Politiche di razionalizzazione territoriale su base comunale. L

Politiche di razionalizzazione territoriale su base comunale.
L’implementazione dell’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali nei
Comuni della Calabria.
Mariano Marotta
Università della Calabria
1. Introduzione
L’interesse verso le forme di deframmentazione dei Comuni, soprattutto in Italia, viaggia di
pari passo con la necessità di arrivare a forti misure di razionalizzazione della spesa pubblica.
Come più volte sottolineato in letteratura (Tubertini, 2012; Gambino e Nocito, 2012; Spadaro,
2011; Bobbio, 2002), i periodi di crisi economica su scala globale spingono i Governi a
cercare con insistenza quelle riforme che possano porre un freno alle uscite dalle casse statali.
Da qui a puntare lo sguardo sul complessivo assetto delle autonomie locali in generale e sui
Comuni in particolare, il passo è breve.
Il problema della riduzione della frammentazione comunale ha interessato la quasi totalità
degli Stati europei a partire dal secondo dopoguerra. Il raggiungimento di livelli ottimali di
popolazione amministrata dai Comuni ha avuto alterne fortune, con evidenti difficoltà in tal
senso, soprattutto, negli ordinamenti di tipo “francese/napoleonico” (Bobbio, 2002) dove il
principio dell’autogoverno delle comunità locali ha portato a un’esplosione del numero degli
enti periferici e, nel corso del tempo, a una resistenza delle amministrazioni locali contro
l’erosione della propria autonomia.
Dunque, il tema del complessivo riordino degli Enti Locali, soprattutto se con riordino si
intende riduzione (di risorse, “poltrone”, …), trova sempre numerosi ostacoli lungo il
percorso, tanto da costringere i Governi, nel corso degli anni, a repentini cambi di rotta. E’
successo negli anni novanta, con la prima architettura della l. 142/1990 stravolta dopo meno
di un decennio; succede anche negli ultimi quattro anni, con una produzione normativa sul
tema a dir poco schizofrenica.
Si è assistito, puntualmente, a casi di “deficit di attuazione” (Ham e Hill, 1985): i programmi
del Governo, una volta tradottisi in azioni concrete, non sono riusciti negli intenti dichiarati.
I principali ostacoli sono rappresentati da quello che è stato definito un “notabilato locale”: un
insieme di interessi forti identificabili, principalmente, da un lato nei politici – desiderosi di
mantenere le rispettive “arene” di potere/consenso – dall’altro nei funzionari/dirigenti – i
quali temono la perdita di ruolo o potere (Balzani, 2012).
Interessi forti, soprattutto i primi, che mirano a mantenere stabile l’assetto locale, a
immunizzarlo nell’immobilismo del “tutto è come è sempre stato”, a discapito dell’interesse
1
generale (rectius: nazionale) per il quale si vorrebbe puntare, al contrario, verso veri e propri
stravolgimenti.
Siamo in presenza di veto players (Tsebelis, 2002), attori del processo di policy il cui
consenso è necessario per il cambiamento dello status quo e, di conseguenza, il cui dissenso
provoca distorsioni o mancanze nell’implementazione della politica stessa.
Gli esempi di questi ostacoli, come detto, sono diversi e si ripetono nel corso degli anni. La
prima volontà del legislatore degli anni novanta fu quella di spingere verso la fusione dei
piccoli Comuni. Un passo perentorio, per mettere fine (o per lo meno iniziare a risolvere)
l’annoso problema delle migliaia di Comuni di ridottissime dimensioni, quasi del tutto
incapaci di ottemperare alle funzioni loro demandate. Ben presto, però, il legislatore nazionale
dovette ritornare sui suoi passi, messo dinanzi al fallimento dell’iniziale disegno, proprio per
(principalmente) una evidente mancanza di volontà da parte degli Amministratori locali
(Castronovo, 2010).
Gli esempi non mancano anche negli anni più recenti, con i continui aggiustamenti al
percorso di associazionismo obbligatorio avviato con Finanziaria del 2010 e più volte
modificata fino (al momento) all’adozione della Legge Del Rio.
Continue modifiche e inversioni di rotta: tutto sintomatico di un disegno “centrale” che non
riesce a esplicarsi sul territorio, perdendosi nell’abile strategia “conservatrice” (nel senso
letterale del termine) della gran parte degli Amministratori locali.
Si tratta di una tendenza che, come avremo modo di vedere dagli esiti del presente lavoro,
risulta confermata anche questa volta, seppur con le evidenze empiriche legate a un solo
contesto regionale: quello calabrese.
Eppure, l’attuale assetto dei Comuni italiani, come ampiamente sottolineato in letteratura,
favorisce la moltiplicazione dei centri di spesa e la dispersione di risorse, unitamente
all’erogazione di servizi e/o funzioni qualitativamente inadeguata o, addirittura, inesistente.
In Italia si contano 8.057 Comuni1, di cui 5.652 con popolazione complessiva inferiore ai
5.000 abitanti (si tratta del 69% circa sul totale) e 1.960 con popolazione inferiore ai 1.000
abitanti (i c.d. “Comuni polvere”).
In realtà il fondamento del problema della frammentazione comunale in Italia risiede
nell’uniformità, tratto tipico del modello amministrativo c.d. “napoleonico”. Se ogni Comune
fosse depositario di funzioni proporzionali alla popolazione in esso residente, come accade
altrove anche in Europa (ad esempio nei sistemi amministrativi di tipo “anglosassone”),
probabilmente il problema non si porrebbe. Il vero nodo della questione è che il Comune di
Roma, 2.638.842 abitanti, è depositario delle stesse funzioni del Comune di Pedesina
(Sondrio) che di abitanti, invece, ne conta 33.
1
Dati Ancitel 2014.
2
Secondo alcuni studiosi, questa situazione costituirebbe una palese violazione del principio
costituzionale di buon andamento della Pubblica Amministrazione. Infatti, se i Comuni (quelli
più piccoli) non riescono ad adempiere ai loro compiti, penalizzando di conseguenza la
popolazione in essi residente, verrebbe meno il rispetto del disposto di cui all’art. 97 della
Costituzione (Castronovo, 2010).
Così posto, il problema sembra assumere contorni esagerati, ma è certo – comunque – che lo
stato attuale delle cose rappresenta – ormai da anni, come vedremo nelle prossime pagine –
uno dei problemi legati all’assetto istituzionale della Repubblica più volte presente
nell’agenda di policy.
La soluzione che – da oltre vent’anni – viene proposta dai vari Governi succedutisi (tra l’altro
di diverso orientamento politico) è quella legata all’aumento della popolazione amministrata.
Tramontata l’ipotesi di fusione, infatti, la scelta ricade ormai sull’associazionismo
intercomunale, nelle diverse variabili più o meno strutturali.
La ratio è quella di trasformare i Comuni attraverso il principio della necessaria “autonomiavitalità” degli stessi, per come autorevolmente sostenuto da Massimo Severo Giannini nel
19902. Un concetto semplice, ma al contempo basilare: se un ente vuole potersi considerare
autonomo deve, necessariamente, essere vitale, deve – cioè – riuscire ad adempiere a tutti i
bisogni che la popolazione in esso residente presenta.
L’ultima, in ordine di tempo, strategia messa in campo dal legislatore nazionale, non senza il
rischio concreto di andare a ledere il principio di autonomia degli enti territoriali, è quella
legata all’associazionismo obbligatorio delle funzioni fondamentali per alcune “categorie”
demografiche di Comuni, come vedremo più nel dettaglio successivamente. Dunque, entro la
fine del 2014, pressoché tutte le funzioni in capo ai piccoli Comuni dovranno essere gestite in
maniera associata, pena l’applicazione del potere sostitutivo di cui all’art. 8 della l. 131/2003.
Nelle pagine seguenti, sarà innanzitutto tracciato un profilo evolutivo della normativa in
materia di razionalizzazione territoriale, al fine di comprendere come si sia arrivati e perché a
elaborare un “piano” di deframmentazione municipale più marcato che negli ultimi anni.
