Politiche di razionalizzazione territoriale su base comunale. L’implementazione dell’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali nei Comuni della Calabria. Mariano Marotta Università della Calabria 1. Introduzione L’interesse verso le forme di deframmentazione dei Comuni, soprattutto in Italia, viaggia di pari passo con la necessità di arrivare a forti misure di razionalizzazione della spesa pubblica. Come più volte sottolineato in letteratura (Tubertini, 2012; Gambino e Nocito, 2012; Spadaro, 2011; Bobbio, 2002), i periodi di crisi economica su scala globale spingono i Governi a cercare con insistenza quelle riforme che possano porre un freno alle uscite dalle casse statali. Da qui a puntare lo sguardo sul complessivo assetto delle autonomie locali in generale e sui Comuni in particolare, il passo è breve. Il problema della riduzione della frammentazione comunale ha interessato la quasi totalità degli Stati europei a partire dal secondo dopoguerra. Il raggiungimento di livelli ottimali di popolazione amministrata dai Comuni ha avuto alterne fortune, con evidenti difficoltà in tal senso, soprattutto, negli ordinamenti di tipo “francese/napoleonico” (Bobbio, 2002) dove il principio dell’autogoverno delle comunità locali ha portato a un’esplosione del numero degli enti periferici e, nel corso del tempo, a una resistenza delle amministrazioni locali contro l’erosione della propria autonomia. Dunque, il tema del complessivo riordino degli Enti Locali, soprattutto se con riordino si intende riduzione (di risorse, “poltrone”, …), trova sempre numerosi ostacoli lungo il percorso, tanto da costringere i Governi, nel corso degli anni, a repentini cambi di rotta. E’ successo negli anni novanta, con la prima architettura della l. 142/1990 stravolta dopo meno di un decennio; succede anche negli ultimi quattro anni, con una produzione normativa sul tema a dir poco schizofrenica. Si è assistito, puntualmente, a casi di “deficit di attuazione” (Ham e Hill, 1985): i programmi del Governo, una volta tradottisi in azioni concrete, non sono riusciti negli intenti dichiarati. I principali ostacoli sono rappresentati da quello che è stato definito un “notabilato locale”: un insieme di interessi forti identificabili, principalmente, da un lato nei politici – desiderosi di mantenere le rispettive “arene” di potere/consenso – dall’altro nei funzionari/dirigenti – i quali temono la perdita di ruolo o potere (Balzani, 2012). Interessi forti, soprattutto i primi, che mirano a mantenere stabile l’assetto locale, a immunizzarlo nell’immobilismo del “tutto è come è sempre stato”, a discapito dell’interesse 1 generale (rectius: nazionale) per il quale si vorrebbe puntare, al contrario, verso veri e propri stravolgimenti. Siamo in presenza di veto players (Tsebelis, 2002), attori del processo di policy il cui consenso è necessario per il cambiamento dello status quo e, di conseguenza, il cui dissenso provoca distorsioni o mancanze nell’implementazione della politica stessa. Gli esempi di questi ostacoli, come detto, sono diversi e si ripetono nel corso degli anni. La prima volontà del legislatore degli anni novanta fu quella di spingere verso la fusione dei piccoli Comuni. Un passo perentorio, per mettere fine (o per lo meno iniziare a risolvere) l’annoso problema delle migliaia di Comuni di ridottissime dimensioni, quasi del tutto incapaci di ottemperare alle funzioni loro demandate. Ben presto, però, il legislatore nazionale dovette ritornare sui suoi passi, messo dinanzi al fallimento dell’iniziale disegno, proprio per (principalmente) una evidente mancanza di volontà da parte degli Amministratori locali (Castronovo, 2010). Gli esempi non mancano anche negli anni più recenti, con i continui aggiustamenti al percorso di associazionismo obbligatorio avviato con Finanziaria del 2010 e più volte modificata fino (al momento) all’adozione della Legge Del Rio. Continue modifiche e inversioni di rotta: tutto sintomatico di un disegno “centrale” che non riesce a esplicarsi sul territorio, perdendosi nell’abile strategia “conservatrice” (nel senso letterale del termine) della gran parte degli Amministratori locali. Si tratta di una tendenza che, come avremo modo di vedere dagli esiti del presente lavoro, risulta confermata anche questa volta, seppur con le evidenze empiriche legate a un solo contesto regionale: quello calabrese. Eppure, l’attuale assetto dei Comuni italiani, come ampiamente sottolineato in letteratura, favorisce la moltiplicazione dei centri di spesa e la dispersione di risorse, unitamente all’erogazione di servizi e/o funzioni qualitativamente inadeguata o, addirittura, inesistente. In Italia si contano 8.057 Comuni1, di cui 5.652 con popolazione complessiva inferiore ai 5.000 abitanti (si tratta del 69% circa sul totale) e 1.960 con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti (i c.d. “Comuni polvere”). In realtà il fondamento del problema della frammentazione comunale in Italia risiede nell’uniformità, tratto tipico del modello amministrativo c.d. “napoleonico”. Se ogni Comune fosse depositario di funzioni proporzionali alla popolazione in esso residente, come accade altrove anche in Europa (ad esempio nei sistemi amministrativi di tipo “anglosassone”), probabilmente il problema non si porrebbe. Il vero nodo della questione è che il Comune di Roma, 2.638.842 abitanti, è depositario delle stesse funzioni del Comune di Pedesina (Sondrio) che di abitanti, invece, ne conta 33. 1 Dati Ancitel 2014. 2 Secondo alcuni studiosi, questa situazione costituirebbe una palese violazione del principio costituzionale di buon andamento della Pubblica Amministrazione. Infatti, se i Comuni (quelli più piccoli) non riescono ad adempiere ai loro compiti, penalizzando di conseguenza la popolazione in essi residente, verrebbe meno il rispetto del disposto di cui all’art. 97 della Costituzione (Castronovo, 2010). Così posto, il problema sembra assumere contorni esagerati, ma è certo – comunque – che lo stato attuale delle cose rappresenta – ormai da anni, come vedremo nelle prossime pagine – uno dei problemi legati all’assetto istituzionale della Repubblica più volte presente nell’agenda di policy. La soluzione che – da oltre vent’anni – viene proposta dai vari Governi succedutisi (tra l’altro di diverso orientamento politico) è quella legata all’aumento della popolazione amministrata. Tramontata l’ipotesi di fusione, infatti, la scelta ricade ormai sull’associazionismo intercomunale, nelle diverse variabili più o meno strutturali. La ratio è quella di trasformare i Comuni attraverso il principio della necessaria “autonomiavitalità” degli stessi, per come autorevolmente sostenuto da Massimo Severo Giannini nel 19902. Un concetto semplice, ma al contempo basilare: se un ente vuole potersi considerare autonomo deve, necessariamente, essere vitale, deve – cioè – riuscire ad adempiere a tutti i bisogni che la popolazione in esso residente presenta. L’ultima, in ordine di tempo, strategia messa in campo dal legislatore nazionale, non senza il rischio concreto di andare a ledere il principio di autonomia degli enti territoriali, è quella legata all’associazionismo obbligatorio delle funzioni fondamentali per alcune “categorie” demografiche di Comuni, come vedremo più nel dettaglio successivamente. Dunque, entro la fine del 2014, pressoché tutte le funzioni in capo ai piccoli Comuni dovranno essere gestite in maniera associata, pena l’applicazione del potere sostitutivo di cui all’art. 8 della l. 131/2003. Nelle pagine seguenti, sarà innanzitutto tracciato un profilo evolutivo della normativa in materia di razionalizzazione territoriale, al fine di comprendere come si sia arrivati e perché a elaborare un “piano” di deframmentazione municipale più marcato che negli ultimi anni. Il focus principale del presente lavoro sarà, poi, dedicato all’esame dell’implementazione della normativa sull’associazionismo obbligatorio nei Comuni calabresi. Perché la scelta sia ricaduta proprio sulla Calabria è presto detto: si tratta di un contesto in cui, storicamente, come avremo modo di vedere, l’associazionismo ha incontrato non poche difficoltà ad attecchire, dunque, una Regione nella quale si partiva (praticamente) da zero. 2 “…occorre che per l’esercizio reale dei poteri di autonomia locale gli enti locali siano veramente vitali”, Atto Senato n. 2.100, X legislatura, anno 1990. Si tratta del disegno di legge “Norme sull’ordinamento dei poteri locali” dei Senatori Dujany e Riz, il cui gruppo di lavoro era coordinato dallo stesso Giannini. 