RASSEGNA STAMPA lunedì 9 giugno 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 09/06/14, pag. 2 VIVA L’ITALIA VIVA Migliaia a Gattatico per la festa del Fatto di Silvia Bia L’impegno nella buona politica di Enrico Berlinguer, la partecipazione intorno alla sua figura e a quello che ha rappresentato per l’Italia. A trent’anni dalla scomparsa, sul palco della festa nazionale del Fatto Quotidiano e dei Comuni Virtuosi, Walter Veltroni ha ricordato il segretario del Pci, presentando il suo film documentario Quando c’era Berlinguer. INSIEME ad Andrea Scanzi e al direttore de Il Fatto Antonio Padellaro, Veltroni ha ripercorso la vita e le imprese di Berlinguer, i successi e le delusioni, fino alla sua morte alla vigilia delle elezioni europee. “Il suo lascito è che la politica può essere bella – ha detto – L’altro è che si può cambiare rimanendo fedeli all’ispirazione dei propri valori. Per questo, anche a distanza di anni, è importante parlare ancora di lui”. Veltroni ha raccontato la storia politica dell’ex leadere del Pci fino al suo malore, da cui non si riprese più, durante il suo ultimo comizio a Padova: “Doveva decidere se pensare alla sua salute, o se finire il suo discorso, per gli altri. E scelse la seconda opzione, dicendo la sua ultima frase alla perfezione, con un sorriso”. NELLA DUE GIORNI di festa “Viva l’Italia viva”, al circolo Arci Fuori Orario di Taneto di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, protagonista è stata anche l’Italia che vuole cambiare e che, nel suo piccolo, cerca di farlo. Incontri e dibattiti, musica e stand gastronomici, hanno animato la manifestazione che ha visto la partecipazione di Emergency, Slow Food e Banca Etica. A chiudere la prima giornata che ha avuto come ospiti, tra gli altri, il segretario di Fiom Cgil Maurizio Landini, l’attore e candidato alle europee con Tsipras Moni Ovadia e la giornalista Milena Gabanelli, è stato il condirettore de Il Fatto Marco Travaglio, che ha parlato di trattativa Stato- mafia e di informazione nel suo monologo “Viva l’Italia”. Nella seconda giornata i riflettori si sono accesi sui Comuni Virtuosi, con la partecipazione di sindaci come Federico Pizzarotti di Parma, entrato da poco nell’associazione, o la rappresentanza di realtà più piccole che hanno fatto di raccolta differenziata, partecipazione e mobilità sostenibile la propria quotidianità, raggiungendo risultati che, se applicati a livello nazionale, potrebbero far diventare l’Italia un Paese virtuoso. 2 ESTERI Del 09/06/2014, pag. 20 Nasce l’Internazionale nera anti-Ue ANDREA TARQUINI BERLINO Nasce l’Internazionale nera, la “Santa alleanza” delle destre radicali antieuropee, anti-occidentali e omofobe del Vecchio continente. E nasce con la benedizione e la sponsorizzazione di oligarchi russi vicini a Putin, nonché la partecipazione di Aleksandr Dugin, il noto leader nazionalista del “Movimento euroasiatico” le cui idee sono state riprese, con l’Unione euroasiatica, proprio dal capo del Cremlino. Una loro riunione a porte chiuse si è tenuta l’ultimo sabato di maggio a Vienna, nello Stadtpalais del principe di Liechtenstein. E dopo aver concluso il vertice con un gran gala, si sono dati appuntamento per gennaio. Probabilmente a Mosca. La notizia, ripresa dal Tagesanzeiger svizzero, ha creato allarme negli ambienti politici e dell’intelligence di diversi paesi democratici, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel. Gli obiettivi comuni non mancano: nazionalismo ed Europa delle patrie, opposta all’Europa come unità politica, e poi opposizione al liberalismo, in senso economico, politico e culturale, ostilità alla “lobby satanica” degli omosessuali, richiamo ai vecchi valori tradizionali di legge e ordine. Ospitante e sponsor l’oligarca russo Konstantin Malofe’ev, con la sua Fondazione intitolata a San Basilio il Grande. Malofe’ev, secondo il Financial Times, avrebbe accesso diretto a Putin ed è sospettato di aver finanziato i separatisti dell’Ucraina orientale. Al suo fianco Aleksandr Dugin, ex ultrà di destra, poi spostatosi su posizioni nazionaliste più moderate. E ancora: Marion Maréchal- Le Pen, la giovane nipote della carismatica numero uno del Front national, il popolare leader della