Il focus principale del presente lavoro sarà, poi, dedicato all’esame dell’implementazione
della normativa sull’associazionismo obbligatorio nei Comuni calabresi.
Perché la scelta sia ricaduta proprio sulla Calabria è presto detto: si tratta di un contesto in cui,
storicamente, come avremo modo di vedere, l’associazionismo ha incontrato non poche
difficoltà ad attecchire, dunque, una Regione nella quale si partiva (praticamente) da zero.
2
“…occorre che per l’esercizio reale dei poteri di autonomia locale gli enti locali siano veramente vitali”, Atto
Senato n. 2.100, X legislatura, anno 1990. Si tratta del disegno di legge “Norme sull’ordinamento dei poteri
locali” dei Senatori Dujany e Riz, il cui gruppo di lavoro era coordinato dallo stesso Giannini.
3
L’obiettivo è capire se il programma di deframmentazione dei Comuni stia riuscendo negli
intenti stabiliti o, al contrario, se siamo dinanzi a un implementation gap, una differenza tra
quanto programmato e quanto concretizzatosi nella fase di implementazione.
2. L’evoluzione delle politiche di razionalizzazione territoriale e della normativa
sull’associazionismo in Italia.
L’esplosione normativa in tema di associazionismo intercomunale ha inizio nel 1990. Non
che in precedenza non fossero stati emanati provvedimenti tesi a inquadrare forme associative
tra Comuni, posto che – ad esempio – la nascita delle Comunità Montane è stata sancita dalla
legge 1102 del 1971.
Prima degli anni novanta, però, il ricorso a forme associative tra Comuni (e la conseguente
disciplina) era teso a favorire forme di sviluppo dei territori e non a perseguire l’obiettivo
della razionalizzazione territoriale considerato in quanto problema da risolvere.
Dunque, quando – nel presente lavoro – si parlerà di normativa sull’associazionismo
intercomunale, si intenderà quell’insieme di norme che ha inteso affrontare il problema della
eccessiva frammentazione dei Comuni.
Da questo punto di vista, la vasta produzione normativa intervenuta sul tema può essere
raggruppata in tre fasi temporali, identificanti altrettante strategie messe in campo dai Governi
succedutisi nel corso degli anni.
In ordine di tempo, la prima fase è quella che va dal 1990 (con l’approvazione della legge
142) al 1999; la seconda prende il via con l’adozione della legge 265/1999 e dura fino al
2010; la terza e ultima inizia con il d.l. 78/2010 e arriva fino ai giorni nostri.
Come si diceva in precedenza, le tre fasi corrispondono ad altrettante strategie, tutte messe in
pratica con l’obiettivo principale di ridurre la complessa frammentazione dei Comuni in Italia
che tanto gravava (e grava) sulle finanze statali.
La prima fase corrisponde alla strategia che potremmo definire “dell’intervento diretto”
quando, cioè, l’obiettivo esplicito del Governo è quello di predisporre un quadro normativo
volto a ridurre il numero dei Comuni italiani puntando sulla fusione.
La seconda strategia muove dal palese fallimento della prima. Infatti, in questa fase – che
potremmo definire “della libertà” – si prende atto che non solo non si era registrata la
riduzione sperata, ma si era addirittura dinanzi un aumento dei Comuni (nel 2000 – a dieci
anni dall’entrata in vigore della legge – si contavano 8.106 Comuni3, contro gli 8.100 del
19914). Subentra, dunque la consapevolezza che spingere i Comuni a fondersi non porta da
nessuna parte e, quindi, si cerca di stimolare le forme (più o meno stabili) di collaborazione
3
4
Fonte Anci 2001.
Dati Istat.
4
tra di essi. L’obiettivo non è più quello della riduzione del numero dei Comuni, ma l’aumento
dell’efficienza e dell’efficacia della loro azione.
La terza strategia, che definiamo “della libertà controllata”, vede un parziale passo indietro. I
Comuni, nel frattempo, non hanno dimostrato particolare virtuosismo nel ricorrere a forme
associative che comportassero risultati di gestione positivi. Dunque, il Governo – memore
comunque dell’inefficacia di misure che tendessero alla fusione – ha ritenuto di avviare una
fase in cui si spinge verso l’associazionismo, ma questa volta con obblighi ben precisi.
Strategia
Periodo di
Obiettivo
riferimento
Ruolo delle forme
associative
Intervento diretto
1990 - 1999
Riduzione del numero
dei Comuni
Propedeutico alla fusione
Libertà
1999 - 2010
Strumento di gestione
amministrativa
Libertà
controllata
2010 - …
Efficienza ed efficacia
dell’azione
amministrativa
Efficienza ed efficacia
dell’azione
amministrativa/riduzione
dei costi
Strumento di gestione
amministrativa/strumento
di razionalizzazione
territoriale
Andiamo con ordine.
La legge 8 giugno 1990, numero 142 fu il primissimo esperimento di razionalizzazione delle
circoscrizioni comunali dell’Italia repubblicana5. Occorre prestare attenzione proprio a questo
primo concetto: il tentativo di razionalizzare i Comuni italiani. Infatti, la 142 – come
parzialmente anticipato in precedenza - non fu la prima legge a occuparsi di associazionismo
Comunale, in tal senso già tra gli anni settanta e ottanta erano state introdotte le Comunità
5
Occorre far presente come, prima della definitiva emanazione della l. 142/1990, un disegno di legge di
iniziativa dei senatori Cesare Dujany e Roland Riz (Comunicato alla Presidenza del Senato il 20 febbraio 1990),
predisposto dal “Gruppo di Roma” diretto e coordinato dal professor Massimo Severo Giannini, si ponesse in
posizione critica con (l’allora) disegno di legge poi divenuto il testo della 142.
Il disegno di legge di Dujany e Riz risultava essere una proposta alternativa, per alcuni aspetti molto più radicale
della 142, per quanto atteneva alle disposizioni relative alla razionalizzazione delle circoscrizioni comunali.
All’articolo 1 del disegno di legge richiamato, infatti, prevedeva che: “Il Governo, entro due anni dalla data di
entrata in vigore della presente legge, è delegato ad emanare uno o più decreti aventi forza di legge per il
riordino delle circoscrizioni comunali e provinciali su tutto il territorio nazionale”. Più nel dettaglio, l’art. 2
prevedeva l’adozione di piani elaborati a cura delle singole Regioni, in cui dovevano essere tassativamente
rispettati alcuni criteri tra i quali il più incisivo risultava essere: “la dimensione minima territoriale comunale non
può essere, di norma, inferiore ai 3.000 abitanti […]”.
5
Montane e i comprensori, ma proprio la prima ad avere come obiettivo quello di diminuire il
numero dei Comuni.
La chiara manifestazione degli intenti legati alla strategia che abbiamo chiamato
“dell’intervento diretto” si ha nell’art. 26 della legge in esame. In esso si stabiliva che “in
previsione di una loro fusione, due o più comuni contermini, appartenenti alla stessa
provincia, ciascuno con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, possono costituire una
unione per l'esercizio di una pluralità di funzioni o di servizi”.
Le prime parole dell’articolo racchiudono tutte le intenzioni e, come vedremo tra poco, anche
gli stessi motivi che hanno portato al fallimento di questa legge e della complessiva strategia
di razionalizzazione delle circoscrizioni comunali. L’Unione, infatti, non era tanto inquadrata
come un momento di collaborazione intercomunale per la gestione di servizi e/o funzioni, ma
come il primo passo verso la fusione, da concretizzarsi entro dieci anni dall’avvio del progetto
associativo. La legge, infatti, imponeva che l’Unione si trasformasse in fusione
obbligatoriamente qualora beneficiasse di contributi regionali, aggiuntivi a quelli statali già
previsti. In caso contrario, senza i contributi regionali, qualora non si fosse proceduto a
fusione, l’Unione doveva essere sciolta obbligatoriamente.
