Rapporto del Centro Europa Ricerche n. 2/2014

CENTRO EUROPA RICERCHE
l Centro Europa Ricerche è una società di ricerca che elabora studi nel
campo dell’economia applicata. Le analisi del Cer comprendono previsioni di breve e
medio periodo sulle tendenze dell’economia italiana, valutazioni quantitative su provvedimenti di politica economica, studi monografici di finanza pubblica, politica tributaria,
politica monetaria e politica industriale.
Il Cer è tra gli istituti chiamati con regolarità, anche nella forma delle audizioni parlamentari, a fornire valutazioni e commenti sulle prospettive economiche e, in particolare, sulle
tendenze della finanza pubblica.
Per le previsioni, le analisi e le simulazioni di politica economica il Cer utilizza i suoi modelli
econometrici, macroeconomici e di microsimulazione, che sono continuamente aggiornati e migliorati. Il modello macroeconomico, oltre a consentire la previsione delle principali grandezze economiche e degli andamenti della finanza pubblica permette di sottoporre a verifica l'impatto sull'economia delle manovre governative.
Il modello di microsimulazione rende possibili le valutazioni dell’impatto distributivo sulle
famiglie di provvedimenti di natura fiscale e tariffaria, integrando informazioni sui redditi e
sui consumi.
I rapporti Cer sono riservati ai sottoscrittori di un abbonamento. Per la presentazione dei
rapporti il Cer organizza incontri-dibattito riservati agli abbonati.
Centro Europa Ricerche S.r.l.
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Comitato scientifico: Marcello Messori (presidente), Emilio Barucci, Massimo Bordignon, Agar Brugiavini, Stefano Caselli, Innocenzo Cipolletta, Claudio De Vincenti, Massimo Egidi, Paolo Guerrieri,
Marco Lossani, Mauro Maré, Maria Rosaria Maugeri, Giulio Napolitano, Giovanna Nicodano, Pier
Carlo Padoan, Antonio Pedone, Gianni Toniolo
Rapporto CER: pubblicazione periodica a carattere economico. Anno XXXII
Direttore responsabile: Anna Maria Lombroso
Iscrizione n. 177 del 6 maggio 1998 del Registro della Stampa del Tribunale di Roma
Proprietario della testata: Centro Europa Ricerche S.r.l.
C.C.I.A.A. Roma: R.E.A. 480286
Edizione: Centro Europa Ricerche S.r.l.
Stampato al CER – agosto, 2014
In ritardo
Il Rapporto è stato chiuso con i dati disponibili al 6 agosto 2014.
Hanno collaborato alla redazione del rapporto: Felice Cincotti, Carlo Cristiano, Laura
Dragosei, Piero Esposito, Stefano Fantacone, Petya Garalova, Sergio Ginebri, Ronny
Mazzocchi, Carlo Milani.
RAPPORTO CER
Sommario
7
L’economia internazionale nella prima parte del 2014
11
IL NUOVO DIBATTITO DI POLITICA MONETARIA E L’AGGIUSTAMENTO DEI PAESI EMERGENTI
11
LA CONGIUNTURA INTERNAZIONALE
18
LE ESOGENE
22
Riquadro. La crescita delle esportazioni durante la crisi: un confronto tra Italia
e Germania
24
La previsione macroeconomica
29
Riquadro. Gli effetti del quantitative easing all’europea
41
Le prospettive della finanza pubblica
45
L’IMPOSTAZIONE PROGRAMMATICA
45
UN CONFRONTO CON LE STIME UFFICIALI
48
LA PREVISIONE NEL DETTAGLIO
49
GLI OBIETTIVI EUROPEI
55
Riquadro. La legge di stabilità per il 2014 e la perequazione delle pensioni
61
Il concetto di disoccupazione strutturale
nella letteratura economica
63
5
RAPPORTO CER
Sommario
e conclusioni
1
La ripresa dell’economia italiana è in ritardo. Nel primo semestre il prodotto ha continuato a flettere, con una contrazione dello 0,3 per cento. Riteniamo che nella seconda parte dell’anno l’attività possa segnare un recupero anche significativo, al
più sufficiente, tuttavia, per portare la variazione del Pil appena al di sopra dello zero
(+0,1per cento). Resta ampio lo scostamento venutosi a creare fra gli indicatori qualitativi e le variabili reali. Secondo le relazioni statistiche misurate sul passato, agli attuali livelli della fiducia di famiglie e imprese dovrebbero già corrispondere variazioni
positive del prodotto; tanto che il nostro indicatore CoinCer è tornato in territorio espansivo da fine 2013. Le ragioni di questo scollamento sono presumibilmente da ricercare nella profondità della crisi vissuta dalla nostra economia, che non può essere assimilata a un normale episodio ciclico. Le famiglie hanno registrato una contrazione dei propri redditi mai osservata nel ciclo economico degli ultimi settant’anni e
ugualmente fuori dimensione è stata la compressione della capacità produttiva utilizzata. La percezione di un miglioramento del contesto generale tarda così a tradursi in scelte di consumo e investimento, all’interno di quello che può definirsi come un
vero e proprio fenomeno di isteresi, ossia la mancata reazione di una variabile al mutare dei fattori che, in condizioni normali, ne influenzano la dinamica. La stima di un
recupero dell’economia nella restante parte del 2014 si basa proprio sulla constatazione che alcune delle determinanti di breve periodo della crescita sono comunque
in miglioramento: il reddito disponibile delle famiglie torna ad aumentare (0,9 per
cento a fine 2014), i margini sono in recupero, i tassi di interesse diminuiscono. Fattori
che potrebbero portare l’economia su tassi di crescita dell’1,3 per cento nel 2015 e
dell’1,5 per cento, in media, nel biennio 2016-2017. Nello scenario da noi prospettato, la domanda interna aumenterebbe a partire dal prossimo anno, accompagnando un rafforzamento delle esportazioni, stimate aumentare solo del 2,1 per cento nel 2014.
2
La ripresa ritarda anche a causa di uno scenario internazionale divenuto meno favorevole. Come già analizzavamo nel Rapporto 4/2013, la normalizzazione della politica monetaria statunitense ha innescato un rientro dei capitali dall’area emergente,
a cui si accompagnano svalutazioni dei cambi e riduzioni dei disavanzi correnti. Il sostegno fornito dalle economie in via di sviluppo all’espansione degli scambi mondiali
si è momentaneamente indebolito e le nostre esportazioni ne risentono, tanto che
nel secondo trimestre il commercio estero ha fornito un contributo negativo alla crescita. Altri paesi europei stanno soffrendo l’aggiustamento di bilancia dei pagamenti
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N. 2
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delle economie emergenti, a cominciare dalla Germania la cui produzione industriale è diminuita dall’inizio dell’anno, più che nel resto dell’Eurozona.
L’analisi condotta nel primo capitolo del Rapporto mostra come la volatilità dei movimenti di capitale da e verso i paesi emergenti rappresenti un elemento di instabilità
per l’economia internazionale. Il dibattito teorico e le scelte di policy stanno riconsiderando l’opportunità di introdurre vincoli amministrativi, per impedire che le politiche di stabilizzazione adottate in particolare negli Stati Uniti producano indesiderati
effetti di spillover sui paesi più deboli. Crescente attenzione sta, inoltre, ricevendo fra i
paesi emergenti l’ipotesi di sviluppare accordi finanziari regionali, come strumento
per isolare l’area da shock di origine esterna.
3
Le incertezze del quadro internazionale evidenziano i ritardi della politica economica
europea. La normalizzazione della politica monetaria statunitense e l’aggiustamento
dei paesi emergenti sono infatti fenomeni fisiologici rispetto agli andamenti osservati
negli ultimi sei anni, ma di fronte ad essi l’Eurozona si trova in posizione di vulnerabilità. L’attenzione quasi esclusiva dedicata al tema della restrizione fiscale e alle procedure di sorveglianza reciproca contribuisce infatti a prolungare il vuoto di domanda interna, esponendo il ciclo europeo alle fluttuazioni del commercio mondiale. Allo stesso tempo, l’enfasi posta sulle riforme strutturali perde di credibilità, perché gli
effetti di queste ultime dipendono strettamente dalla presenza di un ambiente espansivo esterno, come quello che poté sfruttare la Germania nella prima parte del
passato decennio.
4
Anche il quadro della politica economica italiana è ancora in cerca di una compiuta definizione. I vincoli europei obbligano alla ricerca di difficili equilibri nella gestione
del bilancio pubblico, ma alcune scelte restano incompiute. La riforma dell’Imu varata lo scorso anno, lascia aperti ampi spazi di incertezza, con le aliquote di tassazione 2014 ancora non definite, mentre la spending review continua a essere intesa
come politica di taglio e non anche come occasione per indirizzare maggiori risorse
verso obiettivi capaci di rafforzare le potenzialità di sviluppo di lungo periodo. In
mancanza di una visione strategica più ampia, lo scambio che viene prospettato,
fra minore tassazione e minori spese, si scontra con la cruda contabilità dei moltiplicatori, che assegnano un impatto recessivo a una manovra così impostata. Una via
di uscita, da noi già prospettata in passati Rapporti, potrebbe essere quella di porre
in prospettiva la promessa di minore tassazione, sottoscrivendo un impegno che, indipendentemente dai risparmi che si riuscirà ad ottenere sul versante della spesa, restituisca agli operatori parte del maggior gettito che deriverà dal recupero ciclico.
Le scelte di consumo e investimento funzionali al rafforzamento del ciclo troverebbero così incentivo nella promessa di una minore tassazione marginale.
8
RAPPORTO CER
5
L’assenza di crescita riporta al centro della discussione la preoccupazione per la tenuta dei conti pubblici. Ci si interroga sulla necessità o meno di una nuova manovra
correttiva. Stimiamo, nel terzo capitolo del Rapporto, che l’indebitamento si collochi
per il terzo anno consecutivo al 3 per cento del Pil, mancando gli obiettivi programmatici, ma restando all’interno del primigenio parametro di Maastricht. Alla fine del
periodo di previsione il disavanzo scenderebbe all’1,5 per cento del prodotto,
l’avanzo primario salirebbe al ragguardevole livello del 3,2 per cento (2,1 per cento
alla fine di quest’anno). La riduzione prospettata è più lenta di quella compatibile
con l’obiettivo di medio termine europeo (MTO); riteniamo però che, nella posizione
ciclica in cui si trova l’economia italiana, ulteriori sforzi fiscali non siano sostenibili. Anche perché, nella legislazione vigente, la manovra di finanza pubblica conserva
comunque un’impostazione restrittiva, sia pur con intensità decrescente: la correzione ha dimensioni pari a 10 miliardi nell’anno in corso, a 6 miliardi nel 2015, a meno di
4 e 1 miliardi, rispettivamente, nel 2015 e nel 2016. Solo riduzioni più significative
dell’output gap, non nuove correzioni, permetteranno di migliorare i risultati di bilancio e, in una prospettiva più lunga, di ridimensionare il livello del debito. É opportuno
che l’impegno a reperire nuove risorse sia indirizzato alla sola copertura di provvedimenti già annunciati, quali il bonus fiscale per il 2015, o di altre misure inderogabili
(CIG in deroga, missioni di pace etc.).
6
Il Rapporto dedica una particolare attenzione al tema dell’indebitamento strutturale, presentando alcune simulazioni (nel capitolo terzo) e ripercorrendo la letteratura
che ha definito il concetto di NAIRU, posto alla base della metodologia di calcolo
utilizzata dalla Commissione europea. Per la politica di bilancio italiana, il passaggio
ad obiettivi di saldo strutturale ha una virtù importante: saremo infatti obbligati a
conservare la disciplina fiscale anche in fasi di crescita dell’economia, senza dubbio
una capacità che nel passato è mancata ai nostri governi. Si parla però di una virtù
che potrà essere apprezzata solo una volta usciti dall’emergenza crescita e che non
ci sembra giustificare la richiesta di aggiustamenti supplementari che viene dalle autorità europee. Soprattutto, ci sembra venuta l’ora di mettere in dubbio la validità
dell’impostazione analitica proposta dalla Commissione e di proporre radicali modifiche di essa. Vi sono due problemi che rendono a nostro avviso inadeguato lo
schema di calcolo posto a presidio delle procedure di sorveglianza. Il primo è la scelta di definire il tasso di disoccupazione strutturale come una semplice funzione del
tasso di disoccupazione effettivo e non come un parametro atto a misurare
l’obiettivo della piena occupazione. La ricognizione teorica svolta nel Rapporto ricorda come questa approssimazione possa risultare accettabile per realtà economiche come quella degli Stati Uniti, dove la disoccupazione strutturale presenta storicamente margini di oscillazione molto limitati. Le indicazioni della letteratura sconsigliano, di contro, l’utilizzo di un indicatore come il NAIRU se la disoccupazione struttu-
9
N. 2
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rale ha ampi margini di variabilità nel tempo, come è sempre stato in Europa, e in situazioni di straordinario ampliamento dell’output gap, come sono quelle odierne.
Ciò significa, dal punto di vista teorico, che l’Europa dovrebbe evitare di utilizzare il
NAIRU come indicatore di servizio della politica economica. É stata invece compiuta
la scelta opposta creando un unicum nel panorama internazionale: soltanto
nell’Eurozona il NAIRU, determinando il livello del saldo strutturale, ha un valore normativo tanto cogente. Non vi sono ragioni per conservare questa scelta.
7
Il secondo problema nasce dal fatto che, anche volendo prescindere dalle difficoltà
di misurazione, il NAIRU è un indicatore che nasce nell’ambito della letteratura di politica monetaria, che ne fa uso per la sua capacità di anticipare i movimenti del tasso di inflazione. Nessuno schema di politica monetaria si spinge, peraltro, a suggerire
l’utilizzo del solo NAIRU come base per le scelte delle banche centrali. Rispetto a
queste indicazioni teoriche, il modello europeo di governance fiscale compie una
vera e propria eterogenesi dei fini: il NAIRU viene utilizzato come unico indicatore per
governare le scelte di bilancio pubblico. In sostanza, è come se si fosse deciso di regolare la politica di bilancio in base all’andamento degli aggregati monetari, dimenticando che questi sono utili per controllare l’inflazione, ma che la loro attinenza
con le grandezze fiscali è molto indiretta. Questa assenza di basi teoriche rivela come il modello europeo abbia affidato a una “cattiva tecnica” il controllo delle politiche di bilancio. Una soluzione inefficiente, perché risolve in modo distorto il problema dell’assegnazione degli strumenti agli obiettivi. L’inadeguatezza del modello è
dimostrata dal fatto che, a causa di un eccesso di restrizione fiscale, l’Eurozona è
molto vicina alla deflazione, con un andamento dei prezzi non compatibile con le
misure di Nairu proposte dalla Commissione.
8
In queste condizioni, la politica monetaria europea soffre di un sovraccarico di funzioni, a cui la Bce cerca di far fronte con un nuovo tentativo di disallineamento dalle
scelte operate negli Stati Uniti (decoupling). A giugno sono stati abbassati i tassi ed è
stato lanciato un nuovo programma di misure straordinarie, con cui contrastare la
spirale deflazionistica che minaccia la ripresa dell’area. Da metà luglio il tasso di interesse a breve termine nell’area euro si colloca così al di sotto di quello statunitense.
Anche sul segmento a lungo termine i tassi di riferimento europei sono inferiori a quelli
statunitensi. L’impatto delle nuove misure potrebbe cominciare a manifestarsi dopo
l’estate, trasmettendo impulsi significativi all’economia italiana (0,7 punti di maggiore
crescita in un biennio, secondo le stime presentate nel primo capitolo del Rapporto).
Occorre augurarsi che gli stimoli monetari non vengano annullati da richieste di ulteriori inasprimenti sul lato fiscale.
10
RAPPORTO CER
L’economia internazionale
nella prima parte del 2014
IL NUOVO DIBATTITO DI POLITICA MONETARIA
E L’AGGIUSTAMENTO DEI PAESI EMERGENTI
1
Gli andamenti dell’economia internazionale della prima metà del 2014 sono stati influenzati dal combinato disposto di due elementi, legati fra loro da un nesso di causalità: da una parte, nel ruolo di variabile indipendente, l’uscita dalla fase di politica
monetaria non-convenzionale negli Stati Uniti; dall’altra, come variabile dipendente,
l’aggiustamento in corso nei paesi emergenti.
La normalizzazione della politica monetaria statunitense ha preso avvio ormai oltre
un anno fa, con l’annuncio del cosiddetto tapering, che a sua volta riflette un doppio ordine di considerazioni: la presa d’atto del superamento della crisi finanziaria e
del ritorno dell’economia in prossimità del punto di pieno impiego; la constatazione
del progressivo esaurirsi degli effetti reali attribuibili alle misure non convenzionali.
Come è noto, nel periodo 2007-2013, le operazioni di quantitative easing e l’acquisto
su larga scala di asset finanziari hanno enormemente aumentato la dimensione dei
bilanci delle banche centrali, in particolare della Federal Reserve e della Banca
d’Inghilterra e, più recentemente del Giappone. Parziale eccezione è la Bce, il cui
attivo è aumentato meno che altrove e comunque solo fino a metà 2012, tanto che
l’autorità monetaria europea è oggi quella che più si trova vicino alla situazione precrisi (grafico 1).
Se la prima ondata di misure non-convenzionali è considerata unanimemente efficace (1) nella sua azione di ripristino di normali condizioni di liquidità sui mercati, alcuni recenti lavori (2) segnalano come, una volta superato l’apice della crisi finanziaria, gli annunci delle autorità monetarie avrebbero avuto una efficacia temporale
limitata, con un impatto contenuto sui tassi a lunga e sulle aspettative di crescita. Con
riferimento a quest’ultimo aspetto, alcune stime indicano che la trasmissione di impulsi
ulteriori all’economia reale avrebbe necessitato di acquisti di titoli da parte della
(1) IMF, “Global Impact and Challenges of Unconventional Monetary Policy”, IMF Policy Paper, September 2013. URL: http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2013/090313.pdf
(2) Thornton, D.L., 2014. “Has QE been Effective?”. Economic Synopses 3, Federal Reserve Bank of St.
Louis. URL: http://research.stlouisfed.org/publications/es/article/10050
11
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Grafico 1. Totale attivo delle banche centrali (numero indice, dic. 2007=100)
520
470
420
370
320
270
220
170
120
70
gen-07
ott-07
lug-08
apr-09
Federal Reserve
gen-10
ott-10
lug-11
Bank of England
apr-12
gen-13
Bank of Japan
ott-13
lug-14
ECB
Federal Reserve doppi rispetto a quelli effettivamente realizzati, con un peso sul Pil
che avrebbe dovuto raggiungere il 50 per cento, contro il 24 per cento osservato (3).
Una direzione di intervento verso la quale l’autorità statunitense non ha ritenuto di doversi avvicinare, avviando invece l’uscita dal periodo di misure non convenzionali.
2
Anche in questa fase di normalizzazione, il ciclo della politica monetaria statunitense
continua a esercitare effetti importanti sulle economie emergenti. Ciò è dovuto al
fatto che i flussi internazionali di capitale continuano a essere prevalentemente governati dalla percezione del rischio legata agli sviluppi macroeconomici e finanziari
dei paesi industrializzati, piuttosto che da quelli dei paesi emergenti (4). Secondo stime econometriche della Banca Mondiale (5), circa il 60 per cento dei deflussi di capitale dai paesi industrializzati ai paesi emergenti avvenuti fra il 2009 e il 2013 sarebbero stati indotti da fattori esterni alle condizioni macro e alle scelte di politica economica dei BRICS. Più in generale, i diversi studi condotti dalle principali istituzioni
monetarie mondiali (6) concordano nel rilevare un aumento della volatilità dei flussi
di capitale provocato dalle misure monetarie non convenzionali e la conseguente
(3) Wen, J., 2014. “Evaluating Unconventional Monetary Policies. Why aren’t they ore effective?”.