Fpö (destra radicale austriaca) Heinz-Christian Strache, il capo dei radical- nazionalisti bulgari Volen Siderov. Dugin ha auspicato la creazione di «una quinta colonna filorussa di intellettuali che come noi vogliono rafforzare le identità nazionali ». E ha aggiunto: «Così potremo conquistare l’Europa e le sue anime e unirla a noi», e difenderla dalla decadenza occidentale, liberal e gay. L’idea, ovviamente, è di cavalcare l’onda populista uscita dalle urne: non fosse che proprio ieri Marine Le Pen ha dovuto per la prima volta sconfessare pubblicamente suo padre, il patriarca della destra francese, Jean-Marie Le Pen, che in un video ha attaccato un popolare cantautore ebreo, Patrick Bruel, con una battuta pesantissima: «Critica il Fronte? La prossima volta ne faremo un’infornata». Le Pen figlia si è vista costretta di dichiarare al Figaro che il padre «ha fatto un errore politico». Per quel che riguarda la “Internazionale nera”, il grande interrogativo che inquieta le cancellerie europee, è fino a che punto l’alleanza sia in contatto col Cremlino. In ogni caso la Fpö di Strache ha ottimi contatti ufficiali in Russia, mentre Marine Le Pen fin dall’inizio della crisi con l’Ucraina ha voluto lodare la fermezza di Putin. Intanto prevale la riservatezza. Alla riunione niente immagini: quando Strache ha voluto scattare un selfie col suo smartphone, Malofe’ev lo ha subito rimproverato. Del 09/06/2014, pag. 22 Un sondaggio conferma: più di sei spagnoli su dieci vogliono andare alle urne per decidere il futuro della Casa Reale “La famiglia ha 3 abbandonato Juan Carlos e lui ha abdicato”, scrive in un retroscena il quotidiano “El Mundo” Monarchia, Madrid vuole il referendum OMERO CIAI LA MAGGIORANZA degli spagnoli vorrebbe un referendum per decidere se cambiare la forma dello Stato: monarchia o repubblica? È il dato, anche un po’ sorprendente, che emerge da un sondaggio realizzato per El País subito dopo l’annuncio dell’abdicazione di re Juan Carlos il 2 giugno scorso e reso pubblico ieri. Il 62% dei cittadini si dice favorevole alla convocazione di un referendum sulla monarchia anche se poi una leggera maggioranza, intorno al 53%, afferma di preferire come Capo di Stato il prossimo re, Felipe VI, piuttosto che un presidente repubblicano. La maggioranza a favore del referendum è schiacciante tra i più giovani e, nell’età compresa fra i 18 e i 34 anni, sfiora il 75%. Più repubblicani che monarchici a sinistra, nel partito socialista, dove le due opzioni si contendono la maggioranza, con l’organizzazione giovanile — Juventudes socialistas — che ha il ritorno alla Repubblica fra le sue bandiere. E nella “Sinistra Unita”, che a sostegno dei cortei antimonarchici di questi giorni, ha lanciato la campagna “Referendum subito”, presentando una mozione in Parlamento. Secondo il sondaggio la scelta di abdicare è stata accolta con favore nel Paese e ha migliorato l’immagine e la considerazione di Juan Carlos. In una estesa ricostruzione degli avvenimenti degli ultimi mesi alla Corte del re, il quotidiano El Mundo svela alcuni particolari che avrebbero accelerato la decisione. L’idea di lasciare avrebbe preso forza a partire da gennaio quando era diventato evidente che l’immagine del re si offuscava mentre quella del principe andava affermandosi. «Non voglio — avrebbe detto allora Juan Carlos ai suoi consiglieri — che Felipe marcisca nell’attesa come Carlo d’Inghilterra ». Ma è anche la conseguenza di una condizione più generale. «Il re oggi è solo», racconta El Mundo . «Con Sofia praticamente non si parlano» mentre con il principe Felipe, che adesso lo sostituirà, ha una relazione «abbastanza fredda», soprattutto perché il figlio è più legato alla madre «ed è naturale che lo accusi per i brutti momenti che ha vissuto la regina in seguito alle sue avventure amorose». Scarso affetto, segnala la “fonte reale” del Mundo , sarebbe anche quello mostrato da Juan Carlos verso le nipoti, Leonor e Sofia, che dopotutto vivono nel palazzo accanto. E relazioni «poco cordiali» anche quelle con la principessa Letizia perché «non gli piace». Restano le figlie Cristina e Elena. Con Cristina, che aveva una eccellente relazione con il padre, i rapporti «sono completamente interrotti» dopo