Come anticipato poc’anzi, fu un fallimento, non per una mera considerazione personale, ma
secondo quanto asserito da attenti studi sul tema. Scrivono, infatti, De Angelis e Pellegrini
“com’è noto, sia la ritrosia delle Regioni a porre in essere una politica di aggregazione dei
Comuni più piccoli attraverso la leva della modifica delle circoscrizioni territoriali, sia
l’indisponibilità dei Comuni ad entrare in un ingranaggio che li portava necessariamente alla
loro estinzione mediante fusione, hanno fatto sì che nessun risultato degno di rilievo sia stato
ottenuto” (De Angelis e Pellegrini, 2005).
Sulle spiegazioni di tutto ciò molto è stato detto, riconducendo, principalmente, ogni
motivazione a caratteri più sociologici e politologici che politici e/o di tecnica normativa.
Infatti, trattandosi di primo esperimento, l’introduzione di una “clausola”, quella che
prevedeva la fusione quale passo successivo all’Unione, non poteva essere “digerita” bene da
un sistema, quello dei Comuni, fortemente incardinato nella cultura italiana, caratterizzata - a
sua volta - da un forte campanilismo su base comunale che affonda le sue origini nella storia
del ‘200 e del ‘300.
Non meno decisiva “è stata l’ostilità della classe politica, che proprio nella diffusione
capillare della propria struttura organizzativa (e quindi nella moltiplicazione delle sedi
istituzionali) ha trovato uno dei principali punti di forza e di riproduzione” (De Angelis e
Pellegrini, 2005).
Deciso cambio di rotta avviene già con la legge 3 agosto 1999, n. 265 recante “Disposizioni in
materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno
1990, n. 142”.
6
È l’inizio della seconda fase, della cosiddetta “strategia della libertà”. Tale disposto
normativo, infatti, lascia salvi gli strumenti di associazionismo intercomunali previsti dalla
142, ma interviene radicalmente (stravolgendola) sulla precedente intenzione: quella di ridurre
il numero di Comuni. Con la 265/1999, l’obiettivo perseguito è quello di puntare all’efficacia
e all’efficienza dell’azione amministrativa, mediante strumenti associativi. Ne è un chiaro
esempio la (pressoché) totale riscrittura dell’articolo 26 della 142/1990, con l’intento di
“trasformare” l’Unione in uno degli strumenti associativi a disposizione e non, come era in
precedenza, in un passaggio della successiva soppressione dei Comuni.
Il novellato articolo 26 della 142/1990 prevedeva, dunque, che “le unioni di comuni sono enti
locali costituiti da due o più comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare
congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”.
Sganciandola dalla successiva fusione, “le Unioni di comuni sono venute a configurarsi sia
quale ente a vocazione generale, sia quale proiezione stessa dell’autonomia comunale”
(Mangiameli, 2005).
La percezione di un errore madornale ha, dunque, portato il legislatore a una virata netta,
conferendo un profilo diverso – probabilmente più “ammorbidito” – all’Unione.
Ad esse, poi, viene assegnato il rango di ente locale e, sopprimendo il limite temporale dei
dieci anni, viene a cadere anche la caratteristica di ente “a scadenza”.
Altre modifiche sostanziali riguardano le regole dei Comuni che possono costituire Unioni.
Non necessariamente deve trattarsi di Comuni contermini, come prima era stato previsto, ma
“di norma contermini”, lasciando una evidente flessibilità di scelta.
Altre modifiche sono contenute nella medesima previsione normativa, contribuendo – se
vogliamo – a stravolgere questa figura di ente locale, ma rendendola sicuramente “più
appetibile”. Gli ultimi dati relativi alle Unioni di Comuni parlano di 370 Unioni, con 1881
Comuni coinvolti6. Un bel salto in avanti, ribadendo che - successivamente alla
promulgazione della 142 – erano appena 17 (FORMEZ, 2001).
Quello che non cambia, rispetto a quanto previsto dalla 142/1990, è il quadro delle forme
associative a disposizione dei Comuni per la gestione di funzioni e servizi. Si tratta di quelle
forme che, seppur con modifiche intervenute nel corso degli anni, costituiscono il
complessivo impianto dell’associazionismo, per come attualmente disciplinato nel d.lgs.
267/2000, il Testo unico sull’ordinamento degli Enti locali.
Nel concreto, a norma degli articoli 27 e ss., 30, 31, 32 e 34, attualmente sono previste le
seguenti forme di associazione: la Comunità montana/isolana, la Convenzione, il Consorzio,
l’Unione di Comuni e l’Accordo di programma. Rispetto a queste, la legislazione intervenuta
nel corso degli anni, ha sancito – progressivamente – il venir meno (con procedimenti di
soppressione ancora in corso) delle sole Comunità Montane e dei Consorzi.
6
Fonte: elaborazione Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel su dati Anci e Istati, 2013.
7
Seppur i risultati di questa seconda strategia si sono dimostrati positivi, non si è raggiunto –
però - quel grado di efficienza sperato. Per di più, le casse statali hanno dovuto fare i conti
con la crisi economica globale che ha imposto la riduzione delle spese pubbliche. Come
ricordato in apertura, le politiche pubbliche di contenimento della spesa riguardano
praticamente sempre, e pressoché ovunque in Europa, la “rimodulazione” del complessivo
assetto degli Enti territoriali, inclusi i Comuni (Citroni, Lippi, Profeti, 2013).
Dunque, la nuova strategia governativa, preso atto degli scarsi risultati ottenuti dalla “libertà”
associativa lasciata in capo ai Comuni e dalla contestuale necessità di arrivare a risultati
migliori, intende “spingere” – quanto più possibile – i Comuni verso forme di
“associazionismo efficiente”. Anche in questa fase, come nella precedente, l’ipotesi della
fusione è stata lasciata da parte, ancora memori della scarsa propensione delle municipalità a
perdere la propria identità7.
Dunque, secondo il legislatore nazionale, i Comuni devono associarsi per ottenere risultati più
efficaci ed efficienti, ma – evidentemente, secondo gli scarsi risultati ottenuti finora – non
sono in grado di farlo senza una precisa “guida” dall’alto.
A questo punto parte la terza fase e la conseguente strategia; la “libertà” concessa non è
servita allo scopo e, dunque, deve essere “controllata” (ecco, dunque, quella che definiamo la
strategia della “libertà controllata”).
A partire dal 2010, dunque, il Governo ha dato il via a una serie di riforme tese a obbligare i
piccoli Comuni ad associarsi per la gestione delle funzioni fondamentali.
A norma del d.l. 78/2010 (legge Finanziaria 2010) i Comuni con popolazione compresa tra i
1.000 e i 5.000 abitanti sono obbligati a esercitare “in forma associata, attraverso convenzione
o unione” le funzioni fondamentali per come provvisoriamente elencate dalla legge n.
42/2009 (c.d. “federalismo fiscale”) .
Un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe dovuto meglio
specificare tempi e modi di questo percorso di riordino.
Nel mentre il d.P.C.M. era in fase di scrittura, nel 2011 sono subentrate due manovre
finanziarie con ulteriori previsioni in materia, giustificate da obiettivi di contenimento della
spesa, soprattutto in ordine allo svolgimento delle funzioni politico-amministrative.
Trattasi del d.l. 98/2011 (convertito nella legge 111/2011) e del d.l. 138/2011 (convertito nella
legge 148/2011). Tali due nuovi dispositivi hanno soppresso tutto l’impianto che era stato
introdotto dalla Finanziaria del 2010.
7
E’ curioso notare, però, come l’impianto normativo del d.lgs. 95/2012 abbia innescato un fenomeno per il quale
diverse Unioni di Comuni sono state trasformate in fusioni. Basti pensare che secondo i dati del censimento 2011
i Comuni erano 8.092, mentre nel 2014 se ne contato 8.057. Sul punto si veda B. Baldi, G. Xilo, Dall’Unione
alla fusione dei Comuni: le ragioni, le criticità e le forme, in Istituzioni del federalismo, Quaderno 1, 2012.
