loro concesso nel 1919, nel
Regno Unito nel 1918 ma esclusivamente a
partire dai 30 anni, e infine nel 1928 a 21 anni
come per gli uomini).
E soprattutto le forme di emancipazione dei
ruoli tradizionali erano spesso molto limitate a
livello sia sociale sia quantitativo. Alcuni studi
recenti, pongono l’accento su questo periodo
storico come un tempo di transizione che preludeva semplicemente all’evoluzione a venire.
Partiti
Filo spinato sulla Cima Bocche, in Trentino, oggi
Medicina
La “facce sfigurate”
hanno bisogno
di una nuova chirurgia
PAUL BENKIMOUN
PARIGI
La chirurgia si è in gran parte sviluppata in base
a ciò che è appreso dalle guerre. La Prima guerra mondiale non fece eccezione, ma al momento
in cui scoppiò, la chirurgia stava appena entrando nella sua era moderna. Si dovrà attendere la
Seconda guerra mondiale per assistere all’arrivo degli antibiotici, per guarire
e perfino prevenire le infezioni che lasciavano fino ad
allora i chirurghi impotenti e per l’adozione della
rianimazione medica.
Nondimeno, durante e
soprattutto all’indomani della Grande Guerra, gli ospedali
Pari opportunità
La donna si emancipa
grazie o malgrado
lo scontro di civiltà
NICOLAS OFFENSTADT
PARIGI
Il tema è complesso, materia di dibattito tra
storici e non solo, ma tra le conseguenze
della Prima Guerra Mondiale ci sarebbe anche l’emancipazione femminile. È uno dei
concetti che vengono trasmessi e che travisano, in diverse narrazioni, la realtà del
conflitto. La questione fa ancora discutere.
Quel che è certo è che
durante la Grande Guerra le donne hanno svolto
attività in precedenza
considerate prevalentemente maschili, hanno ottenuto diritti politici mag-
ADAM LESZCZYNSKI
VARSAVIA
Prima dell’Urss
la Germania inventa
la pianificazione
VARSAVIA
Prima che l’Urss imponesse l’economia pianificata a mezza Europa, l’aveva scoperta la Germania.
Le prime leggi che riorganizzavano l’economia furono introdotte il 3 agosto 1914. Lo Stato assunse il
controllo dei risparmi dei cittadini, del commercio
con l’estero, della produzione e vendita di articoli
alimentari, fissò prezzi massimi
per diverse merci e organizzò l’approvvigionamento di
materie prime carenti per
uso bellico.
Nel novembre 1916 fu
istituito un ufficio incaricato della pianificazione e fu decisa la mobilitazione generale
Francia, nasce il Solco
e irrompe sulla scena
la Democrazia Cristiana
MICHEL LEFÈBVRE
PARIGI
La vastità della catastrofe provocata dalla prima
guerra mondiale condusse intellettuali e uomini
politici francesi a militare all’insegna della parola
d’ordine «mai più la guerra». Tra di loro emerse
un personaggio, Marc Sangnier, che fondò alla fine del XIX secolo il movimento del Solco, una corrente del cristianesimo sociale
che invocava la riconciliazione tra Chiesa e Repubblica
in nome di una terza via
tra capitalismo e socialismo. Al pari di Jean Jaurès, Sangnier divenne nemico giurato dei cattolici
monarchici.
Distaccato durante la guerra come tenente
del genio, Sangnier venne incaricato da Aristide Briand nel 1916, senza successo, di una missione a favore della pace presso il Papa. Terminò la guerra come comandante insignito della
Legion d’onore e della Croce di guerra. Dal 1919
al 1924, ricoprì la carica di deputato. Suscitò il
sarcasmo dei colleghi caldeggiando una collaborazione internazionale che non escludesse né
la Russia né la Germania per la restaurazione
d’Europa. Solo la sinistra e l’estrema sinistra
plaudevano a questo idealista cristiano dal pacifismo radicale e visionario eletto grazie alla
destra moderata che i conservatori etichettano
come «bolscevico cristiano».
La sua visione era quella di organizzare la
«Pace con la gioventù» attraverso l’Internazionale democratica. Quest’ultima tenne alcuni
congressi internazionali, raggiungendo l’apice
con quello di Belleville del 1926 che vide la partecipazione di oltre 5.000 congressisti da 33 nazioni dei quali la metà erano di nazionalità tedesca. Alla morte di Sangnier nel 1950, gli ideali
che aveva difeso salirono al potere attraverso la
democrazia cristiana in Francia, Germania e
Italia. Anche l’idea di Europa che sfocerà nel
trattato di Roma del 1957 si è infine realizzata.
XVI
LA STAMPA
.SPECIALE
GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2014
LA GRANDE GUERRA / UN SECOLO DOPO
Il confronto
1914
2014
REGNO UNITO
FRANCIA
90,8
Aspettative
di vita
Lavoro
femminile
Nascite
(*Nati vivi ogni
1.000 abitanti)
Mortalità
materna
(ogni 100.000
nati vivi)
Elettricità
nelle case
Componenti
per famiglia
58,69
n.d.