Working Paper 028B, Federal Reserve Bank of St. Louis. URL:
http://research.stlouisfed.org/wp/2013/2013-028.pdf
(4) FMI, 2013. “Spillover report”, IMF Multilateral Policy Issues, July. URL:
http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2013/070213.pdf
(5) Più in dettaglio, il 4% sarebbe dovuto alla fissazione del tasso di sconto ufficiale fissato dalla FED, il
13% alle politiche di quantitative easing, il 20% ai tassi di interesse a lungo termine dei titoli americani e
il 26 dalla volatilità dell’indice azionario S&P500, vedi Banca Mondiale, 2014. Global Economic Prospects: Coping with Policy Normalization in High-income Countries, 8, Gennaio.
(6) Bluedorn, J., Duttagupta, R., Guajardo, J., Topalova, P., 2013. “Capital Flows are Fickle: Anytime,
Anywhere”. Working Paper WP/13/183, International Monetary Fund. URL:
http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp13183.pdf
12
RAPPORTO CER
Grafico 2. Flussi di capitale verso i paesi emergenti
(media mobile a 4 termini, in miliardi di dollari Usa)
330
310
290
270
250
230
210
190
170
set-12
nov-12
gen-13
mar-13
mag-13
lug-13
set-13
BRICS, Turchia, Messico, Cile, Polonia e Indonesia
nov-13
gen-14
mar-14
Totale paesi emergenti
maggiore probabilità che i paesi emergenti siano soggetti a fenomeni di sudden
stop, come quelli in corso dall’estate dello scorso anno (grafico 2).
Nella fase di allentamento della politica monetaria statunitense precedente, gli afflussi di capitale verso i paesi emergenti hanno determinato un apprezzamento sia
nominale che reale delle valute locali, con conseguente peggioramento del saldo
delle partite correnti. I flussi di capitale in entrata hanno inoltre determinato un boom
negli aggregati creditizi e nei corsi azionari, facendo così aumentare la domanda
interna e aggravando ulteriormente – seppur seguendo un altro canale - il saldo delle partite correnti. I flussi di capitale in ingresso hanno infine contribuito ad aumentare la leva finanziaria del settore privato (in particolare delle imprese), andando ad
incrementare anche la domanda di valuta estera. Se da un lato l’andamento del
credito e del prezzo delle azioni - così come quello più generale della domanda aggregata - avrebbero richiesto una politica monetaria restrittiva, l’apprezzamento del
cambio (che pure aveva avuto effetti benefici sull’inflazione interna) rendeva difficile perseguire questo tipo di politica, soprattutto se gli obiettivi dichiarati delle banche
centrali erano quelli relativi ad un determinato target del tasso di crescita dei prezzi.
Inoltre, una politica di alti tassi di interesse avrebbe incentivato ulteriormente
l’afflusso di capitali, aggravando la pressione sulla valuta e peggiorando il saldo di
conto corrente. In sostanza, i paesi emergenti si sono trovati privi di strumenti per contenere gli afflussi di capitale, nonostante i segni di surriscaldamento dell’economia e
il deterioramento del saldo estero.
3
L’inversione della politica monetaria statunitense ha innescato il necessario processo
di aggiustamento, attraverso la repentina svalutazione dei tassi di cambio che, nel
corso del 2014, ha raggiunto, in molti paesi, dimensioni ragguardevoli (grafico 3). Rispetto alle crisi valutarie degli anni Settanta e Ottanta, i fondamentali economici più
robusti delle economie emergenti hanno consentito di conservare una generale
stabilità del sistema economico. Tuttavia il rapido deprezzamento della valuta e –
13
N. 2
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Grafico 3. Tasso di cambio in alcuni paesi emergenti
(valuta nazionale - dollaro USA)
130
125
120
115
110
105
100
95
90
gen-14
feb-14
Turchia
mar-14
Cina
apr-14
mag-14
Indonesia
Brasile
giu-14
Cile
lug-14
ago-14
Sudafrica
più in generale – il massiccio e improvviso deflusso di capitali ha fatto rivedere bruscamente al ribasso le prospettive di crescita per i paesi emergenti. Le economie più
colpite sia nella primavera del 2013 che all’inizio di quest’anno sono state quelle che,
nel precedente biennio, avevano registrato più forti apprezzamenti del cambio reale
e più consistenti aumenti del deficit di partite correnti. Alcuni contributi empirici evidenziano come i movimenti di capitale seguirebbero un tipico sentiero random walk,
per cui il miglior previsore dei sudden stop sarebbe costituito dalle dimensioni del
precedente afflusso di capitali (7).
4
Fra la primavera del 2013 e il giugno di quest’anno molte banche centrali dei paesi
emergenti sono state costrette ad adottare politiche monetarie restrittive proprio per
far fronte al rapido deteriorarsi delle condizioni interne, a seguito della fuga dei capitali (grafico 4). La Turchia ha aumentato il tasso di riferimento di 400 punti base, la
Russia di 200 e l’Indonesia di 175. India e Sudafrica si sono invece limitate a 50 punti
base, mentre il Brasile ha dovuto alzare i propri tassi di ben 375 punti base, soprattutto a causa del brusco deprezzamento del real e il conseguente aumento
dell’inflazione interna.
Viceversa, nei paesi emergenti, che negli anni precedenti erano stati meno soggetti
ai flussi di capitale in ingresso e alle fluttuazioni del tasso di cambio, le autorità di politica monetaria hanno avuto minori necessità di intervenire. Dove un intervento c’è
comunque stato, esso è stato legato a problematiche interne o al perseguimento di
particolari strategie di crescita e ha avuto segno prevalentemente espansivo. In Cile
(7) Agosin, M., Huaita, F., 2012. “Overreaction in Capital Flows to Emerging Markets: Booms and Sudden Stops”. Journal of International Money and Finance 31, pp. 1140-1155.
14
RAPPORTO CER
Grafico 4. Tassi di riferimento delle banche centrali
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
gen-13
apr-13
Turchia
lug-13
Russia
ott-13
Indonesia
gen-14
Brasile
apr-14
Cile
lug-14
Sudafrica
e in Messico il taglio dei tassi di interesse è stato dovuto soprattutto ad un previsto rallentamento della crescita economica, mentre nella Repubblica Ceca l’inflazione è
rimasta al di sotto del target e la banca centrale ha cercato di deprezzare il cambio
soltanto per incoraggiare ulteriormente l’export. La Polonia ha dovuto tagliare più
volte i tassi vista la tendenza deflazionista che la stava accomunando all’area euro.
Infine, in Cina la banca centrale ha mantenuto ferme le scelte di politiche monetaria
precedenti, procedendo però ad un rallentamento della crescita della massa monetaria e del credito (8).
5
La volatilità dei movimenti di capitale da e verso i paesi emergenti segnala come le
politiche statunitensi di stabilizzazione del ciclo generino importanti effetti di spillover
sulle economie emergenti. Ciò sta riportando al centro del dibattito teorico il tema del
coordinamento delle politiche monetarie. Si è infatti indebolita la posizione di quanti
ritengono che il risultato ottimale possa essere conseguito attraverso il solo impegno
delle banche centrali a rispettare i propri obiettivi interni, sia in termini di inflazione che
in termini di output gap e disoccupazione (9). Tale visione era complementare a quella esistente prima della grande crisi per quanto riguarda la regolamentazione del settore finanziario: la micro-regolamentazione di ciascuna istituzione finanziaria e bancaria sarebbe stata sufficiente a garantire la stabilità di tutto il sistema finanziario nazionale e internazionale. La crisi finanziaria ha messo in seria discussione questo tipo di approccio. Ora lo sforzo si sta indirizzando, attraverso il Financial Stability Board, verso lo
sviluppo di una vigilanza comune sia di tipo microprudenziale che di tipo macroprudenziale, al fine di garantire con maggiore efficacia la stabilità del sistema finanziario.
(8) Bank of International Settlements, “Monetary Policy struggles to nomalise”. 84th Annual Report.
(9) Taylor, J.B., 2013. “International Monetary Policy Coordination: Past, Present and Future”. Working
Paper 437, Bank of International Settlements.
15
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- 2 0 14
A tale impegno, però, non ha finora fatto seguito un eguale sforzo per cercare un
maggiore coordinamento delle politiche monetarie.
6
I paesi in via di sviluppo hanno, di conseguenza, avviato da qualche tempo
un’autonoma politica di contenimento degli spillover. Visto che i canali attraverso
cui le esternalità si trasmettono alle economie emergenti sono i flussi di capitale e i
movimenti dei tassi di interesse, si è cominciato a fare largo uso di vincoli ai movimenti di capitale e di politiche di gestione del tasso di cambio. Da questo punto di
vista i BRICS si sono avvantaggiati di un deciso cambio di paradigma nel campo della letteratura economica: la visione a lungo dominante secondo cui la totale liberalizzazione dei movimenti di capitale sarebbe stata sempre e comunque benefica è
stata infatti messa in forte discussione. I presunti benefici indiretti dell’apertura del
conto capitale – ovvero lo sviluppo di un settore finanziario più efficiente – più che
l’effetto ormai vengono considerati come la causa dei flussi monetari in entrata (10).
Inoltre, anche gli effetti diretti dei movimenti di capitale su crescita, occupazione e
benessere sociale sembrano essere assai meno apprezzabili di quanto inizialmente
pensato (11). Si è fatta così progressivamente strada una letteratura che vede nei
vincoli ai movimenti di capitale un elemento positivo: i controlli temporanei – solitamente nella forma di sussidi/tasse sui flussi, o sotto forma di vincoli amministrativi – sono considerati ottimali ed efficienti, soprattutto quando i tassi di cambio sono flessibili
(12).
7
Bisogna tuttavia ricordare come i paesi in via di sviluppo mostrino generalmente tassi
di crescita del prodotto più elevati, una inflazione più sostenuta e di conseguenza
dei tassi di interesse di equilibrio più alti rispetto a quello dei paesi industrializzati. Gli
andamenti demografici e il livello di reddito pro-capite suggeriscono inoltre che tali
differenze continueranno a persistere per molti anni. Più che da fattori ciclici e contingenti, il gap di rendimento fra i vari investimenti fra paesi industrializzati e paesi
emergenti sembra dettato da fattori strutturali, difficilmente correggibili con forme di
controllo temporaneo. Allo stesso modo, il suggerimento di compensare l’afflusso di
capitali dall’estero con politiche fiscali restrittive rischia di risultare non solo politicamente difficile, ma anche inefficiente. Infatti, la politica fiscale non è quasi mai neu-
(10) Bank of International Settlements, 2009. “Capital Flows and Emerging Market Economies”, CGFS
Publication 33, Committee on the Global Financial System, gennaio. URL:
http://www.bis.org/publ/cgfs33.pdf
(11) Obstfeld, M., 2009. “International Finance and Growth in Developing Countries: What have we
learned?”. NBER Working Paper 14691.
(12) Ostry J.D., Arora V., Habermeier K., Weeks-Brown R., 2012. “The Liberalization and Management of
Capital Flows: an Institutional View”, IMF Staff position Note. URL:
http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2012/111412.pdf
16
RAPPORTO CER
trale dal punto di vista redistributivo: una stretta fiscale realizzata soprattutto con un
piano di riduzione della spesa pubblica potrebbe favorire i possessori del capitale,
generando effetti macroeconomici perversi (13). Infine, le forme di controllo amministrativo dei movimenti di capitale dovrebbero essere accompagnate da appropriati
interventi sul mercato delle valute che, pur conservando una certa flessibilità dei tassi
di cambio, garantiscano la creazione di sufficienti riserve in valuta estera da utilizzare
nel caso di improvvisi deprezzamenti. Tuttavia, il rischio è che queste misure, se prese
in maniera non-coordinata, finiscano per spaventare gli investitori e conducano ad
una progressiva frammentazione del mercato finanziario globale.
8
Una possibile via d’uscita, di cui si è cominciato a parlare da qualche tempo, potrebbe essere quella di realizzare linee preferenziali di liquidità anche per i paesi emergenti, sulla scorta di quanto già realizzato a partire dal 2007 fra le banche centrali dei paesi industrializzati (14). L’esistenza di tali strumenti avrebbe ridotto l’impatto
negativo dei deflussi di capitale soprattutto in occasione delle turbolenze della primavera 2013 e dei primi mesi di quest’anno. Restano su questo punto però forti resistenze da parte delle banche centrali dei paesi più avanzati. Esistono linee di liquidità precauzionale gestite dal FMI, ma queste – oltre ad essere probabilmente insufficienti - sono ancora viste in modo negativo dai paesi emergenti, data la stigma da
sempre associata a chi ne faceva utilizzo in passato (15).
Crescente attenzione sta invece ricevendo, fra i paesi emergenti, lo sviluppo di accordi finanziari regionali, sulla scorta di quanto già successo con il Chiang Mai Initiative - un fondo creato durante la crisi asiatica del 1997-98, ma di fatto mai utilizzato - o
del fondo ESFS/ESM in Europa. I BRICS hanno proposto da tempo un accordo per la
creazione di un fondo di circa 100 miliardi di dollari, favorendo anche accordi bilaterali per linee di liquidità. Questo tipo di accordi regionali potrebbero costituire un
nuovo strumento a disposizione dei paesi emergenti per gestire la volatilità dei movimenti di capitale, qualora risulti difficilmente percorribile la soluzione di un maggior
(13) Gallagher, K., Ocampo, J.A., 2013. “IMF’s New View on Capital Controls”. Economic and Political
Weekly XLVIII(12), pp. 10-13.
URL: http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/rp/Gallagher_EPW_Capital_Controls_2013.pdf
(14) La crisi dei mutui subprime, l’aumento del rischio di credito e il conseguente aumento della domanda di liquidità aveva messo sotto forte tensione il mercato interbancario in dollari. Venne quindi
attivata nel dicembre 2007 una linea di liquidità in dollari sia con la BCE che con la banca centrale
elvetica. Tale facilitazione venne estesa nei mesi successivi ad altre 12 banche centrali e tuttora resta
in vita con 5 banche centrali (BCE, Banca d’Inghilterra, Banca del Canada, Banca del Giappone,
Banca centrale svizzera). Nell’aprile 2009 la FED ha introdotto anche una linea di liquidità in valuta estera con le 4 principali banche centrali mondiali. Tale decisione mirava a fornire liquidità in valuta estera alle varie istituzioni.
(15) FMI, 2014. “Review of Flexible Credit Line, the Precautionary and Liquidity Line, and the Rapid Financing Instrument”. IMF Policy Paper, gennaio. URL:
http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2014/012714.pdf
17
N. 2
- 2 0 14
coordinamento fra le politiche monetarie dei paesi avanzati- e segnatamente degli
Stati Uniti- e dei paesi emergenti.
LA CONGIUNTURA INTERNAZIONALE
9
L’aggiustamento dei paesi emergenti ha importanti riflessi sulla dinamica degli
scambi mondiali e, di conseguenza, sulla congiuntura internazionale. Le importazioni
di quest’area hanno cominciato a rallentare, con saggi di variazione scesi, tra gennaio e maggio, dal 5.4 all’1 per cento, mentre le esportazioni registrano, da aprile,
forti saggi di espansione (+7,6 per cento a maggio, grafico 5, Paesi emergenti). Al
contempo, le importazioni conservano saggi di variazione stabili nei paesi avanzati,
che sperimentano però una riduzione delle vendite all’estero (Figura B). Dunque,
compressione della domanda interna e svalutazione del cambio si stanno traducendo in un assorbimento dei disavanzi di parte corrente dei paesi emergenti, che
passa sia attraverso minori importazioni, sia per maggiori esportazioni. Queste ultime,
trovano assorbimento nei mercati delle economie avanzate, i cui prodotti sono invece spiazzati dalla perdita di competitività subita attraverso l’oscillazione dei cambi. L’area avanzata vede, in questa fase di aggiustamento, indebolito il sostegno
fornito dalle crescenti esportazioni verso il resto del mondo, trovandosi piuttosto nella
condizione di sostenere, attraverso maggiori acquisti, il riequilibrio dei paesi emergenti.
10
Le dinamiche di crescita risentono di questa ricomposizione degli scambi. Nel primo
trimestre dell’anno, il Pil mondiale è cresciuto del 3,9 per cento (3,8 per cento nel
quarto trimestre 2013, grafico 6) (16). Fra le economie avanzate, l’area euro continua a caratterizzarsi per tassi di crescita inferiori alla media. In assenza di domanda
interna, i paesi europei devono d’altronde appoggiarsi al traino delle esportazioni
verso il resto del mondo, che si è indebolito per le ragioni fin qui analizzate. Evidenza
immediata delle difficoltà incontrate dalle economie europee a causa delle mutate
condizioni del commercio mondiale è fornita dalla produzione industriale tedesca,
che in questa prima parte dell’anno è diminuita più che altrove (grafico 7). Proprio la
Germania è l’economia che maggiormente ha sfruttato la domanda dei paesi emergenti, ampliando la gamma delle proprie esportazioni dal tradizionale settore dei
beni strumentali a quello dei beni di consumo, riuscendo così ad isolarsi dalla crisi del
debito sovrano che ha interessato i suoi principali partner europei. L’economia tedesca è quindi la prima a risentire del minore assorbimento dell’area emergente.
(16) Variazioni ponderate dei tassi di crescita delle principali economie emergenti e avanzate
(esclusi gli Stati Uniti) pari al 49 per cento del Pil mondiale.
18
RAPPORTO CER
Grafico 5. Il commercio estero nel 2014
(variazioni % tendenziali)
Paesi emergenti
Paesi avanzati
8,0
4,5
7,0
4,0
6,0
3,5
3,0
5,0
2,5
4,0
2,0
3,0
1,5
2,0
1,0
1,0
0,5
0,0
0,0
gen-14
feb-14
mar-14
Importazioni
apr-14
mag-14
gen-14
feb-14
Esportazioni
mar-14
Importazioni
apr-14
mag-14
Esportazioni
Grafico 6. Stime della crescita dell’economia mondiale
(variazioni % tendenziali)
6,5
6,0
5,5
5,0
4,5
4,0
3,5
3,0
mar11
giu11
set11
dic11
mar12
giu12
set12
dic12
mar13
giu13
set13
dic13
mar14
Grafico 7. Produzione industriale
(numero indice, gennaio 2014=100)
102
101
100
99
98
97
gen-14
feb-14
Italia
mar-14
Germania
apr-14
Francia
mag-14
Spagna
19
N. 2
- 2 0 14
11
Più in generale, si deve osservare come l’economia dell’Eurozona sia particolarmente esposta all’indebolimento dei flussi di commercio estero per l’assenza di politiche
di sostegno della domanda interna. La normalizzazione della politica monetaria statunitense e l’aggiustamento dei paesi emergenti sono infatti fenomeni fisiologici rispetto agli andamenti osservati nel recente passato. L’economia americana è tornata in prossimità del pieno impiego, mentre l’area emergente ha effettiva necessità
di ridurre la propria posizione debitoria con l’estero. Al contempo, il Giappone ha intrapreso aggressive misure di rilancio, che contemplano interventi di rafforzamento
della domanda interna. L’Eurozona è invece rimasta concentrata sui programmi di
restrizione fiscale, a cui sono per ora conseguiti la flessione di consumi e investimenti
e la necessità di ricercare la fonte della crescita nelle sole esportazioni. Le fluttuazioni
del commercio mondiale sono dunque particolarmente perniciose per Il ciclo europeo. Inoltre, a causa delle politiche di austerità, il ciclo dei paesi dell’Eurozona si trova in ritardo rispetto a quello statunitense e ciò aumenta l’esposizione a uno shock
innescato dall’inversione della politica monetaria della Fed. L’eccezione è costituita
dalla Germania, anch’essa in situazioni di pieno impiego e in grado di sopportare un
prospettico inasprimento monetario; da un punto di vista congiunturale, anche
l’economia tedesca subisce però la minore domanda dei paesi emergenti. Infine,
l’avanzo commerciale dell’Eurozona verso il resto del mondo, molto aumentato nel
passato biennio, sospinge l’apprezzamento dell’euro (grafico 8), riducendo i margini
di competitività dell’industria europea.