lo scandalo Urdangarin, l’appropriazione indebita di fondi pubblici, che rischia di portarla nelle prossime settimane alla sbarra. L’unica con la quale conserva un buon rapporto è Elena, la figlia divorziata. Corinna zu Sayn-Wittgenstein, l’ultima amante del re di Spagna, che viene descritta come “una donna diabolica”, sarebbe anche la colpevole dello scandalo in Botswana perché «lui ci andò per passare qualche giorno con lei non per cacciare elefanti». Comunque sia, Corinna è scomparsa dai radar un anno fa e, conclude la ricostruzione, «ormai Juan Carlos è quasi sempre da solo e i suoi weekend sono diventati lunghissimi e noiosi». 4 del 09/06/14, pag. 8 Re o presidente? La Spagna vuole un referendum Secondo un sondaggio del Paìs il 62 per cento dei cittadini vorrebbe esprimersi sulla forma dello Stato ● Alle Cortes i referendari hanno però solo il 10% ● Il 19 giugno sarà il giorno di Felipe VI La maggioranza degli spagnoli vorrebbe essere consultata sul regime statuale del proprio Paese. Questo almeno è quello che dice l’inchiesta di Metroscopia pubblicata da El país questa domenica. Magari per confermare il mandato al futuro re Filippo VI, ma oltre il 60% degli intervistati si dice favorevole ad un referendum sulla monarchia. Così, uno dei nodi mai risolti della transizione democratica, il compromesso per cui la sinistra repubblicana accettò la monarchia, elemento di continuità del franchismo in cambio di uno Stato democratico non confessionale, si ripresenta prepotente nel momento del passaggio di potere determinato dall’abdicazione di re Juan Carlos in favore di suo figlio, il principe Felipe. A quanto sembra, non sono solo le manifestazioni di piazza a rivendicarlo, quanto il senso comune popolare, che vorrebbe approfittare dell’occasione per esercitare un normale esercizio democratico non riconosciuto nel momento dell’emanazione della Costituzione del 1978. È vero che quella Costituzione fu votata con referendum e approvata dalla maggioranza dei cittadini spagnoli, ma era piuttosto il nuovo modello statuale democratico che veniva messo ai voti, non tanto la forma dello Stato. Ed oggi che quel modello dimostra di avere esaurito la sua forza e necessita di una evoluzione, sembra naturale a molti che ciò riguardi anche il regime monarchico. Probabilmente è per non sollevare un problema di questo tipo che Zapatero non andò mai avanti nella sua riforma costituzionale che promuoveva l’eguaglianza di genere nell’asse ereditario della corona - la figlia primogenita dei futuri re di Spagna, Felipe e Letizia, sarà l’erede al regno solo perché ha la fortuna di non avere un fratello maschio. L’IMMUNITÀ È anche per questo che l’articolo della Costituzione sull’abdicazione non è stato mai risolto prima - Così ora Juan Carlos - quando smetterà formalmente di essere re - si vedrà privato dell’immunità, perché non è sembrato il caso di proporre nella legge che il parlamento voterà sull’abdicazione anche la definizione del futuro status dell’ex-monarca di fronte alla legge. Tanto più, che non si sta parlando dell’operato nel corso del regno, che rimane fuori da ogni possibile contenzioso, ma della protezione giuridica di Juan Carlos per il futuro, una volta decaduto. Comunque, sondaggi a parte, sembra certo che il parlamento spagnolo approverà il passaggio di testimone dal vecchio al nuovo re con una maggioranza più che importante. Non la stessa però che sostenne il patto costituzionale del ’78, perché a smarcarsi, questa volta, è Convergència i Unió, il partito nazionalista di destra al governo della generalitat catalana, che ha dichiarato che si asterrà sull’abdicazione di re Juan Carlos. E così, messa la sordina ai rigurgiti di repubblicanesimo tra i socialisti, sarà meno di un 10% dei deputati a chiedere espressamente la celebrazione di un referendum sulla forma statuale. Le Cortes cominceranno l’iter della legge che accetta l’abdicazione del re il prossimo 11 di giugno, per concludersi il 18 di questo mese al Senato. Sarà allora il re Juan Carlos a controfirmare la legge, mettendo fine al suo regno. Il giorno successivo, il 19 giugno, Felipe verrà proclamato re, a camere riunite, con il titolo di Felipe VI. Perché si tratta di un atto di proclamazione, non