3 L’obiettivo è capire se il programma di deframmentazione dei Comuni stia riuscendo negli intenti stabiliti o, al contrario, se siamo dinanzi a un implementation gap, una differenza tra quanto programmato e quanto concretizzatosi nella fase di implementazione. 2. L’evoluzione delle politiche di razionalizzazione territoriale e della normativa sull’associazionismo in Italia. L’esplosione normativa in tema di associazionismo intercomunale ha inizio nel 1990. Non che in precedenza non fossero stati emanati provvedimenti tesi a inquadrare forme associative tra Comuni, posto che – ad esempio – la nascita delle Comunità Montane è stata sancita dalla legge 1102 del 1971. Prima degli anni novanta, però, il ricorso a forme associative tra Comuni (e la conseguente disciplina) era teso a favorire forme di sviluppo dei territori e non a perseguire l’obiettivo della razionalizzazione territoriale considerato in quanto problema da risolvere. Dunque, quando – nel presente lavoro – si parlerà di normativa sull’associazionismo intercomunale, si intenderà quell’insieme di norme che ha inteso affrontare il problema della eccessiva frammentazione dei Comuni. Da questo punto di vista, la vasta produzione normativa intervenuta sul tema può essere raggruppata in tre fasi temporali, identificanti altrettante strategie messe in campo dai Governi succedutisi nel corso degli anni. In ordine di tempo, la prima fase è quella che va dal 1990 (con l’approvazione della legge 142) al 1999; la seconda prende il via con l’adozione della legge 265/1999 e dura fino al 2010; la terza e ultima inizia con il d.l. 78/2010 e arriva fino ai giorni nostri. Come si diceva in precedenza, le tre fasi corrispondono ad altrettante strategie, tutte messe in pratica con l’obiettivo principale di ridurre la complessa frammentazione dei Comuni in Italia che tanto gravava (e grava) sulle finanze statali. La prima fase corrisponde alla strategia che potremmo definire “dell’intervento diretto” quando, cioè, l’obiettivo esplicito del Governo è quello di predisporre un quadro normativo volto a ridurre il numero dei Comuni italiani puntando sulla fusione. La seconda strategia muove dal palese fallimento della prima. Infatti, in questa fase – che potremmo definire “della libertà” – si prende atto che non solo non si era registrata la riduzione sperata, ma si era addirittura dinanzi un aumento dei Comuni (nel 2000 – a dieci anni dall’entrata in vigore della legge – si contavano 8.106 Comuni3, contro gli 8.100 del 19914). Subentra, dunque la consapevolezza che spingere i Comuni a fondersi non porta da nessuna parte e, quindi, si cerca di stimolare le forme (più o meno stabili) di collaborazione 3 4 Fonte Anci 2001. Dati Istat. 4 tra di essi. L’obiettivo non è più quello della riduzione del numero dei Comuni, ma l’aumento dell’efficienza e dell’efficacia della loro azione. La terza strategia, che definiamo “della libertà controllata”, vede un parziale passo indietro. I Comuni, nel frattempo, non hanno dimostrato particolare virtuosismo nel ricorrere a forme associative che comportassero risultati di gestione positivi. Dunque, il Governo – memore comunque dell’inefficacia di misure che tendessero alla fusione – ha ritenuto di avviare una fase in cui si spinge verso l’associazionismo, ma questa volta con obblighi ben precisi. Strategia Periodo di Obiettivo riferimento Ruolo delle forme associative Intervento diretto 1990 - 1999 Riduzione del numero dei Comuni Propedeutico alla fusione Libertà 1999 - 2010 Strumento di gestione amministrativa Libertà controllata 2010 - … Efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa Efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa/riduzione dei costi Strumento di gestione amministrativa/strumento di razionalizzazione territoriale Andiamo con ordine. La legge 8 giugno 1990, numero 142 fu il primissimo esperimento di razionalizzazione delle circoscrizioni comunali dell’Italia repubblicana5. Occorre prestare attenzione proprio a questo primo concetto: il tentativo di razionalizzare i Comuni italiani. Infatti, la 142 – come parzialmente anticipato in precedenza - non fu la prima legge a occuparsi di associazionismo Comunale, in tal senso già tra gli anni settanta e ottanta erano state introdotte le Comunità 5 Occorre far presente come, prima della definitiva emanazione della l. 142/1990, un disegno di legge di iniziativa dei senatori Cesare Dujany e Roland Riz (Comunicato alla Presidenza del Senato il 20 febbraio 1990), predisposto dal “Gruppo di Roma” diretto e coordinato dal professor Massimo Severo Giannini, si ponesse in posizione critica con (l’allora) disegno di legge poi divenuto il testo della 142. Il disegno di legge di Dujany e Riz risultava essere una proposta alternativa, per alcuni aspetti molto più radicale della 142, per quanto atteneva alle disposizioni relative alla razionalizzazione delle circoscrizioni comunali. All’articolo 1 del disegno di legge richiamato, infatti, prevedeva che: “Il Governo, entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, è delegato ad emanare uno o più decreti aventi forza di legge per il riordino delle circoscrizioni comunali e provinciali su tutto il territorio nazionale”. Più nel dettaglio, l’art. 2 prevedeva l’adozione di piani elaborati a cura delle singole Regioni, in cui dovevano essere tassativamente rispettati alcuni criteri tra i quali il più incisivo risultava essere: “la dimensione minima territoriale comunale non può essere, di norma, inferiore ai 3.000 abitanti […]”. 5 Montane e i comprensori, ma proprio la prima ad avere come obiettivo quello di diminuire il numero dei Comuni. La chiara manifestazione degli intenti legati alla strategia che abbiamo chiamato “dell’intervento diretto” si ha nell’art. 26 della legge in esame. In esso si stabiliva che “in previsione di una loro fusione, due o più comuni contermini, appartenenti alla stessa provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, possono costituire una unione per l'esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi”. Le prime parole dell’articolo racchiudono tutte le intenzioni e, come vedremo tra poco, anche gli stessi motivi che hanno portato al fallimento di questa legge e della complessiva strategia di razionalizzazione delle circoscrizioni comunali. L’Unione, infatti, non era tanto inquadrata come un momento di collaborazione intercomunale per la gestione di servizi e/o funzioni, ma come il primo passo verso la fusione, da concretizzarsi entro dieci anni dall’avvio del progetto associativo. La legge, infatti, imponeva che l’Unione si trasformasse in fusione obbligatoriamente qualora beneficiasse di contributi regionali, aggiuntivi a quelli statali già previsti. In caso contrario, senza i contributi regionali, qualora non si fosse proceduto a fusione, l’Unione doveva essere sciolta obbligatoriamente. Come anticipato poc’anzi, fu un fallimento, non per una mera considerazione personale, ma secondo quanto asserito da attenti studi sul tema. Scrivono, infatti, De Angelis e Pellegrini “com’è noto, sia la ritrosia delle Regioni