12
Questi fattori sono alla base del nuovo tentativo di disallineamento della politica
monetaria europea (decoupling), della quale si vuole conservare l’intonazione espansiva, rispetto a quella statunitense. A giugno la Bce ha ulteriormente abbassato i
tassi e ha lanciato un nuovo programma di misure straordinarie, per la spirale deflazionistica che minaccia la ripresa dell’area euro (vedi riquadro “La crescita delle esportazioni durante la crisi: un confronto tra Italia e Germania”). Da metà luglio il tasso
di interesse a breve termine nell’area euro si colloca così al di sotto di quello statunitense (grafico 9). Anche sul segmento a lungo termine i tassi europei sono inferiori a
quelli statunitensi. Il rendimento dei bond, dopo il balzo di un anno fa, si è stabilizzato al
2,7 per cento, mentre il tasso sui bund tedeschi ha continuato a scendere, e si colloca
all’1.35 per cento (grafico 10). É ugualmente proseguita la flessione dei rendimenti sui
titoli degli altri paesi dell’Eurozona. Per tutta la prima metà dell’anno, la benevolenza
dei mercati nei confronti dei titoli di debito europei ha trovato riscontro nelle dinamiche degli indici azionari, risultate più accentuate di quelle degli Stati Uniti: a fine giugno, l’indice STOXX Europe 600 registrava un aumento dell’8 per cento rispetto a inizio anno, contro il 7.3 per cento dell’S&P 500 (grafico 11). Nel corso del mese di
20
RAPPORTO CER
Grafico 8. Tasso di cambio dell'euro verso le principali valute internazionali
(numero indice, gennaio 2014=100)
140
135
130
125
120
115
110
105
100
95
90
gen-13 mar-13 mag-13
lug-13
set-13
nov-13
gen-14 mar-14 mag-14
lug-14
Dollaro USA
Yen giapponese
Sterlina inglese
Yuan cinese
Rupia indiana
Rublo russo
Real brasiliano
Rand sudafricano
Grafico 9. Tassi di interesse a breve termine
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
gen-11
lug-11
gen-12
lug-12
Stati Uniti
gen-13
lug-13
gen-14
lug-14
Area euro
Grafico 10. Rendimento dei titoli di Stato decennali
4,5
4,0
3,5
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
gen-14
feb-14
Stati Uniti
mar-14
apr-14
Area euro
mag-14
Italia
giu-14
Francia
lug-14
ago-14
Spagna
21
N. 2
- 2 0 14
Grafico 11. Indici di borsa USA e UE
110
108
106
104
102
100
98
gen-14
feb-14
mar-14
apr-14
mag-14
Stati Uniti
Area euro
giu-14
lug-14
luglio, il mercato europeo ha però invertito l’andamento, segnando una perdita del
2 per cento. La crescita delle quotazioni azionarie statunitensi è invece proseguita,
interrompendosi solo nell’ultima settimana di luglio.
LE ESOGENE
13
Il quadro delle variabili esogene internazionali è stato rivisto al ribasso rispetto alla
previsione precedente. Il rallentamento del blocco dei paesi emergenti e del commercio mondiale nella prima metà dell’anno in corso sono ci hanno portato ad abbassare la stima del commercio di quasi un punto nel 2014, quando stimiamo una
crescita del 3,7 per cento. Per il 2015, in linea con la ripresa globale, ci attendiamo
una crescita degli scambi commerciali del 5,5 per cento e del 6,5 per cento per il resto dell’orizzonte previsionale. Per l’anno in corso stimiamo un’espansione
dell’economia statunitense dell’ordine del 2,2 per cento e una crescita sul 3 per cento nel periodo 2015–2018. In corrispondenza del rallentamento congiunturale nelle
principali economie nell’area euro e della bassa crescita dei prezzi che ostacola la
ripresa, stimiamo un saggio di variazione del Pil inferiore all’1 per cento nel 2014 e un
graduale aumento fino all’1,8 per cento nel 2018. In linea con la politica monetaria
espansiva della Bce i tassi di interesse nell’area euro si manterrebbero su bassi livelli
nel prossimo biennio. I tassi a breve termine dovrebbero rimanere stazionari sullo 0,2
per cento; il primo aumento, allo 0,4 per cento, è previsto nel 2016 per arrivare all’1,1
per cento nel 2018. Il primo incremento dei tassi a breve statunitensi è atteso nel 2015
quando, di fronte al sentiero di crescita stabile, la Fed inizierebbe a riportare gradualmente i tassi a livelli più alti. Anche i tassi a lungo termine dovrebbero tornare sul
4 per cento alla fine del periodo di previsione. Rispetto alla previsione precedente
prevediamo un apprezzamento leggermente più alto della moneta unica – 1,36 dollari – nel 2014 e come tasso di cambio dollaro-euro adottiamo l’ipotesi tecnica
22
RAPPORTO CER
Tavola 1. Le esogene internazionali
(variazioni percentuali)
Pil Stati Uniti
Pil Area euro
Commercio mondiale
Eurodivise a 3 mesi
- euro
- dollaro
Tassi di interesse a lungo termine (a)
- Area euro
- Stati Uniti
Cambio dollaro-euro
- variazioni percentuali
Prezzi delle materie prime (in dollari)
- petrolio (b)
- beni energetici
- materie prime non energetiche
Prezzi all'import (in euro)
Totale beni e servizi importati
- manufatti
- beni energetici
- beni intermedi
2013
2014
2015
2016
2017
1,9
-0,4
3,0
2,2
0,8
3,7
3,0
1,4
5,5
3,0
1,5
6,3
2,8
1,6
6,5
0,2
0,3
0,2
0,2
0,2
0,8
0,4
1,5
0,7
1,8
1,6
2,4
1,3
3,0
1,4
2,6
1,4
2,3
1,5
3,4
1,36
0,0
2,0
3,9
1,36
0,0
2,6
4,2
1,36
0,0
109,0
-2,7
-3,8
106,0
-2,8
-1,0
104
-1,9
-1,0
100
-3,8
2,0
98
-5,8
2,0
-1,9
0,0
-6,9
-2,1
1,4
2,3
-1,9
1,0
1,6
2,9
-1,9
1,6
2,0
3,1
-3,8
3,2
1,9
3,2
-5,7
3,6
(a) Tassi sui titoli benchmark.
(b) Dollari al barile.
dello stesso valore del cambio per periodo 2015–2018. La domanda globale ancora
debole e le informazioni sui contratti futures sul prezzo del petrolio di qualità Brent ci
portano ad adottare l’ipotesi di 106 dollari per barile nel 2014 e 104 dollari per barile
nel 2015. Negli anni successivi il prezzo del greggio si dovrebbe mantenere poco sotto i 100 dollari. La dinamica delle materie prime non energetiche nei primi sei mesi
dell’anno in corso ha avuto ancora il segno negativo. Stimiamo una variazione di -1
per cento nel biennio 2014–2015 e una crescita positiva del 2 per cento nei tre anni
successivi.
23
N. 2
- 2 0 14
RIQUADRO. LA CRESCITA DELLE ESPORTAZIONI DURANTE LA CRISI: UN CONFRONTO TRA ITALIA E
GERMANIA
Obiettivo di questo riquadro è di descrivere i principali cambiamenti avvenuti nella struttura geografica e per categoria merceologica delle esportazioni italiane e tedesche nel periodo 20102013, con particolare attenzione al ruolo giocato dalle economie emergenti, nella duplice veste
di mercati di destinazione di prodotti finiti e come parte della Catena di Produzione Globale.
Nello specifico, vogliamo verificare se il cambiamento strutturale più recente rappresenti o meno la continuazione di quello verificatosi nel periodo 1999-2007.
L’indicatore utilizzato come misura della dinamica di cambiamento strutturale è costituito dalla
differenza tra i contributi percentuali delle diverse aree geografiche alla variazione dell'export
nel periodo 2010-2013 e quelli relativi al 1999-2007. Valori positivi indicano un’intensificazione delle dinamiche pre-crisi, mentre l’indice è pari a zero nel caso di stabilità nei contributi alla crescita
e negativo nel caso di una riduzione.
Nel grafico A mostriamo l’andamento della differenze tra i valori dell’indicatore in questione per
Italia e Germania sulle diverse aree geografiche. Come possiamo osservare, la differenza è positiva sui mercati dell’Europa occidentale e le altre economie avanzate, mentre risulta fortemente negativa sull’area cinese (Cina, Hong Kong e Macao), Nord Africa e Medio Oriente (MENA) e
il resto del mondo, che include principalmente i piccoli stati dell’Oceania e dell’America Latina.
Un primo risultato è quindi che per la Germania negli ultimi anni la crescita dell'export è derivata
in maniera sostanziale dalle economie emergenti, mentre l’Italia è ancora relativamente più orientata ai mercati tradizionali.
Ci sono, tuttavia, alcune eccezioni a questa dicotomia in quanto l’Italia risulta aver spostato
l’export in modo più marcato verso l’area balcanica, il Sud-Est Asiatico e l’America Latina.
Nei grafici B-F mostriamo nel dettaglio l’andamento dell’indice nelle aree di maggior interesse e
per tipologia di beni. In particolare, la distinzione tra beni di consumo (durevole, semi durevole e
non durevole) e strumentali da un lato e beni intermedi dall’altro permette di tenere conto anche dei cambiamenti intercorsi nell’importanza dei partner come mercati di sbocco o come
partner produttivi.
La riallocazione verso il sud est asiatico (grafico B) mostra come per entrambi i paesi la crescita
di importanza dell’area abbia subito un’accelerazione. Per la Germania il fenomeno interessa
principalmente i beni di consumo durevoli e semi durevoli e, in maniera ridotta, i beni strumentali, intermedi e parti e componenti, per i quali invece sembra esserci una maggiore intensificazione dell’export italiano. Di converso, entrambi i paesi hanno aumentato maggiormente le quote
di esportazioni di beni di consumo verso l’area cinese (Cina, Hong Kong e Macao) (grafico C).
Per la Germania, l’aumento ha interessato anche i beni strumentali, intermedi e la componentistica, mentre per l’Italia si è ridotto il peso delle esportazioni di intermedi.
Per quanto riguarda l’Europa Centro Orientale (grafico D), si può osservare per entrambi i paesi
un’inversione di tendenza rispetto al periodo 1999-2007, con l’indice che assume valore negativo nella maggioranza dei casi. Per l’Italia, la variazione del peso dell’area è andata in direzione
opposta, rispetto all’andamento pre-crisi, per tutte le tipologie di beni ad eccezione degli intermedi. In Germania riduzioni dell’indice si sono verificate solamente per la componentistica e i
beni di consumo durevoli, mentre si è verificato un forte aumento dell’importanza dell’export di
beni di consumo non durevoli e semi durevoli.
24
RAPPORTO CER
Grafico A. Riallocazione geografica relativa Italia-Germania (*)
Su Sud
CS
dAm Est
I
A
er
ica siat
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(+
M
es
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o)
Ec
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or
d)
Re
sto
Ar
ea
cin
es
e
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5
(*) Differenza tra Italia e Germania nella variazione delle quote geografiche dell'export 2009-2013 su
1999-2007. Chn=Area cinese, Mena=Nord Africa e Medio Oriente; resto del mondo (piccoli stati americani e dell’Oceania); paesi opt=SE, UK, DK; Europa non EU=NO, CH, IS; ea=Area euro.
Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.
Grafico B. Riallocazione geografica nel Sud-Est Asiatico per tipologia di beni
6
5
4
3
2
1
Germania
to
ta
le
co
ns
um
o
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re
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li
se
m
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ur
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stu
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ta
li
co
m
p.
pa
rti
e
int
er
m
ed
i
0
Italia
Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.
25
N. 2
- 2 0 14
Grafico C. Riallocazione geografica nell'area cinese per tipologia di beni
16
12
8
4
0
Germania
to
ta
le
co
ns
um
o
du
re
vo
li
se
m
i-d
ur
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oli
no
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re
vo
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stu
m
en
ta
li
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m
p.
pa
rti
e
int
er
m
ed
i
-4
Italia
Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.
Grafico D. Riallocazione geografica nell'Europa Centro Orientale per tipologia di beni
Germania
to
ta
le
co
ns
um
o
du
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vo
li
se
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ur
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oli
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en
ta
li
co
m
p.
pa
rti
e
int
er
m
ed
i
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5
Italia
Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.
Per l’Italia la crescita d’importanza dell'area Balcanica (ex-Jugoslavia, Albania e Turchia) è dovuta a un forte aumento del contributo alla crescita delle esportazioni di beni intermedi e componentistica, mentre l’importanza dei beni di consumo si è andata riducendo. Per la Germania,
al contrario, anche se in modo contenuto, per tutte le tipologie di beni c’è stato un aumento
dell’importanza dell’area.
Per finire, possiamo osservare nel grafico F come il risultato relativo all’area euro sia dovuto ad
una più forte perdita di importanza per le esportazioni tedesche rispetto a quelle italiane. Mentre per l’Italia la riduzione è alquanto uniforme tra le diverse tipologie di beni, per la
26
RAPPORTO CER
Grafico E. Riallocazione geografica nei Balcani per tipologia di beni
6
4
2
0
-2
Germania
to
tal
e
co
ns
um
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du
re
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se
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p.
pa
rti
e
int
er
m
ed
i
-4
Italia
Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.
Grafico F. Riallocazione geografica nell'area euro per tipologia di beni
0
-10
-20
-30
-40
-50
-60
-70
Germania
to
tal
e
co
ns
um
o
du
re
vo
li
se
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i-d
ur
ev
oli
no
ndu
re
vo
li
stu
m
en
ta
li
co
m
p.
pa
rti
e
int
er
m
ed
i
-80
Italia
Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.
Germania il crollo è stato più marcato sui beni di consumo ed in particolar modo quelli durevoli.
Questa evidenza è importante in quanto i beni di consumo hanno rappresentato la base della
crescita dell’export verso l’area euro nel periodo 1999-2007 e dell’aumento del saldo commerciale tedesco.
In sintesi, l’analisi condotta evidenzia da un lato come la Germania si sia spostata verso mercati
più dinamici rispetto all’Italia e, dall’altro, come l’economia tedesca, dopo aver instaurato relazioni commerciali basate principalmente sulla delocalizzazione produttiva nel decennio scorso,
abbia iniziato ad esportare in modo più massiccio beni di consumo verso tutte le aree emergenti.
L’Italia, pur mostrando andamenti in parte simili, sembra trovarsi ancora ad uno stadio precedente in quanto, da un lato, il cambiamento strutturale è proceduto con minore intensità mentre, dall’altro, gli aumenti di quota hanno riguardato, nella maggior parte dei casi, beni collegati
alla delocalizzazione produttiva.
27
RAPPORTO CER
La previsione
macroeconomica
14
Il quadro di previsione che viene delineato sulla base degli indicatori congiunturali e
delle attese sulle esogene internazionali, descritte in precedenza, mostra segnali di
peggioramento rispetto al precedente Rapporto, sia con riguardo alla domanda interna sia rispetto a quella estera.
Nel primo trimestre del 2014 il Pil reale è tornato nuovamente a ridursi (-0,08 per cento
rispetto al trimestre precedente) dopo il risultato leggermente positivo dell’ultimo quarto del 2013 (+0,13 per cento congiunturale) che aveva interrotto una recessione che
durava da oltre due anni. Le stime preliminari dell’Istat per il secondo trimestre
dell’anno in corso segnalano una ulteriore caduta del prodotto (-0,2 per cento), che
dovrebbero riportare la nostra economia nuovamente in recessione tecnica. Le nostre
previsioni per la seconda parte del 2014 evidenziano però il ritorno alla crescita, stimabile
intorno ai 4 decimi di punto sia nel terzo che nel quarto trimestre del 2014 (grafico 12).
Nel complesso il 2014 è atteso evidenziare una sostanziale stabilità rispetto all’anno
precedente (+0,1 per cento), un risultato inferiore rispetto alle nostre precedenti attese
(tavola 2). In virtù di un migliore andamento atteso per la seconda metà di
quest’anno, il 2015 dovrebbe mostrare una tendenza decisamente più positiva (+1,3
per cento), che è attesa ulteriormente consolidarsi nel successivo biennio (+1,4/+1,5
per cento).
15
Analizzando le singole componenti della domanda aggregata, si può osservare come il deludente risultato atteso per quest’anno nasca da un contributo positivo dei
consumi privati (+0,2 punti percentuali) e delle esportazioni nette (+0,1 punti), a cui si
contrappone quello negativo di investimenti(-0,2 punti) e consumi pubblici (-0,1 punti) (grafico 13 e tavola 3). Per le scorte di prodotti, invece, ci si attende un contributo
nullo.
16
Più nello specifico, i consumi delle famiglie, dopo il risultato ampiamente negativo
del 2013 (-2,6 per cento) dovrebbero tornare a crescere dello 0,4 e 0,3 per cento nel
2014 e 2015, per accelerare fino allo 0,7 per cento nel 2017. Al buon risultato dei consumi privati dovrebbe, in particolare, contribuire l’andamento del reddito disponibile
delle famiglie che nell’anno in corso è atteso tornare a crescere, sia in termini nominali che reali, grazie al bonus Irpef erogato ai dipendenti con reddito inferiore ai 24
mila euro (grafico 14 e tavola 4). La mancata previsione, a legislazione vigente, del
bonus Irpef anche per gli anni successivi al 2014 determinerebbe però
29
N. 2
- 2 0 14
una perdita di potere di acquisto nel 2015. La propensione al consumo, pari all’89,9
per cento nel 2013, è attesa rimanere pressoché stabile.
Grafico 12. Andamento del Pil trimestrale
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5
2012.I 2012.III 2013.I 2013.III 2014.I 2014.III 2015.I 2015.III 2016.I 2016.III 2017.I 2017.III
var. congiunturale annualizzata
var. tendenziale
Grafico 13. Contributi alla crescita del Pil
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5
-6
-7
2009
2010
2011
consumi privati
2012
2013
consumi pubblici
2014
2015
investimenti
scorte
2016
2017
export netto
Grafico 14. Reddito disponibile delle famiglie
3
30,4
2
30,2
1
30,0
0
29,8
-1
29,6
-2
29,4
-3
29,2
-4
29,0
-5
28,8
2009
2010
2011
nominale
30
2012
reale
2013
2014
2015
pressione fiscale (scala dx)
2016
2017
RAPPORTO CER
Tavola 2. Principali indicatori economici
(variazioni percentuali)
Prodotto interno lordo
Importazioni di merci e servizi
Consumi finali nazionali
- delle famiglie
- collettivi
Investimenti fissi lordi
- in costruzioni
di cui in abitazioni
- in maccIinari e attrezzature
Esportazioni di merci e servizi
Output gap
Prezzi al consumo
Deflatore del Pil
Ragioni di scambio (a)
Retribuzioni unitarie settore privato
Clup settore privato
Bilancia dei pagamenti:
Indebitamento netto della PA (b)
- in % del Pil
- aggiustato per il ciclo
- aggiustato per il ciclo netto una tantum
Avanzo primario della PA (b)
- in % del Pil
- aggiustato per il ciclo
Debito PA (defizione Ue) in % del Pil
Tasso medio sui Bot (a)
Tasso medio reale sui Bot (a)
Costo medio del debito (c)
Reddito disponibile delle famiglie:
- nominale
- reale
Propensione al consumo (d)
Tasso di disoccupazione
2013
2014
2015
2016
2017
-1,9
-2,8
-2,2
-2,6
-0,8
-4,7
-6,7
-6,2
-2,6
0,1
-4,6
1,2
1,4
2,0
0,3
1,5
0,7
0,1
1,9
0,2
0,4
-0,4
-1,0
-2,6
-2,2
1,8
2,1
-4,5
0,2
0,1
-1,2
0,5
0,2
0,7
1,3
4,4
0,3
0,3
0,3
2,7
1,8
1,6
5,2
4,4
-3,6
0,8
1,3
-0,7
0,5
0,1
0,6
1,5
4,6
0,5
0,5
0,5
4,7
3,1
2,7
5,3
4,9
-2,6
1,2
1,5
1,9
0,7
0,2
0,5
1,4
5,3
0,7
0,7
0,5
4,2
2,9
2,8
5,4
5,0
-1,9
1,4
1,7
1,5
0,9
0,7
0,4
-3,0
-0,5
-0,8
-3,0
-0,5
-0,7
-2,5
-0,5
-0,4
-2,0
-0,6
-0,6
-1,5
-0,5
-0,6
2,2
4,7
132,6
0,9
-0,4
4,0
2,1
4,5
137,3
0,6
0,4
3,7
2,3
4,3
137,3
0,5
-0,3
3,6
2,7
4,2
136,2
0,8
-0,4
3,5
3,2
4,2
133,4
1,3
-0,1
3,6
0,2
-1,1
89,9
12,2
1,3
0,9
89,4
12,7
0,7
-0,3
89,9
12,5
2,0
0,7
89,8
12,0
2,4
0,9
89,6
11,4
(a) Valori percentuali.