67%
1.032.734
813.200
394
8,2
850.000
29.687.000
55,1% (1911)
60%
743.240
822.000
n.d.
9,6
3.000.000
33.000.000
UTENZE
UTENZE
2,4
36.100.000
Popolazione
n.d.
ITALIA
81,9
78,7
49,9
47,4
42,84
9,9%
53,1%
4,6*
1,32*
43
6
1.874.389
673.500
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
26,5%
46,6%
30,5*
9*
235,5
2,6
49,8%
100%
ABITAZIONI COLLEGATE
2,27
41.630.000
4,25
2,58
19.995.686
2,9
1,38
67.000.000
4,5
2,3
37.255.000
645.000.000
65.590.000
46.609.652
4.017.000
1.478.400
205.850
80.500.000
4.500.000
298.240
Centimetri - LA STAMPA
Dal 1914 al 2014
le lezioni
della Storia
CHRISTOPHER CLARK *
SEGUE DALLA PAGINA I
e corrispondenze erano incredibili,
ma cosa significavano? La risposta
è tutt’altro che chiara. Il conflitto
del 2011, infatti, è stato completamente diverso dal suo predecessore del secolo scorso. La guerra italo-turca del sibili - e in alcune di
1911 innescò la catena di attacchi opportunisti- esse, come l’attuale stallo sulla queci all’Europa ottomana sud-occidentale cono- stione delle Isole Senkaku - sono coinvolti disciuti come Prima guerra dei Balcani, spaz- rettamente gli interessi di grandi potenze.
zando via un sistema di equilibri geopolitici
Chiunque analizzi, dal punto di vista di un
che permetteva di contenere i conflitti locali.
osservatore degli inizi del ventunesimo seSi trattò di un punto di svolta (uno tra tanti) colo, lo svolgimento della crisi dell’estate del
sulla strada verso una guerra che avrebbe 1914 non può fare a meno di stupirsi dell’atconsumato prima l’Europa e poi gran parte tualità della vicenda. Tutto cominciò con un
del mondo. Al contrario, non vi era e non vi è gruppo di attentatori suicidi e un corteo di
tuttora alcuna ragione per supporre che gli at- automobili. Dietro l’offesa di Sarajevo vi era
tacchi aerei del 2011 condurranno a conse- un’organizzazione votata al culto del sacrifiguenze altrettanto gravi e drammatiche.
cio, della morte e della vendetta. Ma questa
La Storia non si ripete anche se, come sot- organizzazione era frammentata in piccole
tolineava Mark Twain,
cellule sparse in diversi
qualche volta fa rima con
COME SCRISSE MARK TWAIN Paesi. Era misteriosa, e i
se stessa. Ma cosa signifilegami con qualsivoIl passato non si ripete suoi
cano queste rime? Esse poglia governo nazionale
ma qualche volta erano indiretti, celati.
trebbero essere semplicefa rima con se stesso
mente sintomo del miope
Perfino l’attuale polve«presentismo» di una culrone sulla questione
tura occidentale che non riesce a vedere nel Wikileaks, sullo spionaggio e sui cyber-attacpassato null’altro che gli infiniti riflessi dei chi cinesi ha la propria controparte degli inizi
propri timori, una cultura ossessionata dagli del XX secolo: negli ultimi anni prima dello
anniversari e dalle commemorazioni. Tutta- scoppio del conflitto, infatti, la politica estera
via, non dovremmo escludere la possibilità francese era stata compromessa da fughe miche tali momenti di déjà vu storico rivelino le rate di notizie di intelligence di alto profilo; il
autentiche affinità tra un periodo e un altro.
Regno Unito era preoccupato dallo spionagNegli ultimi anni, queste affinità si sono ac- gio russo in Asia centrale e, all’inizio dell’estacumulate. È ormai un fatto diffusamente rico- te del 1914, una spia presso l’ambasciata russa
nosciuto che il mondo nel quale viviamo asso- di Londra teneva Berlino al corrente dei negomiglia sempre più al mondo del 1914. Essendo- ziati navali tra Regno Unito e Russia.
Il caso più eclatante si verificò quando venci lasciati alle spalle la stabilità bipolare della
Guerra fredda, facciamo sempre più fatica a ne a galla che il colonnello Alfred Redl, a capo
dare un senso a un sistema che sta divenendo del controspionaggio austriaco, era in realtà
in misura crescente multipolare, opaco e im- una spia dei russi, ai quali, fino all’arresto (a
prevedibile. Proprio come nel 1914, un potere seguito del quale gli fu concesso di togliersi la
sempre più grande si scontra con una logora vita nel maggio del 1913), aveva fornito infor(anche se non necessariamente in declino) mazioni di intelligence militare di alto profilo.
egemonia. Intanto, crisi scoppiano incontrol- La Storia sta tentando di dirci qualcosa? E se
late in regioni del mondo strategicamente sen- sì, cosa?