a porre in essere una politica di aggregazione dei Comuni più piccoli attraverso la leva della modifica delle circoscrizioni territoriali, sia l’indisponibilità dei Comuni ad entrare in un ingranaggio che li portava necessariamente alla loro estinzione mediante fusione, hanno fatto sì che nessun risultato degno di rilievo sia stato ottenuto” (De Angelis e Pellegrini, 2005). Sulle spiegazioni di tutto ciò molto è stato detto, riconducendo, principalmente, ogni motivazione a caratteri più sociologici e politologici che politici e/o di tecnica normativa. Infatti, trattandosi di primo esperimento, l’introduzione di una “clausola”, quella che prevedeva la fusione quale passo successivo all’Unione, non poteva essere “digerita” bene da un sistema, quello dei Comuni, fortemente incardinato nella cultura italiana, caratterizzata - a sua volta - da un forte campanilismo su base comunale che affonda le sue origini nella storia del ‘200 e del ‘300. Non meno decisiva “è stata l’ostilità della classe politica, che proprio nella diffusione capillare della propria struttura organizzativa (e quindi nella moltiplicazione delle sedi istituzionali) ha trovato uno dei principali punti di forza e di riproduzione” (De Angelis e Pellegrini, 2005). Deciso cambio di rotta avviene già con la legge 3 agosto 1999, n. 265 recante “Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142”. 6 È l’inizio della seconda fase, della cosiddetta “strategia della libertà”. Tale disposto normativo, infatti, lascia salvi gli strumenti di associazionismo intercomunali previsti dalla 142, ma interviene radicalmente (stravolgendola) sulla precedente intenzione: quella di ridurre il numero di Comuni. Con la 265/1999, l’obiettivo perseguito è quello di puntare all’efficacia e all’efficienza dell’azione amministrativa, mediante strumenti associativi. Ne è un chiaro esempio la (pressoché) totale riscrittura dell’articolo 26 della 142/1990, con l’intento di “trasformare” l’Unione in uno degli strumenti associativi a disposizione e non, come era in precedenza, in un passaggio della successiva soppressione dei Comuni. Il novellato articolo 26 della 142/1990 prevedeva, dunque, che “le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Sganciandola dalla successiva fusione, “le Unioni di comuni sono venute a configurarsi sia quale ente a vocazione generale, sia quale proiezione stessa dell’autonomia comunale” (Mangiameli, 2005). La percezione di un errore madornale ha, dunque, portato il legislatore a una virata netta, conferendo un profilo diverso – probabilmente più “ammorbidito” – all’Unione. Ad esse, poi, viene assegnato il rango di ente locale e, sopprimendo il limite temporale dei dieci anni, viene a cadere anche la caratteristica di ente “a scadenza”. Altre modifiche sostanziali riguardano le regole dei Comuni che possono costituire Unioni. Non necessariamente deve trattarsi di Comuni contermini, come prima era stato previsto, ma “di norma contermini”, lasciando una evidente flessibilità di scelta. Altre modifiche sono contenute nella medesima previsione normativa, contribuendo – se vogliamo – a stravolgere questa figura di ente locale, ma rendendola sicuramente “più appetibile”. Gli ultimi dati relativi alle Unioni di Comuni parlano di 370 Unioni, con 1881 Comuni coinvolti6. Un bel salto in avanti, ribadendo che - successivamente alla promulgazione della 142 – erano appena 17 (FORMEZ, 2001). Quello che non cambia, rispetto a quanto previsto dalla 142/1990, è il quadro delle forme associative a disposizione dei Comuni per la gestione di funzioni e servizi. Si tratta di quelle forme che, seppur con modifiche intervenute nel corso degli anni, costituiscono il complessivo impianto dell’associazionismo, per come attualmente disciplinato nel d.lgs. 267/2000, il Testo unico sull’ordinamento degli Enti locali. Nel concreto, a norma degli articoli 27 e ss., 30, 31, 32 e 34, attualmente sono previste le seguenti forme di associazione: la Comunità montana/isolana, la Convenzione, il Consorzio, l’Unione di Comuni e l’Accordo di programma. Rispetto a queste, la legislazione intervenuta nel corso degli anni, ha sancito – progressivamente – il venir meno (con procedimenti di soppressione ancora in corso) delle sole Comunità Montane e dei Consorzi. 6 Fonte: elaborazione Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel su dati Anci e Istati, 2013. 7 Seppur i risultati di questa seconda strategia si sono dimostrati positivi, non si è raggiunto – però - quel grado di efficienza sperato. Per di più, le casse statali hanno dovuto fare i conti con la crisi economica globale che ha imposto la riduzione delle spese pubbliche. Come ricordato in apertura, le politiche pubbliche di contenimento della spesa riguardano praticamente sempre, e pressoché ovunque in Europa, la “rimodulazione” del complessivo assetto degli Enti territoriali, inclusi i Comuni (Citroni, Lippi, Profeti, 2013). Dunque, la nuova strategia governativa, preso atto degli scarsi risultati ottenuti dalla “libertà” associativa lasciata in capo ai Comuni e dalla contestuale necessità di arrivare a risultati migliori, intende “spingere” – quanto più possibile – i Comuni verso forme di “associazionismo efficiente”. Anche in questa fase, come nella precedente, l’ipotesi della fusione è stata lasciata da parte, ancora memori della scarsa propensione delle municipalità a perdere la propria identità7. Dunque, secondo il legislatore nazionale, i Comuni devono associarsi per ottenere risultati più efficaci ed efficienti, ma – evidentemente, secondo gli scarsi risultati ottenuti finora – non sono in grado di farlo senza una precisa “guida” dall’alto. A questo punto parte la terza fase e la conseguente strategia; la “libertà” concessa non è servita allo scopo e, dunque, deve essere “controllata” (ecco, dunque, quella che definiamo la strategia della “libertà controllata”). A partire dal 2010, dunque, il Governo ha dato il via a una serie di riforme tese a obbligare i piccoli Comuni ad associarsi per la gestione delle funzioni fondamentali. A norma del d.l. 78/2010 (legge Finanziaria 2010) i Comuni con popolazione compresa tra i 1.000 e i 5.000 abitanti sono obbligati a esercitare “in forma associata, attraverso convenzione o unione” le funzioni fondamentali per come provvisoriamente elencate dalla legge n. 42/2009 (c.d. “federalismo fiscale”) . Un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe dovuto meglio specificare tempi e modi di questo percorso di riordino. Nel mentre il d.P.C.M. era in fase di scrittura, nel 2011 sono subentrate due manovre finanziarie con ulteriori previsioni in materia, giustificate da obiettivi di contenimento della spesa, soprattutto in ordine allo svolgimento delle funzioni politico-amministrative. Trattasi del d.l. 98/2011 (convertito nella legge 111/2011) e del d.l. 138/2011 (convertito nella legge 148/2011). Tali due nuovi dispositivi hanno soppresso tutto l’impianto che era stato introdotto dalla Finanziaria del 2010. 7 E’ curioso notare, però, come l’impianto normativo del d.lgs. 95/2012 abbia innescato un fenomeno per il quale diverse Unioni di Comuni sono state trasformate in fusioni. Basti pensare che secondo i dati del censimento 2011 i Comuni erano 8.092, mentre nel 2014 se ne contato 8.057. Sul punto si veda B. Baldi, G. Xilo, Dall’Unione alla fusione dei Comuni: le ragioni, le criticità e le forme, in Istituzioni del federalismo, Quaderno 1, 2012. 