(b) Miliardi di euro.
(c) Interessi passivi in percentuale del debito pubblico.
(d) In percentuale del reddito disponibile.
31
N. 2
- 2 0 14
Tavola 3. Contributi alla crescita del Pil reale
(valori percentuali)
Importazioni merci e servizi
Consumi finali
- delle famiglie
- collettivi
Investimenti fissi lordi
Variazione delle scorte
Esportazioni di merci e servizi
2013
2014
2015
2016
2017
0,7
-1,7
-1,6
-0,2
-0,8
-0,1
0,0
-0,5
0,1
0,2
-0,1
-0,2
0,0
0,6
-1,2
0,3
0,2
0,1
0,4
0,4
1,4
-1,3
0,4
0,3
0,1
0,8
0,0
1,6
-1,5
0,5
0,4
0,1
0,7
0,0
1,7
Tavola 4. Reddito disponibile delle famiglie
(variazioni percentuali)
2013
2014
2015
2016
2017
Reddito lordo disponibile
nominale
reale
- risultato lordo di gestione
- redditi da lavoro dipendente
- redditi da lavoro autonomo
- rendite e redditi da capitale
- prestazioni sociali
- imposte sul reddito e sul patrimonio
- contributi sociali effettivi
- contributi sociali figurativi
0,2
-1,1
4,1
-0,5
-3,1
-3,7
1,6
-2,3
-0,4
-0,5
1,3
0,9
1,8
-0,1
-0,4
-0,3
2,6
-2,0
-0,1
-0,6
0,7
-0,3
2,0
0,9
0,9
4,7
2,1
6,0
1,1
2,8
2,0
0,7
2,8
1,2
1,9
9,0
2,2
2,7
1,1
3,5
2,4
0,9
2,9
1,6
1,8
11,3
2,6
3,0
1,4
4,7
Redditi netti da lavoro (a)
Imposte sul reddito (b)
Redditi da lavoro al netto della tassazione
-1,6
-1,9
-1,5
-0,2
-3,8
1,1
0,8
6,7
-1,1
1,4
2,5
1,1
1,7
2,7
1,3
Pressione fiscale sulle famiglie
(in % del totale delle risorse delle famiglie)
- complessiva
- al netto dei contributi figurativi
- al netto delle imposte sui redditi
da capitale
29,9
29,0
29,5
28,5
30,0
29,0
30,0
29,0
29,9
28,9
28,7
28,0
28,5
28,5
28,4
89,9
89,4
89,9
89,8
89,6
Propensione al consumo
(in % del reddito disponibile)
(a) Somma delle retribuzioni dei dipendenti e del reddito da lavoro autonomo al netto
dei contributi sociali.
(b) Al netto delle imposte sui redditi da capitale.
32
RAPPORTO CER
17
I consumi pubblici sono stimati in diminuzione dello 0,4 per cento nel 2014, un risultato
comunque migliore rispetto a quello dell’anno precedente (-0,8 per cento). Solo a
partire dal 2015 è atteso un ritorno alla crescita, seppur moderata, dei consumi collettivi. I limiti imposti dai trattati europei del Patto di Stabilità, sia con riguardo al livello
dell’indebitamento pubblico nominale sia per quello aggiustato per il ciclo economico, continueranno infatti a costituire un forte freno alla spesa pubblica.
18
Gli investimenti fissi lordi sono stimati in calo dell’1 per cento nel 2014. Tale nuovo
arretramento si sommerebbe alla precedenti cadute registrate nel 2013 (-4,7 per
cento), nel 2012 (-8 per cento) e nel 2011 (-2,2 per cento). Per il 2015 le nostre attese sono per una ripresa degli investimenti nell’ordine del 3 per cento, con
un’ulteriore accelerazione nel 2016 (+4,7 per cento) e un successivo rallentamento
nel 2017 (4,2 per cento).
Nel complesso l’andamento degli investimenti stimato permetterebbe di lasciare
stazionario lo stock di capitale nella media del periodo 2014-2017 (+1,9 per cento
nel decennio pre-crisi), tenendo anche in considerazione l’effetto di depauperamento degli investimenti effettuati negli anni passati e che dovranno essere sostituiti.
Analizzando le diverse componenti si osserva come il risultato per l’anno in corso sarebbe per lo più imputabile all’andamento degli investimenti in costruzioni, che dopo
la flessione del 6,7 per cento del 2013 continuerebbero a flettere del 2,6 per cento.
Gli investimenti in macchinari e attrezzature dovrebbero invece segnare
un’inversione di tendenza già partire da quest’anno. Stante l’attuale difficoltà delle
imprese, soprattutto di minori dimensioni, nel reperire adeguate fonti di finanziamento dal canale bancario, la ripresa degli investimenti in macchinari è attribuibile essenzialmente al recupero di redditività atteso per il 2014, come si riscontra
dall’andamento del margine operativo lordo in percentuale del valore aggiunto totale (grafico 15).
19
Nel complesso, la domanda interna al netto delle scorte è attesa in leggera diminuzione nell’anno in corso (-0,1 per cento), comunque in netto miglioramento rispetto
al -2,6 per cento del 2013 (-4,6 per cento nel 2012). Per il 2015 ci attendiamo una ripresa, con un incremento dello 0,8 per cento, che si consoliderebbe ulteriormente
negli anni successivi fino ad attestarsi all’1,2/1,3 per cento.
20
Le scorte di magazzino, a differenza delle previsioni del precedente Rapporto, hanno determinato la flessione del Pil nel primo trimestre del 2014. Questo inatteso risultato può essere attribuito alla concomitanza di diversi fattori. Il credit crunch è forse
quello più rilevante in quanto, oltre a limitare le capacità d’investimento delle
33
N. 2
- 2 0 14
Grafico 15. Margine operativo lordo e investimenti in macchine e attrezzature
29
28
5
27
0
26
25
-5
24
-10
23
in %del valore aggiunto
tasso di crescita reale
10
22
-15
21
-20
20
2009
2010
2011
2012
2013
investimenti in macchinari e attrezzature
2014
2015
2016
2017
MOL al netto della tassazione (scala dx)
imprese, sta anche ponendo forti difficoltà nel reperimento del capitale circolante
necessario alla ricostituzione delle scorte di magazzino nella prospettiva di una ripresa della domanda interna. Altro fattore è attribuibile ai rischi di deflazione, che
in Italia e negli altri paesi periferici dell’area euro sono sempre più elevati. Con un
livello dei prezzi in caduta, infatti, le imprese rischiano di vedere il valore delle loro
scorte di magazzino deprezzarsi, spingendole quindi a rinviare e a ridimensionare
quanto più possibile la loro ricostituzione. Infine, l’incertezza sull’effettiva possibilità
di una ripresa economica è un ulteriore elemento che sta vincolando fortemente
le scelte degli imprenditori.
Il contributo nullo alla crescita delle scorte previsto per l’anno in corso implica, comunque, un loro buon andamento nella seconda parte del 2014, grazie anche alle
attese di un miglioramento dell’accesso al credito dopo il lancio delle operazioni di
rifinanziamento a lungo termine da parte della Bce (TLTRO), che implica importanti
effetti di trascinamento per il 2015. In quest’ultimo anno il contributo delle scorte
dovrebbe attestarsi a 0,4 punti di Pil, offrendo quindi un importante impulso alla ripresa della domanda interna.
21
Passando alla domanda estera, le importazioni sono attese tornare a crescere nel
2014, con un incremento dell’1,9 per cento (-2,8 per cento nel 2013). La ripresa dei
consumi privati è il principale fattore che spiega questa dinamica, insieme
all’interruzione della caduta degli investimenti in macchinari e attrezzature. Il consolidamento della crescita interna determinerebbe un’ulteriore accelerazione della
dinamica dell’import attestandosi su valori intorno al 5 per cento nel biennio 20162017.
34
RAPPORTO CER
Grafico 16. Output gap tra Pil reale e Pil potenziale
20
1.450
15
1.400
10
1.350
5
1.300
gap in % del Pil potenziale
miliardi di euro a prezzi del 2005
1.500
0
1.250
1.200
-5
1999
2001
2003
2005
2007
Output gap (scala dx)
2009
2011
Pil reale
2013
2015
2017
Pil potenziale
22
Le esportazioni, che nel 2013 hanno registrato solo una modesta crescita (+0,1 per
cento), non riuscendo quindi ad offrire un contributo sostanziale all’incremento
complessivo del Pil, sono attese in lieve recupero nell’anno in corso, soprattutto grazie al moderato miglioramento delle prospettive di crescita dei paesi dell’area euro.
Una crescita più sostenuta è attesa nei successivi anni con un incremento annuo del
4 per cento nel 2015 che sale al 5 per cento nel biennio successivo.
23
Il saldo delle partite correnti, dopo la buona performance del 2013, legata però essenzialmente all’effetto depressivo della recessione sui consumi di beni e servizi esteri,
è atteso in leggero peggioramento nell’anno in corso, per poi stabilizzarsi nel 2015
(tavola 5). Non essendosi però osservati miglioramenti di rilievo sia sulla produttività
del lavoro che sul costo per unità di prodotto, variabili fondamentali per valutare il
grado di competitività di un paese, le attese di ripresa economica porteranno ad un
peggioramento dei conti con l’estero nel triennio 2016-2017, frenando quindi le potenzialità di un maggior sviluppo economico.
24
Nel grafico 16 è riportato l’andamento del Pil reale, dal lancio dell’euro fino alla previsione per il 2017, nonché il Pil potenziale da noi stimato utilizzando la metodologia
applicata dalla Commissione europea e dal Tesoro
Dal grafico si osserva chiaramente come le due recessioni del 2009 e del 2012-2013
abbiano avuto importanti conseguenze anche sulla crescita potenziale, determinando la sua sostanziale stabilità. In tutto il quadriennio di previsione, il Pil corrente è
atteso attestarsi al di sotto del suo livello potenziale, da cui consegue la presenza di
un output gap negativo anche nel 2017 (-1,9 punti percentuali, -4,6 nel 2014; tavola 6).
35
N. 2
- 2 0 14
Più nello specifico, il Pil potenziale è atteso tornare a crescere lievemente nell’anno
in corso (+0,1 per cento), soprattutto grazie al contributo del fattore lavoro. Su
Tavola 5. Bilancia dei pagamenti economica
2013
2014
2016
2017
12,1
36,9
1,4
-10,2
-16,0
-1,3
MILIARDI DI EURO
10,1
9,3
8,7
38,8
37,6
36,5
-1,2
-1,5
-1,8
-10,2
-9,3
-8,3
-17,3
-17,5
-17,8
0,2
-0,1
0,0
6,9
34,4
-2,2
-7,3
-18,0
0,1
Conto corrente
- Merci
- Servizi
- Redditi
- Trasferimenti
Conto capitale
0,8
2,4
0,1
-0,7
-1,0
-0,1
VARIAZIONI PERCENTUALI
0,6
0,6
0,5
2,5
2,3
2,2
-0,1
-0,1
-0,1
-0,7
-0,6
-0,5
-1,1
-1,1
-1,1
0,0
0,0
0,0
0,4
2,0
-0,1
-0,4
-1,1
0,0
Per memoria:
Ragioni di scambio (a)
2,0
Conto corrente
- Merci
- Servizi
- Redditi
- Trasferimenti
Conto capitale
-1,2
2015
-0,7
1,9
1,5
(a) Variazioni percentuali.
quest’ultimo inciderebbero, a loro volta, il trend crescente della popolazione, delle
ore lavorate e del tasso di partecipazione. Il tasso di disoccupazione di lungo periodo compatibile con la stabilità dei salari (Nawru) è atteso invece rimanere stabile sul
livello del 10 per cento. Solo a partire dal 2015 stimiamo un Nawru in miglioramento,
che dovrebbe poi toccare il suo punto minimo nel 2017 al 9,3 per cento, valore prossimo a livelli medi di disoccupazione registrati nel periodo pre-crisi.
Dal 2015 il Pil potenziale dovrebbe evidenziare una maggiore crescita (+0,4 per cento), in accelerazione fino ad un modesto +0,6 per cento del 2017. Il basso profilo di
crescita del potenziale è attribuibile al fattore capitale, che come visto in precedenza risente direttamente delle deboli prospettive di investimento, e dalla produttività
totale dei fattori, anch’essa influenzata dalle scelte d’investimento in ricerca e sviluppo.
25
La distanza dal Pil potenziale è uno dei fattori che dovrebbe contribuire al conteni-
36
RAPPORTO CER
mento del livello dei prezzi. Il progressivo ridursi dell’output gap dovrebbe però evitare che la nostra economia si avviti nel circolo vizioso della deflazione. L’inflazione è
Tavola 6. Pil potenziale e componenti
2013
2014
Pil potenziale
Trend TFP
Capitale
Lavoro
- Trend ore lavorate
- Popolazione 15-74
- Trend tasso di
di partecipazione (livello)
- Nawru (livello)
0,0
-0,2
-0,3
0,4
0,0
0,2
0,1
-0,1
-0,3
0,4
0,1
0,1
60,9
10,0
61,1
10,0
TFP
Capitale
Lavoro
-0,2
-0,1
0,2
-0,1
-0,1
0,3
Per memoria:
Outputgap
-4,6
-4,5
2015
2016
2017
VARIAZIONI PERCENTUALI
0,4
0,4
0,5
0,0
0,0
0,1
-0,1
0,1
0,3
0,7
0,6
0,6
0,2
0,2
0,2
0,1
0,0
0,0
61,2
9,8
61,2
9,6
61,3
9,3
CONTRIBUTI ALLA CRESCITA
0,0
0,0
0,1
-0,1
0,0
0,1
0,5
0,4
0,4
-3,6
-2,6
-1,9
infatti attesa pari allo 0,2 per cento nel 2014, per poi crescere progressivamente fino
all’1,4 per cento nel 2017. La tendenza dei prezzi prossima allo zero attesa per l’anno
in corso appare comunque distante dalla relazione osservata tra output gap e inflazione dal 1995 al 2013, così come ampio è il divario osservato già nel 2013 (grafico
17). Una spiegazione della minor inflazione attesa a fronte dell’attuale livello di
output gap può essere attribuito al fenomeno conosciuto in letteratura economica
come trappola della liquidità, cioè della preferenza dei consumatori/risparmiatori di
mantenere una più alta riserva di moneta, posto il livello pressoché nullo dei tassi
d’interesse e l’elevata incertezza presente sui mercati. Il mantenimento di una più alta scorta di moneta implica però una riduzione della sua velocità di circolazione con
conseguenze deflattive sul livello dei prezzi.
26
Sul fronte del mercato del lavoro, ci attendiamo un ulteriore peggioramento del tasso di disoccupazione, che dovrebbe attestarsi al 12,7 per cento nell’anno in corso,
contro il 12,2 per cento del 2013 (tavola 7). Posto il livello del Nawru, che come detto
37
N. 2
- 2 0 14
Grafico 17. Relazione tra inflazione e output gap dal 1995 al 2013
6
5
Inflazione
4
3
2
2013
1
2014
0
-0,06
-0,04
-0,02
0
0,02
0,04
0,06
Output gap
Tavola 7. Occupazione e forza lavoro
2013
2014
2015
2016
2017
MIGLIAIA DI UNITÁ
Popolazione
Forza lavoro (a)
Occupati (a)
Occupati (b)
- settore privato
dipendenti
indipendenti
- servizi pubblici
Disoccupati (a)
Popolazione
Forza lavoro (a)
Occupati (a)
Occupati (b)
- settore privato
dipendenti
indipendenti
- servizi pubblici
Disoccupati (a)
Tasso di attività (a) (c)
Tasso di disoccupazione (a)
NAIRU (d)
59.700
25.542
22.421
23.295
19.961
13.380
6.580
3.335
3.120
0,4
-0,3
-2,0
-1,9
-2,1
-2,2
-2,0
-0,7
14,0
63,5
12,2
10,0
59.900
25.497
22.249
23.194
19.885
13.300
6.586
3.309
3.248
60.200
25.441
22.269
23.273
19.995
13.358
6.637
3.279
3.173
60.380
25.432
22.374
23.440
20.187
13.469
6.718
3.253
3.058
60.380
25.406
22.503
23.626
20.401
13.619
6.782
3.225
2.903
VARIAZIONI PERCENTUALI
0,3
0,5
0,3
-0,2
-0,2
0,0
-0,8
0,1
0,5
-0,4
0,3
0,7
-0,4
0,6
1,0
-0,6
0,4
0,8
0,1
0,8
1,2
-0,8
-0,9
-0,8
4,1
-2,3
-3,6
63,3
63,2
63,1
12,7
12,5
12,0
10,0
9,8
9,6
0,0
-0,1
0,6
0,8
1,1
1,1
1,0
-0,9
-5,1
63,0
11,4
9,3
(a) Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro.
(b) Contabilità Nazionale (unità standard di lavoro).
(c) Rapporto tra forze di lavoro totali e popolazione tra 15 e 64 anni.
(d) Tasso di disoccupazione a lungo termine.
38
RAPPORTO CER
Tavola 8. Retribuzioni, redditi e costo del lavoro
(variazioni percentuali)
2013
2014
2015
2016
2017
0,1
0,3
0,6
0,5
0,6
0,5
0,7
0,7
0,9
0,9
0,9
1,3
-0,6
1,1
1,1
0,9
0,8
0,8
1,0
0,7
0,7
0,9
0,9
1,0
0,9
-0,5
-0,4
-0,7
-0,1
0,1
-0,5
0,9
1,2
0,0
1,2
1,5
0,1
1,6
2,1
0,0
-0,5
-0,4
-0,7
-0,1
0,1
-0,5
0,9
1,2
0,0
1,2
1,5
0,1
1,6
2,1
0,0
0,1
0,1
0,6
0,6
0,9
1,0
0,7
0,8
0,6
0,6
Retribuzioni unitarie
- totale
- settore privato
Redditi unitari da lavoro dipendente
- totale
- settore privato
- servizi pubblici
Massa retributiva
- totale
- settore privato
- servizi pubblici
Massa dei redditi da lavoro dipendente
- totale
- settore privato
- servizi pubblici
Produttività del lavoro
- totale
- settore privato
Clup
- totale
- settore privato
Mol settore privato
- in % del valore aggiunto
1,5
1,5
0,0
0,2
-0,2
0,1
-0,1
0,2
0,3
0,7
27,8
29,0
31,4
33,5
35,2
- in % del valore aggiunto al netto
della tassazione
Variazione della TFP
20,0
-0,5
21,3
0,5
24,4
1,1
26,3
1,0
28,1
0,7
in precedenza è da noi stimato pari al 10 per cento, ciò implica che quasi 3 punti di
tasso di disoccupazione per l’anno in corso sono legati a fattori ciclici, tant’è che nei
successivi anni è atteso un graduale miglioramento del mercato del lavoro.
Nell’ultimo anno della previsione la disoccupazione ciclica dovrebbe attestarsi a circa due punti.
