la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 NUMERO 504 Cult BERLINO, ALEXANDERUFER: CIÒ CHE RESTA DEL MURO La copertina. Quando il cibo è affare da voyeur Straparlando. Clara Gallini: “Noi moderni e i miracoli” La poesia. L’angoscia nascosta di Rilke Mikhail Gorbaciov e Hans-Dietrich Genscher raccontano a “Repubblica” il loro 9 novembre 1989 FIAMMETTA CUCURNIA ANDREA TARQUINI MOSCA V ENTICINQUE ANNI DOPO, dei gran- BERLINO «Q UELLASERA a Varsavia, di protagonisti che piegarono la Storia del Ventesimo secolo è rimasto lui. Non c’è più Reagan che un giorno gridò «Gorbaciov, abbatti quel Muro!». Non ci sono più la Thatcher né Mitterrand, che amavano talmente la Germania da preferire, dissero, «di averne due». E lo stesso Helmut Kohl, il cancelliere tedesco che appose la sua firma sotto la riunificazione, non parla più in pubblico da molto tempo. Così oggi spetta a Mikhail Gorbaciov ricordare quei giorni che archiviarono Seconda guerra mondiale e Guerra fredda, e giudicarne gli esiti. con Mazowiecki e gli altri nuovi governanti di Solidarnosc, eravamo al ricevimento ufficiale quando arrivò la notizia. Il banchetto si trasformò in un rapido buffet». A ottantasette anni Hans-Dietrich Genscher rievoca con piacere quei giorni in cui fu lui, ministro degli esteri della Repubblica federale, l’uomo chiave della svolta, il Cavour tedesco. “Se due aerei Vip della Luftwaffe s’incrociano in direzioni opposte sull’Atlantico, a bordo di entrambi c’è Genscher”, era la battuta che circolava tra i Grandi d’allora. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE I ragazzi delMuro L’attualità. Roberto Saviano, intervista al soldato che si trasformò in arma L’inedito. Nel centenario di Toti Scialoja una favola scritta e disegnata per bambini senza età Spettacoli. John Lurie a sorpresa: “Non ero andato da nessuna parte” Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 26 La copertina. 1989-2014 L’ultimo leader dell’Ursse l’allora ministro degli esteri tedesco raccontano il 9 novembre di 25 anni fa Il giorno che cambiò il secolo BERLINO EST ORE 9.00 BERLINO EST ORE 10.00 BERLINO EST ORE 13.30 IL 9 NOVEMBRE DEL 1989, COME DA GIORNI, CORTEI PER LA DEMOCRAZIA IN TUTTA LA DDR. VERTICE DELLA STASI: DARE O NO LA POSSIBILITÀ DI VIAGGIARE? SI RIUNISCE IL POLITBURO DELLA SED, IL PARTITO COMUNISTA AL POTERE NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA TEDESCA KRENZ, DELFINO DI HONECKER, NON VUOLE DARE SPAZI AGLI OPPOSITORI NEI MEDIA. IL PREMIER MODROW LO CRITICA: “INUTILE TEMPOREGGIARE” VARSAVIA ORE 20.30 WASHINGTON ORE 21.30 BERLINO EST ORE 22 BERLINO EST ORE 22.42 KOHL E GENSCHER LASCIANO LA POLONIA E DOPO UNO SCALO NELLA REPUBBLICA FEDERALE RAGGIUNGONO BERLINO OVEST CON UN JET DELLA RAF BUSH TIENE UNA CONFERENZA STAMPA E INVITA ALLA CALMA E AL DIALOGO. CONTATTI IMMEDIATI CON GORBACIOV SULLA LINEA ROSSA LA GENTE COMINCIA A RADUNARSI E A PREMERE LUNGO IL MURO SUI PUNTI DI PASSAGGIO. I SOLDATI DECIDONO DI NON INTERVENIRE I SOLDATI DELLA DDR APRONO DUE VARCHI (BORNHOLMER STR. E BERNAUER STR.). I TEDESCHI DELL’EST PASSANO ALL’OVEST ACCOLTI DALLA FOLLA IN FESTA <SEGUE DALLA COPERTINA FIAMMETTA CUCURNIA A OTTANTATRÉ ANNI, l’ultimo presidente dell’Urss è seduto su una poltrona di pelle nel suo ufficio, e le emozioni attraversano i suoi occhi ancora così vivi, mentre getta lo sguardo sul viale Leningradskij in questa assolata giornata già quasi invernale. «Fu molto difficile arrivare a quel risultato» racconta, «ma era una tappa obbligata del processo di pacificazione e di disarmo. Prima o poi il Muro di Berlino doveva cadere. Certo, senza la perestrojka e i cambiamenti che avvennero in Urss non sarebbe stato possibile. L’Europa sarebbe rimasta incastrata per molto tempo ancora. Invece, tutto accadde. Senza sangue. E il merito è di quella generazione di leader che scoprì l’ingrediente per risolvere i problemi, la fiducia. Quello che bisogna ritrovare». Mikhail Sergheevic, nel 2009 lei concesse al nostro giornale un’intervista da cui traspariva tutto l’orgoglio per essere stato l’artefice di una nuova pace mondiale, e una grande speranza per il futuro. «In quell’occasione raccontai per la prima volta cose che in passato mi erano sembrate premature. Il fatto è che la caduta del Muro fu un momento di arrivo, che ci colse tutti di sorpresa per la rapidità con cui avvenne. Quando morì Cernienko, nel 1985, i rapporti tra Est e Ovest erano al minimo storico. Da sei anni non c’erano incontri al vertice tra Usa e Urss. Il mondo era sull’orlo del baratro e correva ad armarsi sempre di più. Ma quella tremenda minaccia fu la spinta per cambiare. Credete sia stato facile? Per niente! Fu difficilissimo. La prima volta che incontrai Reagan, in Svizzera, sembrava impossibile. Poi ci furono altri incontri e fu chiaro che perfino lui, un falco, capiva che non potevamo permettere uno scontro nucleare. Dovevamo fermarci». Sul Muro, però, Reagan la sfidò fino all’ultimo giorno. «Era il suo modo di fare, era un attore e gli piacevano le frasi a effetto. Nessuno ci fece troppo caso. Il primo vero segnale fu durante la conferenza stampa che seguì la trattativa con Kohl nell’estate del 1989, quando qualcuno mi chiese che cosa pensavo del Muro. Risposi che su questa terra niente è eterno. Né io né Kohl potevamo immaginare che solo pochi mesi dopo la Germania si sarebbe riunificata». Lei come ricorda quel giorno? «Il Muro cominciò a cadere la sera del 9 novembre 1989. A Mosca era già tardi, e io ero andato a dormire». La svegliarono per darle la notizia? «No, nessuno mi svegliò, i dettagli mi vennero comunicati al mattino. Ricordo il senso di sorpresa, ma allo stesso tempo fu come se un muro crollasse anche dentro di me. Non ce lo aspettavamo, così presto; eppure lo sapevamo. Quando in Urss hanno cominciato a marciare i cambiamenti, si tennero le prime elezioni democratiche, e nei Paesi dell’Est scoppiarono le prime rivoluzioni, e quando anche il processo di disarmo tra Usa e Urss si consolidò, una triste realtà si mostrò netta ai nostri occhi: la Germania, e solo la Germania, restava sul ciglio della grande strada della Storia. Loro, i tedeschi, se ne sentivano offesi, amareggiati. E io li capivo. Così quel giorno fui felice per loro. Solidale. D’altra parte, in un certo senso la decisione era stata già presa». Secondo lei quale è la vera data di nascita della Germania unita? «Stiamo parlando del 1988. A Mosca ci arrivava notizia di tedeschi dell’Est che cercavano di andare nella Repubblica federale attraverso la frontiera ungherese. Poi lo stesso accadde in Polonia e in Cecoslovacchia, dove si poteva arrivare più agevolmente e dove ora i tedeschi dell’Est chiedevano di essere aiutati a passare a Ovest. Richieste sempre più massicce e incalzanti, che divennero un fiume in piena nell’estate del 1989. Ma erano cominciate molto prima che la stampa ne venisse a conoscenza, molto prima che Hans-Dietrich Genscher potesse annunciare a Praga l’apertura della frontiera. Io quell’anno andai in Germania ben due volte. A giugno ero a Bonn. Poi il 16 ottobre arrivai a Berlino per il Quarantesimo della Ddr. C’era anche la Fackelzug, la marcia delle fiaccole, a cui partecipavano i delegati di ventotto regioni. Mi trovai di fronte una massa di giovani e non solo, pieni di entusiasmo, che gridavano «Gorbaciov, resta qui! Gorby, libertà!». Il primo ministro polacco, Mazowiecki, venne da me e mi disse: “Mikhail Sergheevic, capisce il tedesco?”. “Forse per un trattato avrei difficoltà, ma quello che stanno gridando lo capisco”. E lui: “Allora capirà che questa è la fine”». Quale fu il problema più difficile da risolvere? «L’inadeguatezza di Honecker, allora a capo della Germania est, che non voleva capire. E, a parte gli Stati Uniti, anche l’atteggiamento dei leader europei. Dissi proprio a voi per la prima volta in un’intervista che la Francia di Mitterrand e l’Inghilterra della Thatcher non erano affatto d’accordo. Avrebbero preferito aspettare. Avrebbero preferito che l’Urss e il suo esercito bloccassero il corso degli eventi. I carri armati di Gorby. Il monito della guerra antinazista era ancora vivo. Ma il 26 gennaio del 1989, mentre a Berlino infuriavano le proteste, io avevo convocato una riunione allargata del Politbjurò. Tutti si dissero convinti che i tedeschi non si sarebbero arresi. Non ci furono obiezioni. Non avremmo mandato i soldati. Devo dire però che alla fine i leader europei si rivelarono estremamente responsabili». Che cosa è cambiato in questi cinque anni? «Abbiamo la guerra alle porte. Perfino ai confini dell’Europa, in Ucraina. Sempre più spesso, la politica cede il passo alle armi». I leader di oggi non hanno la saggezza di quelli di ieri? «Non voglio fare confronti. Dico che noi credemmo in un nuovo ordine mondiale, ma gli Usa hanno cambiato comportamento molto rapidamente. Hanno elaborato una nuova politica: la guida del mondo da Washington. Sono troppo abituati a essere i padroni. E dunque hanno voltato le spalle agli accordi e ai principi di allora». Lei ha creduto in Obama? «Sì, certo, ci avevo creduto. E penso che lui capisca come stanno le cose e forse avrebbe potuto cambiarle. Ma evidentemente la macchina del complesso militare industriale in America è troppo potente, e quel che Obama aveva annunciato è sfumato come un sogno nella nebbia del mattino. Siamo ancora in tempo. Ma lo dissi in quei giorni e lo ripeto: la Storia punisce chi arriva tardi. Suggerisco di aprire gli occhi». I