8 A norma dell’art. 16 del d.l. 138/2011, i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti sono obbligati a esercitare in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti attraverso una Unione di Comuni “speciale”8. I Comuni interessati possono optare per la Convenzione, purché riescano a dimostrare – entro il 30 settembre 2013 - di aver gestito, in maniera efficace ed efficiente, tutte le funzioni previste. Nel frattempo, però, gli effetti della crisi hanno avuto pesanti effetti anche sul mondo della politica, determinando la “caduta” dell’Esecutivo di centrodestra in carica e il conseguente subentro del Governo “tecnico” di Mario Monti. Il primo provvedimento emanato dal nuovo Consiglio dei Ministri è il d.l. 201/2011 (c.d. “Salva-Italia”) il quale contiene una pesante novità in ordine alle funzioni assegnate ai Comuni. In virtù di questo provvedimento, infatti, la gran parte delle funzioni precedentemente attribuite alle Province vengono ri-assegnate ai Comuni. Ma l’ulteriore punto di svolta in ordine all’associazionismo comunale arriva con il d.l. 95 del 2012, convertito con legge 135 del 2012. In esso, innanzitutto, vengono individuate le funzioni fondamentali conferite ai Comuni, in luogo di quelle previste provvisoriamente con il d.l. sul “federalismo fiscale”. Per queste ultime, è previsto l’obbligo di gestione associata mediante Unione o Convenzione per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000, o inferiore a 3.000 abitanti se già appartenenti o appartenuti a Comunità montane. Al fine di garantire un processo di graduale avvicinamento a questo modello di gestione, la norma prevedeva l’obbligo di gestione di almeno tre funzioni fondamentali entro il 1° gennaio 2013 e delle restanti entro il 1° gennaio 2014; successivamente, più proroghe intervenute nel tempo hanno previsto che ulteriori tre funzioni (oltre alle tre già associate) dovevano essere associate entro il 1° luglio 2014 e le restanti tre entro il 1° gennaio 2015. Per quanto riguarda i Comuni “polvere” (con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti), il novellato art. 16 del d.l. 138/2011 prevedeva la facoltà (quindi, non più l’obbligo) di svolgere tutte le funzioni e i servizi loro spettanti mediante Unione “speciale”. L’ultima arrivata in ordine di tempo è la legge 7 aprile 2014, numero 56, la cosiddetta legge Del Rio. Anche tale provvedimento si inserisce, pienamente, in quella che abbiamo individuato come terza strategia. Infatti, l’impianto normativo dell’associazionismo obbligatorio non viene modificato, permanendo per i piccoli Comuni gli stessi obblighi stabiliti in precedenza. 8 Si tratta di una forma atipica di Unione, diversa da quella disciplinata dall’art. 32 del Tuel per la composizione degli organi, per il potere statutario e per gli emolumenti. Addirittura si può arrivare a parlare di un “modello a geometria variabile”, a seconda delle funzioni ad esse conferite dai Comuni. A queste Unioni hanno facoltà di aderire anche i Comuni con popolazione dai 1.000 ai 5.000 abitanti. 9 La Del Rio interviene, apportando delle modifiche significative, sulle Unioni e sulle fusioni tra Comuni, semplificando organi e procedure e prevedendo incentivi economici (per quanto attiene le fusioni) che possano fornire il giusto input agli Amministratori. Viene, innanzitutto, a cadere il modello della “doppia” Unione, riconducendo tale ultimo strumento a un’unica formula, quella prevista dall’articolo 32 del Testo Unico degli Enti Locali. La complessiva disciplina degli organi delle Unioni viene razionalizzata, con la previsione dell’assenza di compensi agli Amministratori che ne faranno parte. Viene, dunque, confermata l’intenzione del legislatore di puntare, nel minor tempo possibile, a forme stabili di associazionismo tra Comuni. Se, infatti, l’obbligo associativo consente ai Comuni di optare anche per la Convenzione, le modifiche intervenute con la Del Rio dovrebbero permettere di guardare alle Unioni come uno strumento più “facilmente accessibile”, contribuendo – dunque – a incentivare il ricorso a una forma associativa organica e stabile. La successiva intenzione, con una prospettiva di lungo periodo (ma non troppo), è quella di spingere (motivare) gli Amministratori, una volta intrapreso il percorso di Unione, a puntare verso la fusione che rimane, in assoluto, il rimedio più auspicato della strategia governativa. Il cambio di rotta, verso la strategia della c.d. “libertà controllata” è riscontrabile anche in quella che è stata definita come una “controriforma” (Ruggeri e Salazar, 2012). In tal senso, infatti, se con la modifica del Titolo V della Costituzione l’orientamento prevalente era quello di concedere ampi margini di autonomia agli enti periferici, gli interventi legislativi succedutisi a partire dal 2010, stabilendo obbligatoriamente (per i piccoli Comuni) le modalità di gestione delle funzioni fondamentali, hanno fatto registrare una inversione di tendenza. La “trasformazione” è ben sintetizzata dalle parole di Bilancia quando afferma che: “[…] da una prima impostazione, in base alla quale si considerava l’associazionismo comunale come l’oggetto di un ambito materiale di per sé escluso dalla potestà legislativa statale, in quanto non ricadente nella formula dell’art. 117, 2° comma, lett. p) della Costituzione, con conseguente applicazione della clausola “residuale” di cui al 4° comma dello stesso articolo, si è passati ad un’interpretazione diversa, in forza della quale la disciplina forme associative fra i comuni è stata considerata quale strumento necessario per perseguire ed ottenere significativi risparmi di spesa pubblica, con conseguente attrazione della disciplina dell’ordinamento delle aggregazioni comunali […] nell’alveo della potestà dello Stato ai sensi dell’art 117, comma secondo, e 119 Cost.” (Bilancia, 2012). In conclusione di questa rassegna dei principali tratti evolutivi della normativa in materia di associazionismo comunale, mi preme sottolineare come la necessità di incentivare il ricorso a forme di cooperazione intercomunali non è solo una questione di risparmio (seppur i Governi 10 abbiano puntato praticamente solo su questo), ma anche la concreta possibilità di garantire a tutti i cittadini, anche dei Comuni più piccoli, pari accesso alla fruizione dei servizi. Come evidenziato in una indagine pubblicata nel 1990 (Manozzi e Visco Comandini, 1990), l’eccessiva frammentazione dei Comuni italiani provoca l’incapacità degli stessi di adempiere alle proprie funzioni. Infatti, il “tasso di effettività” nella gestione delle funzioni risultava essere del 29%. Seppur molti anni sono trascorsi da quell’indagine, è ipotizzabile che la percentuale dei giorni nostri non si discosti di molto da quel valore. 3. Frammentazione territoriale e gestione associata in Calabria Si può parlare di un “caso Calabria” perché ogni contesto regionale può essere letto – per quanto riguarda l’associazionismo intercomunale – come un mondo a se stante (Baldini, Bolgherini, Dallara, Mosca, 2009). Le specificità dei singoli territori deriva da due variabili: la legislazione regionale in materia e la “propensione” degli Amministratori locali ad associarsi. Entrambe le variabili sono strettamente correlate e reciprocamente influenzabili. Per quanto attiene la legislazione regionale in materia di associazionismo, l’importanza di questo elemento risiede – come ricordato in precedenza – nella competenza esclusiva regionale in materia di associazionismo intercomunale. Dunque, lo stato attuale dell’associazionismo tra Comuni, e la risposta degli stessi ai nuovi stimoli derivanti dalle leggi che hanno introdotto l’obbligo associativo, dipende in larga parte da quanto le singole Regioni abbiamo favorito (o sfavorito) lo sviluppo del fenomeno attraverso programmi e/o leggi regolative. Per inquadrare meglio il “caso Calabria”, a questo punto, occorre innanzitutto esaminare il dettaglio dell’associazionismo già esistente sul territorio regionale e, parallelamente, la legislazione calabrese in materia. Prima di ciò, però, risulta utile una brevissima panoramica dei dati sui Comuni della Calabria, al fine di avere contezza sul “peso” della frammentazione nella regione esaminata. La Calabria conta, allo stato attuale, 409 Comuni9, per una popolazione complessiva di circa 1.950.000 abitanti. La popolazione media residente nei Comuni calabresi è di 4.788 abitanti, decisamente sotto la media nazionale (7.408 abitanti). 