Il divario tra disoccupazione corrente e quella di lungo termine è un fattore che
spiega il basso profilo atteso per le retribuzioni e per il costo del lavoro per unità di
prodotto (CLUP, tavola 8).
39
N. 2
- 2 0 14
27
Il quadro previsionale molto debole descritto finora è soggetto a una forte variabilità,
sia verso il basso ma anche verso l’alto.
I fattori critici che potrebbero peggiorare ulteriormente il contesto economico derivano essenzialmente dall’estero. Anche i paesi core dell’area euro stentano a ripartire dopo l’ultima recessione. Il modello di crescita export led sta infatti mostrando tutti
i suoi limiti. In un quadro internazionale in cui, oltre al processo di aggiustamento delle economie emergenti, si intrecciano problemi geopolitici, come la crisi in Ucraina,
l’invasione della striscia di Gaza da parte di Israele, il rischio che la guerra in Siria possa estendersi ad altri paesi, a turbolenze finanziarie, legate alla prospettiva del tapering da parte della Federal Reserve, al possibile scoppio di bolle speculative sui titoli
di imprese specializzate nei social media, al rischio di un nuovo default
dell’Argentina, il commercio mondiale è la prima variabile macroeconomica ad esserne affetta negativamente.
Dall’altro lato, possibili sorprese positive potrebbero nascere in Europa da un miglioramento del funzionamento del canale bancario, grazie alle soprarichiamate azioni
straordinarie della Bce, a cui si potrebbe affiancare anche un vero e proprio quantitative easing i cui effetti di stimolo potrebbero essere particolarmente rilevanti (si veda il riquadro “Gli effetti del quantitative easing all’europea”), e da un’apertura da
parte della Commissione Europea ad una maggiore flessibilità sulla politica fiscale, in
particolare sul fronte degli investimenti pubblici.
40
RAPPORTO CER
RIQUADRO. GLI EFFETTI DEL QUANTITATIVE EASING ALL’EUROPEA
Nello scorso giugno la Bce ha presentato quattro importanti novità sul fronte delle politiche monetarie, convenzionali e non, al fine di avvicinare l’inflazione all’obiettivo del 2% e riattivare il
normale meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari all’economia. Oltre ad abbassare i
tassi di interesse di 10 punti base, fino allo 0,15 per cento, portare ad un livello negativo il tasso sui
depositi overnight (-0,1 per cento) e bloccare la sterilizzazione della liquidità immessa con il programma di acquisti di titoli di Stato previsto nell’SMP per circa 170 miliardi di euro, la mossa che
desta sicuramente più interesse è relativa all’iniezione di liquidità prevista dalle TLTRO (Targeted
Long Term Refinancing Operations). Il programma dei TLTRO consiste nella concessioni di prestiti
di durata quadriennale da parte delle Bce alle banche dell’eurozona. Nella prima fase del
nuovo programma l’ammontare finanziabile è pari a circa 400 miliardi di euro, corrispondente al
7% dei portafogli crediti delle banche nei confronti del settore privato al 30 aprile 2014, ad eccezione dei mutui immobiliari che non sono inclusi nel programma. I fondi del primo round di
TLTRO verranno allocati tra settembre e novembre 2014; tra marzo 2015 e giugno 2016, inoltre, la
Bce conferirà su base trimestrale ulteriore liquidità, pari al triplo dei prestiti netti compiuti a partire
dal 30 aprile 2014. Il tasso di interesse che le istituzioni bancarie dovranno pagare a fronte della
liquidità ricevuta sarà stabilito aumentando il tasso sulle main refinancing operations (MRO) del
periodo di riferimento di 10 punti base. In altri termini, il costo per le banche di tali finanziamenti
quadriennali sarà limitato allo 0,25 per cento. I rimborsi potranno aver luogo dopo 24 mesi dalla
concessione del prestito e dovranno terminare entro settembre 2018.
Le TLTRO, secondo quanto dichiarato anche dal presidente della Bce Mario Draghi, si sono ispirate al funding for lending (FLS) attuato dalla Banca d’Inghilterra negli ultimi anni. Il FLS prevede
che tutte le banche possano ottenere dalla BoE un ammontare di liquidità pari al 5 per cento
dei prestiti complessivamente erogati all’economia reale, avendo poi diritto ad ulteriori fondi a
fronte dell’incremento dei finanziamenti. Non è prevista una quantità massima di liquidità che gli
istituti bancari possono richiedere, è sufficiente che essi posseggano un adeguato ammontare
di collaterale. Le banche inglesi dispongono attualmente di oltre 43 miliardi di sterline (52 miliardi
di euro) di fondi ottenuti tramite il FLS. La variazione dei prestiti nella prima fase del FLS, tra giugno 2012 e dicembre 2013, ha avuto conseguenze non solo sulla quantità di fondi, ma anche
sui tassi di interesse degli stessi: mentre le banche che aumentavano o mantenevano stabili i
propri prestiti a imprese e famiglie ottenevano tassi dello 0,25 per cento, quelle che contraevano i fondi prestati sarebbero state sottoposte a tassi di interesse superiori. Per riduzioni inferiori al 5
per cento, le banche avrebbero dovuto pagare 25 punti base in più per ogni punto percentuale di diminuzione; per cali superiori al 5 per cento, il tasso di interesse massimo era stabilito essere
pari all’1,5 per cento (1).
In realtà, le caratteristiche tecniche delle TLTRO le fanno distinguere dal FLS determinando alcune criticità.
Un primo aspetto critico delle TLTRO, già chiaro fin dall’inizio, è legato al fatto che l’incentivo
non riguarda il comparto dei finanziamenti per acquisto di abitazioni, in quanto si vuole evitare il
rischio dell’insorgere di bolle speculative sul mercato immobiliare, come osservato nel Regno
_______________________
(1) Per maggiori dettagli si veda Barucci Emilio, Stefano Corsaro e Carlo Milani, 2014, Il funding for
lending nella versione BCE, www.finriskalert.it.
41
N. 2
- 2 0 14
Unito. In realtà, i prezzi delle abitazioni nei paesi dell’area euro hanno assunto una dinamica fortemente differenziata. Se, infatti, in Germania e Finlandia i prezzi delle case sono aumentati di
circa il 20 per cento rispetto ai valori pre-crisi, in Spagna sono diminuiti del 35 per cento e in Irlanda del 50 per cento circa. I rischi di alimentare la creazione di bolle sono quindi ben diversi
da paese a paese. Da questa considerazione poteva discendere l’opportunità di adottare un
TLTRO asimmetrico.
Altro aspetto ancor più critico per il raggiungimento dell’obiettivo di rimettere in moto il mercato
del credito europeo riguarda i vincoli imposti alle banche sull’utilizzo dei fondi presi a prestito,
che potrebbero essere pari, nella prima tornata di finanziamenti, a circa 400 miliardi di euro. La
Bce ha infatti definito due diversi benchmark che serviranno da riferimento per valutare se una
banca ha rispettato i criteri imposti, permettendole quindi di mantenere i finanziamenti ricevuti
fino allo scadere naturale dell’operazione (quattro anni) o in caso contrario imponendole la restituzione con due anni di anticipo.
Grafico. Benchmark imposti dalle Tltro
Fonte: Bce.
Il primo benchmark riguarda le banche che negli ultimi dodici mesi hanno aumentato lo stock
di finanziamenti erogati al settore non finanziario (grafico a). Per questa tipologia di istituti sarà
sufficiente mantenere l’ammontare di impieghi invariato nel periodo compreso tra aprile 2014 e
aprile 2016 per rispettare gli impegni e garantirsi il finanziamento agevolato fino alla scadenza
del settembre 2018.
Il secondo benchmark riguarda invece le banche che nell’ultimo anno hanno diminuito gli impieghi (generalmente gli istituti di credito dei paesi periferici, tra cui l’Italia), adottando quindi
una politica di deleveraging (grafico b). In questo caso, gli istituti potranno continuare a diminuire lo stock dei finanziamenti, in linea con il trend osservato, fino all’aprile del 2015 e poi mantenere il livello inalterato per i successivi dodici mesi.
In definitiva, da queste regole appare chiaro come le TLTRO siano ben distanti dalle caratteristiche pensate per il FLS inglese. Nella migliore delle ipotesi, alle banche dell’area euro basterà
non razionare ulteriormente il credito per finanziarsi a tassi prossimi allo zero. Per le banche del
Sud d’Europa, piuttosto che finanziare imprese e famiglie stremate da una crisi economica profondissima, sarà sicuramente più conveniente continuare a investire in titoli di Stato, mettendo
42
RAPPORTO CER
quindi in pratica indirettamente quel quantitative easing che la Bce, dati i difficili equilibri interni
al suo board, è così restia ad attuare direttamente. Così facendo, però, “l’abbraccio mortale”
tra governi e banche si farà sempre più stretto, minando la stabilità dei sistemi finanziari nel caso
in cui le turbolenze dovessero riaffacciarsi sui mercati.
Nel presente riquadro vengono descritti i potenziali effetti di un programma di acquisti di titoli
di Stato a medio-lungo termine da parte della Bce (cosiddetto quantitative easing). Al fine di
effettuare la simulazione mediante il modello econometrico del Cer è stato ipotizzato che tale
programma determini la riduzione dello spread Btp-Bund di 50 basis point (bp) nel 2014 e di
100 bp nel restante periodo di previsione. Gli effetti di questa politica monetaria espansiva sono riportati nella tavola A.
Tavola A. Impatto del quantitative easing della BCE
(scarti in punti percentuali rispetto alla baseline)
Prodotto interno lordo
Importazioni di merci e servizi
Consumi finali nazionali
- delle famiglie
- collettivi
Investimenti fissi lordi
Esportazioni di merci e servizi
Output gap
Prezzi al consumo
Clup settore privato
Indebitamento netto della PA
- in % del Pil
- aggiustato per il ciclo
- strutturale
Debito PA (defizione Ue) in % del Pil
Costo medio del debito (a)
Tasso di disoccupazione
2014
2015
2016
2017
0,3
0,0
0,2
0,3
0,0
0,3
0,0
0,1
0,0
-0,2
0,4
0,5
0,4
0,5
0,0
0,9
0,2
0,5
0,0
-0,2
0,1
0,7
0,1
0,2
0,0
0,7
0,3
0,6
0,1
0,1
0,0
0,0
0,0
0,0
0,0
0,2
-0,1
0,5
0,1
0,2
0,0
0,0
0,0
-0,4
0,0
0,0
0,3
0,0
0,0
-1,2
-0,1
-0,1
0,5
0,2
0,2
-2,0
-0,2
-0,3
0,6
0,3
0,3
-2,6
-0,3
-0,4
(a) Interessi passivi in percentuale del debito pubblico.
L’impulso offerto dalla Bce determinerebbe un maggior prodotto, nel 2014 e nel 2015, di 3 e 4
decimi di punto percentuale. A beneficiarne sarebbe essenzialmente la domanda interna,
grazie a un profilo più elevato di investimenti e di consumi privati, entrambi favoriti da un più
facile accesso al credito bancario.
La maggior spinta sulla domanda interna determinerebbe, dal 2016 in poi, un più alto livello
dei prezzi al consumo che provocherebbe il progressivo annullamento dei benefici derivanti
da tale manovra. L’effetto complessivo nell’intero quinquennio 2014-2017 sarebbe in ogni caso molto rilevante, con un Pil nominale cumulato più elevato di circa 60 miliardi di euro.
A trarne vantaggio sarebbero evidentemente anche i conti pubblici, aiutati sia dal miglior
contesto macroeconomico sia dal più basso costo del servizio del debito pubblico.
L’indebitamento nominale migliorerebbe di 3 decimi di punto di Pil a partire dal 2015, per poi
avvantaggiarsi di un ulteriore mezzo punto di Pil all’anno in tutto il periodo compreso tra il 2016
e il 2017. Più contenuto sarebbe l’impatto sull’indebitamento strutturale, posto che la maggiore crescita corrente determinerebbe la riduzione dell’output gap. Benefico anche l’impatto
sul debito pubblico, che nel 2018 sarebbe più basso di circa 3 punti di Pil.
43
RAPPORTO CER
Le prospettive della
finanza pubblica
L’IMPOSTAZIONE PROGRAMMATICA
28
Nel Documento di Economia e finanza 2014 (DEF 2014) il governo ha ridefinito gli obiettivi di bilancio per il 2014-2018. Stretto tra la necessità di varare misure a sostegno della
crescita e dell’occupazione e l’obbligo di rispettare le regole europee, l’esecutivo ha
posposto di un altro anno il pareggio di bilancio strutturale, che nella precedente programmazione nazionale era fissato per il 2015. L’obiettivo non è solo di evitare di deprimere ulteriormente i deboli segnali di ripresa, ma anche quello di “ritagliarsi” il tempo necessario ad avviare e realizzare un ampio programma d’interventi strutturali con
cui migliorare l’efficienza del bilancio pubblico e innalzare il potenziale di crescita del
paese. La realizzazione di tali riforme, che coprono un ampio ventaglio di materie – dal
mercato del lavoro, al fisco, dalla riorganizzazione della pubblica amministrazione alla
ridefinizione degli assetti istituzionali del paese – è essenziale per poter disporre di una
deviazione temporanea dal sentiero di convergenza proprio delle regole europee (si
veda a tal riguardo, l’analisi svolta nel paragrafo 43, Gli obiettivi europei). Inoltre, gli obiettivi di rilancio della crescita hanno finalmente acquisito una rilevanza maggiore
che non quelli di correzione dei conti pubblici.
I ristretti margini esistenti impongono di ricorrere ad una rigida ricomposizione del bilancio pubblico per compensare gli effetti delle misure espansive varate
sull’indebitamento netto (17). In controtendenza rispetto all’impostazione seguita lo
scorso anno (quando l’allentamento della stretta di bilancio, dati anche i maggiori
spazi disponibili, è stato attuato aumentando la spesa), l’impulso anticiclico è stato
realizzato attraverso una riduzione della pressione fiscale (18). In particolare, il cosiddetto bonus Irpef e il taglio dell’Irap (Dl 66/2014) sono finanziati in gran parte da una
razionalizzazione della spesa pubblica, che ha interessato soprattutto gli acquisti di
beni e servizi. Il taglio attuato consente di mettere da parte una dote (2,7 miliardi di
euro per il 2015, 4,7 miliardi per il 2016, 4,1 per il 2017 e 2 per il 2018) da utilizzare per
mettere a regime il bonus.
(17) Il potenziamento previsto del programma di smaltimento dei debiti commerciali, a differenza di
quanto accaduto lo scorso anno, è stato finora limitato ai soli debiti relativi a spese correnti, i cui effetti
si manifestano solo sul fabbisogno e sul debito e non anche sull’indebitamento netto.
(18) Contribuiscono alla copertura anche aumenti di imposte. In particolare, per rimanere alle misure
più significative, si aumenta l’aliquota della tassazione dei redditi di natura finanziaria dal 20 al 26 per
cento e quella dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote di partecipazione al capitale di
Banca d’Italia, dal 12 al 26 per cento.
45
N. 2
- 2 0 14
29
Per quest’anno quindi non è prevista alcuna correzione aggiuntiva del saldo di bilancio strutturale, se non quella definita dalla legislazione vigente. La correzione è invece prevista dal prossimo anno, in misura pari allo 0,2 per cento del Pil e allo 0,6 per
cento a decorrere dal 2016. In tal modo l’indebitamento netto strutturale verrebbe
riportato in equilibrio e l’indebitamento nominale migliorerebbe dal 2,6 per cento del
Pil di quest’anno fino ad un avanzo dello 0,3 per cento del 2017.
30
Inoltre, il governo ha lanciato un programma di privatizzazioni da cui intende ricavare risorse da portare a riduzione del debito per un ammontare annuo dello 0,7 per
cento del Pil dal 2014 al 2017 e conta di recuperare dal programma di revisione della spesa pubblica 4,5 miliardi di euro nel 2014, 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel
2016 da utilizzare per ridurre il cuneo fiscale.
31
Secondo le indicazioni contenute nel DEF, la revisione della spesa riguarderà i trasferimenti alle imprese, la dirigenza pubblica, l’adeguamento ai costi standard in sanità,
i costi della politica, gli stanziamenti per beni e servizi mediante una riorganizzazione
delle procedure e delle stazioni appaltanti. Parte di tali risparmi sono già inclusi nel
tendenziale di spesa: secondo il dettato della legge di stabilità 2014 e del Dl 4/2014
(0,5 miliardi nel 2014, che salgono a 4,4 nel 2015, 8,9 nel 2016 e 11,9 a decorrere dal
2017). Ad essi vanno aggiunti i tagli previsti a copertura della riduzione delle entrate
deliberate nel cosiddetto decreto “Irpef” (3,1 miliardi nel 2014, 2,9 mld nel 2015 e 2,7
miliardi nel 2016). Secondo il programma originario entro quest’estate il governo dovrebbe definire e implementare le misure necessarie con l’indicazione degli effetti
per il 2014 e per il triennio successivo. In assenza di tale piano i risparmi, almeno quelli
già programmati, verrebbero stabiliti mediante tagli lineari.
32
Nella legislazione vigente, la manovra di finanza pubblica conserva nel 2014 un segno restrittivo, anche se di entità più lieve rispetto al passato. Come si mostra nel grafico 18, la correzione aggiuntiva, in valore assoluto e in percentuale del Pil, dopo aver toccato nel 2012 il picco massimo è via via più contenuta fino ad annullarsi nel
2017. Per gli anni 2014-2015, la correzione aggiuntiva è pari, rispettivamente, a 10,4 e
a poco meno di 7 miliardi di euro (rispettivamente lo 0,7 e lo 0,4 per cento del Pil, secondo le nostre stime).
33
L’impatto incrementale per il 2014 risente delle decisioni “espansive” prese lo scorso anno (sostanzialmente gli effetti della legge di stabilità per il 2013 e del decreto legge
35/2013, limitati dalla correzione imposta nello scorso settembre dal decreto legge
46
RAPPORTO CER
120/2013 per mantenere entro la soglia del 3 per cento l’indebitamento netto), mentre
per il 2015 è ampliato dal disposto dell’ultima legge di stabilità. Per circa metà (5,5 miliardi di euro), la maggiore stretta sul 2014 è comunque ascrivibile alle misure varate
nel 2011, in seguito alle preoccupazioni suscitate dalla crisi dei debiti sovrani e sotto
la pressione dell’aumento dello spread rispetto ai corrispondenti titoli tedeschi.
Grafico 18. Correzione incrementale annua sui conti pubblici
20.000
18.000
16.000
14.000
12.000
10.000
8.000
6.000
4.000
2.000
0
-2.000
1,5
1,4
1,2
1,1
0,9
0,8
0,6
0,5
0,3
0,2
0,0
-0,2
2013
2014
maggiori entrate nette
2015
minori spese nette
2016
2017
in % del Pil (scala dx)
34
Per il 2014-2015 la stretta aggiuntiva si esercita sostanzialmente dal lato del contenimento delle spese: vanno a regime le misure di contenimento definite nel 2011-2012,
potenziate dalla maggiore disciplina di spesa deliberata nella recente legge di stabilità a partire dal 2015, solo in parte compensate dalla maggiore spesa prevista per il
2014 dalla stessa legge di stabilità e dalla rinuncia al previsto aumento dal 2014 dei
ticket sanitari (ricordiamo che secondo i principi della contabilità economica il gettito dei ticket viene contabilizzato dal lato delle spese con segno negativo). Rimane
sostanzialmente stazionaria, invece, la pressione esercitata dal lato delle entrate,
anche grazie alla decisione di contenere il previsto aumento dell’aliquota IVA, sostituendogli tagli di spesa pubblica (principalmente il decreto legge 95/2012, cosiddetto di spending review).