di incoronazione, con i simboli del potere, corona e scettro, non 5 materialmente indossati. Comincerà così il regno del nuovo capo di Stato spagnolo, di cui tutti immaginano la capacità di rinnovare l’immagine della monarchia, dopo gli ultimi incidenti personali dell’anziano monarca e quelli politici in cui è stata coinvolta la casa reale. Tutti lo aspettano soprattutto alla prova della questione catalana, con il desiderio maggioritario di una popolo che vuole votare per decidere della sua relazione con il resto della Spagna. Con in più una curiosità storica, determinata dal fatto che, trecento anni fa, un altro Filippo di Borbone, Filippo V, portò alla capitolazione di Barcellona e alla perdita della libertà per i catalani nella guerra per la Successione spagnola. del 09/06/14, pag. 16 Carriera, ricchezze (e segreti) del generale che si prende l’Egitto In abito blu di buon taglio e con la consueta aria austera, Abdel Fattah Al Sisi ieri ha giurato al Cairo da sesto presidente dell’Egitto, il quinto militare. Dopo la cerimonia nella sede in stile egizio della Corte costituzionale, poco lontano dalle celle dei suoi predecessori (Mubarak sconta tre anni per furto di fondi pubblici, Morsi attende il giudizio e forse la pena di morte), Al Sisi ha incontrato i suoi ospiti al palazzo presidenziale di Heliopolis. Tra loro i reali di Abu Dhabi, Kuwait, Bahrain e Giordania, oltre al numero 2 dei sauditi in rappresentanza dell’anziano re Abdullah, primo sponsor (anche con miliardi di dollari) dell’«eroe» che ha eliminato dalla scena i Fratelli musulmani. Solo a livello di ambasciatori le diplomazie occidentali: il pugno di ferro del nuovo raìs — centinaia di islamici uccisi, decine di migliaia arrestati, la dichiarazione che «la democrazia arriverà tra 25 anni» — non suscita entusiasmo, come le elezioni di maggio vinte con il 97% dei voti senza veri rivali. Ma anche l’Occidente ha preso atto che Al Sisi è saldamente al comando. Per quanto è difficile dire, ma ora ha ogni potere: esecutivo, legislativo (il parlamento è sciolto), di fatto giudiziario, militare. Eppure fino al 3 luglio 2013 nessuno lo conosceva, in Egitto era noto da poco come ministro della Difesa scelto dal presidente Morsi. Molti pensavano ci fosse un’alleanza tra i due, entrambi molto religiosi. Ma quel 3 luglio fu Al Sisi a deporre il raìs islamico. Un improvviso voltafaccia? Non pare: nonostante fino a tre mesi fa lui abbia negato di volere il potere, molti elementi indicano il contrario. Già da ragazzo, dice chi lo conosceva, «era serio e puntava in alto». Nato nel 1954 a Gamaliya, il quartiere raccontato da Mahfuz nel cuore della Cairo islamica, era il secondo di otto figli di un mobiliere. Durante la campagna elettorale lo staff di Al Sisi, scarno come lui nelle informazioni, lo ha definito «figlio del popolo» se non povero. Ma in realtà, ricordano i vicini, la famiglia era ricca, il padre «era il solo ad avere una Mercedes e possedeva varie botteghe» nel bazar Khan Khalili. Ricchezza cresciuta negli anni tanto che l’eredità del neoraìs sarebbe stata di 3 milioni di euro, aveva scritto in febbraio il quotidiano Al Watan (notizia mai pubblicata: il governo aveva fatto cambiare all’ultimo la prima pagina). In quanto al giovane Abdel Fattah, chi lo conosceva lo descrive «introverso e devoto: non giocava con gli altri, al massimo a scacchi, invece studiava, sollevava pesi, andava a letto presto e a volte si autopuniva. Una volta si rasò i capelli a zero dopo che il padre l’aveva sgridato per una camicia scollata». Nessuna ragazza, pare, fino al fidanzamento a 21 anni con una cugina diventata poi sua moglie (velata) e madre dei suoi quattro figli. Anche la carriera di Al Sisi, che non ha mai combattuto pur essendo chiamato il «leone»», pare senza sorprese: studi in un liceo militare, poi nell’esercito, nel 1992 è a un collegio 6 militare nel Surrey (nessuno lo ricorda, secondo i media britannici). Quindi è addetto militare a Riad e nel 2005 all’accademia in Pennsylvania. Negli ultimi anni di Mubarak è capo dell’intelligence dell’esercito. Su questo ultimo periodo, però, qualche sorpresa è emersa. Secondo vari testimoni Al Sisi già dal 2010 aveva convinto molti generali ad abbandonare