9 Tutti i dati di seguito riportati e riferiti ai Comuni sono elaborazioni Ancitel 2014. 11 18.000 16.000 popolazione media 14.000 12.000 10.000 8.000 6.000 4.000 popolazione media 2.000 Puglia Lazio Toscana Emilia Romagna Sicilia Campania Umbria Veneto Liguria Marche Lombardia Friuli Calabria Basilicata Sardegna Abruzzo Piemonte Trentino Molise Valle D'Aosta 0 Come si evince dal grafico sopra riportato, solo otto Regioni sono al di sopra della popolazione media nazionale (indicata dalla linea tratteggiata), mentre il resto – Calabria inclusa – risultano essere al di sotto. Se abbassiamo la soglia a 5.000 abitanti (indicata nel grafico dalla linea continua), considerata dalla normativa vigente quale dimensione sotto la quale è obbligatoria la gestione associata delle funzioni fondamentali (mettendo da parte, per un momento, l’eccezione concessa ai Comuni appartenenti o appartenuti a Comunità montana), la situazione per la Calabria non cambia. Dunque, la regione in esame appare come uno dei contesti territoriali in cui la frammentazione comunale appare più evidente. Ben 326 Comuni calabresi, sul totale di 409, hanno una popolazione inferiore a 5.000 abitanti, stiamo parlando di circa l’80%. Un dato ancor più grave di quello registrato su scala nazionale dove la percentuale dei piccoli Comuni (con popolazione inferiore a 5.000 abitanti) è del 70%. Se “preoccupante” è il dato di partenza, non rassicurano le statistiche relative all’associazionismo. I monitoraggi a disposizione, scaturenti da precedenti ricerche in materia, hanno riguardato – per lo più – le forme stabili di cooperazione: principalmente Comunità Montane e Unioni di Comuni. I dati relativi alle Comunità Montane posso apparire superati. Ormai da tempo, infatti, gli enti montani sono sulla “via del tramonto”, messi in liquidazione dalla normativa statale perché considerati non più facenti parte del complessivo disegno di razionalizzazione territoriale. 12 Nonostante questo, però, il ricorso all’associazionismo attraverso la Comunità montana può rappresentare un dato rilevante per l’argomento trattato. In questo caso, la Calabria con 20 Comunità Montane, comprendenti 231 Comuni (il 56% circa sul totale dei Comuni nella Regione), risulta essere una delle regioni più virtuose. In molte circostanze, però, ed è questa una delle motivazioni alla base del “fallimento” dell’ente montano, l’adesione era dettata più dalla possibilità di accedere a finanziamenti che non all’effettiva volontà di avviare un percorso comune di sviluppo. La riprova di quanto appena detto emerge dal dato sulle Unioni di Comuni. In questo caso, infatti, la percentuale dei Comuni coinvolti scende drasticamente e si attesta al 12% circa sul totale dei Comuni calabresi. Allo stato attuale, secondo statistiche Ancitel 2014, in Calabria esisterebbero 10 Unioni, comprendenti al loro interno 51 Comuni. Mai come questa volta, però, il condizionale è d’obbligo. Come vedremo nel paragrafo successivo, infatti, l’effettività di questi Enti è più che dubbia, essendo poche – al contrario di quello che ci si aspetterebbe - le Unioni utilizzate per la gestione delle funzioni fondamentali. Dunque, da quanto sopra sinteticamente esposto, i Comuni calabresi si dimostrano poco inclini alla cooperazione, se non quando è presente una motivazione di carattere economico (nella fattispecie, la possibilità di accedere a finanziamenti). Il secondo fattore che prendiamo in considerazione è la legislazione regionale vigente in materia. Sebbene tale elemento arrivi a conclusione della complessiva descrizione del contesto calabrese, per come spiegato in precedenza, esso rappresenta di gran lunga quello che maggiormente ha contribuito a “disegnare” l’attuale scenario dell’associazionismo comunale e, dall’altro lato, quello che meglio descrive la propensione e l’interesse della Calabria al tema oggetto di dibattito. Partiamo dal dato temporale. La legge numero 15 recante “riordino territoriale e incentivazione delle forme associative di Comuni” è datata 24 novembre 2006. L’unico aggiornamento all’atto è intervenuto il 10 luglio 2007 (l.r. 16/2007). Dunque, il testo di legge regionale che dovrebbe regolare e incentivare le forme associative intercomunali non tiene conto delle importanti norme in materia intervenute, come ampiamente sottolineato in precedenza, a partire dal 2010. Il primo dato di fatto è, quindi, che la legge in oggetto è stata ampiamente superata dalla normativa statale successiva. Pertanto, la legge regionale della Calabria n.15 del 2006 è inutile nel fine, quello della razionalizzazione territoriale, posto che la normativa statale sta già affrontando il problema in modo più incisivo. La norma, però, dall’altro lato produce ancora effetti per quanto riguarda la concessione di sussidi. 13 Infatti, la legge stabilisce, ferma restando la preferenza per Unioni o fusioni di Comuni, alcuni principi per determinare il contributo da erogare. In particolare, si terrà in considerazione la gestione tramite uffici comuni di funzioni e servizi e che, comunque, implichi una maggiore integrazione tra gli uffici e il personale dei Comuni aderenti, nonché il conseguimento di una maggiore efficacia, efficienza ed economicità attraverso l'ottimizzazione delle risorse umane, strumentali e finanziarie. Inoltre, altri requisiti che contribuiscono a ordinare le esperienze finanziabili sono: la densità demografica dei comuni ricompresi nella forma associativa, la popolazione (con riferimento a indice di vecchiaia, indice di disoccupazione e indice di spopolamento), il numero dei Comuni ricompresi nella forma associativa, l’altimetria e l’estensione del territorio montano e, infine, l’istituzione di nuovi servizi, anche mediante innovazioni tecnologiche. A tal proposito, è da domandarsi se – in funzione del fatto che ormai molti Comuni stanno adempiendo agli obblighi statali – non sia il caso di rivedere i principi per la concessione dei sussidi, basandoli non più (e non tanto) sui numeri (di popolazione o di enti associati), ma più che altro – sulla capacità dei nuovi soggetti gestori di funzioni e servizi di svolgere gli stessi in maniera qualitativamente adeguata, magari proponendo soluzioni alternative e innovative rispetto alle pratiche poste in essere fino a ora dai singoli Comuni. Per quanto attiene agli ambiti ottimali, la legge – pur nel rispetto di quanto stabilito in appositi programmi di riordino territoriale – stabilisce che costituisce condizione essenziale per l'accesso agli incentivi regionali il raggiungimento, da parte delle forme associate interessate, della soglia minima di almeno 10.000 abitanti. Nei successivi articoli, comunque, oltre alla soglia minima stabilita in relazione al numero degli abitanti, la legge definisce come ottimali anche le forme associative che prevedano l’unione di almeno cinque Comuni, non necessariamente contermini. In un eccesso di deroghe, per livello ottimale si intende anche quello che non raggiunge il livello di popolazione stabilito o gli almeno cinque Comuni associati, purché si tratti di Enti comunali che “presentano particolari affinità territoriali, linguistiche e culturali”. Decisamente in antitesi si pone la legge regionale 43 del 2011 che interviene per disciplinare le Unioni di Comuni. Da precisare e sottolineare come il Consiglio regionale calabrese abbia ritenuto di poter disciplinare un sì importante argomento in soli tre articoli, di cui il primo dedicato alle finalità e il terzo all’entrata in vigore. In tale legge, l’art. 2 stabilisce che “Le unioni dei comuni di cui all'articolo 16, del decreto-legge n. 138 del 2011 […]10, sono istituite in modo che la popolazione residente nei rispettivi territori, […] sia di norma superiore a 4.000 abitanti”. Mentre, non è previsto alcun limite demografico “per la gestione associata obbligatoria dei Comuni imposta dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138[…]” e “per i Comuni di cui all’art. 14 del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, […]”. 