tedeschi almeno hanno fatto tesoro degli insegnamenti del Muro? «Il popolo sì, certamente. E io stimo molto Angela Merkel. Ma la Germania oggi non è libera. I leader europei non sono liberi. E non a causa di Bruxelles, a causa degli Stati Uniti». Dunque quella casa comune europea in nome della quale si rinunciò al Muro oggi sembra un’occasione mancata? «Noi pensavamo a tutta l’Europa unita, Russia inclusa. Anche se in quel momento l’Unione europea non era pronta per un passo così. Poi via via, il concetto di Europa è stato riformulato, e non a Mosca: ora quando si parla d’Europa si intende solo l’Europa occidentale». Recentemente, parlando dei fatti ucraini lei ha detto che gli Stati Uniti sono un virus peggiore dell’Ebola. Sembra di sentire Putin. «Sapete bene quante volte ho criticato Putin sulle libertà democratiche. Ma non posso criticarlo per la questione ucraina. Il nodo della Crimea non poteva essere eluso a lungo. La Crimea è abitata in stragrande maggioranza dai russi, non russofoni come dite voi, ma proprio russi. E c’è una bella differenza. L’errore fu fatto al momento della dissoluzione dell’Urss: bisognava stabilire per filo e per segno la sorte della Crimea. Le cose sono andate diversamente e la Storia non si può rifare. Oggi bisogna ripartire dal referendum in Crimea, i cui risultati non lasciano dubbi, e chiunque abbia assistito a quel voto, inclusi gli osservatori internazionali, lo può confermare. Per quanto difficile, non resta che prendere atto della realtà e accogliere la Crimea nella comunità internazionale come parte della Russia». Pensa che le sanzioni non risolveranno il problema? «Come si fa a pensare di punire con sanzioni un Paese con cui poi si è costretti a negoziare, alla pari? Pensate davvero che demonizzare la Russia possa servire alla causa comune? La pace è di tutti e possiamo salvarla soltanto tutti insieme». © RIPRODUZIONE RISERVATA Gorbaciov Poteva andare meglio Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 27 E riflettono su come avrebbe dovuto essere, e su cosa è diventato, il mondo nato dopo il Muro VARSAVIA ORE 14.30 BERLINO EST ORE 18.57 VARSAVIA ORE 19.15 BONN ORE 20.00 PRIMO VERTICE DEL CANCELLIERE HELMUT KOHL E DI GENSCHER CON IL NUOVO GOVERNO DEMOCRATICO POLACCO GUENTER SCHABOWSKI, PORTAVOCE DELLA SED, ANNUNCIA CHE LE FRONTIERE SARANNO APERTE “DA SUBITO”. LA NOTIZIA FA IL GIRO DEL MONDO KOHL E GENSCHER VENGONO INFORMATI MENTRE È IN CORSO LA CENA UFFICIALE CON I MEMBRI DEL NUOVO GOVERNO POLACCO SESSIONE STRAORDINARIA DEL BUNDESTAG. I DEPUTATI SI ALZANO IN PIEDI E CANTANO L’INNO NAZIONALE. CONTATTI FRENETICI CON GENSCHER BERLINO EST ORE 24 BERLINO EST ORE 1.00 HELMSTEDT ORE 3.00 BERLINO ORE 3.30 AMBASCIATA SOVIETICA, UNTER DEN LINDEN. L’AMBASCIATORE, IGOR MAKSIMITSHEV, DECIDE DI NON INFORMARE GORBACIOV I MIGLIORI REPARTI TEDESCOORIENTALI SONO POSTI IN STATO DI MASSIMA ALLERTA, MA ARMI E MUNIZIONI SONO SOTTO CHIAVE IN MANO AI SOVIETICI LE GUARDIE DI CONFINE DELLA DDR COMINCIANO AD APRIRE VARCHI TRA LE DUE GERMANIE: HELMSTEDT È IL PRIMO GUARDIE DI CONFINE DELLA DDR E POLIZIOTTI DI BERLINO OVEST LAVORANO PER LA PRIMA VOLTA INSIEME APRENDO TUTTI I VARCHI LUNGO IL MURO <SEGUE DALLA COPERTINA ANDREA TARQUINI IGNOR GENSCHER, quali emozioni prova- S ste alla notizia del crollo del Muro? «Fu una sorpresa assoluta. Del resto lei dovrebbe ricordaselo, era lì a seguire gli eventi no? Mazowiecki propose un brindisi, ci fece gli auguri nel suo tedesco perfetto. Adesso consultatevi tra voi, disse con un sorriso. Ci consultammo di corsa. Il tempo stringeva, le emozioni dovevano far spazio alla razionalità politica. Decidemmo di interrompere la visita, e di volare subito a Berlino». E come faceste? La Ddr esisteva ancora, e il vostro Boeing della Luftwaffe, come ogni aereo federale, non poteva sorvolarla né atterrarci… «Mazowiecki ci offrì un aereo polacco, ma volle anche essere così cortese da ricordarci che si trattava di un vecchio Tupolev russo, non esattamente conforme agli standard di sicurezza del governo tedesco. Alla fine volammo col Boeing della Luftwaffe fino nella Repubblica federale, da lì un jet della Royal Air Force ci portò a Berlino: gli inglesi potevano sorvolare l’Est coi loro aerei, noi no. L’indomani l’emozione prevalse sulla stanchezza, quando Kohl, Willy Brandt, il borgomastro di Berlino Ovest, Momper, e io, parlammo alla grande folla dal balcone del municipio di Schoeneberg. Sa, quello stesso da cui Kennedy disse la famosa “Ich bin ein Berliner” poco dopo la costruzione del Muro. Beh, il giorno in cui toccò a noi parlare quel Muro era crollato». Davvero non si aspettava la fine della divisione della Germania e dell’Europa? «Pensai che eravamo al culmine di un lungo, difficile processo. Pensai ai trattati tra le due Germanie, alla conferenza di Helsinki, ma anche a quanto aveva aperto la strada alla situazione di quella sera: pensai alle rivolte popolari, nella Ddr nel 1953, nel 1956 in Ungheria, e sempre, in un dissenso di massa permanente, in Polonia, e ai coraggiosi di Charta 77 in Cecoslovacchia. La società civile dietro i Muri non si era arresa. E poi pensai a come il 1989 era cominciato: la svolta polacca, l’apertura della frontiera ungherese, il 30 settembre la fuga in massa di migliaia di esuli dalla Ddr nella nostra ambasciata a Praga. Eppure, allo stesso tempo, mi resi conto che non avrei mai immaginato che il Muro sarebbe caduto». Ebbe timore di un esito violento, come poi fu in Romania, o nel 1991 in Lituania? «Pochi giorni prima, a fine settembre, nel mezzo della crisi della nostra ambasciata a Praga affollata da migliaia di fuggiaschi, avevo incontrato i protagonisti all’assemblea generale dell’Onu: Shevardnadze, il ministro degli esteri della Ddr, Oskar Fischer, il collega americano, quello britannico e il francese. Avevo avuto l’impressione che Fischer guardasse alla realtà con realismo, e in generale ebbi sensazioni positive, favorevoli». L’impero sovietico che crolla, la Germania che torna unita. Non temette per la pace nel mondo? «No, questa paura non l’ebbi mai. Al contrario: in quelle ore, le emozioni e la ragione mi dicevano che stava finendo la Guerra fredda, che si avvicinava il sogno per cui rischiarono e pagarono in tanti, tanti miei coetanei e tanti giovani, spesso anche con la vita, a Berlino Est nel ‘53, a Budapest nel ‘56, a Praga nel ‘68, e sempre, più volte, in Polonia”. Quale fu il momento più bello per lei? «Uno dei momenti più felici lo avevo già alle spalle la sera in cui il Muro crollò. Poco prima, il 30 settembre, sempre di sera, mi ero affacciato dal balcone della nostra ambasciata a Praga e a quei quattromilacinquecento concittadini dell’Est ammassati nel giardino annunciai che sarebbero potuti partire per la Repubblica federale». E quello più difficile? «Sempre quel 30 settembre 1989 a Praga. Perché a quella folla esultante dovetti anche annunciare che, in base all’accordo, avrebbero dovuto raggiungere la Repubblica federale viaggiando in treno attraverso la Ddr, e dovetti rassicurarli tenendomi dentro l’inquietudine. Sentivo la loro angoscia: diffidavano del regime, glielo leggevi negli occhi. Solo dando loro la mia parola che non avrebbero rischiato nulla riuscii a rassicurarli. Quanto a me, contavo sul fatto che il governo della Ddr avrebbe mantenuto la promessa. Ma solo quando, poche ore dopo, in piena notte, fui informato che il primo di quei treni passando dalla Ddr era arrivato senza problemi alla stazioncina bavarese di Hof, sentii come se mi fossi tolto un macigno da sopra il cuore». E come furono per lei i negoziati, dopo quella sera? «Una corsa contro il tempo, dovemmo trattare al ritmo più serrato con le quattro potenze occupanti. Quella sera del 9 novembre 1989 fu appena l’inizio insperato, ma solo il ‘Trattato 2 più 4” ci restituì la sovranità». E come fu, anche sul piano personale, negoziare coi Grandi? Con chi più facile, con chi più problematico? «Quello che segnò l’animo di Kohl e il mio, e che ci resta ancora dentro, fu il rapporto di fiducia personale con Gorbaciov e Shevardnadze. Fu anche quel clima di fiducia umana a rendere possibile la maturazione del processo di riunificazione. Anche gli americani, fin dall’inizio, sia Bush che James Baker, il suo segretario di Stato, ci appoggiarono con forza. Il loro sì alla riunificazione li rese i protagonisti più importanti». E con gli alleati europei? «Con la Francia fu più difficile: Parigi si sentiva e si presentava come l’avvocato della Polonia. Eppure per noi, con i buoni rapporti con Mazowiecki, e con il ruolo assunto dalla Polonia nell’89 e non solo, era chiaro che il Trattato sul confine sulla linea Oder-Neisse sarebbe stato ratificato dalla Germania unita senza obiezioni. E certo non rivelo alcun segreto dicendole chi si batté nel modo più acceso e con più veemenza contro la nostra riunificazione: Margaret Thatcher». Riunificazione: a molti sembra un’opera ancora incompiuta. Che ne pensava allora, e che ne pensa oggi? «Per me, allora, la riunificazione era semplicemente una cosa splendida. Finalmente, come disse Willy Brandt, cresce insieme chi deve stare insieme. Dopo quarant’anni di divisione e a ventotto dalla costruzione del Muro, mi sentivo grato alla realtà per la vittoria della rivoluzione pacifica dell’Est. Certo, le condizioni di vita reali nei due Stati non avrebbero potuto essere più diverse: da noi l’aggancio all’Occidente, l’economia sociale di mercato, all’Est l’economia di piano e