35
A partire dal 2016 il contributo incrementale derivante dalla riduzione della spesa
pubblica sostanzialmente si annulla. Ciò è dovuto anche alla costituzione del fondo
per la messa a regime del bonus Irpef, che aumenta dal 2015 al 2016 di 2 miliardi di
euro. Le maggiori entrate che costituiscono la stretta aggiuntiva prevista per il 2016 si
possono sostanzialmente ricondurre alla riduzione delle tax expenditures, il cui impatto stimato in via ufficiale passa nello stesso anno da 3 a 7 miliardi di euro (anche se
un contributo è dato anche dai decreti approvati nel corso del 2014). L’ulteriore incremento di 3 miliardi atteso da tale misura nel 2017 secondo le nostre stime è so-
47
N. 2
- 2 0 14
stanzialmente compensato dagli effetti negativi delle cosiddette imposte ad adesione volontaria che assicurano nell’immediato all’Erario un maggior prelievo (sotto
forma di imposta sostitutiva o di ampliamento di base imponibile) e che però riservano per il 2017 e per gli anni successivi vuoti significativi di gettito, a causa
dell’evidenziazione di maggiori costi deducibili o di abbattimento di plusvalenze (19).
UN CONFRONTO CON LE STIME UFFICIALI
36
Nella tavola 9 abbiamo messo a confronto le stime ufficiali, ricavate correggendo il
quadro tendenziale presentato nel DEF 2014 per gli effetti dei provvedimenti adottati
nei mesi scorsi, con le nostre previsioni, che saranno illustrate più nel dettaglio in seguito. Più precisamente, rispetto a quella di partenza, i saldi di bilancio nella versione
ufficiale ricostruita restano invariati. La differenza è costituita da una riduzione delle
entrate tributarie nel biennio 2014-2015 e da un aumento nel 2016, compensato da
una variazione opposta dal lato delle spese. Secondo tale ricostruzione le entrate
aumentano nel quadriennio ad un tasso medio annuo del 2,3 per cento, con una riduzione della loro incidenza sul Pil di 0,6 punti percentuali (dal 48,2 per cento registrato nel 2013 al 47,6 per cento del Pil nel 2017). La spesa complessiva aumenta
dell’1,3 per cento in media d’anno nel quadriennio con una riduzione in quota di Pil
di 2,7 punti percentuali nel 2017.
37
Nelle nostre previsioni, l’indebitamento netto è superiore a quello ufficiale per tutto il
periodo di previsione. Le differenze sono interamente riconducibili a una diversa stima sull’andamento del saldo primario che nelle nostra previsioni si mantiene al di sotto di quello del governo di 0,5 punti percentuali di Pil nel 2014, di 0,7 nel 2015 e di 0,9
punti nel biennio 2016-2017. Ampio è di contro il risparmio che il Cer valuta conseguibile nella spesa per interessi, poco meno di 4 miliardi quest’anno e oltre 6 miliardi
nel 2016, che attenua parzialmente l’impatto sul saldo di bilancio del minor avanzo
primario previsto. Se si guarda alle differenze in valore assoluto, quelle relative alla
dinamica delle entrate fiscali sono ben al di sopra di quelle relative alle spese primarie. Nel primo caso le differenze sono sostanzialmente riconducibili alle più basse stime di crescita dell’economia del Cer: in quota di Pil non c’è differenza tra la previsione ufficiale e la nostra per le entrate tributarie (ad eccezione del 2017), mentre tale differenza è relativamente più evidente per quelle contributive.
Nel caso della spesa primaria la differenza rimanda sostanzialmente ad una differente stima tendenziale per importanti tipologie di spesa.
(19) La riduzione delle tax expenditures e la manovra sulle imposte ad adesione volontaria rientra in
una strategia fiscale largamente utilizzata lo scorso anno che consente di recuperare gettito senza
apparentemente introdurre espliciti inasprimenti impositivi.
48
RAPPORTO CER
Tavola 9. Confronto tra le previsioni del governo e del CER
(miliardi di euro)
2013
Entrate totali
751,6
- % del Pil
48,2
- Entrate tributarie
- % del Pil
- Entrate contributive
468,4
30,0
215,0
- % del Pil
13,8
Spesa totale
798,9
- % del Pil
Spesa primaria
- % del Pil
Spesa per interessi
- % del Pil
Indebitamento netto
- % del Pil
Saldo primario
- % del Pil
51,2
716,9
Governo (a)
2014 2015 2016 2017
CER (b)
2014 2015 2016 2017
764,5 784,4 805,2 824,6
756,4 772,6 790,9 808,5
48,2
48,2
48,0
47,6
479,5 493,6 508,1 521,9
30,2
30,3
30,3
30,1
216,3 221,3 226,8 232,5
13,6
13,6
13,5
13,4
806,3 817,7 830,6 839,7
50,8
50,3
49,5
48,5
723,7 735,2 744,8 753,9
48,4
-0,2
0,1
0,1
0,2
473,2 486,1 501,1 515,7
6,3
7,5
7,0
6,2
30,3
0,0
0,0
0,0 -0,1
214,6 217,1 219,6 222,9
1,7
4,2
7,3
13,7
30,3
47,9
8,1 11,9 14,3 16,1
47,5
30,2
48,2
Differenze (a)-(b)
2014 2015 2016 2017
13,1
-0,1
0,1
0,2
0,3
3,0
4,3
6,5
5,0
50,7
13,3
9,6
803,3 813,4 824,0 834,8
51,4
13,5
30,3
49,0
-0,5 -0,4 -0,4 -0,5
724,3 736,1 745,5 754,0
49,9
-0,6 -0,8 -0,7 -0,1
46,0
45,6
45,2
44,4
43,6
46,3
45,9
45,1
44,3
82,0
82,7
82,4
85,8
85,8
79,1
77,4
78,5
80,7
3,6
5,1
7,2
5,1
5,3
5,2
5,1
5,1
5,0
5,1
4,8
4,8
4,7
0,2
0,2
0,4
0,2
-46,9 -40,8 -33,2 -26,3
-47,3
-41,9 -33,2 -25,4 -15,1
-0,7 -0,7 -0,7 -0,7
5,1
7,6
7,8 11,1
-3,0
-2,6
-2,0
-1,5
-0,9
-3,0
-2,5
-2,0
-1,5
0,4
0,5
0,5
34,7
40,8
49,2
60,4
70,7
32,1
36,5
45,3
54,5
8,7 12,7 15,0 16,2
2,2
2,6
3,0
3,6
4,1
2,1
2,3
2,7
3,2
0,5
0,7
0,9
0,7
0,9
Fonte: elaborazioni CER su dati DEF 2014 corretto per gli effetti del Dl 66/2014.
LA PREVISIONE NEL DETTAGLIO
38
Secondo le nostre stime, anche nel 2014 l’indebitamento netto rimarrebbe invariato in valore assoluto e in quota di Pil (come già nel 2013), giusto al di sotto della soglia limite che schiude la procedura di deficit eccessivo (tavola 10). Peggiora lievemente il saldo primario, che passa dal 2,2 al 2,1 per cento del Pil, mentre migliora
il saldo corrente (-0,5 per cento del Pil).
In linea con il consolidamento della ripresa, stimiamo un risultato di bilancio più favorevole nel triennio 2015-2017. In particolare, l’indebitamento netto si riduce nel
2015 al 2,6 per cento del Pil, per scendere al 2 per cento nel 2016 e all’1,6 per cento nel 2017. Migliorano anche il saldo primario e quello corrente, che a partire dal
2016 diventa positivo.
39
Il debito, secondo le nostre previsioni, aumenta nel 2014 la sua incidenza sul Pil di
circa 5 punti percentuali, segnando con il 137,3 per cento un nuovo massimo storico. La dinamica stimata sconta sia il maggior fabbisogno dello smaltimento dei
debiti verso i fornitori sia gli incassi del programma di privatizzazioni annunciato dal
governo. Su di essa comunque incide in misura significativa la sostanziale stazionarietà del Pil nominale.
49
N. 2
- 2 0 14
Tavola 10. Saldi di finanza pubblica
2013
2014
2015
2016
2017
MILIARDI DI EURO
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Indebitamento netto
Avanzo primario
Spesa per interessi
Saldo corrente
Debito (definizione Ue)
-47,3
34,7
82,0
-14,0
2.069
-46,9
32,1
79,1
-8,2
2.148
-40,8
-33,2
-26,3
36,5
45,3
54,5
77,4
78,5
80,7
-1,4
3,4
9,9
2.203 2.248,6 2.272,3
IN % DEL PIL
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Indebitamento netto
Avanzo primario
Spesa per interessi
Saldo corrente
Debito (definizione Ue)
-3,0
2,2
5,3
-0,9
132,6
-3,0
2,1
5,1
-0,5
137,3
-2,5
2,3
4,8
-0,1
137,3
-2,0
2,7
4,8
0,2
136,2
-1,5
3,2
4,7
0,6
133,4
A partire dal 2015 stimiamo una progressiva riduzione dell’incidenza del debito sul Pil,
in linea con il miglioramento dei conti pubblici, e in particolare dell’avanzo primario,
e, soprattutto, con una via via più vivace ripresa dell’economia, fino ad attestarsi nel
2017 al 133,4 cento del Pil.
40
Esaminando più da vicino la dinamica dei conti (tavola 11), nell’arco del quadriennio considerato stimiamo un aumento dell’1,8 per cento in media d’anno per le entrate totali, dell’1,1 per cento per le spese complessive e dell’1,3 per cento per la
spesa primaria. In quota di Pil, e in ragione della dinamica stimata del prodotto interno, secondo le nostre previsioni, le entrate complessive si riducono nel quadriennio di
0,7 punti percentuali, mentre le spese di circa 2,2 punti percentuali (1,7 punti percentuali, al netto degli interessi passivi).
41
Scendendo più nel dettaglio delle entrate, nell’anno in corso stimiamo un incremento della componente tributaria corrente dell’1,6 per cento. Alla riduzione dell’1,1 per
cento delle dirette, su cui incide la riduzione attesa dell’IRE, si contrappone un aumento del 4,3 per cento delle imposte indirette, trainate dall’IVA e dalle imposte sugli
immobili (IMU e TASI).
50
RAPPORTO CER
Per il triennio successivo, le entrate tributarie correnti aumentano, in linea con il miglioramento del quadro macroeconomico, ad un tasso più sostenuto, pari al 3 per cento
in media d’anno, sostenute dalla ripresa della dinamica positiva delle dirette.
Le entrate contributive, infine, si riducono dello 0,2 per cento nel 2014 e riprendono a
crescere dall’anno successivo ad un tasso medio nel triennio pari all’1,3 per cento.
La pressione fiscale continua a crescere nel 2014 (tavola 12), mentre si riduce nei tre
anni successivi, riflettendo sostanzialmente la dinamica stimata del prodotto interno. In
particolare, mentre la pressione tributaria cresce fino al 2015, quando raggiunge il 30,3
per cento del Pil, per poi rimanere stazionaria, quella contributiva diminuisce in tutto il
periodo fino a toccare nel 2017 il 13,1 per cento del Pil.
Con riferimento alla dinamica della spesa pubblica, stimiamo per i consumi collettivi, in
linea con le previsioni di spesa per redditi e consumi intermedi, una nuova riduzione
per quest’anno e aumenti a partire da quello successivo. A trainare la crescita della
spesa del 2015 sarebbero i consumi intermedi che sono previsti aumentare ad un tasso
via via più elevato senza però raggiungere gli importi del biennio 2011-2012. Tale andamento sconta un profilo temporale dei tagli programmati, principalmente attraverso la revisione del Patto di stabilità interno e il contenimento delle spese ministeriali e
sanitaria, che sono meno incisivi a partire dal 2015. Al contrario stimiamo che la spesa
per redditi si mantenga stazionaria, anche grazie agli effetti dei recenti provvedimenti
introdotti nell’ultima legge di stabilità, che dovrebbero contribuire a mantenere in linea con il recente passato un più efficace controllo della dinamica.
La spesa per interessi passivi, nelle nostre previsioni, si riduce nel biennio 2014-2015 ad
un tasso medio del 2,9 per cento per tornare a crescere a partire dal 2016, quando si
riporterebbe sul valore fatto registrare nel 2011. Su tale dinamica incide la riduzione dei
tassi a breve e a medio-lungo termine e dello spread con i corrispondenti titoli tedeschi. Anche grazie all’allungamento delle scadenze dei titoli del debito pubblico, il costo medio del debito pubblico si riduce fino al 2016 per poi tornare ad aumentare. Alla
ripresa della spesa per interessi contribuisce la dinamica del debito che pur declinante
in quota di Pil cresce in valore assoluto in tutto il periodo.
42
Per le prestazioni sociali (tavola 13) stimiamo quest’anno una crescita del 2,4 per
cento, che si riduce al 2,2 per cento nel biennio successivo, per poi risalire al 2,5 per
cento nel 2017. La previsione sconta il contenimento della spesa pensionistica, grazie
alla conferma del blocco delle indicizzazioni e al rallentamento della dinamica inflazionistica, e di quella a sostegno della disoccupazione (vedi riquadro “La legge di
stabilità per il 2014 e la perequazione delle pensioni”). In particolare, quest’ultima
componente è suscettibile più delle altre di eventuali aggiornamenti, non solo per gli
effetti della dinamica congiunturale, ma anche per quelli derivanti dall’annunciata
riforma organica del mercato del lavoro (Jobs Act): una stima più precisa di tali effetti richiede la conclusione del complesso iter normativo avviato e, più precisamente, l’approvazione, dopo quella del DL 74/2014, che semplifica e ottimizza il funzio-
51
N. 2
- 2 0 14
Conto consolidato
delle amministrazioni pubbliche
2013
A. ENTRATE CORRENTI
Imposte dirette
Imposte indirette
Contributi sociali
Altre entrate
B. ENTRATE IN CONTO
CAPITALE
C. TOTALE ENTRATE (A+B)
D. SPESE CORRENTI
Consumi collettivi
di cui:
- redditi
- consumi intermedi
Interessi passivi
Prestazioni sociali
Altre uscite correnti
E. SPESE CORRENTI AL
NETTO DEGLI INTERESSI
F. SPESE IN CONTO
CAPITALE
Investimenti lordi
Altre spese
G. TOTALE SPESE (D+F)
H. SALDO
CORRENTE (A-D)
I. INDEBITAMENTO
NETTO (C-G)
52
MILIONI DI EURO
2014
2015
2016
2017
742.406
749.282
765.711
782.956
802.097
238.452
235.940
245.730
254.270
262.400
225.847
235.569
239.227
245.629
252.586
214.977
214.570
217.050
219.550
222.924
63.130
63.203
63.703
63.507
64.187
9.213
7.101
6.876
7.910
6.406
751.619
756.383
772.587
790.866
808.503
756.428
757.472
767.131
779.530
792.238
310.675
309.184
310.304
312.329
314.530
164.062
163.268
163.318
163.489
163.466
130.065
129.200
130.101
131.783
133.876
82.041
79.059
77.353
78.523
80.724
319.525
327.191
334.276
341.500
350.093
44.187
42.038
45.197
47.177
46.891
674.387
678.413
689.778
701.007
711.514
42.536
45.840
46.281
44.520
42.527
27.166
26.025
25.240
25.135
25.444
15.370
19.815
21.041
19.385
17.083
798.964
803.312
813.412
824.050
834.765
-14.022
-8.190
-1.420
3.426
9.859
-47.345
-46.929
-40.825
-33.183
-26.262
RAPPORTO CER
Tavola 11
VARIAZIONI PERCENTUALI (*)
2013 2014 2015 2016 2017
A. ENTRATE CORRENTI
Imposte dirette
Imposte indirette
Contributi sociali
Altre entrate
B. ENTRATE IN CONTO
CAPITALE
C. TOTALE ENTRATE (A+B)
D. SPESE CORRENTI
Consumi collettivi
di cui:
- redditi
- consumi intermedi
Interessi passivi
Prestazioni sociali
Altre uscite correnti
E. SPESE CORRENTI AL
NETTO DEGLI INTERESSI
F. SPESE IN CONTO
CAPITALE
Investimenti lordi
Altre spese
G. TOTALE SPESE (D+F)
H. SALDO
CORRENTE (A-D)
I. INDEBITAMENTO
NETTO (C-G)
IN % DEL PIL
2013 2014 2015 2016 2017
-0,7
0,9
2,2
2,3
2,4
47,6
47,9
47,7
47,4
47,1
0,6
-1,1
4,1
3,5
3,2
15,3
15,1
15,3
15,4
15,4
-3,6
4,3
1,6
2,7
2,8
14,5
15,1
14,9
14,9
14,8
-0,5
-0,2
1,2
1,2
1,5
13,8
13,7
13,5
13,3
13,1
4,9
0,1
0,8
-0,3
1,1
4,0
4,0
4,0
3,8
3,8
57,3 -22,9
-3,2
15,0 -19,0
0,6
0,5
0,4
0,5
0,4
-0,3
0,6
2,1
2,4
2,2
48,2
48,4
48,2
47,9
47,5
0,6
0,1
1,3
1,6
1,6
48,5
48,4
47,8
47,2
46,5
-0,8
-0,5
0,4
0,7
0,7
19,9
19,8
19,3
18,9
18,5
-0,7
-0,5
0,0
0,1
0,0
10,5
10,4
10,2
9,9
9,6
-1,4
-0,7
0,7
1,3
1,6
8,3
8,3
8,1
8,0
7,9
-5,1
-3,6
-2,2
1,5
2,8
5,3
5,1
4,8
4,8
4,7
2,7
2,4
2,2
2,2
2,5
20,5
20,9
20,8
20,7
20,6
7,2
-4,9
7,5
4,4
-0,6
2,8
2,7
2,8
2,9
2,8
1,3
0,6
1,7
1,6
1,5
43,2
43,4
43,0
42,4
41,8
-12,8
7,8
1,0
-3,8
-4,5
2,7
2,9
2,9
2,7
2,5
-9,2
-4,2
-3,0
-0,4
1,2
1,7
1,7
1,6
1,5
1,5
-18,5
28,9
6,2
-7,9 -11,9
1,0
1,3
1,3
1,2
1,0
-0,2
0,5
1,3
1,3
1,3
51,2
51,4
50,7
49,9
49,0
217,1 -41,6 -82,7 -341,4 187,7
-0,9
-0,5
-0,1
0,2
0,6
-3,0
-3,0
-2,5
-2,0
-1,5
0,0
-0,9 -13,0 -18,7 -20,9
(*) Per il saldo corrente e l'indebitamento netto variazioni del rapporto con il Pil.
53
N. 2
- 2 0 14
Tavola 12. La pressione fiscale
(in % del Pil)
Pressione tributaria
Pressione contributiva (a)
Pressione fiscale (a)
2013
2014
2015
2016
2017
30,0
13,8
43,8
30,2
13,7
44,0
30,3
13,5
43,8
30,3
13,3
43,6
30,3
13,1
43,4
(a) Al lordo dei contributi figurativi.
Tavola 13. Prestazioni sociali
2013
Pensioni
Prestazioni per la disoccupazione (a)
Prestazioni per la famiglia (b)
Totale prestazioni sociali
Pensioni
Prestazioni per la disoccupazione (a)
Prestazioni per la famiglia (b)
Totale prestazioni sociali
Pensioni
Prestazioni per la disoccupazione (a)
Prestazioni per la famiglia (b)
Totale prestazioni sociali
273.659
12.967
6.580
319.525
2014
2015
2016
2017
MILIONI DI EURO
279.712 285.538 291.583
14.220
14.931
14.338
6.762
6.938
7.125
327.191 334.276 341.500
299.370
13.854
7.268
350.095
2,2
13,7
1,1
2,7
VARIAZIONI %
2,2
2,1
9,7
5,0
2,8
2,6
2,4
2,2
2,1
-4,0
2,7
2,2
2,7
-3,4
2,0
2,5
17,5
0,8
0,4
20,5
IN % DEL PIL
17,9
17,8
0,9
0,9
0,4
0,4
20,9
20,8
17,7
0,9
0,4
20,7
17,6
0,8
0,4
20,5
(a) Comprende cassa integrazione e indennità di disoccupazione (dal 2013 Aspi e Miniaspi) .