10 Si tratta dei Comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti. 14 Ora, al di là del risaputo superamento della normativa statale richiamata nell’articolo di legge in oggetto (non si tiene conto, infatti, delle importanti modifiche intervenute con il d.l. 95/201211), è evidente come il limite demografico ottimale sia molto diverso rispetto a quanto previsto, in generale, per le forme associative ai sensi della legge regionale 15/2006. Diventa necessario, a questo punto, perlomeno un adeguamento della legislazione regionale calabrese alla normativa nazionale o, ancora meglio, un testo di legge che non si limiti semplicemente a disciplinare alla meglio la materia, ma intervenga a fare da stimolo all’associazionismo, partendo dal considerare le caratteristiche storiche, culturali e morfologiche del territorio calabrese. 4. Effetti dell’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali sui Comuni della Calabria A titolo riepilogativo, ricordiamo che la normativa vigente sull’associazionismo obbligatorio prevede l’obbligo di associare nove delle dieci funzioni fondamentali previste dalla legge (esclusa la “tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale”). L’obbligo associativo grava sui Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se appartenenti o appartenuti a Comunità Montana). Lo “strumento” associativo può essere l’Unione dei Comuni o la Convenzione. Tale obbligo si sviluppa attraverso tre scadenze: le prime tre funzioni (la cui individuazione viene lasciata alla libera scelta del Comune obbligato) dovevano essere associate entro l’1 gennaio 2013, ulteriori tre entro il 30 giugno 2014 e le restanti tre entro il 31 dicembre 2014. Il presente lavoro si è occupato del monitoraggio degli effetti della prima scadenza. La scelta di non attendere il completamento del disegno di policy è stata fortemente influenzata dalla volontà di analizzare la “prima reazione” dei Comuni all’implementazione della nuova strategia. L’indagine è stata condotta con il metodo C.a.t.i. (Computer assisted telephone interwiev). All’intervistato sono state poste le seguenti domande: “Al fine di completare una ricerca universitaria sulla gestione associata obbligatoria delle funzioni fondamentali (ex d.l. 95/2012), con riferimento al Vostro Comune: - quali funzioni sono state associate con riferimento alla prima scadenza (3 funzioni entro il 1 gennaio 2013)?; - quale tipologia associativa è stata utilizzata (Unione o convenzione)?; - quali sono i Comuni partner?”. 11 Come meglio specificato nel precedente paragrafo. 15 Oltre alla semplice risposta alle domande sopra riportate, si è cercato di stimolare un commento dell’intervistato circa l’efficacia della cooperazione. Il soggetto intervistato è stato scelto, a seconda della disponibilità, tra uno degli attori più importanti del processo amministrativo: il sindaco o il segretario comunale. All’intervistato è stato sempre chiesto di attingere le informazioni dalle apposite delibere di Consiglio comunale. I Comuni calabresi interessati dal provvedimento sono complessivamente 287, vale a dire la totalità dei Comuni con popolazione uguale o inferiore a 5000 abitanti (326) ai quali vengono sottratti i Comuni con popolazione compresa tra 3000 e 5000 abitanti appartenenti o appartenuti a Comunità Montana (39). Comuni calabresi e gestione associata obbligatoria delle funzioni fondamentali Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti 77 122 Comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 3.000 abitanti Comuni soggetti a obbligo con popolazione compresa tra i 3.000 e i 5.000 abitanti 31 179 Comuni non sottoposti a obbligo associativo I Comuni rilevati sono stati in totale 235, l’81% del totale; per il resto dei Comuni la rilevazione non è stata possibile o non è stato possibile verificare l’attendibilità delle informazioni rese. Rilevazioni per fascia di popolazione 179 147 77 64 Comuni sottoposti a obbligo 31 Fino a 1.000 abitanti Tra 1.000 e 2.999 abitanti 24 Comuni rilevati Tra 3.000 e 5.000 16 Rilevazioni per provincia 106 79 62 58 61 41 53 32 Comuni rilevati 17 13 Catanzaro Cosenza Crotone Vibo Valentia Comuni sottoposti a obbligo Reggio Calabria Dall’indagine sono state rilevate 83 Convenzioni e 5 Unioni. Proprio riguardo a queste ultime è stata registrata la prima particolarità dello studio. Infatti, come scritto nelle precedenti pagine, in Calabria – dai dati ufficiali dell’Anci – risultano 10 Unioni. Ci si aspetterebbe, dunque, che i Comuni che avevano già deciso di costituire una Unione prima dell’obbligo associativo, sfruttassero proprio tale strumento – peraltro con il vantaggio della fase costitutiva già superata – anche per adempiere al nuovo obbligo. Invece così non è stato. Tra l’altro, delle 5 Unioni registrate dalla presente indagine, 2 risultano di nuova costituzione. Dunque, il primo dato interessante è che non c’è corrispondenza tra il dato “formale” e il dato “reale”. Anche se costituite, la gran parte delle Unioni calabresi non hanno risposto alle reali esigenze di efficienza e di razionalizzazione dell’azione amministrativa, risultando essere un contenitore vuoto, inservibile nel reale momento “del bisogno”. Di contro, la nuova strategia messa in campo dal Governo nazionale non ha avuto un effetto particolarmente incisivo nella “mentalità associativa”, posto che solo pochi Comuni hanno deciso di puntare verso la forma più stabile e duratura di associazionismo: l’Unione per l’appunto. Per quanto riguarda le caratteristiche delle associazioni costituite, abbiamo che la “taglia” media registrata è di 4 Comuni per associazione con una popolazione media di circa 8.000 abitanti. Più nel dettaglio, le Convenzioni monitorate presentano mediamente 4 Comuni e una popolazione media di 8.018 abitanti. La Convenzione più “piccola” (2 Comuni associati) ha una popolazione di 1.051 abitanti, mentre quella più “grande” di abitanti ne conta 35.903, frutto dell’associazione tra due Comuni, uno di 2.147 abitanti e uno di 33.756 abitanti Anche le Unioni hanno una taglia “tipo” simile a quella delle Convenzioni. Mediamente nelle Unioni calabresi sono associati 4,6 Comuni, con una popolazione media di 8.755 abitanti. 17 I dati sulle funzioni fondamentali “scelte” come prima risposta all’obbligo associativo evidenziano che la funzione di “progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini” è la più associata. 195 Comuni tra quelli monitorati, il 68% sul totale di quelli “obbligati”, hanno puntato sui “servizi sociali” quale funzione da gestire in maniera associata. Di contro, la meno “scelta” è quella relativa alla “organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale”, riscontrata in sole 2 associazioni con, complessivamente, 5 Comuni interessati12. 195 189 161 Numero Comuni per funzione associata 157 31 29 24 15 5 Non si registrano variazioni significative se consideriamo i Comuni per fascia di popolazione. Infatti, se prendiamo i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e quelli con popolazione tra 1.000 e 3.000 abitanti, il risultano è pressoché identico. In entrambi i casi, nelle prime due posizioni troviamo le funzioni relative all’organizzazione dei servizi sociali e di protezione civile e, all’ultimo posto, l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale. Nel mezzo, come evidenziato dal grafico seguente, si hanno delle variazioni tra le due fasce, ma non tali da essere particolarmente significative. 