i limiti brutali alla libertà politica e personale. È stato un processo difficile mettere insieme questi due mondi. Ma oggi, se mi guardo indietro, vedo e sento attorno a me una comune identità tedesca e l’idea di un futuro comune. Le differenze non sono solo tra tedeschi dell’est e dell’ovest: anche bavaresi e tedeschi del nord sono molto diversi tra loro. Ma sono diversità che, credo, rafforzano il valore costitutivo comune, il desiderio di vivere in pace e libertà». Venticinque anni dopo, nuove tensioni dividono l’Occidente dalla Russia: davvero non è neppure questa una delusione per lei? «Guardi, quando penso alle difficoltà di oggi mi consolo ricordandomi il lungo cammino che abbiamo percorso in questi venticinque anni. E rammentando l’auspicio che Mikhail Sergheevic Gorbaciov espresse allora: quello di vivere tutti in una “casa comune europea”». © RIPRODUZIONE RISERVATA Genscher Ma anche molto peggio Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 28 L’attualità. Corpi speciali Entrato a far parte di una squadra per “missioni impossibili” David Tell è stato addestrato per ammazzare senza pensare ROBERTO SAVIANO S ONO ORMAI ANNI che ho come un vizio d’osservazione. Quando incontro una persona nuova tendo a evitare di categorizzarla secondo le valutazioni solite: ambizioso, furbo, ignorante, colto, gentile. Tendo invece a inserirla in una categoria tutta mia. Per esempio cerco di cogliere il grado di sofferenza che ha patito. Parto da lì. Quanto ha sofferto, quanto dolore ha provato. Quando ho incontrato David Tell ho visto un volto con addosso tutte queste tracce. Sembrava un Charlie Brown ma pieno di casini e di rovelli, persino emozionato nell’incontrarmi e totalmente disabituato alle interviste. È la prima della sua vita. Ho voluto incontrarlo dopo aver letto il suo libro, Io sono un’arma, che racconta come un uomo che entra nei marines (corpi speciali FastCo) si tramuta poi lentamente in un’arma. David non è il suo vero nome: «Ho deciso di firmarmi con uno pseudonimo perché la mia filosofia è sempre stata questa: non emergere. Non voglio che i miei figli si debbano mai preoccupare per me. Durante le mie ultime missioni era stata messa una taglia su di me, sia dai narcos che dai vecchi alleati di Saddam. Non voglio fargli il favore di dirgli dove sto e quanto sono facile da raggiungere. Quanto al corpo dei marines è possibile che qualcuno non apprezzi il mio libro, e che quindi voglia screditarmi, boicottarmi, persino accedere ai miei file e decidere così di gettarmi in pasto ai leoni svelando la mia identità. Ma potrebbe anche accadere il contrario: più feroci e spietati vengono descritti, più i marines si sentono forti. Sono quasi certo che dopo aver letto questo libro diversi ragazzi andranno persino ad arruolarsi…». Le prime pagine ricordano in ogni dettaglio Full Metal Jacket, il film di Kubrick. «È il film che più di tutti racconta il disumano addestramento nei marines, ma è an- sione ipotetica di quello che sta succedendo ma i soldati che sono lì sparano tra rumori assordanti, panico, urla. «Non so di nessuno che sia mai andato a controllare se quello a cui hai sparato fosse davvero morto. Spari e basta. Io ricordo i primi due, poi è come se sfumasse tutto in una sorta di brodo. Non li ho mai contati. Sicuramente avrò ammazzato più di trenta persone, non credo di superare le settanta». Il libro scritto da David è un manuale su come l’uomo possa essere modellato a non temere, non soffrire, non provare empatia né pietà, a obbedire immediatamente, a tendere tutto se stesso alla realizzazione di un obiettivo, a saper sopravvivere in condizioni estreme, a svuotare la testa da ricordi tristi, o felici. Essere solo biologia militare. Hai mai provato schifo per questa mattanza? O davvero l’addestramento ti ha anestetizzato? «Tutto è cambiato quando il cervello di un mio amico si è spiaccicato contro la mia maschera antigas. Da allora non riesco più a mangiare cibi che abbiano una consistenza liquida». E perché ci si arruola sapendo che di te vorranno fare un’arma? «Io sono entrato nei marines senza nessuna motivazione particolare. Quando hai diciott’anni hai una visione deformata della guerra e una visione ingenua delle cose. Non sono partito pensando di voler diventare un killer. Ti lasci influenzare dagli amici. Poi, sai, basta anche un piccolo episodio...». Tipo? «Tipo trovarsi con una pistola puntata in faccia in un parcheggio, fottersi dalla paura e pensare: va bene, vediamo se diventando un marine una pistola in faccia mi farà ancora paura». D’accordo, ma durante l’adde- FOTO TERU KUWAYAMA Come sono diventato un killer che il film che i marines considerano quasi uno spot. “In quanti lo hanno visto?” urlano gli istruttori alle reclute appena arrivate. E davanti alle tante mani alzate proseguono: “Beh, non è così che verrete trattati, sarà molto peggio che nel film”». David ha partecipato a operazioni considerate “terminali”, ossia da cui è difficile tornare. È stato in missione senza mai tornare a casa per un anno intero: «Sono missioni che può fare solo chi non ha famiglia, chi non la vuole, chi non vuole nessuno che gli voglia bene e chi effettivamente non ha nessuno che gli voglia bene». David ha ucciso, e molto, e anche da lì non si torna mai indietro. Come si fa a diventare un killer? Gli chiedo se ha ancora dinanzi i volti di chi ha ammazzato, se si ricorda attimo per attimo le volte in cui ha ucciso. «La prima volta senti una scossa elettrica nel corpo e nel cervello. I primi due non li dimentichi. Poi, in genere, te ne ricordi un altro paio, ma per altri motivi… che ne so magari uno ti stava ammazzando e tu ti sei salvato per un pelo, o a spararti era una donna. Ognuno di noi ha dei morti che ricorda, il numero ha una rilevanza relativa». Insisto, almeno ci provo — «Ma quindi tu quanti…» — ma non riesco a finire la frase. «Io non lo so quanti ne ho uccisi, e poi devi tenere conto del fatto che dove c’è fuoco incrociato tu vedi quello che cade ma non sai se la raffica è stata la tua o quella di un tuo compagno, oppure fuoco amico». Il cinema rende la guerra ordinata e razionale per esigenze di copione, altrimenti lo spettatore non comprenderebbe nulla. Ma è proprio quello che succede sul campo di battaglia. Non si capisce nulla. Il comandante forse ha una vi- Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 29 Un giorno ha capito di essersi trasformato in un’arma e ha detto basta.Confessando i suoi omicidi in un libro stramento — violentissimo, disumano — nulla ti suggerisce di mollare? «Lì è una prova con te stesso. Ti chiedi: quanto riuscirò a resistere? Mollare è da merde, da falliti. Io mi sentivo un patriota, volevo ripagare il mio paese per ciò che il mio paese mi aveva dato». Poi, un giorno, David molla, lascia i marines, proprio lui, uno dei più fidati, sopravvissuto a missioni impossibili, diventato per la sua compagnia quasi una leggenda. «No, ero diventato una bestia, ed ero stanco di uccidere. Ha un senso quando sai perché lo stai facendo. Ma io non sapevo nemmeno chi uccidevo. Chi è sbarcato in Normandia sapeva chi ammazzava e perché, io non più. Durante una missione contro trafficanti di droga in una zona aeroportuale dovevamo prendere pilota e corriere. Ce la prendemmo invece con chi non c’entrava nulla. Un’altra volta ci avevano tolto piastrine identificative e documenti, tutto ciò che avrebbe potuto identificarci come americani. Anche le munizioni non erano dell’esercito ma di quelle che puoi recuperare sul mercato nero. Lì mi sono detto: ma questi cosa cazzo stanno facendo, mi stanno abbandonando sul ciglio della strada come un cane? Il fatto è che per il corpo dei marines tu sei solo una parte. Il fatto che il corpo dei marines ti usi per uccidere gli innocenti non frega a nessuno. Io non ho mai pensato di essere un killer, piuttosto un’arma a disposizione del corpo dei marines. Un’arma come ce ne sono tante nei loro magazzini. Così come non ho mai pensato che il mio fucile avesse del risentimento o delle emozioni, credo che i marines non abbiano preso in considerazione che ne avessi io. Solo un mezzo, uno L SERGENTE del mio plotone è a bordo dell’elicottero e non so nemmeno il suo nome. A volte dimentico di quale plotone faccio parte, chi è chi, o addirittura dove siamo. Suppongo che in fin dei conti non abbia importanza. Nessuno di loro si augura che mi capiti qualcosa di brutto, ma al tempo stesso a nessuno importa davvero se le mie cervella finiscono sparse a terra. Non è nulla di personale: è così e basta. Per uno strano gioco del destino la persona che conosco meglio non è nemmeno un marine, ma è un “calamaro”, uno della Marina, un portaferiti con cui sono stato in missione insieme e con cui ho scambiato non più di cento parole in tutto. Il suo viso è quello che mi è più familiare. Magari sa come mi chiamo, magari no. Non saprei. È armato di pistola e ha gettato via il simbolo della Croce Rossa che lo identifica come non combattente. Nel posto in cui stiamo andando se ne fregano di quel simbolo o di ciò che rappresenta. Credo che da un punto di vista meramente professionale al portaferiti importi se le mie cervella finiscono per terra. Ciò lo rende il mio miglior amico a bordo dell’elicottero. Sappiamo tutti che probabilmente dopo questa missione verrò trasferito a un altro plotone. Sempre ammesso che sopravviva. Abbiamo circa venti minuti prima che, come si suol dire, la merda finisca nel ventilatore e la gente