(b) Comprende assegni familiari, prestazioni erogate dai comuni e assegno al secondo figlio.
namento del mercato del lavoro, di uno specifico disegno di legge delega, il cui esame
parlamentare è previsto per settembre, in materia di ammortizzatori sociali e servizi per
l’impiego.
Infine, secondo le nostre previsioni, la spesa in conto capitale aumenta di circa l’8 per
cento nel 2014, per poi ridursi nel biennio 2016-2017 a un tasso medio annuo del 4,1 per
cento. A trainare la ripresa sono i contributi agli investimenti in cui si contabilizzano la
gran parte degli interventi previsti dall’ultima legge di stabilità. Gli investimenti fissi lordi si
riducono nel triennio 2014-2016 a tassi via via più contenuti e ritornano ad aumentare
nel 2017.
54
RAPPORTO CER
GLI OBIETTIVI EUROPEI
43
Nella governance di bilancio europea il concetto fondamentale è l’Obiettivo di
medio termine (Medium Term Objective - MTO), ovvero il saldo di conto economico della PA al netto degli effetti del ciclo e delle misure una tantum e temporanee.
Per l’Italia, come è noto, tale obiettivo è pari a zero, ossia il pareggio di bilancio
strutturale.
Per il 2013, al netto degli effetti del ciclo e delle misure temporanee, l’indebitamento
netto strutturale è stato del -0,8 per cento del Pil, che si ottiene correggendo
l’indebitamento netto nominale (-3 per cento) per gli effetti del ciclo (-2,5 per cento)
e delle misure one-off che, nel 2013, hanno peggiorato i conti per lo 0,2 per cento
del Pil (tavola 14).
Tavola 14. La finanza pubblica corretta per il ciclo
(in % del Pil)
Prodotto interno lordo
Indebitamento netto
Spesa per interessi
Tasso di crescita Pil potenziale
Output gap
Componente ciclica del saldo di bilancio
Saldo di bilancio corretto per il ciclo
Avanzo primario corretto per il ciclo
Misure una tantum
Saldo di bilancio al netto delle una tantum
Saldo di bilancio corretto per il ciclo
al netto delle una tantum (strutturale)
Avanzo primario corretto per il ciclo
al netto delle una tantum (strutturale)
Variazione saldo di bilancio
al netto delle una tantum
Variazione saldo di bilancio corretto
per il ciclo al netto delle una tantum
2013
2014
2015
2016
2017
-1,9
-3,0
5,3
0,0
-4,6
-2,5
-0,5
4,7
0,2
-3,3
0,1
-3,0
5,1
0,1
-4,5
-2,5
-0,5
4,5
0,2
-3,2
1,3
-2,5
4,8
0,4
-3,6
-2,0
-0,5
4,3
-0,1
-2,4
1,5
-2,0
4,8
0,4
-2,6
-1,5
-0,6
4,2
0,0
-2,0
1,4
-1,5
4,7
0,5
-1,9
-1,0
-0,5
4,2
0,0
-1,6
-0,8
-0,7
-0,4
-0,5
-0,5
4,5
4,4
4,4
4,2
4,2
-0,2
0,1
0,8
0,4
0,5
0,8
0,1
0,3
-0,1
0,0
L’indebitamento netto strutturale si riduce, nelle nostre stime, al -0,7 per cento del Pil
nel 2014 e allo 0,4 per cento nel 2015, per poi tornare a crescere nel biennio finale
considerato. Al miglioramento stimato per l’indebitamento netto nominale, si sommano gli effetti ciclici via via meno rilevanti e quelli delle misure temporanee che
continuano a peggiorare i conti nel 2014, mentre danno un contributo alla riduzione
del saldo strutturale nel 2015.
55
N. 2
- 2 0 14
L’avanzo primario strutturale, infine, si riduce in tutto il periodo di previsione. Nel biennio 2014-2015 è pari al 4,4 per cento del Pil, 0,1 punti percentuali in meno rispetto a
quello registrato nel 2013, e al 4,2 per cento del Pil nel 2016-2017.
Infine, la dinamica del debito in percentuale del Pil risultante dalle nostre previsioni
(aumento nel 2014 e riduzione nel triennio successivo) non rispetta le regole stabilite
per il rientro da livelli eccessivi. In particolare, nel 2015 il debito in percentuale al Pil,
anche se corretto per gli effetti del ciclo, non si riduce di 1/20 all'anno rispetto alla
media dei tre precedenti esercizi, come richiesto dalla disciplina europea. In modo
analogo anche nel 2017, la quota del debito sul Pil è più elevata di quella richiesta.
44
La nostra previsione segnala come, a differenza di quanto assunto nei documenti
programmatici e di quanto richiesto dal MTO, l’indebitamento strutturale non si annullerebbe; al contrario, tornerebbe ad aumentare nel 2016. Ciò significa che nella
stima CER la riduzione dell’indebitamento nominale nel 2016-2017 sarebbe determinata dal miglioramento del ciclo - dunque da un aspetto non computabile nel saldo
strutturale - piuttosto che da misure correttive di natura discrezionale. L’apparente
paradosso è che la diminuzione del deficit comporterebbe, nell’ultimo biennio della
previsione, un andamento addirittura deviante, non solo insufficiente, rispetto al
MTO. In realtà, è questo un effetto tipico di un modello di governance centrato sulla
grandezza di saldo strutturale. Partendo infatti dall’identità
1)
dove il saldo strutturale Is, è definito come differenza fra l’indebitamento nominale
In e la sua componente ciclica Ic, a sua volta misurata come prodotto fra l’output
gap e un coefficiente di elasticità del bilancio pubblico al ciclo economico:
2)
Le regole europee impongono che sia
3)
Is=0
Questo implica che, nelle fasi di espansione, con OG positivo o in riduzione,
l’indebitamento nominale debba costantemente migliorare in quota di Pil. Per
l’Italia, secondo la misura di elasticità del bilancio pubblico al ciclo economico utilizzata dalla Commissione, la dimensione del miglioramento deve essere pari a 0,55
punti per ogni punto di riduzione dell’output gap.
45
Una rappresentazione ipotetica dei valori di indebitamento nominale ammessi sotto la nuova regola europea è riportata nel grafico 19, dove è stato considerato
l’intervallo di output gap effettivamente misurato dalla Commissione per l’Italia nel
periodo 1965-2013 (compreso fra un minimo di -4,5 per cento toccato nel 1965 e
nel 2013 e un massimo di 3,3 per cento raggiunto nel 1989). A regime, e considerando questo intervallo di oscillazione come rappresentativo anche del ciclo economico futuro, l’indebitamento italiano potrebbe risultare compreso fra un disa-
56
RAPPORTO CER
vanzo massimo del 2,5 per cento del Pil e un surplus di quasi il 2 per cento (20). Con
riferimento ai valori di surplus, si può osservare come il valore di massimo riportato nel
grafico (1,9 per cento) sia molto vicino al dato del 1925, quando l’indebitamento italiano registrò un avanzo dell’1,7 per cento, il più elevato della serie storica dall’Unità
a oggi. Va altresì osservato che, in oltre 150 anni, il bilancio pubblico italiano è stato
in surplus solo 16 volte, l’ultima delle quali proprio nel 1925. Si noti anche che il percorso tracciato nella prima parte della curva è sostanzialmente quello adottato dal
DEF 2014, che prevede, entro il 2018, il passaggio da un disavanzo nominale del 3
per cento del Pil a un avanzo dello 0,3 per cento del Pil.
L’adozione di una regola di pareggio del saldo strutturale rappresenta dunque, per
la politica di bilancio italiana, una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta, viene
esercitato un vincolo stringente nelle fasi espansive del ciclo, imponendo la realizzazione di avanzi di bilancio nominale che potrebbero avvicinare il 2 per cento del Pil.
46
I miglioramenti richiesti alla finanza pubblica in fasi espansive possono esser misurati
anche attraverso apposite simulazioni, con cui cogliere gli effetti di una maggiore
crescita sul saldo strutturale.
Sono stati effettuati, a tal fine, due esercizi con il modello econometrico del CER,
adattato per incorporare la metodologia di calcolo dell’output gap utilizzata dalla
Commissione. Gli shock considerati sono i seguenti:
• shock 1: rimodulazione del bilancio pubblico secondo le indicazioni contenute
nel programma #lasvoltabuona;
• shock 2: riforma del mercato del lavoro e dei prodotti.
Grafico 19. Massimi valori di indebitamento ammessi
in presenza di diversi livelli di output gap
Indebitamento nominale ammesso
3,0
2,0
1,0
0,0
-1,0
-2,0
-3,0
-4,5 -4,0 -3,5 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5 -1,0 -0,5 0,0
0,5
1,0
1,5
2,0
2,5
3,0
3,5
Output gap
Fonte: elaborazioni su dati Commissione europea
(20) Si noti che il percorso della prima metà della curva, che conduce a un avanzo nominale in
presenza di una chiusura attesa dell’output gap, è quello già delineato nel DEF 2014 (0.3% nel
2018).
57
N. 2
- 2 0 14
Il primo shock simula gli effetti di un ampio spettro di misure di espansione del bilancio pubblico (bonus 80 euro, riduzione IRAP, investimenti in edilizia scolastica, ulteriori
pagamenti debiti PA), coperti attraverso tagli di spesa, introiti associati a rientro capitali, maggiore Iva generata dal pagamento debiti PA, aumento tassazione sulle rendite finanziarie e incremento di altre entrate in conto capitale. Nello svolgimento
dell’esercizio si è supposto che i tagli di spesa colpiscano effettivamente fenomeni di
spreco e che, di conseguenza, essi possano favorire un aumento di efficienza della
pubblica amministrazione. Assimilando questo aumento di efficienza a un incremento della produttività, l’esercizio incorpora una riduzione della dinamica del deflatore
dei consumi pubblici rispetto allo scenario di base. Per tutto il periodo considerato, è
stato inoltre imposto il vincolo dell’invarianza del saldo nominale, per cui le misure di
tipo espansivo hanno sempre, nell’esercizio, una piena copertura. É stata così simulata una manovra di ricomposizione del bilancio pubblico che genera i suoi effetti espansivi non attraverso la variazione del saldo, ma per l’operare di valori diversi dei
moltiplicatori fiscali.
Il secondo shock misura gli effetti di un programma di riforme volto a rendere più efficiente il funzionamento del mercato del lavoro e dei prodotti. Gli effetti sulla domanda di questo programma sono stati ricavati dal DEF 2014 (tavola III.8 del Programma di stabilità). Ad esso si è aggiunto un impulso diretto sulla produttività totale
dei fattori (TFP), pari all’1 per cento nel primo anno di simulazione e allo 0,2 per cento
nei successivi periodi. La considerazione di un aumento di TFP è giustificata dalla natura stessa di un programma di efficientamento dei mercati, che ha fra i suoi obiettivi
proprio quello di accrescere la produttività del sistema.
I risultati degli esercizi in termini di crescita, output gap, indebitamento nominale e
saldo strutturale sono confrontati con il profilo programmatico assunto nel DEF 2014.
47
Entrambe le simulazioni conducono a una maggiore crescita, anche se con tempi
e intensità diverse. É interessante osservare come una manovra di ricomposizione
del bilancio pubblico avrebbe effetti del tutto analoghi a quelli associabili a un
programma di riforma dei mercati. In entrambi i casi, a fine periodo il livello del Pil
effettivo risulterebbe superiore di un punto e mezzo rispetto al baseline. Il primo
shock ha inoltre effetti più rapidi, mentre gli impulsi dello shock 2 tendono ad aumentare nella seconda parte del periodo di simulazione.
A questi andamenti simili in termini di crescita, corrispondono però differenze significative in termini di output gap (grafici 20 e 21). Il vuoto di prodotto si riduce nel caso
dello shock 1, dal momento che un’accelerazione della crescita che passi attraverso le componenti di domanda trasmette impulsi ritardati sul Pil potenziale. In altre parole, l’accelerazione della crescita effettiva anticipa quella della crescita potenziale e per questo l’output gap si riduce.
L’output gap aumenta, invece, nello shock 2, che agisce direttamente sul Pil potenziale. Equivalenti in termini di impulsi trasmessi alla crescita effettiva, gli shock 1 e
2 si differenziano, quindi, per avere effetti opposti sul livello di output gap.
58
RAPPORTO CER
Grafico 20. Variazioni cumulate del Pil sotto diversi shock
108
107
106
105
104
103
102
101
100
t
t+1
t+2
Baseline
t+3
Shock 1
t+4
t+5
Shock 2
Fonte: modello econometrico CER.
Grafico 21. Livelli dell’output gap sotto diversi shock
2,0
1,0
0,0
-1,0
-2,0
-3,0
-4,0
-5,0
t
t+1
t+2
Baseline
t+3
Shock 1
t+4
t+5
Shock 2
Fonte: modello econometrico CER.
48
Ne conseguono diversi effetti sul saldo strutturale (grafico 22), che peggiora nel primo esercizio e migliora invece nel secondo. Particolarmente rilevante è
l’allontanamento dall’obiettivo del pareggio nel caso del primo shock. Trova così
una misurazione compiuta il fatto, già evidenziato, che all’interno del nuovo modello di governance europea il miglioramento delle condizioni di crescita non allevia il vincolo di finanza pubblica, imposto attraverso il pareggio del saldo strutturale. Rispetto a uno scenario di base, è necessario che a una crescita più robusta
corrispondano miglioramenti più robusti del saldo nominale.
Il saldo strutturale migliora invece, sensibilmente, nel caso del secondo shock, passando in attivo già al tempo t+2. In questo caso, si aprirebbe quindi lo spazio per
una manovra espansiva del bilancio, volta ad avvicinare, ma in questo caso
dall’alto, l’obiettivo del pareggio. Ciò significa che, all’interno dello schema europeo, una discrezionalità sul livello dell’indebitamento nominale può essere recuperata solo dopo essere riusciti a stimolare un aumento del prodotto potenziale. La
59
N. 2
- 2 0 14
Grafico 22. Valori del saldo strutturale sotto diversi shock
0,6
0,4
0,2
0,0
-0,2
-0,4
-0,6
-0,8
-1,0
t
t+1
t+2
Baseline
t+3
Shock 1
t+4
t+5
Shock 2
Fonte: modello econometrico CER
difficoltà, in questo caso, risiede nel fatto che, all’interno della metodologia europea, gli effetti delle riforme strutturali sulla Tfp non possono essere anticipati, ma
considerati solo dopo che si manifestano effettivamente sotto forma di
un’accelerazione del Pil effettivo. Si ricadrebbe quindi nella situazione dello shock
1. Un paradosso che può essere superato solo in presenza di accordi specifici, tesi
a riconoscere margini di flessibilità nell’applicazione delle regole, a fronte
dell’attuazione di programmi di riforma.
All’interno di questo schema, resta comunque aperta la questione della compatibilità fra l’accresciuta severità delle regole e l’esigenza di recuperare più rapidamente le perdite di reddito e prodotto subite nel 2008-2013. A tal riguardo, occorre
porre la massima cura sulla valutazione delle metodologie adottate per il calcolo
degli obiettivi di saldo strutturale, dalle quali dipende, per intero, la stance della
politica di bilancio. Non poche perplessità suscita, a tal riguardo, l’utilizzo che,
all’interno dello schema proposto dalla Commissione europea, vien fatto del concetto di NAIRU. Dedichiamo a questo argomento l’ultimo capitolo del Rapporto.
60
RAPPORTO CER
RIQUADRO. LA LEGGE DI STABILITÀ PER IL 2014 E LA PEREQUAZIONE DELLE PENSIONI
La modulazione del meccanismo di indicizzazione dei trattamenti pensionistici, che fino al 2013
operava per scaglioni di importo, dal 2014 agisce con riferimento all’importo complessivo dei
trattamenti. Ciò significa che mentre finora la fascia fino a 3 volte il minimo INPS, pari a 1.503 euro lorde mensili nel 2014, di qualsiasi ammontare complessivo di pensione era comunque indicizzata al 100% e la riduzione della protezione riguardava soltanto le fasce di pensione superiore a
tre volte il minimo, con il nuovo sistema tutte le pensioni di importo superiore a 1.503 euro mensili
verranno indicizzate parzialmente per tutto il loro importo.
Tavola. Indicizzazione prevista dalla legge di stabilità per il 2014
% DI INDICIZZAZIONE
IMPORTO COMPLESSIVO
2014
2015
Fino a 3 volte minimo INPS
100%
Da 3 a 4 volte minimo INPS
95%
Da 4 a 5 volte minimo INPS
75%
Da 5 a 6 volte minimo INPS
50%
2016
6 volte minimo INPS
40%
45%
Fascia oltre 6 volte minimo INPS
0%
45%
Gli effetti del nuovo meccanismo di indicizzazione sono simulati nel grafico seguente, dal
quale emerge la rapida perdita di potere di acquisto a cui andranno in contro i trattamenti
pensionistici di importo medio-alto. Abbiamo ipotizzato che fino al 2020 sia mantenuto il
meccanismo di indicizzazione in vigore per il biennio 2015-16, e che l’inflazione risalga al 2
per cento a partire dal 2017.
Grafico. Perequazione automatica per importi al lordo della tassazione
(numeri indici 1997=100, a parità di potere di acquisto)
102
100
98
96
94
92
90
88
2 volte minimo
6 volte minimo
4 volte minimo
10 volte minimo
2020
2019
2018
2017
2016
2015
2014
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
86
5 volte minimo
61
N. 2
- 2 0 14
Le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo, cioè circa due mila euro lorde nel 2014, nei prossimi anni continueranno a registrare una sostanziale stabilità del loro potere di acquisto. E questo
rimane vero sia se si prende come punto di riferimento il 1997, che il 2013. Per le pensioni superiori
a due mila euro lorde nel 2014 la prospettiva nei prossimi anni è per niente rosea. Già le pensioni
pari a 5 volte il trattamento minimo perderanno un altro 4 per cento del loro valore reale tra il
2014 e il 2020, cioè il doppio della perdita registrata tra il 1997 e il 2013. L’ulteriore a perdita tra il
2014 e il 2020 diventa del 6 per cento per quelle pari a 6 volte il trattamento minimo.
Va da sé che se l’attuale meccanismo di indicizzazione per importi complessivi dovesse essere
mantenuto negli anni a venire le perdite di potere di acquisto si cumulerebbero. Con una inflazione del due per cento annuo, le pensioni medio alte perderebbero circa il dieci per cento del
loro valore reale ogni decennio.
62
RAPPORTO CER
Il concetto di
disoccupazione strutturale
nella letteratura economica
49
Le recenti stime della disoccupazione strutturale nei paesi UE hanno suscitato polemiche e preoccupazioni, sia per i valori assoluti sia per la velocità con cui le cifre
tendono verso l’alto. Per il 2014, la Commissione Europea ha fissato i valori percentuali della disoccupazione strutturale al 20,0 in Spagna (era il 12,3 nel 2006), al 20,0 in
Grecia (9,4 nel 2006) e al 13,3 in Portogallo (8,7 nel 2006). Anche per l’Italia, le stime
dalla Commissione sono molto vicine al dato della disoccupazione rilevata, con un
parametro strutturale al 10,9 nell’anno in corso a fronte di un dato pre-crisi del 7,8 nel
2006. Meno drammatiche, ma sempre molto preoccupanti, le stime OCSE, che per il
2014 vedono la disoccupazione strutturale al 21,5 in Spagna, 16,8 in Grecia, 12,2 in
Portogallo, 9,9 in Italia (21).
50
Per disoccupazione strutturale si intende quell’unico livello della disoccupazione che
è compatibile con un tasso di inflazione invariato. In dettaglio, i numeri appena citati
si riferiscono più precisamente al tasso di inflazione salariale (NAWRU, nonaccelerating wage rate of unemployment) per quanto riguarda le cifre della Commissione Europea, e al tasso di inflazione vero e proprio per i dati OCSE (che sono
quindi stime del NAIRU, non-accelerating inflation rate of unemployment), ma entrambi i parametri sono proposti come misura della disoccupazione strutturale. Infine,
nel quadro della impostazione teorica comune alle due diverse stime, il tasso di disoccupazione strutturale è anche l’unico sostenibile nel lungo periodo. (Per semplicità, faremo di qui in avanti riferimento al solo NAIRU come sinonimo di disoccupazione strutturale.)