122.979
59.685.227
303.023
224.565
Armi
L
GERMANIA
82,29
81,6
56,64
n.d.
SPAGNA
184.000 253.311
Ieri e oggi
aperto a molte possibili interpretazioni) almeno quanto
quello degli eventi presenti.
Prendiamo il caso della Cina.
La Cina odierna è, come essa
stessa ha spesso dichiarato,
paragonabile alla Germania
imperiale del 1914? E se anche
decidessimo che l’analogia sia
affettivamente accettabile,
quale lezione dovremmo trarre da questa similitudine?
Se partiamo dal presupposto che l’aggressione tedeNell’estate del 2008, dopo un breve con- sca sia stata il principale motore della Prima
flitto tra Russia e Georgia per l’Ossezia del guerra mondiale, potremmo concludere che
Sud, l’ambasciatore russo presso la Nato, gli Stati Uniti dovrebbero assumere una liDmitri Rogozin, per spiegare il dramma che nea molto dura contro le odierne condotte
si stava svolgendo nel Caucaso lo paragonò al- della Cina. Ma se nella guerra del 1914-1918
vediamo, come io sono propenso a fare, le
la crisi di luglio 1914.
L’ambasciatore arrivò ad auspicare che il conseguenze delle interazioni tra una plurapresidente della Georgia (che egli considerava lità di poteri, ciascuno dei quali pronto a ril’aggressore, all’interno di quel conflitto) non correre alla violenza per far valere i propri
passasse alla storia come «il nuovo Gavrilo interessi, allora potremmo arrivare alla conPrincip», con riferimento al giovane serbo-bo- clusione che sia necessario ideare modi misniaco che il 28 giugno 1914 assassinò l’erede al gliori per integrare i nuovi grandi poteri altrono d’Austria e sua moglie. All’indomani di l’interno del sistema internazionale. In fin
quelle uccisioni, infatti, il conflitto tra Serbia e dei conti, il 1914 rimane (come fu per il presiImpero austro-ungarico si estese alla Russia, dente John F. Kennedy durante la Crisi dei
trasformando una questione locale in una missili cubani del 1963) un monito su quale
guerra mondiale. Se la Georgia fosse riuscita pessima piega possano prendere le politiche
ad assicurarsi il sostegno della Nato, sarebbe estere, a quanto velocemente possano degenerare e a quali terribili conseguenze possaaccaduto qualcosa del genere?
Questi oscuri presagi non si sono mai rea- no condurre. È fondamentale confutare letture manipolatorie o rilizzati. La Nato, infatti, ci
pensò due volte prima di leORACOLI DA INTERPRETARE strette del passato quanesse vengono tirate in
gare il proprio destino alla
La Storia è maestra di vita do
causa per sostenere
stella dell’irascibile presidente georgiano, Mikheil ma è un’insegnante eccentrica obiettivi politici attuali.
e parla solo per divinanzioni Le analisi storiche sono
Saakashvili. E dopo una limolto più utili quando
mitata dimostrazione della
Marina statunitense nel Mar Nero, la crisi nel compierle adottiamo una prospettiva
rientrò. La Georgia non era la Serbia degli inizi aperta quanto quella che dovremmo adottadel Ventesimo secolo, la Nato non era la Russia re effettuando riflessioni sul presente.
La storia è ancora «maestra della vita», cozarista e il presidente Saakashvili non era Gavrilo Princip. Il tentativo di Rogozin di parago- me disse Cicerone. Dopotutto, non potendo
nare il presente a quanto accaduto nel passato prevedere il futuro, non abbiamo altre cononon era un’onesta analisi basata su una solida scenze alle quali rivolgerci per basare le noprospettiva storica, quanto un monito all’Oc- stre decisioni. Tuttavia, essa è un’insegnante
cidente affinché esso si tenesse fuori dal con- eccentrica. La saggezza della Storia non giunflitto. Si trattava di un paragone storicamente ge a noi sotto forma di lezioni preconfezionate,
quanto piuttosto sotto forma di divinazioni,
impreciso ed ermeneuticamente vuoto.
Oltretutto, anche in mani più informate e oracoli, la cui rilevanza per i problemi odierni
meno manipolatorie, le analogie storiche non deve essere materia di discussione.
sono affatto immuni da interpretazioni quantomeno opinabili. E il problema è rappresentato solo in parte dal fatto che la similitudine * Christopher Clark è professore di Storia
tra il passato e il presente non è mai perfetta moderna europea all’Università
di Cambridge. È autore de «I sonnambuli.
né sempre rilevante.
Ancor più fondamentale è il problema che il Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra»,
significato degli eventi passati è misterioso (e edito in Italia da Laterza
A fianco, la prima pagina
de La Stampa del 29 giugno 1914, con la notizia
dell’assassinio
dell’Arciduca Francesco
Ferdinando
A destra, lo storico
Christopher Clark