cominci a crepare. Sono considerato un killer. ©Longanesi & C. strumento di loro proprietà». E dopo? «Quando esci da un corpo speciale come FastCo ti serve tempo per riprendere contatto con la realtà, scrollarti di dosso la paranoia. Sei così abituato a sospettare di tutto e di tutti che è dura tornare a vivere. Ho passato anni a nascondermi e a scappare, soprattutto da me stesso. Oggi per me è molto difficile trovare cose in comune con la maggior parte delle persone che mi circondano». Si crede che vivere il dolore renda migliori. Ma questo può crederlo solo chi non ha davvero vissuto una grande ingiustizia. Non credo sia facile, dopo un trauma e dopo un grande dolore, tornare a una vita serena, persino riuscire a vivere con dignità. Il dolore ti spezza per sempre. Ma questa è solo la mia opinione, David non la pensa così. Si è costruito una famiglia. «Sì, sono passato attraverso la pazzia e ora mi sento meglio. Mi sono sposato, ho dei figli e cerco di fare di tutto per avere un codice morale». Cerca di stare lontano dai casini, me lo immagino come lo scienziato Robert Bruce Banner che quando si innervosisce si trasforma in Hulk. Cerca di stare lontano dalle risse e dai guai perché altrimenti rischia «di buttare giù i muri». Chiunque viva un dramma e un trauma riversa il dolore poi soprattutto sulle persone a cui vuol bene. E la mia ultima domanda è: come regge sua moglie tutto questo? «Vivere con me so che può essere molto difficile. Di notte mi sveglio piangendo e urlando, ma la persona che mi abbraccia e consola è mia moglie, e non c’è ragione perché io debba essere violento con lei». © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Solo al portaferiti interessa se il mio cervello cade a terra DAVID TELL I IL LIBRO “IO SONO UN’ARMA. MEMORIE DI UN MARINE” DI DAVID TELL (TRADUZIONE DI ALESSIO LAZZATI, LONGANESI, 624 PAGINE, 19,90 EURO) È ORA IN LIBRERIA Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 30 L’inedito. Scioglilingua Filastrocca per tre topi e tre nipoti SEBASTIANO TRIULZI N ATO DAL DIVERTIMENTO, dal gioco, dal piacere grafico e calligrafico di comporre un quaderno pieno di disegni e scherzi linguistici da destinare alle due nipotine Barbara e Alice, Tre per un topo è il prototipo di tutti i libri per bambini pubblicati da Toti Scialoja. Per oltre quarant’anni è rimasto in un cassetto e ora viene pubblicato, in copia anastatica da Quodlibet, per il centenario della nascita dell’autore. Vi ritroviamo la stessa cura di Amato topino caro, La zanzara senza zeta o Ghiro ghiro tonto, l’offrire cioè un dono che abbia il pregio della follia e della insensatezza della parola, disegnando un mondo abitato da animali che hanno tutta la balordaggine e la sventatezza degli uomini migliori. Nel frontespizio, l’autore ricorda come queste sessantasette poesie con animali, le abbia cominciate a comporre nel ‘61 per James Demby, il primo nipote; col tempo sono state arricchite e raccolte a uso delle nipoti, ancora piccole il 25 agosto 1969 quando questo libro viene loro consegnato. Tre per un topo fu pensato subito come un testo da pubblicare e confluì, con variazioni, in Amato topino caro (Bompiani, 1971). Toti Scialoja era solito leggere queste filastrocche agli amici che andavano a trovarlo, e sotto la sua guida —era stato anche scenografo e librettista — le nipoti le recitavano nel suo salotto. Qui c’è tutto il futuro Scialoja: incontriamo già la zanzara di Zanzibar che va a zonzo ed entra in un bar, la luna piena a Siena che illumina una iena, l’allodola che si loda, il t’amo pio bue anzi ne amo due; ma in più c’è il divertimento calligrafico in scritture elegantissime in corsivo o stampatello, e il gioco tipografico di distribuzione delle parole e dei versi lungo i bordi delle pagine o in diagonale o in cerchio. L’osservazione permette di ricondurre il segno che Scialoja utilizzerà a quello di Andy Warhol illustratore, pre-pop, quando è ancora un designer pubblicitario. Insieme, c’è una maggiore presenza di elementi caricaturali, comici o grotteschi, che in parte si perderanno per una maggiore uniformità stilistica. L’indugiare nel piacere della libertà inventiva è evidente pure sul piano linguistico: sapendo che i testi erano letti dalla consorte Gabriella, si rivolgevano al nipotino ma anche alla lettrice, sollecitandone richiami, rinvii colti, allusioni erotiche deformate nello scherzo. Tanto che capiamo la doppia radice dei suoi libri, adeguati all’immaginazione di un bambino e anche all’esigenza di un adulto. © RIPRODUZIONE RISERVATA Quando dipingeva spesso gridava e quando era poeta inventava nonsense per un pubblico senza età Nel suo centenario da un cassetto ora spunta un quadernetto pieno di animali e giochi di parole PAOLO MAURI T OTI SCIALOJA era un uomo capace di dolcezze infinite, ma anche di ire funeste come sa bene chi lo ha a lungo frequentato. D’altra parte (ma quella non era ira) spesso gridava dipingendo, come a voler trasferire la forza che gli ribolliva dentro direttamente sulla tela o sulla carta. Di questa urgenza sua moglie Gabriella Drudi, che era un’eccellente critica d’arte oltre che scrittrice, è stata infinite volte testimone diretta. Così come ha condiviso i dubbi e i rovelli che un artista colto e profondo come Toti nutriva talvolta sul suo lavoro. Un lavoro, quello pittorico, che ha una lunga storia, partendo dal figurativo per sbocciare poi nelle superfici animate solo dal gesto, in un susseguirsi di tecniche diverse, quando il pennello cede allo straccio, fino alla creazione delle Impronte pensate e realizzate a Procida sul finire degli anni Cinquanta. Ha scritto con felice sintesi Fabrizio D’Amico che si tratta di “un miracoloso punto di sutura fra gesto e pensiero, fra parola e sentimento, fra consapevolezza e cecità della mano che appoggia colore sulla tela”. Il primo a usare il termine impronte, a proposito di certe prose di Scialoja, era stato Eugenio Montale nel ’52. Il ligure Montale attento alla moneta che, raccontava Toti, gli chiedeva i tubetti di colore non del tutto spremuti per i suoi piccoli quadri. E come Montale si faceva pittore, così Toti sarebbe diventato poeta, sia pure di un genere assai diverso: il “nonsense” creato prima per i bambini di famiglia e poi riusato in poesie per un pubblico senza età. Calvino si innamorò della poesia di Scialoja perché sua figlia Giovanna aveva imparato a memoria le storie della vespa e della zanzara e amava recitarle. Scialoja aveva in mente gli ottonari del Corriere dei Piccoli letti da bambino, ma poi si era accostato a Lear, a Carroll, a Ragazzoni: ora c’è un bel libro di Alessandro Giammei, Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja, pubblicato dalle edizioni del Verri che indaga i nonsense con cui l’altra metà di Toti si era dreperla richiamava un mattutino di Scialoia” (scritto creato un pubblico diverso da quello che aveva come pit- così, con la i normale). Il Pasticciaccio è del ’57: Scialoja tore. Eppure il pittore vantava non poche credenziali, ha poco più di quarant’anni e una cospicua attività alle l’attenzione di Pasolini (il Pasolini allievo di Longhi) e spalle. Tra l’altro è stato anche critico o cronista d’arte persino quella di Gadda che lo cita (unico pittore ricor- per la rivista di Alba de Cespedes, Mercurio, a Roma nel dato in quel romanzo) in una pagina del Pasticciaccio, dopoguerra. Negli stessi anni si apre la stagione ameriquando il brigadiere guarda dall’alto Roma “distesa co- cana: Toti a New York conosce e si confronta con i granme in una mappa o in un plastico dove una cupola di ma- di dell’Action Painting. Ne ricaverà una lezione di libertà formale, da lui elaborata in modo molto personale, e i De Kooning, Rothko, Motherwell, Kline, Twombly entreranno nel pantheon dei suoi amici. Un pantheon affollato, perché Toti ha sempre in qualche modo vissuto in pubblico: come insegnante all’Accademia di Belle Arti dove ha avuto allievi come Pino Pascali, Kounellis, Giosetta Fioroni, Nunzio, Gianni Dessì, Adrian Tranquilli e tanti altri ancora; come uomo di cultura che frequentava i pittori (Achille Perilli) ma anche i letterati, sicché a casa sua trovavi Raboni, Arbasino, Balestrini, Manganelli, Malerba, Giuliani, Pagliarani, Antonio Debenedetti… Non mancò il Convegno di Orvieto dell’aprile 1976 organizzato da Malerba con gli amici della neoa- La favola di Toti Scialoja Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 31 IL LIBRO “TRE PER UN TOPO” DI TOTI SCIALOJA SARÀ NELLE LIBRERIE PER QUODLIBET (128 PAGINE, 18 EURO) DA MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE CON DIVERSE ILLUSTRAZIONI A COLORI TRA CUI QUELLE QUI PUBBLICATE vanguardia. Proprio lì Antonio Porta, cui toccava presiedere una riunione del mattino, annunciò che la sera prima Scialoja gli aveva detto un suo breve nonsense: “Il sogno segreto/dei corvi di Orvieto/è mettere a morte/i corvi di Orte”. L’anno dopo eravamo tutti a casa Scialoja in piazza Mattei 10 per festeggiare l’uscita del libro La stanza la stizza l’astuzia pubblicato dalla Cooperativa Scrittori. Nella storia del pittore Scialoja bisogna almeno ricordare le tappe parigine e il viaggio a Madrid, negli anni Ottanta, che fruttò l’innamoramento per Goya, il Goya nero. Bisognerebbe dire anche delle moltissime mostre e della presenza alla Biennale e della lunga teoria dei critici che della sua opera si sono occupati, a cominciare da Brandi, Briganti e Dorfles. E nella storia del poeta Scialoja sarà almeno da segnalare, dopo la lunga stagione dei nonsense, l’approdo a una ricerca metrica più classica (Rapide e lente amnesie). E poi Scialoja sapeva stare in scena. Tra l’altro aveva lungamente lavorato anche per il teatro e insegnato scenografia. Faceva talvolta splendide imitazioni gestuali di grandi pittori suoi amici: un vero cinema muto e recitava i suoi nonsense e lo si sarebbe ascoltato all’infinito. “Pipistrello ti par bello far pipì dentro l’ombrello?”