51
Secondo la lettura più semplice e più diffusa della teoria che sta alla base del concetto di disoccupazione strutturale, qualsiasi riduzione della disoccupazione indipendente da una corrispondente diminuzione del NAIRU (ad esempio a seguito di
politiche espansive volte a sostenere la domanda aggregata) è sempre un fenomeno reversibile, tale cioè da mettere in moto un processo adattativo che riporta la di-
(21) Stime Commissione Europea, Spring 2014 e OCSE Economic Outlook 95, May 2014.
63
N. 2
- 2 0 14
soccupazione al livello iniziale, anche se in presenza di un tasso di inflazione più elevato. Inoltre, ulteriori tentativi di sostenere l’occupazione dal lato della domanda avrebbero il solo effetto di creare altra inflazione, mentre l’unico modo per far scendere la disoccupazione in modo stabile consisterebbe nell’attuazione di politiche
che tendano a correggere il dato strutturale. Queste politiche sono attuabili solo sul
lato dell’offerta, dove si dovrebbero rendere più competitivi tutti i mercati ed in particolare il mercato del lavoro, in modo da stimolare la produttività e tenere a freno i
salari.
52
Disoccupazione e inflazione sono sempre stati problemi fondamentali della macroeconomia e della politica economica. Tuttavia, il modo di pensare i due fenomeni e
la relazione che li lega si è evoluto molto negli ultimi decenni, né il progresso della ricerca sembra essersi arrestato. Fino ad un secolo fa, il problema della disoccupazione era stato a malapena codificato, non se ne conoscevano con precisione le cause e lo si riteneva comunque un fenomeno di breve periodo legato al ciclo economico. I primi studi sull’instabilità del potere d’acquisto della moneta sono invece più
remoti nel tempo, ma connessi a forme monetarie a base metallica ereditate
dall’antichità, la cui evoluzione verso i moderni strumenti monetari, del tutto slegati
dalla quantità e dal valore di una qualsiasi merce denaro, iniziava anch’essa verso
l’inizio del secolo scorso.
53
È solo a seguito dell’affermarsi della teoria keynesiana che inflazione e disoccupazione cominciano ad essere pensati entro un primo schema teorico complessivo, in
cui la diminuzione della disoccupazione e l’aumento del livello generale dei prezzi
sono le due possibili risposte del sistema economico a seguito di un aumento della
domanda aggregata. Secondo la semplice partizione keynesiana, gli effetti di un
aumento della domanda aggregata si ripartiranno sul tasso di disoccupazione e su
quello di inflazione in una proporzione che dipende dalla quantità di risorse inutilizzate presenti nel sistema – e quindi, in ultima analisi, dal livello iniziale del tasso di disoccupazione. Tanto più alta la disoccupazione, tanto maggiore sarà l’effetto di un
aumento della domanda aggregata in termini di creazione di nuovi posti di lavoro;
tanto più bassa la disoccupazione, tanto più un incremento della domanda aggregata andrà invece a ripercuotersi sui prezzi. In presenza di piena occupazione, il caso particolare della Teoria Generale pubblicata da Keynes nel 1936, un aumento
della domanda si tradurrà soltanto in un aumento dei prezzi.
54
Dopo Keynes, teoria e politica economica hanno continuato a svilupparsi in base a
questo schema. La conoscenza della relazione tra inflazione e disoccupazione andò
affinandosi, soprattutto sulla base di alcuni fondamentali studi empirici pubblicati
64
RAPPORTO CER
verso la fine degli anni ’50, ma rimase a lungo immutata la gerarchia degli obiettivi,
che vedeva nella disoccupazione il problema principale e nel risvegliarsi
dell’inflazione l’indicatore del limite delle politiche economiche volte alla piena occupazione. Successivamente, la relazione tra inflazione e disoccupazione è rimasta
centrale nella teoria e nelle politiche macroeconomiche, ma il modo di intenderla è
profondamente cambiato, fino al formarsi del punto di vista che esclude la possibilità di una politica della domanda volta alla riduzione della disoccupazione.
55
Data l’entità del cambiamento di prospettiva, gli sviluppi della teoria vengono spesso raccontati con toni drammatici. Si parla di rivoluzione e controrivoluzione, secondo una schematizzazione rigida, in cui si tende spesso a dividersi tra ‘fede monetarista’ o ‘ritorno a Keynes’, Nuova Macroeconomia Classica o ‘eresia’ keynesiana. Alcune osservazioni su come le stime del NAIRU sono state elaborate, interpretate e utilizzate fino ad oggi suggeriscono invece, a nostro avviso, l’utilizzo di schemi interpretativi meno rigidi e una certa prudenza nell’interpretazione dei dati attuali.
56
Il concetto di disoccupazione strutturale è stato introdotto nella letteratura economica da Milton Friedman e da Edmund Phelps alla fine degli anni ’60. Se Keynes aveva mostrato l’importanza delle aspettative nel funzionamento del mercato dei
capitali, i due economisti statunitensi insistevano sul fatto che lo stesso fattore doveva per forza avere una qualche incidenza anche su tutti gli altri mercati, e in particolare su quello del lavoro. Il modo in cui l’elemento delle aspettative venne inserito nei
nuovi modelli economici riflette una impostazione ideologica opposta a quella di
Keynes. Nelle nuove teorie, le aspettative incorporano la razionalità degli agenti economici anziché la loro incapacità ad adattarsi ad un mondo il cui futuro è radicalmente incerto, cosicché i mercati tornano ad essere istituzioni efficienti cui è conveniente affidarsi. D’altra parte, in un mondo in cui l’inflazione era diventata più prevedibile che in passato, era forse inevitabile che gli economisti incorporassero questo
elemento nei loro modelli.
57
Come abbiamo mostrato in un precedente rapporto (2/2013), mentre nei primi decenni della fase post-unitaria l’andamento dell’inflazione italiana è stato erratico,
con oscillazioni tra fasi di inflazione e di deflazione, nel secondo dopoguerra
l’inflazione diventa una situazione normale. Un andamento analogo si osserva in tutti
i paesi avanzati, né ci si deve stupire di tutto ciò. Mentre fino ai primi del ‘900 era ancora lecito pensare che il valore della moneta potesse dipendere dalla scoperta di
una miniera d’oro in Sud Africa o in California, nel mondo attuale il valore della moneta è regolato dai banchieri centrali il cui compito è proprio quello di ridurre
l’incertezza legata alle fluttuazioni dei prezzi. Nel rinnovato quadro storico, in cui an-
65
N. 2
- 2 0 14
che il ruolo della contrattazione collettiva è cresciuto in maniera rilevante, è normale
aspettarsi che i salari tenderanno ad anticipare i movimenti dei prezzi. Anche
l’ipotesi di una spirale prezzi-salari implicita nel concetto di disoccupazione strutturale
ha quindi una sua logica, mentre la scelta di concentrarsi sulla competitività e la flessibilità del mercato del lavoro rappresenta una scelta più marcatamente politica. Se
in passato si è talvolta cercato nella politica dei redditi, e quindi anche nella rappresentanza sindacale, lo strumento per contenere gli effetti inflattivi della crescita economica e di alti livelli occupazionali, la ricerca di una maggiore flessibilità e concorrenza sul mercato del lavoro, per sua stessa definizione, mira a limitare il potere delle
organizzazioni dei lavoratori.
58
Oltre al suo significato politico più evidente, la ricerca della competitività ne ha un
altro forse meno evidente ma più strettamente legato al concetto di NAIRU. Se interpretata in modo troppo schematico, la strategia della flessibilità e della concorrenza
può fornire alla politica un pretesto per fermarsi molto presto nella ricerca di livelli
occupazionali accettabili, inducendo a catalogare come ineliminabile una parte
del problema occupazionale anziché tentare di risolverlo. Se la piena occupazione
keynesiana segnava il limite oltre il quale il lavoro tornava ad essere a tutti gli effetti
una risorsa scarsa, ora ci si concentra sul fatto che esiste un livello minimo di disoccupazione, per lo più di natura frizionale, che corrisponde all’equilibrio del sistema e
che è pertanto ineliminabile, almeno nell’immediato.
59
Laddove i tassi di partecipazione al lavoro sono alti e la disoccupazione strutturale
bassa, stabile, e in gran parte generata da lavoratori in rapido transito tra
un’occupazione e l’altra, la politica economica può in effetti accontentarsi di prevenire, oppure di correggere rapidamente, le fluttuazioni cicliche attorno al NAIRU.
Altrove, si dovrà invece tentare di far crescere la produttività del lavoro più rapidamente dei salari nominali, facilitando l’incontro tra domanda ed offerta sul mercato
del lavoro, in modo da conciliare un’alta partecipazione alla forza lavoro con una
più bassa disoccupazione strutturale. Ma in ciascuno dei due casi, e soprattutto nel
secondo, si deve essere ragionevolmente certi di quale sia l’effettivo livello del dato
strutturale.
60
Ciò che lascia perplessi, nelle elaborazioni attuali, è l’idea che la disoccupazione
strutturale di un paese avanzato possa essere superiore al 20 per cento, magari raddoppiando nell’arco di un decennio, tanto più se si pensa che la disoccupazione
strutturale non può essere oggetto di misurazioni dirette ma solo di stime. Il concetto
introdotto da Friedman e Phelps nasce infatti come ipotesi teorica, abbastanza interessante da creare una nuova agenda di ricerca, ma non ancora sufficientemente
66
RAPPORTO CER
definita da poter essere immediatamente tradotta in termini quantitativi e in misure
definite di politica economica. Per verificare l’ipotesi, e poi per renderla utilizzabile ai
fini pratici, a partire dagli anni ’70 diverse stime del NAIRU sono state introdotte e testate empiricamente, stime che a loro volta hanno generato nuove ipotesi circa la
stabilità del livello della disoccupazione strutturale e le determinanti della sua evoluzione nel tempo.
61
Nel 1997, in un simposio sul NAIRU nel Journal of Economic Perspectives, alcuni dei
più influenti economisti provarono a tirare le prime somme di un’attività di ricerca
svolta su un arco di tempo ormai piuttosto lungo. Nel simposio, non mancano voci
più nettamente critiche nei confronti del NAIRU, come quella tipicamente keynesiana espressa da James Galbraith. D’altra parte, anche gli interventi di Joseph Stiglitz e
di Robert Gordon, entrambi nettamente a favore dell’utilizzo del NAIRU come strumento della politica economica, ponevano il problema di come interpretare e misurare l’evoluzione del parametro nel tempo. Inoltre, se la soluzione di quest’ultimo
problema sembrava alla portata degli economisti statunitensi, Olivier Blanchard e
Lawrence Katz sollevavano già allora forti dubbi sulla possibilità e l’opportunità di affidarsi al NAIRU nell’orientare la politica economica europea.
62
La differenza fondamentale tra il caso statunitense e quello europeo, anche in una
fase relativamente tranquilla (rispetto al post-2007) come l’ultimo quarto del secolo
scorso, è la relativa stabilità dei tassi di disoccupazione osservata e delle stime del
NAIRU negli Stati Uniti a confronto con la continua crescita della disoccupazione
osservata in Europa e con la difficoltà di correlare questa crescita alla sottostante
evoluzione del NAIRU. Per circa venticinque anni gli economisti americani si erano
confrontati su stime del NAIRU che differivano tra loro al più per un punto percentuale. Inoltre, anche le variazioni nel tempo del tasso strutturale USA erano stimate
entro un analogo ordine di grandezza attorno ad un livello piuttosto basso: quel 6
per cento che a lungo fu considerato come una sorta di tasso ‘naturale’ della disoccupazione negli USA. Al contrario, l’esperienza europea raccontata da Blanchard e Katz nel 1997 mostrava un tasso di disoccupazione osservata (nei paesi europei appartenenti all’OCSE) cresciuta da poco sopra il 3 per cento nel 1970 a
quasi il 12 per cento un quarto di secolo dopo, una convinzione diffusa che nello
stesso periodo anche il NAIRU europeo dovesse essere cresciuto e, soprattutto, nessuna spiegazione del tutto convincente circa il quanto ed il perché il NAIRU europeo fosse cresciuto negli anni.
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Nel clima di stabilità garantito dal contesto americano, l’esperienza sul NAIRU maturata da Stiglitz come capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, permetteva
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non solo di confermare l’ipotesi di Friedman e Phelps ma anche di specificarla meglio. Se il livello della disoccupazione si era in effetti dimostrato significativo nel prevedere l’andamento futuro dell’inflazione, l’esperienza cumulata dal governo americano aveva anche insegnato che gli scostamenti dal livello strutturale non erano
da considerarsi particolarmente pericolosi. ‘Cercare’ il livello strutturale, forzando la
disoccupazione verso il basso fino a risvegliare la dinamica dei prezzi, non comportava, secondo Stiglitz, il rischio di una esplosione dell’inflazione: le reazioni di
quest’ultimo parametro si erano dimostrate abbastanza lente e abbastanza deboli
da potere essere facilmente controllate. Inoltre, gli studi sull’evoluzione del NAIRU
lungo gli ultimi decenni avevano portato ad introdurre nuove ipotesi teoriche per cui
le fondamentali distinzioni tra conseguenze di breve e lungo periodo della politica
economica, politica della domanda e dell’offerta, risultavano meno nette che in
passato.
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Facendo suo un concetto introdotto in letteratura proprio da Phelps (il c.d. effetto
isteresi), Stiglitz notava come il trend di lungo periodo del NAIRU potesse dipendere –
oltre che da vari altri fattori, come il potere sindacale o l’andamento demografico –
anche dal ciclo economico. In particolare, fasi troppo prolungate di alta disoccupazione possono diminuire la produttività di coloro che rimangono inattivi e allo stesso
tempo aumentare il potere di mercato degli insiders, con effetti perversi
sull’andamento della produttività e dei salari che portano ad un incremento del livello del NAIRU nel tempo.
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L’idea, per niente eterodossa, per cui il NAIRU di lungo periodo non è indipendente
dall’andamento del ciclo economico e dagli effetti di breve periodo della politica
economica deve essere vista in relazione ad un altro elemento che caratterizza il
quadro teorico attuale. Solo nelle interpretazioni più estreme, tipiche della Nuova
Macroeconomia Classica, il concetto di NAIRU è associato all’idea per cui la politica
economica è del tutto inefficace tanto nel breve quanto nel lungo periodo. Secondo interpretazioni meno estreme, e ormai forse anche più diffuse, questo non succede. Da una parte, si tende ad assumere che gli shock (e le politiche) dal lato della
domanda abbiano sempre effetti reali, cioè in termini di variazioni del PIL e
dell’occupazione, almeno nel breve periodo. Dall’altra, si è portati sempre più ad
approfondire l’ipotesi per cui variazioni abbastanza prolungate della domanda aggregata abbiano a loro volta effetti duraturi sulla produttività e quindi sullo stesso livello del NAIRU.
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Nel simposio del 1997, quest’ultima precisazione era fatta propria da R. Gordon, che
ne introduceva anche un’altra. Il padre di uno dei modelli più importanti tra quelli
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RAPPORTO CER
che incorporano il concetto di disoccupazione strutturale (triangle model) metteva
in guardia dal cercare di misurare il NAIRU nei periodi in cui l’economia si discosta
fortemente dal trend di lungo periodo. Secondo Gordon, in fasi storiche paragonabili
alla Grande Depressione degli anni ’30, il NAIRU misurato dai modelli econometrici
elaborati in fasi di relativa stabilità potrebbe facilmente incorporare le componenti
cicliche e quindi ‘imitare’ (mimic) la disoccupazione ciclica, magari attestandosi su
livelli superiori al 20 per cento.
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A distanza di alcuni anni, l’imbarazzo di Blanchard e Katz rispetto al problema di misurare il NAIRU in un contesto non così stabile (e, occorrerebbe dire, non così omogeneo) come è l’economia europea rispetto a quella statunitense, così come le osservazioni di Stiglitz e Gordon, sembrano trovare ulteriore conferma. Se le attuali stime della disoccupazione strutturale nei paesi UE spesso divergono significativamente
tra di loro, le stesse stime sembrano in effetti inseguire il dato della disoccupazione
osservata anziché isolarne la componente di lungo periodo, mentre appelli per politiche a sostegno della domanda, oppure contrarie a una mera ricerca della flessibilità sul mercato del lavoro arrivano da istituzioni, come l’OCSE e la Banca d’Italia, che
certamente non mirano ad una nuova rivoluzione teorica ma che, più probabilmente, cercano di utilizzare l’analisi economica corrente in un modo più critico e meno
dogmatico.
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Il Governatore della Banca d’Italia ha recentemente citato studi del proprio istituto
che mostrano una correlazione negativa tra aumento della flessibilità dei contratti di
lavoro e aumento della produttività, suggerendo che i necessari investimenti in capitale umano sono possibili solo laddove l’orizzonte temporale entro cui il lavoratore è
legato alla stessa azienda è sufficientemente ampio. Inoltre, negli ultimi due anni, gli
Employment Outlook dell’OCSE hanno, da un lato, offerto stime della disoccupazione in Europa in cui un peso maggiore viene dato alla componente ciclica (output
gap) rispetto a quella strutturale (NAIRU), e, dall’altro, recepito l’ipotesi dell’effetto
isteresi. Intravedendo un nesso sempre più stretto tra il crollo della domanda aggregata e dell’occupazione osservata ed il sottostante aumento del NAIRU,
nell’Employment Outlook del 2013, l’OCSE arrivava persino a proporre misure a sostegno della domanda come antidoto alla recente crescita della disoccupazione
strutturale in Europa.
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In un altro nostro precedente rapporto (3/2011), facevamo riferimento alle opposte
posizioni espresse da Keynes e Pigou sulla disoccupazione inglese nel periodo tra le
due guerre. Nel 1930, nell’ambito di quello stesso dibattito, Edwin Cannan osservava
come fosse inutile cercare di salvare le vecchie industrie inglesi come il tessile o la si-
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derurgia nel tentativo di tamponare il problema della disoccupazione. Piuttosto, con
lo spontaneo adattamento dell’economia britannica, che vedeva il progressivo esaurirsi delle vecchie industrie manifatturiere esportatrici situate nelle Midlands ed un
sempre più sviluppato settore finanziario e terziario attorno all’area metropolitana di
Londra, le forze automatiche del mercato avrebbero progressivamente adattato le
condizioni dell’offerta fino a riassorbire tutta la forza lavoro in eccesso. Può darsi che
ad un economista come Cannan, con un’esperienza ultratrentennale come professore alla London School of Economics, non sfuggissero quelle che probabilmente erano già le tendenze di sviluppo di lunghissimo periodo dell’economia inglese.
D’altra parte, è difficile dare torto a Henry Clay, che rispondeva all’illustre economista facendo notare che sì, forse il problema si sarebbe risolto da sé, magari nel 2000,
o anche nel 1950, ma che i disoccupati del 1930 avevano qualche difficoltà ad assumere un orizzonte così ampio. È questo il concetto che Keynes espresse, non senza
una certa brutalità, nella famosa frase per cui “nel lungo periodo siamo tutti morti”.
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Allora come adesso, le questioni teoriche dibattute dagli economisti ne nascondono
altre, di natura più profondamente morale e politica, che riguardano tutti. La discussione sui dati sulla disoccupazione strutturale in Europa implica scelte analoghe a
quelle che si presentavano a uomini come Cannan e Clay, Pigou e Keynes, circa ottanta anni fa. Oggi come allora, si deve scegliere se orientare le scelte nel lungo periodo affidandosi ad uno schema teorico precostituito, o se non convenga invece
tenere viva la discussione sulla maggiore o minore corrispondenza tra quello schema, i dati che l’economia ci offre e le esigenze della società. A nostro avviso, le recenti stime della disoccupazione strutturale in Europa suggeriscono questa seconda
strada come quella allo stesso tempo più prudente e più efficace.
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