Mubarak, in procinto di passare il potere al figlio Gamal. E quando esplose la rivoluzione l’esercito si schierò con la piazza. Altre fonti hanno poi dichiarato che Al Sisi riteneva da tempo che la Fratellanza fosse un pericolo. E che l’alleanza con Morsi fosse di facciata. Super riservato per carattere e per il passato da 007, convinto che le parole non vadano sprecate e il potere vada esercitato dall’alto (non ha fatto comizi elettorali né presentato un programma), Al Sisi è ancora un mistero per molti, egiziani compresi. Ma i fatti che ora sarà più difficile celare, le sue azioni da presidente, saranno presto sotto gli occhi di tutti. Cecilia Zecchinelli del 09/06/14, pag. 2 Shalom, salam: il Papa unisce il Medio Oriente STORICO INCONTRO FRA IL PRESIDENTE PERES E IL LEADER PALESTINESE ABU MAZEN. BERGOGLIO: CI VUOLE MOLTO CORAGGIO PER VOLERE LA PACE Il Sinai è atterrato su un prato all’ombra della Cupola perfetta, che è romana e universale insieme. Karol Wojtyla sognava un incontro delle tre fedi abramitiche sul monte sacro, dove Mosè aveva ricevuto la legge. Papa Francesco ha realizzato il sogno, portando ebrei, cristiani e musulmani a pregare per la pace in Terrasanta nei giardini del Vaticano. In un lento tramonto, con la luna a metà che appariva in trasparenza in cielo, il pontefice ha messo su un pullmino il presidente israeliano Shimon Peres, il presidente palestinese Mahmoud Abbas, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e il custode francescano di Terrasanta padre Pizzaballa e li ha condotti dalla sua “casa”, la residenza di Santa Marta dove li aveva ricevuti separatamente, ad un angolo dei giardini dove il miracolo si è realizzato. Nella lingua di Abramo Sul prato sono arrivati tutti e cinque affiancati, di Francesco – in controluce – si vedevano sotto la veste bianca i pantaloni neri da prete gesuita. All’aperto – perché le epifanie di Dio avvengono sempre sotto il cielo –in uno spazio sgombro da segni di possesso di una sola religione, il rabbino ebreo ha invocato cantando Adonai (il Signore) nella lingua di Abramo e il saggio musulmano in turbante ha cantato la misericordia di Allah nei versetti coranici, che mai erano risuonati tra le mura della capitale del cattolicesimo romano. Si è pregato in tempi distinti, secondo il ritmo della Storia – prima gli ebrei, poi i cristiani, poi i musulmani – ma rimarrà indimenticabile la mescolanza di invocazioni al Signore da cui emerge la profonda intimità tra i salmi biblici, il linguaggio evangelico e i versetti del Corano. Lode al Signore, riconoscimento dei peccati, invocazione alla pace sono stati i tre capitoli della preghiera di ogni religione. Più netta e specifica l’autocritica di parte cristiana, fatta utilizzando il mea culpa di Giovanni Paolo II per il Giubileo: il pentimento per ogni volta in cui i cristiani hanno “causato guerre, fomentato violenza, insegnato il disprezzo verso i 7 nostri fratelli e sorelle”. Sedevano seri, immersi in riflessioni ascoltando le preghiere, i tre protagonisti di questo storico vertice. Immobile, quasi scolpito il viso di Shimon Peres, l’ebreo venuto dalla Polonia, sopravvissuto alla guerra e alla Shoah e poi diventato costruttore e presidente dello stato di Israele. Teso e pensieroso Mahmoud Abbas, il palestinese che ha attraverso la “catastrofe” del suo popolo ma è riuscito a portare la Palestina ad essere stato riconosciuto dalla gran parte dei paesi del mondo. Quando ha preso la parola, Francesco è riuscito ancora una volta ad unire l’aspetto umano, religioso e anche geopolitico. “Troppi figli – ha ricordato –sono caduti vittime di guerre e violenza”. Il dialogo al posto della violenza La loro memoria chiede pace, rispetto e coesistenza pacifica. “Ci vuole coraggio per fare la pace – ha insistito – molto più che per fare la guerra” e dunque “sì al dialogo no alla violenza, sì al rispetto dei patti no alle provocazioni, si alla sincerità no alla doppiezza, sì al negoziato no alle ostilità”. Bisogna “spezzare la spirale la spirale dell’odio e della violenza – ha rimarcato in crescendo ma sempre con la sua voce dal tono basso e modesto – e lo si può fare con una sola parola: Fratello!”