. Toti Scialoja compiva gli anni il sedici dicembre: era del 1914 sicché adesso sarebbe vicino ai cento e sarebbe furibondo. La Fondazione che porta il suo nome, voluta da lui e da Gabriella Drudi, è stata silurata soprattutto per volontà e poco eleganti interventi di una nipote che ha già rivendicato per sé il patrimonio della Fondazione stessa. Il consiglio d’amministrazione formato da critici d’arte, artisti allievi di Toti e critici letterari di cui anche chi scrive qui faceva parte, operante in regime di assoluta gratuità, è stato sciolto e sostituito da un funzionario ministeriale. La mostra programmata per il centenario al Palazzo delle Esposizioni di Roma molto probabilmente non si farà più, così come rimangono sospese altre iniziative già in cantiere. Auguri Toti, i cent’anni ti minacciano e la burocrazia minaccia l’arte. Auguri, ne hai bisogno. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 32 Spettacoli. Fuori onda Da anni non si fa né vedere né sentire ma per noi ha fatto un’eccezione Qui ci parla di New York e di “New Yorker” E poi di Benigni, Basquiat, quadri e musicisti ANGELO AQUARO L DIPINTO È BELLO E AGGHIACCIANTE, fantasma bianco su campo verde, e il titolo col- I pisce anche di più: Ho bisogno di sapere se dopo la morte c’è vita e ho bisogno di saperlo piuttosto in fretta. Ha ricevuto qualche risposta? «Sì». Sarebbe? «No, guardi, non glielo posso proprio spiegare. Cioè, potrei anche: ma non ho nessuna intenzione di farlo qui». Ecco, se pensate di essere finiti nel bel mezzo di un dialogo surreale di un film di Jim Jarmush con John Lurie, beh, vi sbagliate: ma solo a metà. Perché quello che parla è proprio John Lurie, l’uomo che visse più volte — il musicista dei Lounge Lizards, l’attore di Jarmush, il pittore che oggi vale decine di migliaia di dollari — e ormai da più di quindici anni lotta contro quel violentissimo virus di Lyme che l’ha costretto a mollare il sassofono e scomparire dalle scene. Ma questo non è un film: è un’intervista. Rara come tutte le perle di Lurie e concessa rigorosamente via email: «Mi scusi ma dopo quell’articolo del New Yorker mi sono ripromesso di farle soltanto così: non posso continuare a essere distrutto da citazioni sbagliate». Già, quell’articolo che fin da allora — quattro anni fa — si domandava: che fine ha fatto John Lurie? E poi si rispondeva: “John Lurie è malato, John Lurie si nasconde da uno stalker”. Ok, il settimanale celebre per il Reparto Verifica dei Fatti è stato sconfessato, fatto per fatto, dallo stesso Lurie, con tanto di petizione di solidarietà online, primo firmatario l’amico Steve Buscemi. Ma il mistero si è solo infittito: come sta davvero Lurie? «La mia salute oggi è piuttosto buona», ha confessato al Los Angeles Times, «poi di punto in bianco mi butta giù: per un’ora o un giorno o tre settimane. E comunque va molto meglio di prima». E comunque se gli chiedi di parlarne, ora, comprensibilmente si ritrae. Fino a cassare cortesemente una domanda sui tempi d’oro con Tom Waits & Co.: «No, guardi, non sono proprio nello spirito per parlare di droghe». Cominciamo allora da lì? Che fine aveva fatto John Lurie? me i musicisti. E allo stesso tempo tiragli fuo«Oggi vivo per la maggior parte del tempo ri l’anima. Con i Lizards era così: c’era il moin una piccola isola dei Caraibi. A New York mento in cui dovevano suonare con abbantorno di tanto in tanto». dono — e due battute dopo essere precisissiLou Reed diceva, prima di morire, di non mi. In una piccola band puoi anche affidarti riconoscerla più. a loro. Ma in un’orchestra più grande devi es«New York ha certamente perso qualco- sere un dittatore. Provate ad ascoltare Jasa. Per esempio: non è più pericolosa come mes Brown o Duke Ellington… Devi essere una volta. Male». un mostro per riuscire a far suonare i musiMale? cisti così. O quantomeno: io un altro modo «Prima dovevi essere un duro: ci voleva ca- non l’ho mai trovato. Essì che mi piacerebbe rattere per viverci. Adesso sembra un gran- essere più amato: ma la musica per me è molde shopping mall per gente che si fa pagare to più importante della gente». l’affitto da papà e mamma. Oppure chissà A proposito: “Jim Jarmush, David Byrne, che lurido lavoro fa per campare». Keith Haring: solo i peggio sono andati Questa città l’ha celebrata il mese scorso avanti. Quelli davvero grandi hanno quel con una storica reunion dei Lounge Lisenso di follia che non li tiene insieme: e ci zards diretta da suo fratello Evan. “Che hanno lasciati. Degli artisti di allora solo triste suonare la sua musica senza John” io sono quello ancora vivo: e col mio fegaha detto lì sul palco. E poi ridendo: “Però è to ancora intero”. Lo dice lei, in quel fapiù facile..”. Lei era un boss così esigente? moso articolo del New Yorker. «E come faccio a commentare qualcosa «Ero in un ristorante e suonavano un live di Tito Puente. La band così affiatata: che che non ho mai detto? Si tratta di frasi — riemozione. Cambi di tempo perfetti. Mi giro portate intenzionalmente male — tratte da verso la persona che era con me e dico: “Tito diverse conversazioni e messe insieme al solo scopo di imbastirci sopra un orribile casiPuente doveva essere un vero stronzo”». no: quell’articolo del New Yorker era grotteScusi? «Questo è l’unico modo per tenere insie- sco. Vuole forse riformulare la domanda?». John Lurie Non ho fatto nessuna fine Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica FOTO DI RAY HENDERS DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 I QUADRI JOHN LURIE A SINISTRA NEGLI ANNI ’80 E QUI IN ALTO OGGI A 62 ANN DAVANTI A UN SUO QUADRO (“LO SCHELETRO DEL MIO ARMADIO È USCITO IN GIARDINO”, 2008). SOPRA, UN ALTRO SUO DIPINTO DEL 2007 DAL TITOLO “HO BISOGNO DI SAPERE SE DOPO LA MORTE C’È VITA E HO BISOGNO DI SAPERLO PIUTTOSTO IN FRETTA”. LE SUE OPERE SONO VISIBILI E ACQUISTABILI SUL SITO WWW.JOHNLURIEART.COM. SOTTO, UNA SCENA DI “DAUNBAILÒ” DI JIM JARMUSCH (1986): LURIE È TRA TOM WAITS E ROBERTO BENIGNI È rimasto in contatto con Jarmush e Byrne? Crede davvero — come sempre quell’articolo riportava — che Jarmush non le riconoscesse abbastanza credito? «Guardi, io potrei rispondere, per esempio, che con David Byrne e Jim Jarmush ci sono stati dei problemi. Ma quando cerchi di essere onesto con un certo tipo di giornalisti, beh, quelli ignorano le cose buone che dici e si attaccano alla peggiore: per poi distorcerla esagerandola. Ok?». Lei non è andato al college ma fa musica coltissima: jazz e classica, Charlie Mingus & Fela Kuti. Come s’è formato? «Potrei elencarle qualche migliaio di cose». Facciamo un paio di nomi tra romanzieri e registi… «...J. D. Salinger, Harper Lee, Cassavetes, Beckett, Paul Bowles, Elmore Leonard, Scorsese, Fassbinder, i fratelli Coen, Camus, Richard Wright, Nabokov, Jack Kerouac, Mikhail Bulgakov, Henry Miller, Sergio Leone, James Joyce, Fellini, Ken Kesey, Orson Welles, Heinrich Boll, Hitchcock, John Huston, Kubrick, Joyce Carol Oates, Baldwin…È solo una breve lista». Che meraviglia per noi italiani vedere nella stessa lista Salinger e Sergio Leone. «Salinger e Leone dovrebbero essere nella lista di tutti». Ha esposto dall’Armory di New York alla Fiera di Basilea. Dipinti molto più brillanti, nei colori, della sua musica: blu, gialli, rossi. La sua musica è sempre sembrata più cupa. «In qualche modo è vero. C’è sempre stata molta cupezza, ci sono molte dissonanze nella mia musica: ma sempre funzionali al distendersi in un momento di bellezza». Dice Joni Mitchell: “Sono una pittrice diventa musicista per caso: canto la mia pena e dipingo la mia gioia”. «Dipingere è un po’ come metterti a suonare da solo. Solo che quando suoni, e ti viene un’idea, senti il bisogno di aggiungere, metti, una linea di basso: e quando scrivi una frase per un altro strumento, beh, subito ti allontana da quell’aura speciale appena creata. Nella pittura, invece, puoi raggiungere quell’attimo e subito dopo aggiungerne un altro, sopra quello... Poi, certo, alla fine può sempre uscirne un pasticcio orribile». Basquiat era un suo grande amico. «Io e Jean-Michel dipingevamo spesso insieme e poi, magari, io mi esercitavo al sax e lui tornava a dipingere. C’era una meravigliosa, quasi bambinesca libertà nel modo in 33 cui lavoravamo. A volte passava qualcuno e si metteva a camminare sulla tela su cui stava lavorando: a Jean-Michel non poteva fregarne di meno. È quello che mi piaceva di lui — anche se io non sono mai riuscito a raggiungere quel suo livello di abbandono. Se qualcuno mi cammina sulla tela, dico...». Oggi quali artisti la ispirano di più? «Pesco dovunque. Ogni dipinto può avere qualcosa che ho preso da Bruegel o da Pollock. Ma non lo chiamerei ispirarsi». Nella sua musica ha riconosciuto l’influenza di compositori di cinema italiani: Ennio Morricone, Nino Rota. «Due giganti». Poi c’è Roberto Benigni: avete recitato in Daunbailò. Mai pensato che un giorno avrebbe potuto vincere l’Oscar? «Se devo dire di avere mai incontrato un genio, quello è Roberto. E