8
A norma dell’art. 16 del d.l. 138/2011, i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti sono
obbligati a esercitare in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi
pubblici loro spettanti attraverso una Unione di Comuni “speciale”8. I Comuni interessati
possono optare per la Convenzione, purché riescano a dimostrare – entro il 30 settembre 2013
- di aver gestito, in maniera efficace ed efficiente, tutte le funzioni previste.
Nel frattempo, però, gli effetti della crisi hanno avuto pesanti effetti anche sul mondo della
politica, determinando la “caduta” dell’Esecutivo di centrodestra in carica e il conseguente
subentro del Governo “tecnico” di Mario Monti.
Il primo provvedimento emanato dal nuovo Consiglio dei Ministri è il d.l. 201/2011 (c.d.
“Salva-Italia”) il quale contiene una pesante novità in ordine alle funzioni assegnate ai
Comuni.
In virtù di questo provvedimento, infatti, la gran parte delle funzioni precedentemente
attribuite alle Province vengono ri-assegnate ai Comuni.
Ma l’ulteriore punto di svolta in ordine all’associazionismo comunale arriva con il d.l. 95 del
2012, convertito con legge 135 del 2012.
In esso, innanzitutto, vengono individuate le funzioni fondamentali conferite ai Comuni, in
luogo di quelle previste provvisoriamente con il d.l. sul “federalismo fiscale”.
Per queste ultime, è previsto l’obbligo di gestione associata mediante Unione o Convenzione
per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000, o inferiore a 3.000 abitanti se già
appartenenti o appartenuti a Comunità montane.
Al fine di garantire un processo di graduale avvicinamento a questo modello di gestione, la
norma prevedeva l’obbligo di gestione di almeno tre funzioni fondamentali entro il 1° gennaio
2013 e delle restanti entro il 1° gennaio 2014; successivamente, più proroghe intervenute nel
tempo hanno previsto che ulteriori tre funzioni (oltre alle tre già associate) dovevano essere
associate entro il 1° luglio 2014 e le restanti tre entro il 1° gennaio 2015.
Per quanto riguarda i Comuni “polvere” (con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti), il
novellato art. 16 del d.l. 138/2011 prevedeva la facoltà (quindi, non più l’obbligo) di svolgere
tutte le funzioni e i servizi loro spettanti mediante Unione “speciale”.
L’ultima arrivata in ordine di tempo è la legge 7 aprile 2014, numero 56, la cosiddetta legge
Del Rio. Anche tale provvedimento si inserisce, pienamente, in quella che abbiamo
individuato come terza strategia. Infatti, l’impianto normativo dell’associazionismo
obbligatorio non viene modificato, permanendo per i piccoli Comuni gli stessi obblighi
stabiliti in precedenza.
8
Si tratta di una forma atipica di Unione, diversa da quella disciplinata dall’art. 32 del Tuel per la composizione
degli organi, per il potere statutario e per gli emolumenti. Addirittura si può arrivare a parlare di un “modello a
geometria variabile”, a seconda delle funzioni ad esse conferite dai Comuni.
A queste Unioni hanno facoltà di aderire anche i Comuni con popolazione dai 1.000 ai 5.000 abitanti.
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La Del Rio interviene, apportando delle modifiche significative, sulle Unioni e sulle fusioni
tra Comuni, semplificando organi e procedure e prevedendo incentivi economici (per quanto
attiene le fusioni) che possano fornire il giusto input agli Amministratori.
Viene, innanzitutto, a cadere il modello della “doppia” Unione, riconducendo tale ultimo
strumento a un’unica formula, quella prevista dall’articolo 32 del Testo Unico degli Enti
Locali.
La complessiva disciplina degli organi delle Unioni viene razionalizzata, con la previsione
dell’assenza di compensi agli Amministratori che ne faranno parte.
Viene, dunque, confermata l’intenzione del legislatore di puntare, nel minor tempo possibile,
a forme stabili di associazionismo tra Comuni. Se, infatti, l’obbligo associativo consente ai
Comuni di optare anche per la Convenzione, le modifiche intervenute con la Del Rio
dovrebbero permettere di guardare alle Unioni come uno strumento più “facilmente
accessibile”, contribuendo – dunque – a incentivare il ricorso a una forma associativa
organica e stabile.
La successiva intenzione, con una prospettiva di lungo periodo (ma non troppo), è quella di
spingere (motivare) gli Amministratori, una volta intrapreso il percorso di Unione, a puntare
verso la fusione che rimane, in assoluto, il rimedio più auspicato della strategia governativa.
Il cambio di rotta, verso la strategia della c.d. “libertà controllata” è riscontrabile anche in
quella che è stata definita come una “controriforma” (Ruggeri e Salazar, 2012). In tal senso,
infatti, se con la modifica del Titolo V della Costituzione l’orientamento prevalente era quello
di concedere ampi margini di autonomia agli enti periferici, gli interventi legislativi
succedutisi a partire dal 2010, stabilendo obbligatoriamente (per i piccoli Comuni) le modalità
di gestione delle funzioni fondamentali, hanno fatto registrare una inversione di tendenza.
La “trasformazione” è ben sintetizzata dalle parole di Bilancia quando afferma che: “[…] da
una prima impostazione, in base alla quale si considerava l’associazionismo comunale come
l’oggetto di un ambito materiale di per sé escluso dalla potestà legislativa statale, in quanto
non ricadente nella formula dell’art. 117, 2° comma, lett. p) della Costituzione, con
conseguente applicazione della clausola “residuale” di cui al 4° comma dello stesso articolo,
si è passati ad un’interpretazione diversa, in forza della quale la disciplina forme associative
fra i comuni è stata considerata quale strumento necessario per perseguire ed ottenere
significativi risparmi di spesa pubblica, con conseguente attrazione della disciplina
dell’ordinamento delle aggregazioni comunali […] nell’alveo della potestà dello Stato ai sensi
dell’art 117, comma secondo, e 119 Cost.” (Bilancia, 2012).
In conclusione di questa rassegna dei principali tratti evolutivi della normativa in materia di
associazionismo comunale, mi preme sottolineare come la necessità di incentivare il ricorso a
forme di cooperazione intercomunali non è solo una questione di risparmio (seppur i Governi
10
abbiano puntato praticamente solo su questo), ma anche la concreta possibilità di garantire a
tutti i cittadini, anche dei Comuni più piccoli, pari accesso alla fruizione dei servizi. Come
evidenziato in una indagine pubblicata nel 1990 (Manozzi e Visco Comandini, 1990),
l’eccessiva frammentazione dei Comuni italiani provoca l’incapacità degli stessi di adempiere
alle proprie funzioni. Infatti, il “tasso di effettività” nella gestione delle funzioni risultava
essere del 29%. Seppur molti anni sono trascorsi da quell’indagine, è ipotizzabile che la
percentuale dei giorni nostri non si discosti di molto da quel valore.
3. Frammentazione territoriale e gestione associata in Calabria
Si può parlare di un “caso Calabria” perché ogni contesto regionale può essere letto – per
quanto riguarda l’associazionismo intercomunale – come un mondo a se stante (Baldini,
Bolgherini, Dallara, Mosca, 2009).
Le specificità dei singoli territori deriva da due variabili: la legislazione regionale in materia e
la “propensione” degli Amministratori locali ad associarsi. Entrambe le variabili sono
strettamente correlate e reciprocamente influenzabili.
Per quanto attiene la legislazione regionale in materia di associazionismo, l’importanza di
questo elemento risiede – come ricordato in precedenza – nella competenza esclusiva
regionale in materia di associazionismo intercomunale.
Dunque, lo stato attuale dell’associazionismo tra Comuni, e la risposta degli stessi ai nuovi
stimoli derivanti dalle leggi che hanno introdotto l’obbligo associativo, dipende in larga parte
da quanto le singole Regioni abbiamo favorito (o sfavorito) lo sviluppo del fenomeno
attraverso programmi e/o leggi regolative.