. Altre volte tuttavia, ha ammonito, i negoziati si sono arenati, il Maligno si è messo di traverso, e allora è necessario rivolgersi al Dio di Abramo e dei profeti perché indichi la strada da seguire e trasformare la paura in fiducia e le tensioni in perdono. E così arrivare alla pace. “Shalom, Pace, Salam” ha scandito il papa argentino, che in pochi mesi – con il suo no alla guerra di Siria e il progetto di vertice interreligioso in Vaticano – ha dimostrato di avere la stoffa di un leader capace di stare sulla scena internazionale. Erano commossi tutti e due Peres e Abbas, quando hanno preso la parola. Il presidente israeliano ha sostenuto la necessità della “perseveranza” e della disponibilità a “sacrifici e compromessi” per raggiungere una pace tra eguali. Ma con fede e determinazione “la raggiungeremo!”. Il presidente palestinese è intervenuto prolungando la preghiera. Rivolgendosi a Dio perché vi sia “libertà per la Palestina e Gerusalemme sia salva e sicura per tutti i credenti”, perchè abbiano fine le sofferenze del popolo palestinese e via sia per tutto il Medio Oriente una “pace comprensiva”. Lo ha ribadito nel finale: “Pace, stabilità, coesistenza”. Una preghiera per cambiare il mondo Mentre le immagini di Francesco, Peres, Abbas e Bartolomeo – una pala in pugno per piantare un ulivo beneaugurante – facevano il giro del pianeta, correva l’interrogati - vo inevitabile: può una preghiera cambiare il mondo? Probabilmente no. Anzi certamente tutti gli ostacoli alla pace sono ancora sul tavolo. Ma il gesto potente di leader e capi religiosi, che si stringono in preghiera agli occhi del mondo per cercare la via del negoziato, è destinato ad imprimersi nel sentire dell’opinione pubblica internazionale, mettendo in luce il fatto che la situazione in Terrasanta – come disse Francesco a Betlemme –è diventata “sempre più inaccettabile”. Ormai il permanere dell’occupazione della Palestina si è fatto intollerabile. Da oggi Hamas deve capire che non può negare Israele e deve imparare a “comprendere il dolore altrui” (parole di Francesco in Terrasanta). Da oggi il premier Netanyahu è più isolato con la provocazione dei nuovi insediamenti in terra palestinese e le sue pretese nazionalistiche territoriali, ispirate dall’estremismo del partito dei coloni. Del 09/06/2014, pag. 1-2 Peres e Abu Mazen pregano con il Papa “Più coraggio per la pace che per fare la guerra” Lo storico abbraccio tra i presidenti israeliano e palestinese L’arrivo in pulmino: poi tutti insieme piantano un ulivo 8 MARCO ANSALDO CITTA’ DEL VATICANO Dentro un pulmino, in un clima sereno, verso la pace. Una pace per la quale, dice Papa Francesco, «ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra». Così i quattro protagonisti di questo incontro inedito in Vaticano — il Pontefice cattolico, il Patriarca ortodosso, il presidente israeliano, il leader palestinese — arrivano da Casa Santa Marta, la residenza del Papa, nel luogo convenuto per la preghiera. Pregando però non assieme, ma ognuno per conto proprio, e ognuno il proprio Dio, per la distensione in Medio Oriente. Lo sfondo è il verde acceso dei Giardini vaticani. La regia di Jorge Mario Bergoglio. Dietro, un tocco d’arpa, il soffio di un flauto, la corda di violino. Note che fanno risuonare, anche questo per la prima volta, dentro le Mura vaticane i versetti del Corano. «Dio, togli tutte le colpe!», invoca un rabbino. «Noi abbiamo intrapreso guerre, compiuto violenza», legge il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ricordando le parole di Giovanni Paolo II. «O Dio, porta la pace nella terra della pace », recita un imam. Avvolti dalla musica, i momenti di preghiera sono toccanti. Ma le parole non restano meno intense, soprattutto quelle pronunciate dai quattro protagonisti di una giornata memorabile, frutto del viaggio da poco concluso di Francesco in Giordania, Palestina e Israele. E sotto il suo sguardo, sostenuto anche dalla presenza del Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, tra l’israeliano Shimon Peres e il palestinese Abu Mazen scatta subito un abbraccio sentito appena si incontrano, e un altro alla fine con un doppio bacio. In mezzo, il simbolico impianto di un ulivo. Dalla Domus Sanctae Marthae, assurta per l’occasione a “palazzo presidenziale” con