incredibilmente coraggioso. E se qualcuno sembrava capace o meritevole di un Oscar, beh, quello era lui. Andrebbe piuttosto detto che raramente l’Oscar va alla persona giusta». Tornerà a suonare? L’ultimo cd, The Invention of Animals, uscito proprio quest’anno come John Lurie National Orchestra, è un live che era rimasto inedito. Ma per l’ultima produzione bisogna risalire a Marvin Pontiac, quindici anni fa, in cui si fingeva un bluesman pazzoide... È tornato a sorpresa sul palco, solo voce e armonica, per un blitz nella reunion dei Lounge Lizards: tornerete a incidere insieme? «Ho in testa un altro disco di Marvin Pontiac, ho diverse idee di canzoni. Ma oggi sono completamente preso dalla pittura. La cosa vergognosa è che in ogni attività creativa ormai conta così tanto il business. E nella musica e nel cinema c’è così tanta disonestà e schifo che in ogni nuovo progetto spendi cinque volte di più del tuo tempo a discutere di business». Musicista, attore, pittore. Anni fa ha confessato di aver cominciato a buttar giù le sue memorie. Di John Lurie dobbiamo aspettarci anche un libro? «Ragazzi… Spero proprio di sì». L’antidivo bello e ribelle oggi ha 62 anni: si sente anziano? «No». Ma che idea ha del futuro? Perdoni la domanda invadente: non è che la sua malattia... «Ribadisco la prima risposta che le ho dato. Semplice, una sillaba sola: è no. Le posso chiedere di tenere quella?». © RIPRODUZIONE RISERVATA LA MUSICA FOTO DI HANNA HEDREN UNA LOCANDINA DEI CONCERTI TENUTI DAI LOUNGE LIZARDS DI LURIE ALLO SQUAT THEATRE DI NEW YORK NEL 1981 CI VOLEVA CARATTERE PER VIVERE NELLA GRANDE MELA AI MIEI TEMPI, ERA ROBA DA DURI ADESSO SEMBRA UNO SHOPPING MALL PER FIGLI DI PAPÀ O GENTE CHE FA LAVORI LURIDI DEVO TANTO A FELLINI, LEONE, MORRICONE E ROTA MA SE DEVO DIRE DI AVER MAI INCONTRATO UN GENIO, QUELLO È ROBERTO. RARAMENTE UN OSCAR È ANDATO ALLA PERSONA PIÙ GIUSTA L’UNICO MODO PER TIRARE FUORI L’ANIMA DI UNA BAND È ESSERE UN DITTATORE, UN MOSTRO. AVREI VOLUTO ESSERE PIÙ AMATO ANCH’IO MA ALLA FINE LA MUSICA È MOLTO PIÙ IMPORTANTE DEI MUSICISTI Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 34 Next. Ci siamo capiti? I traduttori automatici prendono ancora troppi fischi per fiaschi Ma per abbattere la Torre di Babele una soluzione ci sarebbe Quale? Per esempio, quella di mettere dietro al computer un essere umano anziché un algoritmo RICCARDO LUNA OPERAZIONE “Billion Dollar Company” è scattata qualche giorno fa. Martedì 28 ottobre Marco Trombetti, un giovane imprenditore romano, si è presentato al congresso mondiale dei traduttori, in corso a Vancouver, e — in pratica — ha detto: fatti da parte Google e voi smettetela di usare Translate con le sue traduzioni perlomeno maccheroniche, adesso ci penso io. Io, che ho trovato il modo di risolvere davvero la dannazione che come umanità ci perseguita dai tempi biblici della Torre di Babele quando volevamo raggiungere il cielo e per punizione siamo stati condannati a non capirci più. Io perché ho inventato quello che finora si è visto solo nei film di fantascienza: vi ricordate il traduttore automatico universale di Star Trek? Ecco, adesso esiste. Si chiama MateCat ed è gratis. Vi sembra che l’abbia sparata grossa? Beh, intanto va detto che Marco Trombetti nella sua presentazione è stato molto più sobrio di così. Ma il vero motivo per il quale nella sala conferenze di Vancouver pare l’abbiano preso sul serio è un altro. Questa è una storia che parte da lontano: quindici anni almeno. E quello appena aggiunto è solo l’ultimo tassello di una torre costruita con molto successo da tanti protagonisti. Non solo Google, ma anche Microsoft, Yahoo!, Altavista: insomma i giganti del web si sono cimentati con il miraggio di un software che potesse tradurre tutte le lingue del mondo. In principio, possiamo dire per restare nella metafora biblica, fu Babelfish, un nome che era una citazione della famosa Guida Intergalattica per Autostoppisti di Douglas L’ GOOGLE TRANSLATE BING TRANSLATOR LANCIATO NELL’OTTOBRE 2007, È IL SISTEMA PIÙ POPOLARE. GRATUITO, FUNZIONA CON MOLTISSIME LINGUE ANCHE MINORI MA SPESSO È POCO ACCURATO PERCHÉ TRA DUE IDIOMI PASSA PER LA VERSIONE INGLESE. HA LA PRONUNCIA IN AUDIO E UN LIMITE MASSIMO DI PAROLE GIÀ LIVE SEARCH TRANSLATOR, DAL GIUGNO 2009 È LO STRUMENTO DI MICROSOFT CHE TRADUCE INTERE PAGINE WEB AVENDO I DUE TESTI AFFIANCATI. PER MOLTE LINGUE ESISTE LA VERSIONE AUDIO. CON UN WIDGET SUL PROPRIO BLOG FORNISCE LA TRADUZIONE ISTANTANEA voto 8 (per il successo) 7,5 (per le funzionalità) voto MATECAT BABELNET APPLICAZIONE COMPLETAMENTE GRATUITA PER TRADUTTORI PROFESSIONISTI CHE PREVEDE 100 LINGUE E 55 FORMATI. OFFRE A PAGAMENTO UNA COMMUNITY DI OLTRE CENTOMILA TRADUTTORI PER SERVIZI AGGIUNTI. APPENA LANCIATA POTREBBE ESSERE RIVOLUZIONARIA PROGETTO FINANZIATO CON FONDI EUROPEI E GUIDATO DA ROBERTO NAVIGLI, PROFESSORE DELLA SAPIENZA DI ROMA, PER CREARE UN DIZIONARIO ENCICLOPEDICO MULTILINGUE: 50 LINGUE E 9 MILIONI DI VOCI COLLEGATE TRA LORO SECONDO UNA LOGICA SEMANTICA voto 9 (sulla fiducia) 7 voto (per la tenacia) Lost intranslation 37mld DI DOLLARI È IL VALORE STIMATO DELL’INDUSTRIA DELLE TRADUZIONI. È IN CRESCITA: +6,2% NEL 2014 50 mln È IL NUMERO DI RICERCHE DI PAROLE DA TRADURRE OGNI MESE SUL WEB Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 IN METROPOLITANA “Prepare your ticket” L’avviso vorrebbe invitare a tener pronto il biglietto ma to prepare in inglese significa cucinare DALL’ITALIANO ALL’INGLESE Tre esempi di errori commessi dai traduttori automatici Adams. Negli anni Novanta era l’unico strumento per tradurre via web. E qui la storia diventa bella perché nel 1999 da Roma, che certo non era sulle mappe dell’innovazione, qualcuno registra il dominio translated.net. Quel qualcuno era Marco Trombetti. Allora aveva ventitré anni. Era uno studente di fisica con la passione per le stelle (ma non prenderà mai la laurea). Aveva al suo attivo un progettino che oggi potremmo definire un antenato dei social network: Web Chat World, subito ceduto al colosso della pubblicità online DoubleClick. Con i soldi incassati, Trombetti decide di farsi un Erasmus in Francia, qui conosce la sua futura moglie, francese, e gli viene l’illuminazione: le traduzioni online si possono fare molto meglio. Nel 2002 lancia Translated che oggi è un bel gioiellino che funziona così: otto milioni di fatturato, presente in ottanta paesi con una community di circa centomila traduttori professionisti che vengono attivati da un algoritmo, il TRank, a seconda del tipo di traduzione richiesto. Bello. Un altro si sarebbe accontentato. Ma nel frattempo era arrivato Google, anzi Google Translate. Progetto guidato da un giovane informatico tedesco, Franz Josef Och, usato ogni giorno nel mondo da circa duecento mi- SUL PODIO “Exhibitionist Award” A essere premiati qui sono gli esibizionisti invece degli espositori (exhibitors) 35 IN CUCINA Ricetta per la Bolognese: “tomato souce, mice, onion and basil”. Peccato che mice voglia dire topi lioni di persone per tradurre anche lingue minori e dialetti. Dunque, di che parliamo? Google ha stravinto. E così ha stravinto Microsoft con Bing Translator che funziona piuttosto bene. Ma la storia non finisce qui, sarebbe banale. Perché, per esempio, nel 2007 in gran segreto una delegazione di Google sbarca a Roma per comprarsi proprio Translated. Motivo? Sulle traduzioni generiche il prodotto di Google andava benone, ma la startup romana generava traduzioni di qualità fatte da traduttori professionisti collegati via web. Insomma, per certi clienti era un altro livello. Trombetti ricorda: «Come è finita? Non ci mettemmo d’accordo sul prezzo e non se ne fece nulla». In realtà qualcosa si fece. Google subito dopo ha lanciato il suo strumento per traduttori professionisti, un Toolkit che non ha mai preso piede (al punto che oggi i sottotitoli su YouTube, che come noto è un’azienda di Google, e i testi sullo store Google Play, usano i traduttori di Translated). E anche Trombetti ha rilanciato: grazie a un finanziamento europeo di 2,7 milioni di euro, ha creato MyMemory, il più grande database del mondo di parole tradotte professionalmente. Finché tre anni fa è scattata l’operazione Billion Dollar, per diventare un’a- zienda da un miliardo di dollari. Spiega Trombetti: «Il mercato mondiale delle traduzioni vale 37 miliardi di dollari. Quelle fatte da traduttori automatici alla Google sono poco più dell’1 per cento. Io punto al resto. Alle trentamila agenzie che in media fatturano mezzo milione e non riescono a crescere». Per questo ha creato MateCat: è un software che aiuta i traduttori a non ritradurre quello che è già stato tradotto. Ed è gratis. Dove sta il miliardo di dollari? «Tutte le volte che una traduzione manca nel nostro archivio oppure quando alla agenzia manca il traduttore nella lingua richiesta, arriviamo noi con i nostri centomila traduttori. A pagamemento. E se una agenzia su tre mi gira solo il dieci per cento dei lavori, ecco che arrivo al miliardo». Ce la farà? Vedremo, ma questa non è solo una questione di soldi, in ballo c’è una questione millenaria: «Se riesco a fare tutte le traduzioni previste, ogni anno aggiungo al database più parole di quante Google e Microsoft hanno raccolto in dieci anni». Forse la condanna della Torre di Babele sta finendo. © RIPRODUZIONE RISERVATA MYMEMORY IL PIÙ GRANDE DATABASE DI TRADUZIONI PROFESSIONALI. LANCIATO NEL 2007 DA TRANSLATED, HA ESTRATTO E CATALOGATO 6 MILIARDI