Per inquadrare meglio il “caso Calabria”, a questo punto, occorre innanzitutto esaminare il
dettaglio dell’associazionismo già esistente sul territorio regionale e, parallelamente, la
legislazione calabrese in materia.
Prima di ciò, però, risulta utile una brevissima panoramica dei dati sui Comuni della Calabria,
al fine di avere contezza sul “peso” della frammentazione nella regione esaminata.
La Calabria conta, allo stato attuale, 409 Comuni9, per una popolazione complessiva di circa
1.950.000 abitanti.
La popolazione media residente nei Comuni calabresi è di 4.788 abitanti, decisamente sotto la
media nazionale (7.408 abitanti).
9
Tutti i dati di seguito riportati e riferiti ai Comuni sono elaborazioni Ancitel 2014.
11
18.000
16.000
popolazione media
14.000
12.000
10.000
8.000
6.000
4.000
popolazione media
2.000
Puglia
Lazio
Toscana
Emilia Romagna
Sicilia
Campania
Umbria
Veneto
Liguria
Marche
Lombardia
Friuli
Calabria
Basilicata
Sardegna
Abruzzo
Piemonte
Trentino
Molise
Valle D'Aosta
0
Come si evince dal grafico sopra riportato, solo otto Regioni sono al di sopra della
popolazione media nazionale (indicata dalla linea tratteggiata), mentre il resto – Calabria
inclusa – risultano essere al di sotto.
Se abbassiamo la soglia a 5.000 abitanti (indicata nel grafico dalla linea continua), considerata
dalla normativa vigente quale dimensione sotto la quale è obbligatoria la gestione associata
delle funzioni fondamentali (mettendo da parte, per un momento, l’eccezione concessa ai
Comuni appartenenti o appartenuti a Comunità montana), la situazione per la Calabria non
cambia.
Dunque, la regione in esame appare come uno dei contesti territoriali in cui la
frammentazione comunale appare più evidente.
Ben 326 Comuni calabresi, sul totale di 409, hanno una popolazione inferiore a 5.000 abitanti,
stiamo parlando di circa l’80%. Un dato ancor più grave di quello registrato su scala nazionale
dove la percentuale dei piccoli Comuni (con popolazione inferiore a 5.000 abitanti) è del
70%.
Se “preoccupante” è il dato di partenza, non rassicurano le statistiche relative
all’associazionismo.
I monitoraggi a disposizione, scaturenti da precedenti ricerche in materia, hanno riguardato –
per lo più – le forme stabili di cooperazione: principalmente Comunità Montane e Unioni di
Comuni.
I dati relativi alle Comunità Montane posso apparire superati. Ormai da tempo, infatti, gli enti
montani sono sulla “via del tramonto”, messi in liquidazione dalla normativa statale perché
considerati non più facenti parte del complessivo disegno di razionalizzazione territoriale.
12
Nonostante questo, però, il ricorso all’associazionismo attraverso la Comunità montana può
rappresentare un dato rilevante per l’argomento trattato.
In questo caso, la Calabria con 20 Comunità Montane, comprendenti 231 Comuni (il 56%
circa sul totale dei Comuni nella Regione), risulta essere una delle regioni più virtuose. In
molte circostanze, però, ed è questa una delle motivazioni alla base del “fallimento” dell’ente
montano, l’adesione era dettata più dalla possibilità di accedere a finanziamenti che non
all’effettiva volontà di avviare un percorso comune di sviluppo.
La riprova di quanto appena detto emerge dal dato sulle Unioni di Comuni. In questo caso,
infatti, la percentuale dei Comuni coinvolti scende drasticamente e si attesta al 12% circa sul
totale dei Comuni calabresi.
Allo stato attuale, secondo statistiche Ancitel 2014, in Calabria esisterebbero 10 Unioni,
comprendenti al loro interno 51 Comuni. Mai come questa volta, però, il condizionale è
d’obbligo. Come vedremo nel paragrafo successivo, infatti, l’effettività di questi Enti è più
che dubbia, essendo poche – al contrario di quello che ci si aspetterebbe - le Unioni utilizzate
per la gestione delle funzioni fondamentali.
Dunque, da quanto sopra sinteticamente esposto, i Comuni calabresi si dimostrano poco
inclini alla cooperazione, se non quando è presente una motivazione di carattere economico
(nella fattispecie, la possibilità di accedere a finanziamenti).
Il secondo fattore che prendiamo in considerazione è la legislazione regionale vigente in
materia. Sebbene tale elemento arrivi a conclusione della complessiva descrizione del
contesto calabrese, per come spiegato in precedenza, esso rappresenta di gran lunga quello
che maggiormente ha contribuito a “disegnare” l’attuale scenario dell’associazionismo
comunale e, dall’altro lato, quello che meglio descrive la propensione e l’interesse della
Calabria al tema oggetto di dibattito.
Partiamo dal dato temporale. La legge numero 15 recante “riordino territoriale e
incentivazione delle forme associative di Comuni” è datata 24 novembre 2006. L’unico
aggiornamento all’atto è intervenuto il 10 luglio 2007 (l.r. 16/2007).
Dunque, il testo di legge regionale che dovrebbe regolare e incentivare le forme associative
intercomunali non tiene conto delle importanti norme in materia intervenute, come
ampiamente sottolineato in precedenza, a partire dal 2010.
Il primo dato di fatto è, quindi, che la legge in oggetto è stata ampiamente superata dalla
normativa statale successiva.
Pertanto, la legge regionale della Calabria n.15 del 2006 è inutile nel fine, quello della
razionalizzazione territoriale, posto che la normativa statale sta già affrontando il problema in
modo più incisivo.
La norma, però, dall’altro lato produce ancora effetti per quanto riguarda la concessione di
sussidi.
13
Infatti, la legge stabilisce, ferma restando la preferenza per Unioni o fusioni di Comuni, alcuni
principi per determinare il contributo da erogare.
In particolare, si terrà in considerazione la gestione tramite uffici comuni di funzioni e servizi
e che, comunque, implichi una maggiore integrazione tra gli uffici e il personale dei Comuni
aderenti, nonché il conseguimento di una maggiore efficacia, efficienza ed economicità
attraverso l'ottimizzazione delle risorse umane, strumentali e finanziarie.
Inoltre, altri requisiti che contribuiscono a ordinare le esperienze finanziabili sono: la densità
demografica dei comuni ricompresi nella forma associativa, la popolazione (con riferimento a
indice di vecchiaia, indice di disoccupazione e indice di spopolamento), il numero dei
Comuni ricompresi nella forma associativa, l’altimetria e l’estensione del territorio montano
e, infine, l’istituzione di nuovi servizi, anche mediante innovazioni tecnologiche.
A tal proposito, è da domandarsi se – in funzione del fatto che ormai molti Comuni stanno
adempiendo agli obblighi statali – non sia il caso di rivedere i principi per la concessione dei
sussidi, basandoli non più (e non tanto) sui numeri (di popolazione o di enti associati), ma più che altro – sulla capacità dei nuovi soggetti gestori di funzioni e servizi di svolgere gli
stessi in maniera qualitativamente adeguata, magari proponendo soluzioni alternative e
innovative rispetto alle pratiche poste in essere fino a ora dai singoli Comuni.
Per quanto attiene agli ambiti ottimali, la legge – pur nel rispetto di quanto stabilito in appositi
programmi di riordino territoriale – stabilisce che costituisce condizione essenziale per
l'accesso agli incentivi regionali il raggiungimento, da parte delle forme associate interessate,
della soglia minima di almeno 10.000 abitanti. Nei successivi articoli, comunque, oltre alla
soglia minima stabilita in relazione al numero degli abitanti, la legge definisce come ottimali
anche le forme associative che prevedano l’unione di almeno cinque Comuni, non
necessariamente contermini.
In un eccesso di deroghe, per livello ottimale si intende anche quello che non raggiunge il
livello di popolazione stabilito o gli almeno cinque Comuni associati, purché si tratti di Enti
comunali che “presentano particolari affinità territoriali, linguistiche e culturali”.