12 Nel grafico sottostante, le funzioni sono riportate in maniera abbreviata. Si fa, comunque, riferito alle funzioni fondamentali per come riportante nel d.l. 95/2012: a) organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l'organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; 18 46 Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti 45 39 39 8 8 5 5 1 Comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 3.000 abitanti 108 103 90 87 18 17 13 8 1 I Comuni ricadenti nella fascia di popolazione tra 3.000 e 5.000 abitanti, al contrario, hanno “preferenze” diverse. In questa fascia, infatti, il 58% dei Comuni sottoposti a obbligo associativo ha optato per l’associazione della funzione di “protezione civile”, “solo” il 54% invece – i Comuni che hanno associato i “servizi sociali”. All’ultimo posto della speciale classifica, di contro, vi è la funzione di organizzazione e gestione del ciclo dei rifiuti: nessuno, tra i Comuni rilevati, ha voluto associarsi per questo. 19 Comuni con popolazione compresa tra 3.000 e 17 5.000 14 14 18 2 1 1 1 0 In ultimo, ricordato che alla scadenza oggetto del presente lavoro i Comuni interessati all’obbligo avrebbero dovuto associare tre funzioni, è interessante riportare il dato relativo alla frequenza con le quali si ripetono le “terne” di funzioni. Il 26% circa dei Comuni obbligati hanno associato, simultaneamente, le funzioni relative a servizi sociali, protezione civile e catasto. Statistiche "terne" associate 76 Comuni 37 13 CEG Percentuale sui Comuni sottoposti a obbligo 28 26 CEI 10 11 4 EGI CGI 8 3 GHI 6 2 5 2 5 2 CEH EGH AGI 4 1 31 31 31 DGI AEI CDG BEI La prima evidenza che scaturisce dai dati poc’anzi esaminati è che la gran parte dei Comuni calabresi, con riferimento alla prima scadenza diffusamente descritta delle pagine precedenti, ha ottemperato agli obblighi derivanti dalla normativa sull’associazionismo obbligatorio. Va, infatti, ricordato che sui 235 Comuni rilevati, 11 hanno dichiarato di non aver adempiuto all’obbligo imposto dalla legge. Si tratta del 4,6% sul totale degli Enti monitorati per i quali, 20 però, non è stato prevista alcuna sanzione, tantomeno il Commissariamento di cui all’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131. Un esame più attento non restituisce, però, un quadro particolarmente felice. Anche se non è possibile parlare di “fallimento” (per il quale, eventualmente, occorrerà attendere il completamento del disegno legislativo a dicembre 2014), il monitoraggio evidenzia un classico esempio di implementation gap: vale a dire una sfasatura tra quanto programmato e i risultati dell’applicazione (Raniolo, 2008). Infatti, quello che emerge dai dati è la volontà della gran parte dei Comuni di “rimandare” gli effetti più concreti dell’associazionismo, nella speranza – probabilmente – di un ripensamento del Governo in ordine alla strategia posta in essere. Mal digerito dal “notabilato locale” (Balzani, 2012), il provvedimento in esame, fortemente invasivo della sfera di autonomia dei Comuni, è stato osteggiato: non con la “disobbedienza” (che avrebbe sottoposto gli Enti a probabili sanzioni), ma con il “sabotaggio”, attraverso un adattamento della norma - che potremmo definire “alternative implementation” - in modo che questa non producesse – almeno non subito – gli effetti programmati. Prima di passare all’esame dei fattori che hanno portato alle conclusioni sopra esposte, occorre sollevare dubbi sulla perentorietà dell’obbligo contenuto nella norma. Se, infatti, scadenze ed eventuali sanzioni risultano ben definite nel testo, il monitoraggio delle Prefetture sull’adempimento agli obblighi ha tardato ad arrivare e, conseguentemente, nessuna sanzione e/o richiamo è stato avanzato ai Comuni inadempienti. Questo ritardo nel controllo e nelle sanzioni potrebbe alimentare ulteriori comportamenti futuri di “alternative implementation” o di vera e propria inadempienza. Veniamo, dunque, a spiegare perché siamo in presenza di una particolare forma di implementation gap che assume i contorni dell’alternative implementation. Nel corso dell’intervista, la gran parte degli intervistati ha tenuto a precisare che l’associazione è solo “sulla carta”, vale a dire: l’associazione (convenzione o unione) è stata regolarmente costituita, ma non produce effetti. Questa particolare ammissione è stata rilevata (nella quasi totalità dei casi) allorquando le funzioni associate sono quelle relative a Catasto (lettera c, art. 19, comma 1 d.l. 95/2012), pianificazione urbanistica (lettera d), protezione civile (lettera e) e servizi sociali (lettera g). Dunque, queste quattro funzioni si presentano come “funzioni senza effetto” e le associazioni costituite per la loro gestione risultano essere delle associazioni “vetrina”. In effetti, a un’analisi più attenta, quasi mai è stato creato un ufficio catasto unificato, adottati piani comuni relativi all’urbanistica, creato un sistema unificato di protezione civile (con 21 annesso piano intercomunale di protezione civile) o avviate iniziative comuni legate ai servizi sociali. Di contro, le funzioni legate all’organizzazione generale (con la costituzione, principalmente, di uffici comuni per ragioneria, segreteria o ufficio tecnico), ai servizi pubblici, ai rifiuti (con un impulso notevole soprattutto nell’avvio di programmi di raccolta differenziata), all’edilizia scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici (attraverso la gestione associata dei servizi mensa e trasporto) e alla polizia municipale (la cui costituzione di corpi di polizia unificati ha permesso di sopperire, in molti casi, alla carenza di personale) risultano essere “funzioni con effetto”. In presenza di queste funzioni, le associazioni hanno, effettivamente, prodotto effetti concreti nella gestione amministrativa. Il confronto con i dati ci dimostra quanto il fenomeno delle “associazioni vetrina” sia diffuso. Come abbiamo visto, infatti, le “funzioni senza effetto” occupano il primo, il secondo, il quarto e il settimo posto nella classifica delle funzioni più scelte per la gestione associata obbligatoria. Le percentuali di Comuni che le hanno associate, sul totale degli obbligati, è – ad esclusione della funzione di pianificazione urbanistica – ben al di sopra del 50%. Ma il dato emerge ancora di più con chiarezza se prendiamo in esame i dati relativi alle “terne” di funzioni. In questo caso, infatti, il 26% circa dei Comuni sottoposti a obbligo ha costituito associazioni per la gestione di tre “funzioni senza effetto” (catasto, protezione civile e servizi sociali); il 23% ha optato per due “funzioni senza effetto” e una “con effetto”: nel dettaglio, il 13% ha associato catasto e protezione civile da un lato e polizia municipale dall’altro, mentre il 10% protezione civile e servizi sociali da un alto e polizia municipale dall’altro. Oltre alla preferenza per “funzioni senza effetto”, l’ulteriore manifestazione dell’alternative implementation è rappresentato da quelle che possono essere definite “false convenzioni”. Dall’indagine, infatti, sono emersi alcuni casi di convenzioni regolarmente deliberate in Consiglio che non trovano riscontro negli altri Comuni indicati come partner. In sostanza, alcuni Comuni hanno deliberato l’adesione a convenzioni senza che gli altri partner ne fossero a conoscenza, mentre questi ultimi già svolgevano attività inerenti funzioni e servizi associati. Si tratta di casi estremi che riguardano solo tre Comuni i cui dati resi, naturalmente, sono stati considerati tra quelli non verificabili e, quindi, non inseriti nelle statistiche relative alle funzioni associate. In ogni caso, però, questo dimostra – ancora di più – come gli amministratori abbiamo cercato il modo per “aggirare