DI PAROLE DAI TESTI DELLE NAZIONI UNITE, DELLA UE E DALLA RETE. OGGI HA 6 MILIONI DI VISITATORI AL MESE, SOPRATTUTTO PROFESSIONISTI DELLE TRADUZIONI voto 8 (per l’utilità) BABELFISH IL PIÙ ANTICO TRADUTTORE ONLINE. NASCE ALL’INTERNO DI YAHOO! NEGLI ANNI ’90 ISPIRANDOSI AL TRADUTTORE AUTOMATICO DELLA FAMOSA “GUIDA INTERGALATTICA PER AUTOSTOPPISTI”. OGGI È UN PO’ IN DECLINO MA ANCORA SUPPORTA 75 LINGUE E TRADUCE ANCHE PDF voto 6,5 (per la storia) 500mila FATTURATO IN EURO DI UN’AZIENDA MEDIA CON 3-5 DIPENDENTI E UNA VENTINA DI FREELANCE Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 36 Sapori. Ieri e oggi Barney Greengrass LA PUBLIC LIBRARY STA CATALOGANDO E DIGITALIZZANDO LE LISTE DEI LOCALI PIÙ CELEBRI DELLA GRANDE MELA, DALL’ASTOR HOUSE A KAT’Z NE VIENE FUORI UN QUADRO NON SOLO GASTRONOMICO MA ANCHE SOCIALE DELLA METROPOLI E, PERCHÉ NO, UNA BUSSOLA PER TURISTI PARTICOLARMENTE CURIOSI. E GOLOSI Tre generazioni e un secolo di vita: il ristorante dell’Upper West Side dove gustare ancora oggi i piatti più golosi della tradizione yiddish, dai pesci affumicati alle migliori uova strapazzate di Manhattan 541 Amsterdam Avenue Tel. (+1) 212-7244707 I menù di LICIA GRANELLO Peter Luger L’omaggio Tra i piatti dell’Eleven Madison Park (tre stelle Michelin, quinto nella classifica mondiale dei “50 Best”), un omaggio a “Barney Greengrass, New York’s sturgeon king”: caviale servito con croccante di segale, cream cheese e briciole di bagels Aperto a Brooklyn nel 1887, la più famosa steak house d’America ha vissuto la sua prima e unica rivoluzione nel 1950, con l’introduzione del menù scritto, a sostituire l’elenco a voce dei tagli di carne da arrostire 178 Broadway Tel. (+1) 718-3877400 Waldorf Astoria La pizzeria Emigrato da Napoli a fine Ottocento, il panettiere Gennaro Lombardi aprì nel 1905 la prima pizzeria d’America nel cuore di Little Italy, battezzandola col suo nome. Cent’anni dopo, la pizza di “Lombardi’s” è ancora tra le più gettonate di New York Oltre un secolo di cene lussuose, nel ristorante d’albergo diretto dal maître svizzero Oscar Tschirky, che negli anni Trenta codificò le ricette di Lobster Newburg, Egg Benedict e Waldorf Salad, evergreen della cucina americana 301 Park Avenue Tel. (+1) 212-3553000 L’ NEW YORK mangiando, dicono. E anche leggendo, se si sfoglia uno dei quarantacinquemila menù che la New York Public Library colleziona da più di un secolo e che, forte di migliaia di volontari, sta digitalizzando a partire dai primissimi documenti, datati metà Ottocento. Una mole di lavoro impressionante ma indispensabile per la realizzazione di un data-base gastronomico senza uguali al mondo. A inizio autunno, i responsabili del progetto hanno sciorinato i primi dati sul lavoro fin qui svolto: oltre diecimila menù interamente trascritti sul web — piatto dopo piatto, prezzi e bevande inclusi — e aggiornamenti in continuo divenire, se è vero che la prima carta risale al 1840 e l’ultima non esiste semplicemente perché i contributi di appassionati, intellettuali e gastronomi di ogni parte del mondo non si fermano mai. La ricerca va bene oltre la generica curiosità. Si scopre, per esempio, che il 25 agosto 1843 il menù dell’Astor House — lussuoso hotel affacciato sul parco di fronte alla City Hall, fra i suoi ospiti anche il presidente Lincoln — prevedeva tra gli altri piatti, zuppa di vongole, puré di patate, merluzzo in salsa d’ostriche, cotolette d’agnellone alla menta, senza dimenticare la torta di mirtilli e le mele meringate. Il tutto, servito a partire dalle 5.30 di mattina, secondo un concetto di breakfast ben più complesso del nostro e ancora valido — magari con il prosciutto al posto del montone e il salmone affumicato invece del APPETITO VIEN La tradizione Ha fatto la storia della ristorazione newyorchese, il locale dei fratelli Delmonico, nato nel 1827 come rivendita di liquori, sigari e cioccolato a un passo da Wall Street, che continua a offrire i piatti chic e sostanziosi di un tempo, come l’aragosta Newburg Centocinquant’anni di storia Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 37 Io,ostaggio dellacucina yiddish Carnegie Delicatessen Nato nel 1937 per sfamare artisti e spettatori della vicina Carnegie Hall, offre dall’alba a notte fonda il menù di sempre: sandwich, carni conservate, sottaceti e cheese cake servita in porzioni da quasi mezzo kg 854 7th Avenue Tel. (+1) 212-7572245 FEDERICO RAMPINI NEW YORK ON È VERO che tutto il N New York merluzzo — un secolo e mezzo più tardi. In quegli anni, la collezione era poco più di un vezzo nelle mani di un’intrepida signora newyorchese, Frank E. Buttolph, pronta a chiedere copia del menù in qualsiasi evento culinario fosse coinvolta, capace di scrivere ai ristoranti più disparati, attivare amici, intraprendere veri e propri viaggi — non facilissimo, al tempo, per una donna sola — pur di accaparrarsi il prezioso elenco di piatti da schedare. Una passione tradotta in migliaia di esemplari, regalati a pochi mesi dall’alba del Novecento alla New York Public Library, e perpetrata nei saloni della biblioteca fino a pochi mesi dalla morte, nel 1924. I suoi giovani collaboratori hanno fatto sì che la collezione continuasse a crescere e a ispirare generazioni di cuochi, sociologi, storici. Così, è diventato facile capire come il consumo di molluschi e crostacei si sia diffuso dal Pacifico all’Atlantico, quanto in America il rapporto con le cotture sul fuoco sia imprescindibile, o in che modo l’immigrazione ebraica a New York abbia fatto assumere come propri cibi fino ad allora sconosciuti. Un radicamento che lega come un fil rouge i menù degli ultimi centocinquant’anni di storia americana. In caso di dubbi sulla storicità di questa o quella ricetta made in Usa, regalatevi una visita virtuale sul sito dedicato per un primo assaggio, proseguendo la ricerca direttamente alla New York Public Library, Rare Books Division, stanza 328, dove potrete confrontarvi con oltre mezzo milione di piatti catalogati. Poi andate a verificare se le uova strapazzate con storione di Barney Greengrass sono sempre quelle di un tempo. Woody Allen giura di sì. © RIPRODUZIONE RISERVATA The Russian Tea Room Selezioni pregiate di vodka e caviale firmano il raffinato locale di Midtown fin dalla sua apertura, avvenuta nel 1927 grazie all’iniziativa degli artisti del Balletto Imperiale di Russia 150 West 57th Street Tel. (+1) 212 -5817100 Katz’s È lo storico tempio del pastrami, la carne marinata, speziata, cotta al vapore, tagliata sottile e servita su pane di segale, la cui ricetta, importata dalla Romania alla fine dell’Ottocento, è immutata dall’inaugurazione (1888) a oggi 205 East Houston Street Tel. (+1) 212 - 2542246 raccontati dai grandi ristoranti mondo è ormai piatto, che la globalizzazione ha cancellato le differenze, che i sapori sono fusi in una contaminazione indistinta. Laboratorio multietnico per eccellenza, luogo di tutti gli incroci, New York riesce tuttavia a coltivare anche dei riti antichi, dei mondi isolati e immutabili. Da Katz’s Delicatessen, per non avere rispettato queste tradizioni, io ho rischiato di subire un sequestro di persona. Accadde anni fa in una delle mie prime visite a questo tempio della cucina yiddish, quando dopo una lunga fila d’attesa mi venne infilato in mano, quasi distrattamente, un minuscolo ticket numerato che assomiglia ai biglietti d’ingresso nei nostri cinematografi di una volta. Un pezzetto di carta unto e bisunto, del quale sottovalutai la funzione con gravi conseguenze. Quel ticket conteneva un numero, poi registrato dal brusco cameriere che prendeva le mie ordinazioni (corned beef, pastrami, più maxicetrioloni sottaceto, da insaporire con tanta senape). Solo all’uscita lo sguardo cadde sul vetusto e ingiallito avviso: chi non conserva quel biglietto numerato — dal quale la cassiera deduce il conto finale — deve pagare una somma vertiginosa, l’equivalente dell’aver consumato tre volte tutto il menu. È un po’ come se perdi il biglietto d’ingresso sull’Autosole, presumo ti facciano pagare la massima tratta, forse Napoli-Milano. Alle mie proteste intervennero due robusti uscieributtafuori afroamericani (la proprietà di Katz’s è rigorosamente Jewish ma il personale è multietnico) che m’impedivano l’uscita. Per fortuna ero con una coppia di amici ebrei newyorchesi, lui l’economista Steve Cohen conosciuto a Berkeley. Ci volle una lunga trattativa diplomatica, condotta a regola d’arte, per ottenere la liberazione dell’ostaggio italiano che aveva buttato il ticket (ormai introvabile) in un cestino. Usanze, riti e tradizioni, fanno di Katz’s un luogo dove le ricette della cucina yiddish, pur semplici e perfino grossolane, ti riportano in luoghi antichi: l’Europa centrale fra le due guerre, il “mondo di ieri” raccontato con struggente malinconia da Stefan Zweig, poi l’esodo verso il Nuovo Mondo, le atmosfere di Saul Bellow, Philip Roth e Isaac Bashevi Singer. Non tutto, non dappertutto, sopravvive all’implacabile rullo compressore della storia. Che ne sarà, ad esempio, del Waldorf Astoria, acquisito da una compagnia assicurativa cinese il cui top manager è nipote di Deng Xiaoping? Un covo di spie, l’hotel dei presidenti americani? Ma soprattutto: che succederà in cucina? © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-11-02 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 38 L’incontro. Scapigliati DICONO CHE L’ARTE E L’IMMAGINAZIONE NON SALVERANNO IL MONDO, MA INTANTO HANNO