tanto di svizzeri alabardati alla porta, i quattro si infilano nel pulmino bianco insieme con padre Pierfrancesco Pizzaballa, custode di Terra santa. I volti sono rilassati. Nel breve tragitto c’è anche un momento di ilarità, e tutti scoppiano a ridere stretti fra i sedili. Ai Giardini dove li aspettano le quattro delegazioni e un’ottantina di giornalisti — molti gli israeliani e gli arabi, alla fine tutti concordi nel commentare positivamente la giornata — Francesco, Bartolomeo, Peres e Abu Mazen arrivano camminando assieme come su una linea invisibile. È una foto storica, una delle tante che regala questo pomeriggio. Francesco prende posto su una piccola pedana con accanto i due presidenti. Il Patriarca su un altro podio. «Spero che questo incontro sia l’inizio di un cammino nuovo — esordisce il Pontefice — alla ricerca di ciò che unisce, per superare ciò che divide. Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro. Mai più la guerra! Con la guerra tutto è distrutto». Peres gli risponde: «Quando ero ragazzo, a 9 anni, mi ricordo la guerra. Mai più! Lei ci ha toccato con il calore del suo cuore. Lei si è presentato come un costruttore di ponti di fratellanza e di pace. Due popoli — gli israeliani e i palestinesi — desiderano ancora ardentemente la pace. Pace fra eguali. La pace non viene facilmente. Noi dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla. Anche se ciò richiede sacrifici o compromessi». È la volta di Abu Mazen: «Una pace giusta, una vita degna e la libertà. La libertà in uno Stato sovrano e indipendente. Noi ti chiediamo, Signore, la pace nella Terra Santa, Palestina, e Gerusalemme insieme con il suo popolo. Noi ti chiediamo di rendere la Palestina e Gerusalemme una terra sicura per tutti i credenti». Francesco ringrazia, e omaggia la partecipazione del «fratello Bartolomeo»: «Un prezioso sostegno». La cerimonia scorre mentre la sera comincia a scendere. Jorge Mario Bergoglio è assorto nella lettura dei testi. Shimon Peres compito. Abu Mazen ha la mano sul bracciolo della sedia, le gambe ognuna per conto suo, ma è ugualmente attento. Bartolomeo felice dopo il suo invito a Francesco per il recente viaggio comune a Gerusalemme. «Sarebbe stato importante — nota il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni — che la preghiera per la pace avvenisse a Gerusalemme, perché è lì la Città santa alle tre religioni e non il Vaticano». Aveva twittato Francesco al mattino, lanciando 9 l’hashtag #weprayforpeace: «Tutti si uniscano alla preghiera». E dopo la messa invocava a «una Chiesa che sorprende e scompiglia», «capace di sorprendere ». Perché, aveva aggiunto, «la Chiesa che non sorprende va subito ricoverata in rianimazione». Del 09/06/2014, pag. 23 Un commando entra sulla pista cargo La polizia spara: almeno sette i morti Ancora sangue sui negoziati con i Taliban Terrore a Karachi attaccato l’aeroporto con bombe e granate battaglia nella notte GIAMPAOLO CADALANU UN COMMANDO di uomini armati con mitragliatori e granate ha assalito ieri sera il vecchio terminal dell’aeroporto Jinnah di Karachi, escluso dal traffico commerciale ma destinato ad arrivi e partenze di persone di rilievo. I terroristi, da quattro a sei secondo la polizia pachistana, hanno lanciato bombe a mano e aperto il fuoco sul personale di sicurezza: il primo provvisorio bilancio parla di almeno cinque guardie e due assalitori rimasti uccisi nello scambio di fucilate. Ma fino a tarda serata lo scontro continuava, mentre sullo scalo convergevano polizia e corpi speciali. Le autorità pachistane hanno sospeso i voli sull’aeroporto. Nelle immagini diffuse dalla tv pachistana, si intravede un incendio nel terminal, accanto ai jet parcheggiati. Un altro sanguinoso attentato ha stravolto la zona del Baluchistan, al confine fra Pakistan e Iran: un attentatore suicida ha straziato gli avventori di un ristorante, si parla di 23 morti ma il bilancio sembra destinato a farsi ancora più tragico. Il locale era frequentato soprattutto dalla comunità sciita e in particolare, sottolinea la France Presse, il gruppo all’interno del ristorante era reduce da un viaggio in Iran: questo fa pensare a un attacco di natura qaedista, secondo la prassi ormai abituali già seguita