l’ostacolo”. Per comprendere le variabili che hanno influenzato l’applicazione della politica in analisi, ritornano utili le categorie teorizzate da Mazmanian e Sabatier (1983). I due studiosi 22 statunitensi hanno evidenziato come il processo di messa in opera delle politiche è condizionato da tre grandi categorie: la trattabilità del problema di policy; la capacità della policy, o meglio della fase di formulazione, di strutturare e definire il processo attuativo e di coordinare le azioni dei diversi attori coinvolti; il sostegno degli obiettivi di policy rappresentato anche dal grado di impegno degli attuatori; Nella policy in analisi si riscontrano criticità in ordine a tutte e tre le variabili. Come già diffusamente argomentato in precedenza, la trattabilità del problema rappresenta il nodo cruciale. Le politiche di defragmentation e di cost reduction legate al complesso sistema dei Comuni italiani rappresentano una sfida aperta ormai da tempo, tanto più – come visto – in Calabria. Dunque, le difficoltà di implementazione e l’alternative implementation riscontrate derivano principalmente dall’intrattabilità del problema di policy, soprattutto con riferimento alla scarsa propensione degli amministratori locali a perdere la “loro” autonomia. Se la prima categoria non ha favorito l’implementazione della policy per come pensata dal Governo, la seconda ha – invece – aperto la strada per l’alternative implementation vera e propria. Se, infatti, i Comuni hanno potuto mettere in piedi delle associazioni senza una concreta traduzione delle stesse in azioni, molto è dovuto allo scarso livello di dettaglio con cui sono state elencate le funzioni. Le funzioni fondamentali indicate dal d.l. 95/2012 (soprattutto alcune) si prestano a interpretazioni diverse in ordine alla loro traduzione in azioni concrete. Ad esempio, parlare di “organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo” e, di conseguenza della gestione associata di tale funzione, non chiarisce se tutte le possibili attività legate a questa funzione debbano essere associate o soltanto alcune e se, parimenti, l’obbligo associativo è assolto svolgendo tutte le possibili attività o solo alcune. Allo stesso modo, per la funzione “attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi” non è chiaro quali debbano essere le azioni associate: un gruppo unico di protezione civile? Un piano di protezione civile comune e/o coordinato? Simili considerazioni possono essere mosse in ordine a tutte o quasi le funzioni fondamentali indicate dalla norma. Sulla terza categoria, quella relativa al sostegno agli obiettivi di policy, con particolare riferimento all’impegno degli attuatori, si è già detto abbastanza nelle pagine precedenti: fin quando gli amministratori locali non avranno la reale percezione del problema e, soprattutto, la reale volontà di affrontare i problemi legati alla frammentazione, non ci sarà policy che possa riuscire nell’intento. L’implementazione della misura in oggetto, infatti, non è riuscita 23 nel suo processo “discendente” proprio per la mancanza della volontà degli attuatori finali (gli Amministratori locali) di arrivare a misure che rispecchiassero quanto programmato a livello centrale. Un’ulteriore specificazione delle variabili intervenute nella implementazione della normativa in materia di associazionismo obbligatorio, ci viene a partire da quanto teorizzato da Van Meter e Van Horn (1975), poi ripreso da Dente (1989). Comunicazioni interorganizzative e capacità di controllo Caratteristiche dell’agenzia amministrativa Risorse Disposizione degli “implementors” Performance Obiettivi e standards Condizioni economiche politiche e sociali Fonte: B. Dente, 1989 Secondo lo schema sopra riportato, dunque, la performance (la reale implementazione del programma di policy) è influenzata da sei variabili indipendenti: la definizione degli obiettivi e degli standard, la mobilitazione delle risorse, le comunicazioni inter-organizzative e la capacità di controllo, le caratteristiche dell’agenzia di attuazione, i fattori esogeni connessi al contesto di applicazione e la disposizione degli implementatori. Sulla scarsa definizione degli standard e sulla disposizione degli implementor si è già detto. Poco o niente da dire, rispetto alla policy in oggetto, per le variabili inerenti le caratteristiche dell’agenzia e le condizioni esogene (tra l’altro non oggetto di studio e valutazione). Meritano, invece, attenzione altre due variabili. Per quanto riguarda la mobilitazione di risorse occorre fare una distinzione tra le risorse umane (e tecniche) e quelle economiche. Nel caso dei Comuni che applicano le disposizione legate alla policy in oggetto, è da sempre evidenziato (De Vincentiis, 2005) come il personale operante in essi (anche quello impiegato con incarichi dirigenziali) è spesso poco formato e aggiornato. Questo è tanto più vero soprattutto negli Enti di ridotte dimensioni come quelli 24 interessati dall’obbligo associativo. Dunque, i processi associativi incontrano un forte limite nella “scarsa dimestichezza” del personale amministrativo, in testa nei Segretari comunali, con le procedure, ma – soprattutto – con la scarsa sensibilità verso il problema. In questo, tra l’altro, non arriva in ausilio il contributo dei sindaci che, troppe volte, si sono dimostrati non inclini a tale tipo di cambiamenti. Le risorse economiche, invece, in questo caso, dipendono molto da quanto stabilito dalle singole regioni le quali, autonomamente, stabiliscono il quanto e il come delle risorse da destinare. Oltre a costituire un limite all’implementazione, è evidente come tale aspetto possa determinare una diversa implementazione sul territorio nazionale, con specificità legate ai singoli territori regionali. Ma la variabile che avrebbe potuto agire da correttivo è, senza dubbio, quella legata alle comunicazioni inter-organizzative e alla capacità di controllo. Infatti, un dialogo maggiore tra Governo centrale e rappresentanti dei Comuni avrebbe contribuito, con molta probabilità, a limare quegli angoli bui e quegli aspetti mal digeriti che, invece, sono emersi condizionando la messa in opera della policy. Inoltre, un controllo puntuale degli uffici di governo sul territorio in ordine alla corretta e reale applicazione della norma, con eventuali sanzioni, avrebbe dissuaso molte Amministrazioni da implementazioni “creative” della norma stessa. Dunque, tirando le somme, ancora una volta nella definizione di politiche di razionalizzazione territoriale, non è stato tenuto in considerazione il potere degli Amministratori locali di condizionare l’applicazione delle policy di razionalizzazione territoriale. In altre parole, non è stato tenuto conto del grado di “affollamento” (Bobbio, 1997) delle politiche inerenti la deframmentazione comunale. Le strade da perseguire, a questo punto, potrebbero essere due: da un lato, intraprendere un dialogo con le parti in causa (gli Amministratori locali), cercando di comprendere le strade realmente perseguibili per raggiungere lo scopo della razionalizzazione territoriale e/o dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa; dall’altro, arrivare alla realizzazione di programmi altamente dettagliati o a obblighi effettivamente sanzionati in caso di inadempienza. Riferimenti bibliografici AA.VV, Indagine conoscitiva sulle Unioni di Comuni, Rapporti ICON – FORMEZ, 2001. Baldi B., Xilo G., Dall’Unione alla fusione dei Comuni: le ragioni, le criticità e le forme, in Istituzioni del federalismo, Quaderno 1, 2012. Balzani R., Renitenti e resistenti. Com’è difficile riformare gli enti locali, in Il Mulino, 6/2012. 25 Bilancia P., L’Associazionismo obbligatorio dei Comuni nelle più recenti evoluzioni legislative, www.federalismi.it, 1 agosto 2012. 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