SALVATO LA MIA VITA SENTO DIRE SPESSO “LA STRADA È STATA LA MIA SCUOLA”, E IO RISPONDO “NO, LA SCUOLA È LA TUA STRADA” Vent’anni fa debuttò a Sanremo rasato a zero e facendosi chiamare Mikimix. Uscì dal tunnel con una massa di capelli in testa e il tormentone che gli diede successo e ansia: “Ero diventato di moda, che panico”. Ora porta l’ultimo album a Londra e negli States. “La cosa stupisce anche me: non ho la voce dell’italiano che piace all’estero, anzi non ho proprio la voce. Sopperisco con le idee”. Eccone una: “Sono contro il pensiero unico della gendario Whisky a Go Go di Los Angeles e l’8 alla North Beach Bandshell di Mia«Mi stupisce questo interessamento. Non ho la voce dell’italiano che piace all’estero, anzi non ho la voce. Ho sempre ammirato gli artisti che all’ugola d’oRete. Se tutto va in una direzio- mi. ro sopperiscono con le idee, ma per molti anni mi sono sentito inadeguato». Sa già quel che lo aspetta in America, una manciata di curiosi — che come i londiresteranno conquistati dalla sua verve — e un manipolo di italiani incazzane, cerco qualcosa che vada in nesi ti e poco inclini alla nostalgia. Non gli dirà di tornare, racconterà le molte verità che hanno raso a zero la generazione di quelli nati come lui nel ‘73, diventati bamnon per comodità ma per necessità. Gli ricorderà, magari giocando sul senso opposto. Facciamo che so- boccioni palco con i découpage di quadri famosi (come il toro di Guernica), con quanta criminale indifferenza lasciamo che il nostro patrimonio artistico vada in malogiorno fa è crollato il solaio di un museo in Sicilia, il degrado di Pomno il comunista di turno: ho un ra.pei«Qualche è sui tiggì di tutto il mondo. L’Italia è sempre in fondo a tutte le classifiche di civiltà. Ci sentiamo fighi perché stiamo seduti al tavolo dei G8, c’illudiamo di apai grandi, poi quando si parla di cose importantissime come l’istrubranco di bolscevichi sotto que- partenere zione siamo allo sfascio: la Finlandia in testa, noi al ventesimo posto. Mi pare siamo al 140esimo su 144 per efficienza politica. Però c’è una classifica in cui siamo primi, quella del patrimonio Unesco. Allora c’è qualcosa che non torna: come mai sti ricci” non riusciamo a valorizzare le nostre bellezze? Dicono: non sarà l’arte a salvare Caparezza GIUSEPPE VIDETTI LONDRA S RTV-LA EFFE LUNEDÌ SU RNEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50 DEL DT E 139 DI SKY) IL VIDEOSERVIZIO SU CAPAREZZA ONO IN MILLEDUECENTO al Koko di Camden Town, prezioso club londi- nese dove si esibisce la crema del rock britannico. Tutti paganti, non tutti italiani. Michele Salvemini da Molfetta, in arte Caparezza, artista dalla parola facile e dalla rima al vetriolo, non è salito fin quassù per ammansirli con le trite storielle sul paese d’o sole, della pizza e del bel canto. Sa che lì sotto, a pogare divertiti e arrabbiati, ci sono un venti per cento di inglesi, un trenta di varie nazionalità e un cinquanta di italiani in fuga dallo stivale solatio. «Siamo tornati a essere un paese di emigranti», sbuffa scuotendo la generosa capigliatura che gli ciondola sul viso (capa rezza in pugliese vuol dire testa riccia). «In questo tour europeo ho scoperto che ci sono ovunque un sacco di italiani. In Belgio siamo la prima comunità, a Londra senti parlare la nostra lingua in ogni angolo. L’emigrazione è di nuovo un fenomeno, anche se ancora sottovalutato. Oggi è facile, prendi un aereo e via, non devi fare come mio nonno che per fuggire in Australia dovette farsi un mese di nave. E non è bello sentir dire: con tutto il bene che voglio all’Italia io non ci torno, sto bene qua». Caparezza è allegro, irrequieto, curioso. Ciondola per i corridoi cavernosi del backstage alla ricerca di segni tangibili del passaggio, tra quelle mura (una volta si chiamava Camden Theatre, fu edificato nel 1900), di personaggi come Charlie Chaplin (qui furono proiettati i suoi primi film muti) e, molto più tardi, quando il punk prese Londra d’assedio, Boomtown Rats e Clash; e, perché no?, di una targa che ricordi Bon Scott degli AC/DC, che al Camden Palace, come era stato ribattezzato, si prese la ciucca che il 19 febbraio del 1980 gli causò l’intossicazione fatale. «Sono nato con l’hip hop ma cresciuto con il rock, metal soprattutto, e un certo tipo di elettronica», esplode con l’aria sorniona e beffarda che tanto lo fa somigliare a Frank Zappa. Con Museica, l’album disco di platino pubblicato quest’anno, Caparezza si è confermato presenza irrinunciabile nella top ten del- MI PIACE LA DEMOCRAZIA DI INTERNET CONTRO LA TV MA RESTO UN ANALOGICO: HO VISSUTO A LUNGO SENZA UN CELLULARE E NON ASCOLTANDO MUSICA ONLINE. IL WEB È UN MEZZO FORMIDABILE, MA NON È DIO NÉ UN OCEANO DI SCIENZA INFALLIBILE l’Italian pop, o rap, o rock che dir si voglia (il concerto è tutto questo, e anche di più). Il tour mondiale è il coronamento di vent’anni di carriera iniziata con uno scivolone («Esordii come Mikimix, avevo i capelli a zero, un Will Smith all’italiana, feci anche Sanremo; emigrante a Milano, molto incosciente e con una passione. Sarei finito sulla china di Gangnam style se avessi continuato») e consolidata da scelte responsabili e intelligentissime. Ora lo aspettano due date negli Usa, il 6 novembre nel leg- il mondo né l’immaginazione. Allora divento egoista e rispondo: sì, però hanno salvato la mia vita. Sento dire sempre più spesso “la strada è stata la mia scuola”; risponderò sempre più spesso la scuola è la tua strada». Arrabbiato com’è riesce a malapena a controllare «quel branco di bolscevichi» che alberga nella sua testa. «Negli anni passati i cantanti erano tutti comunisti; bastava criticare un certo modo di fare del politico di turno per essere automaticamente di sinistra; oggi col tramonto del berlusconismo chi fa musica si sta smarcando dall’ideologia. Io invece voglio recuperarla giocandoci: facciamo che sono il comunista di turno, anche se non ho mai avuto in tasca la tessera di un partito. Nell’epoca degli sms è più facile parlare in maniera diretta. Mi piace la complessità per questo mi bollano sempre come uno schierato». Troppo deluso dalla politica per scrivere l’inno del Pd o del M5S. «Seguo solo le mie idee, non ho più un partito che mi rappresenti, perché al contrario di loro sono uno che cambia idea. Scrivere un inno vuol dire sposare una causa; in passato l’ho fatto piuttosto spesso e apertamente, ma oggi non lo rifarei, perché ogni volta che ho appoggiato un politico poi mi sono dovuto ricredere». Anche musicalmente non ha sponsor. Se il talent è il lasciapassare per la contemporaneità, lui resta aggrappato alla old school, tanto per i musicisti non ci sono certezze, né per Caparezza né per i campioni di X-Factor. Sa che la canzonetta è traditrice: l’incubo di Mikimix si riaffacciò, questa volta per eccesso, quando Fuori dal tunnel diventò il tormentone del 2003. «Mi regalò un successo che non avevo, ma mi costrinse a fare i conti con quella che Pasolini chiamava la dannazione, il lato oscuro della celebrità», racconta. «Panico, per un timido e introverso come. Mi resi conto che ero diventato… di moda. Habemus Capa, il successivo, è a tutt’oggi quello che ha venduto meno, perché era un album senza hit, molto indie, volutamente oscuro. Risultato: persi un sacco di fan, quelli che mi seguivano per moda, ovvio. L’importante è che chi è restato e chi si è accodato sappia chi sono e come la penso». ANDANDO IN TOUR MI STO ACCORGENDO CHE SENTI PARLARE ITALIANO OVUNQUE. OGGI È PIÙ FACILE: PRENDI UN AEREO E VIA. MIO NONNO SI FECE UN MESE DI NAVE PER RAGGIUNGERE L’AUSTRALIA L’ha detto chiaro e tondo, non ha paura di restare indietro, ha bisogno di una prospettiva, come negli anni Sessanta. «Tremo quando sento dire che la più grande rivoluzione dei nostri tempi è quella operata dalla Rete. Il pensiero unico è il mio incubo. Una volta ci si ammazzava per l’ideologia, ora ci si spara non si sa per cosa: fanghiglia, gossip, mancanza di approfondimento. I giornali sono diventati pagine web di cui si leggono solo titoli e didascalie. È tutto così rapido che inevitabilmente faremo dei passi indietro. Il rischio del pensiero unico? Che da un momento all’altro arrivi uno che si propone come salvatore della patria e in pochi anni diventa un super leader: ne abbiamo esempi lampanti. Non vedo spiragli in politica, viviamo in un paese ammorbato dalla religione. Per anni ho avuto paura del buio, l’educazione cattolica di provincia mi ha riempito di ansie che solo Odifreddi è riuscito a togliermi di dosso. Se tutto va in una direzione devo leggere qualcosa che va in senso contrario, non per spirito di contraddizione ma per avere un ventaglio di possibilità. Mi piace la democrazia della Rete che contrasta l’oligarchia televisiva, ma resto un analogico. Il cd? Un emulazione del vinile. Ho vissuto gran parte della mia vita senza un cellulare e ascoltando musica fuori da internet. Se sei Mozart da qualche parte vai, anche senza promozione. Internet è un mezzo formidabile, ma non può essere l’unico, non può essere dio. Dicono “il web ha detto questo, il web ha detto quello”, come se fosse un oceano di scienza, infallibile, un medium manovrato da extraterrestri. Il popolo è uno solo, non esiste il popolo del web. Basta con questa idea messianica della Rete. Detesto chi nei blog s-gur-eggia». Prego? «Detesto chi fa il guru». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-11-02
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