Decisamente in antitesi si pone la legge regionale 43 del 2011 che interviene per disciplinare
le Unioni di Comuni. Da precisare e sottolineare come il Consiglio regionale calabrese abbia
ritenuto di poter disciplinare un sì importante argomento in soli tre articoli, di cui il primo
dedicato alle finalità e il terzo all’entrata in vigore. In tale legge, l’art. 2 stabilisce che “Le
unioni dei comuni di cui all'articolo 16, del decreto-legge n. 138 del 2011 […]10, sono istituite
in modo che la popolazione residente nei rispettivi territori, […] sia di norma superiore a
4.000 abitanti”. Mentre, non è previsto alcun limite demografico “per la gestione associata
obbligatoria dei Comuni imposta dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138[…]” e “per i
Comuni di cui all’art. 14 del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, […]”.
10
Si tratta dei Comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti.
14
Ora, al di là del risaputo superamento della normativa statale richiamata nell’articolo di legge
in oggetto (non si tiene conto, infatti, delle importanti modifiche intervenute con il d.l.
95/201211), è evidente come il limite demografico ottimale sia molto diverso rispetto a quanto
previsto, in generale, per le forme associative ai sensi della legge regionale 15/2006.
Diventa necessario, a questo punto, perlomeno un adeguamento della legislazione regionale
calabrese alla normativa nazionale o, ancora meglio, un testo di legge che non si limiti
semplicemente a disciplinare alla meglio la materia, ma intervenga a fare da stimolo
all’associazionismo, partendo dal considerare le caratteristiche storiche, culturali e
morfologiche del territorio calabrese.
4. Effetti dell’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali sui Comuni della
Calabria
A titolo riepilogativo, ricordiamo che la normativa vigente sull’associazionismo obbligatorio
prevede l’obbligo di associare nove delle dieci funzioni fondamentali previste dalla legge
(esclusa la “tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi
anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell'esercizio delle funzioni di
competenza statale”).
L’obbligo associativo grava sui Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se
appartenenti o appartenuti a Comunità Montana). Lo “strumento” associativo può essere
l’Unione dei Comuni o la Convenzione.
Tale obbligo si sviluppa attraverso tre scadenze: le prime tre funzioni (la cui individuazione
viene lasciata alla libera scelta del Comune obbligato) dovevano essere associate entro l’1
gennaio 2013, ulteriori tre entro il 30 giugno 2014 e le restanti tre entro il 31 dicembre 2014.
Il presente lavoro si è occupato del monitoraggio degli effetti della prima scadenza. La scelta
di non attendere il completamento del disegno di policy è stata fortemente influenzata dalla
volontà di analizzare la “prima reazione” dei Comuni all’implementazione della nuova
strategia.
L’indagine è stata condotta con il metodo C.a.t.i. (Computer assisted telephone interwiev).
All’intervistato sono state poste le seguenti domande: “Al fine di completare una ricerca
universitaria sulla gestione associata obbligatoria delle funzioni fondamentali (ex d.l.
95/2012), con riferimento al Vostro Comune:
- quali funzioni sono state associate con riferimento alla prima scadenza (3 funzioni entro il 1
gennaio 2013)?;
- quale tipologia associativa è stata utilizzata (Unione o convenzione)?;
- quali sono i Comuni partner?”.
11
Come meglio specificato nel precedente paragrafo.
15
Oltre alla semplice risposta alle domande sopra riportate, si è cercato di stimolare un
commento dell’intervistato circa l’efficacia della cooperazione.
Il soggetto intervistato è stato scelto, a seconda della disponibilità, tra uno degli attori più
importanti del processo amministrativo: il sindaco o il segretario comunale.
All’intervistato è stato sempre chiesto di attingere le informazioni dalle apposite delibere di
Consiglio comunale.
I Comuni calabresi interessati dal provvedimento sono complessivamente 287, vale a dire la
totalità dei Comuni con popolazione uguale o inferiore a 5000 abitanti (326) ai quali vengono
sottratti i Comuni con popolazione compresa tra 3000 e 5000 abitanti appartenenti o
appartenuti a Comunità Montana (39).
Comuni calabresi e gestione associata
obbligatoria delle funzioni fondamentali
Comuni con popolazione fino a
1.000 abitanti
77
122
Comuni con popolazione
compresa tra 1.000 e 3.000
abitanti
Comuni soggetti a obbligo con
popolazione compresa tra i 3.000
e i 5.000 abitanti
31
179
Comuni non sottoposti a obbligo
associativo
I Comuni rilevati sono stati in totale 235, l’81% del totale; per il resto dei Comuni la
rilevazione non è stata possibile o non è stato possibile verificare l’attendibilità delle
informazioni rese.
Rilevazioni per fascia di popolazione
179
147
77
64
Comuni sottoposti a obbligo
31
Fino a 1.000 abitanti
Tra 1.000 e 2.999
abitanti
24
Comuni rilevati
Tra 3.000 e 5.000
16
Rilevazioni per provincia
106
79
62 58
61
41
53
32
Comuni rilevati
17 13
Catanzaro
Cosenza
Crotone
Vibo Valentia
Comuni sottoposti a obbligo
Reggio
Calabria
Dall’indagine sono state rilevate 83 Convenzioni e 5 Unioni. Proprio riguardo a queste ultime
è stata registrata la prima particolarità dello studio.
Infatti, come scritto nelle precedenti pagine, in Calabria – dai dati ufficiali dell’Anci –
risultano 10 Unioni. Ci si aspetterebbe, dunque, che i Comuni che avevano già deciso di
costituire una Unione prima dell’obbligo associativo, sfruttassero proprio tale strumento –
peraltro con il vantaggio della fase costitutiva già superata – anche per adempiere al nuovo
obbligo. Invece così non è stato.
Tra l’altro, delle 5 Unioni registrate dalla presente indagine, 2 risultano di nuova costituzione.
Dunque, il primo dato interessante è che non c’è corrispondenza tra il dato “formale” e il dato
“reale”. Anche se costituite, la gran parte delle Unioni calabresi non hanno risposto alle reali
esigenze di efficienza e di razionalizzazione dell’azione amministrativa, risultando essere un
contenitore vuoto, inservibile nel reale momento “del bisogno”.
Di contro, la nuova strategia messa in campo dal Governo nazionale non ha avuto un effetto
particolarmente incisivo nella “mentalità associativa”, posto che solo pochi Comuni hanno
deciso di puntare verso la forma più stabile e duratura di associazionismo: l’Unione per
l’appunto.
Per quanto riguarda le caratteristiche delle associazioni costituite, abbiamo che la “taglia”
media registrata è di 4 Comuni per associazione con una popolazione media di circa 8.000
abitanti.
Più nel dettaglio, le Convenzioni monitorate presentano mediamente 4 Comuni e una
popolazione media di 8.018 abitanti. La Convenzione più “piccola” (2 Comuni associati) ha
una popolazione di 1.051 abitanti, mentre quella più “grande” di abitanti ne conta 35.903,
frutto dell’associazione tra due Comuni, uno di 2.147 abitanti e uno di 33.756 abitanti
Anche le Unioni hanno una taglia “tipo” simile a quella delle Convenzioni. Mediamente nelle
Unioni calabresi sono associati 4,6 Comuni, con una popolazione media di 8.755 abitanti.
17
I dati sulle funzioni fondamentali “scelte” come prima risposta all’obbligo associativo
evidenziano che la funzione di “progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali
ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini” è la più associata. 195 Comuni tra quelli
monitorati, il 68% sul totale di quelli “obbligati”, hanno puntato sui “servizi sociali” quale
funzione da gestire in maniera associata.
Di contro, la meno “scelta” è quella relativa alla “organizzazione dei servizi pubblici di
interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale”,
riscontrata in sole 2 associazioni con, complessivamente, 5 Comuni interessati12.
195
189
161
Numero Comuni per funzione associata
157
31
29
24
15
5
Non si registrano variazioni significative se consideriamo i Comuni per fascia di popolazione.
Infatti, se prendiamo i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e quelli con popolazione
tra 1.000 e 3.000 abitanti, il risultano è pressoché identico. In entrambi i casi, nelle prime due
posizioni troviamo le funzioni relative all’organizzazione dei servizi sociali e di protezione
civile e, all’ultimo posto, l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale.
Nel mezzo, come evidenziato dal grafico seguente, si hanno delle variazioni tra le due fasce,
ma non tali da essere particolarmente significative.
12
Nel grafico sottostante, le funzioni sono riportate in maniera abbreviata. Si fa, comunque, riferito alle
funzioni fondamentali per come riportante nel d.l. 95/2012: a) organizzazione generale dell'amministrazione,
gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito
comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni
mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale
nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito
comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) l'organizzazione e la
gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi
tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni
ai cittadini, secondo quanto previsto dall'articolo 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica,
organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
18
46
Comuni
con popolazione fino a 1.000 abitanti
45
39
39
8
8
5
5
1
Comuni con popolazione compresa tra 1.000 e
3.000 abitanti
108
103
90
87
18
17
13
8
1
I Comuni ricadenti nella fascia di popolazione tra 3.000 e 5.000 abitanti, al contrario, hanno
“preferenze” diverse. In questa fascia, infatti, il 58% dei Comuni sottoposti a obbligo
associativo ha optato per l’associazione della funzione di “protezione civile”, “solo” il 54% invece – i Comuni che hanno associato i “servizi sociali”.
All’ultimo posto della speciale classifica, di contro, vi è la funzione di organizzazione e
gestione del ciclo dei rifiuti: nessuno, tra i Comuni rilevati, ha voluto associarsi per questo.
19
Comuni con popolazione compresa tra 3.000 e
17
5.000
14
14
18
2
1
1
1
0
In ultimo, ricordato che alla scadenza oggetto del presente lavoro i Comuni interessati
all’obbligo avrebbero dovuto associare tre funzioni, è interessante riportare il dato relativo
alla frequenza con le quali si ripetono le “terne” di funzioni.
Il 26% circa dei Comuni obbligati hanno associato, simultaneamente, le funzioni relative a
servizi sociali, protezione civile e catasto.
Statistiche "terne" associate
76
Comuni
37
13
CEG
Percentuale sui Comuni
sottoposti a obbligo
28
26
CEI
10 11
4
EGI
CGI
8
3
GHI
6
2
5
2
5
2
CEH EGH AGI
4
1
31
31
31
DGI
AEI
CDG
BEI
La prima evidenza che scaturisce dai dati poc’anzi esaminati è che la gran parte dei Comuni
calabresi, con riferimento alla prima scadenza diffusamente descritta delle pagine precedenti,
ha ottemperato agli obblighi derivanti dalla normativa sull’associazionismo obbligatorio.
Va, infatti, ricordato che sui 235 Comuni rilevati, 11 hanno dichiarato di non aver adempiuto
all’obbligo imposto dalla legge. Si tratta del 4,6% sul totale degli Enti monitorati per i quali,
20
però, non è stato prevista alcuna sanzione, tantomeno il Commissariamento di cui all’art. 8
della legge 5 giugno 2003, n. 131.
Un esame più attento non restituisce, però, un quadro particolarmente felice.
Anche se non è possibile parlare di “fallimento” (per il quale, eventualmente, occorrerà
attendere il completamento del disegno legislativo a dicembre 2014), il monitoraggio
evidenzia un classico esempio di implementation gap: vale a dire una sfasatura tra quanto
programmato e i risultati dell’applicazione (Raniolo, 2008).
Infatti, quello che emerge dai dati è la volontà della gran parte dei Comuni di “rimandare” gli
effetti più concreti dell’associazionismo, nella speranza – probabilmente – di un ripensamento
del Governo in ordine alla strategia posta in essere.
Mal digerito dal “notabilato locale” (Balzani, 2012), il provvedimento in esame, fortemente
invasivo della sfera di autonomia dei Comuni, è stato osteggiato: non con la “disobbedienza”
(che avrebbe sottoposto gli Enti a probabili sanzioni), ma con il “sabotaggio”, attraverso un
adattamento della norma - che potremmo definire “alternative implementation” - in modo che
questa non producesse – almeno non subito – gli effetti programmati.
Prima di passare all’esame dei fattori che hanno portato alle conclusioni sopra esposte,
occorre sollevare dubbi sulla perentorietà dell’obbligo contenuto nella norma. Se, infatti,
scadenze ed eventuali sanzioni risultano ben definite nel testo, il monitoraggio delle Prefetture
sull’adempimento agli obblighi ha tardato ad arrivare e, conseguentemente, nessuna sanzione
e/o richiamo è stato avanzato ai Comuni inadempienti.
Questo ritardo nel controllo e nelle sanzioni potrebbe alimentare ulteriori comportamenti
futuri di “alternative implementation” o di vera e propria inadempienza.
Veniamo, dunque, a spiegare perché siamo in presenza di una particolare forma di
implementation gap che assume i contorni dell’alternative implementation.
Nel corso dell’intervista, la gran parte degli intervistati ha tenuto a precisare che
l’associazione è solo “sulla carta”, vale a dire: l’associazione (convenzione o unione) è stata
regolarmente costituita, ma non produce effetti.
Questa particolare ammissione è stata rilevata (nella quasi totalità dei casi) allorquando le
funzioni associate sono quelle relative a Catasto (lettera c, art. 19, comma 1 d.l. 95/2012),
pianificazione urbanistica (lettera d), protezione civile (lettera e) e servizi sociali (lettera g).
Dunque, queste quattro funzioni si presentano come “funzioni senza effetto” e le associazioni
costituite per la loro gestione risultano essere delle associazioni “vetrina”.
In effetti, a un’analisi più attenta, quasi mai è stato creato un ufficio catasto unificato, adottati
piani comuni relativi all’urbanistica, creato un sistema unificato di protezione civile (con
21
annesso piano intercomunale di protezione civile) o avviate iniziative comuni legate ai servizi
sociali.
Di contro, le funzioni legate all’organizzazione generale (con la costituzione, principalmente,
di uffici comuni per ragioneria, segreteria o ufficio tecnico), ai servizi pubblici, ai rifiuti (con
un impulso notevole soprattutto nell’avvio di programmi di raccolta differenziata), all’edilizia
scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici (attraverso la gestione associata dei
servizi mensa e trasporto) e alla polizia municipale (la cui costituzione di corpi di polizia
unificati ha permesso di sopperire, in molti casi, alla carenza di personale) risultano essere
“funzioni con effetto”. In presenza di queste funzioni, le associazioni hanno, effettivamente,
prodotto effetti concreti nella gestione amministrativa.
Il confronto con i dati ci dimostra quanto il fenomeno delle “associazioni vetrina” sia diffuso.
Come abbiamo visto, infatti, le “funzioni senza effetto” occupano il primo, il secondo, il
quarto e il settimo posto nella classifica delle funzioni più scelte per la gestione associata
obbligatoria. Le percentuali di Comuni che le hanno associate, sul totale degli obbligati, è –
ad esclusione della funzione di pianificazione urbanistica – ben al di sopra del 50%.
Ma il dato emerge ancora di più con chiarezza se prendiamo in esame i dati relativi alle
“terne” di funzioni. In questo caso, infatti, il 26% circa dei Comuni sottoposti a obbligo ha
costituito associazioni per la gestione di tre “funzioni senza effetto” (catasto, protezione civile
e servizi sociali); il 23% ha optato per due “funzioni senza effetto” e una “con effetto”: nel
dettaglio, il 13% ha associato catasto e protezione civile da un lato e polizia municipale
dall’altro, mentre il 10% protezione civile e servizi sociali da un alto e polizia municipale
dall’altro.
Oltre alla preferenza per “funzioni senza effetto”, l’ulteriore manifestazione dell’alternative
implementation è rappresentato da quelle che possono essere definite “false convenzioni”.
Dall’indagine, infatti, sono emersi alcuni casi di convenzioni regolarmente deliberate in
Consiglio che non trovano riscontro negli altri Comuni indicati come partner. In sostanza,
alcuni Comuni hanno deliberato l’adesione a convenzioni senza che gli altri partner ne fossero
a conoscenza, mentre questi ultimi già svolgevano attività inerenti funzioni e servizi associati.
Si tratta di casi estremi che riguardano solo tre Comuni i cui dati resi, naturalmente, sono stati
considerati tra quelli non verificabili e, quindi, non inseriti nelle statistiche relative alle
funzioni associate. In ogni caso, però, questo dimostra – ancora di più – come gli
amministratori abbiamo cercato il modo per “aggirare l’ostacolo”.
Per comprendere le variabili che hanno influenzato l’applicazione della politica in analisi,
ritornano utili le categorie teorizzate da Mazmanian e Sabatier (1983). I due studiosi
22
statunitensi hanno evidenziato come il processo di messa in opera delle politiche è
condizionato da tre grandi categorie:
la trattabilità del problema di policy;
la capacità della policy, o meglio della fase di formulazione, di strutturare e definire il
processo attuativo e di coordinare le azioni dei diversi attori coinvolti;
il sostegno degli obiettivi di policy rappresentato anche dal grado di impegno degli
attuatori;
Nella policy in analisi si riscontrano criticità in ordine a tutte e tre le variabili.
Come già diffusamente argomentato in precedenza, la trattabilità del problema rappresenta il
nodo cruciale. Le politiche di defragmentation e di cost reduction legate al complesso sistema
dei Comuni italiani rappresentano una sfida aperta ormai da tempo, tanto più – come visto –
in Calabria. Dunque, le difficoltà di implementazione e l’alternative implementation
riscontrate derivano principalmente dall’intrattabilità del problema di policy, soprattutto con
riferimento alla scarsa propensione degli amministratori locali a perdere la “loro” autonomia.
Se la prima categoria non ha favorito l’implementazione della policy per come pensata dal
Governo, la seconda ha – invece – aperto la strada per l’alternative implementation vera e
propria. Se, infatti, i Comuni hanno potuto mettere in piedi delle associazioni senza una
concreta traduzione delle stesse in azioni, molto è dovuto allo scarso livello di dettaglio con
cui sono state elencate le funzioni. Le funzioni fondamentali indicate dal d.l. 95/2012
(soprattutto alcune) si prestano a interpretazioni diverse in ordine alla loro traduzione in
azioni concrete. Ad esempio, parlare di “organizzazione generale dell'amministrazione,
gestione finanziaria e contabile e controllo” e, di conseguenza della gestione associata di tale
funzione, non chiarisce se tutte le possibili attività legate a questa funzione debbano essere
associate o soltanto alcune e se, parimenti, l’obbligo associativo è assolto svolgendo tutte le
possibili attività o solo alcune.
Allo stesso modo, per la funzione “attività, in ambito comunale, di pianificazione di
protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi” non è chiaro quali debbano essere le
azioni associate: un gruppo unico di protezione civile? Un piano di protezione civile comune
e/o coordinato?
Simili considerazioni possono essere mosse in ordine a tutte o quasi le funzioni fondamentali
indicate dalla norma.
Sulla terza categoria, quella relativa al sostegno agli obiettivi di policy, con particolare
riferimento all’impegno degli attuatori, si è già detto abbastanza nelle pagine precedenti: fin
quando gli amministratori locali non avranno la reale percezione del problema e, soprattutto,
la reale volontà di affrontare i problemi legati alla frammentazione, non ci sarà policy che
possa riuscire nell’intento. L’implementazione della misura in oggetto, infatti, non è riuscita
23
nel suo processo “discendente” proprio per la mancanza della volontà degli attuatori finali (gli
Amministratori locali) di arrivare a misure che rispecchiassero quanto programmato a livello
centrale.
Un’ulteriore specificazione delle variabili intervenute nella implementazione della normativa
in materia di associazionismo obbligatorio, ci viene a partire da quanto teorizzato da Van
Meter e Van Horn (1975), poi ripreso da Dente (1989).
Comunicazioni
interorganizzative
e capacità di
controllo
Caratteristiche
dell’agenzia
amministrativa
Risorse
Disposizione
degli
“implementors”
Performance
Obiettivi e
standards
Condizioni
economiche
politiche e sociali
Fonte: B. Dente, 1989
Secondo lo schema sopra riportato, dunque, la performance (la reale implementazione del
programma di policy) è influenzata da sei variabili indipendenti: la definizione degli obiettivi
e degli standard, la mobilitazione delle risorse, le comunicazioni inter-organizzative e la
capacità di controllo, le caratteristiche dell’agenzia di attuazione, i fattori esogeni connessi al
contesto di applicazione e la disposizione degli implementatori.
Sulla scarsa definizione degli standard e sulla disposizione degli implementor si è già detto.
Poco o niente da dire, rispetto alla policy in oggetto, per le variabili inerenti le caratteristiche
dell’agenzia e le condizioni esogene (tra l’altro non oggetto di studio e valutazione).
Meritano, invece, attenzione altre due variabili.
Per quanto riguarda la mobilitazione di risorse occorre fare una distinzione tra le risorse
umane (e tecniche) e quelle economiche. Nel caso dei Comuni che applicano le disposizione
legate alla policy in oggetto, è da sempre evidenziato (De Vincentiis, 2005) come il personale
operante in essi (anche quello impiegato con incarichi dirigenziali) è spesso poco formato e
aggiornato. Questo è tanto più vero soprattutto negli Enti di ridotte dimensioni come quelli
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interessati dall’obbligo associativo. Dunque, i processi associativi incontrano un forte limite
nella “scarsa dimestichezza” del personale amministrativo, in testa nei Segretari comunali,
con le procedure, ma – soprattutto – con la scarsa sensibilità verso il problema. In questo, tra
l’altro, non arriva in ausilio il contributo dei sindaci che, troppe volte, si sono dimostrati non
inclini a tale tipo di cambiamenti.
Le risorse economiche, invece, in questo caso, dipendono molto da quanto stabilito dalle
singole regioni le quali, autonomamente, stabiliscono il quanto e il come delle risorse da
destinare. Oltre a costituire un limite all’implementazione, è evidente come tale aspetto possa
determinare una diversa implementazione sul territorio nazionale, con specificità legate ai
singoli territori regionali.
Ma la variabile che avrebbe potuto agire da correttivo è, senza dubbio, quella legata alle
comunicazioni inter-organizzative e alla capacità di controllo. Infatti, un dialogo maggiore tra
Governo centrale e rappresentanti dei Comuni avrebbe contribuito, con molta probabilità, a
limare quegli angoli bui e quegli aspetti mal digeriti che, invece, sono emersi condizionando
la messa in opera della policy. Inoltre, un controllo puntuale degli uffici di governo sul
territorio in ordine alla corretta e reale applicazione della norma, con eventuali sanzioni,
avrebbe dissuaso molte Amministrazioni da implementazioni “creative” della norma stessa.
Dunque, tirando le somme, ancora una volta nella definizione di politiche di razionalizzazione
territoriale, non è stato tenuto in considerazione il potere degli Amministratori locali di
condizionare l’applicazione delle policy di razionalizzazione territoriale. In altre parole, non è
stato tenuto conto del grado di “affollamento” (Bobbio, 1997) delle politiche inerenti la
deframmentazione comunale.
Le strade da perseguire, a questo punto, potrebbero essere due: da un lato, intraprendere un
dialogo con le parti in causa (gli Amministratori locali), cercando di comprendere le strade
realmente perseguibili per raggiungere lo scopo della razionalizzazione territoriale e/o
dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa; dall’altro, arrivare alla
realizzazione di programmi altamente dettagliati o a obblighi effettivamente sanzionati in caso
di inadempienza.
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