in Iraq e in Siria. Per ora non è chiaro se i due attentati siano collegati, come non è facile capire quale sia lo scopo dell’attacco all’aeroporto, soprattutto perché resta ancora da capire chi siano gli assalitori. La prima, più ovvia, ipotesi è quella che punta il dito contro i Taliban pachistani, da sempre disponibili ad attacchi sanguinari, anche rivolti verso i civili. Gli “studenti coranici” pachistani sono diversi dai Taliban dell’Afghanistan anzi tutto per l’obiettivo strategico, che per loro è il rovesciamento dello Stato pachistano (da sempre sostenitore più o meno occulto dei Taliban afgani). Ma differenze forti sono anche nel modo di condurre le azioni: il nucleo centrale dei Taliban pachistani, il Tehrik-i-Taliban Pakistan, adopera tecniche sanguinose, bombe contro civili e rapimenti a scopo di estorsione, al punto che una parte del gruppo ha preferito staccarsi e agire per conto suo, considerando queste tecniche anti-islamiche. Il fatto che l’attacco allo scalo sia avvenuto a Karachi, però, lascia aperta la strada a un’altra ipotesi, che la sparatoria sia il seguito dei disordini dei giorni scorsi, collegati all’arresto martedì a Londra di Altaf Hussain, leader del Muttahida Qaumi Movement, il partito laico della popolazione di lingua urdu, molto forte in città. 10 INTERNI Del 09/06/2014, pag. 1-4 I democratici conquistano Pavia, Bergamo, Cremona e Vercelli ma perdono Padova Bari e Pescara a sinistra, Perugia va a destra. Crolla l’affluenza: al voto solo 1 su 2 Il Nord al Pd, Livorno a Grillo SILVIO BUZZANCA Ieri 148 Comuni italiani sono tornati al voto per il turno di ballottaggio per eleggere il loro sindaco. L’affluenza è crollata al 49,5 percento (il dato del Viminale non tiene conto delle comunali in Friuli Venezia Giulia e Sicilia), contro il 70,6 percento del primo turno, il 25 maggio scorso. Un calo di oltre venti punti. A Bari si conferma il centrosinistra con Antonio Decaro. Il Pd conquista al Nord Bergamo, con Giorgio Gori, e Pavia, con Massimo Depaoli, ma perde Padova. Il Movimento 5Stelle espugna Livorno, dove il candidato grillino, Filippo Nogarin, sorpassa quello democratico, Marco Ruggeri. Perugia passa al centrodestra con Andrea Romizi. Ribaltone. È la parola chiave del turno di ballottaggio delle comunali. Con ben 13 comuni che passano da uno schieramento all’altro. E con risultati clamorosi. Come a Livorno, dove il Movimento Cinque Stelle espugna il comune dopo quasi 70 anni di governo della sinistra. Il candidato grillino Filippo Nogarin ha infatti battuto quello del Pd Marco Ruggeri, ex segretario cittadino e fino a qualche mese fa capogruppo democratico nel Consiglio regionale toscano. I grillini poi portano a casa anche la vittoria a Civitavecchia. Il tracollo di Livorno però segnala un vero e proprio caso politico se associato con un’altra bruciante sconfitta: il centrodestra conquista infatti Perugia, altra città simbolo del potere “rosso” nell’Italia centrale. E a completare la frana in questa zona dell’Italia arriva anche la sconfitta ad Urbino dove vince Maurizio Gambini del centrodestra. Il Pd perde infine anche Potenza, piccolo feudo del centrosinistra in Basilicata, dove si era presentato Luigi Petroni, battuto dal candidato del centrodestra Dario De Luca. I democratici inoltre, non riescono a riconfermarsi nella Padova dell’ex ministro Flavio Zanonato che viene riconquistata dal centrodestra guidato dal leghista Massimo Bitonci. Infine anche Foggia torna al centrodestra. Nonostante i timori, molto simili a quelli di Livorno, il partito del premier tiene invece a Modena, dove aveva sfiorato la vittoria al primo turno e al ballottaggio tiene lontana l’alleanza fra tutto il centrodestra e i grillini. A parziale compensazione il Partito democratico strappa agli avversari sette città. A partire da Bergamo, dove vince Giorgio Gori, molto vicino a Matteo Renzi, e soprattutto Pavia, guidata fino ad ieri da Alessandro Cattaneo, il “formattattore” di Forza Italia, indicato da molti come uno degli astri nascenti del partito berlusconiano. I democratici riescono a ribaltare i precedenti rapporti di forza anche a Pescara, Vercelli, Cremona, Biella e Verbania. Il partito di Renzi si riconferma a Bari, dove Antonio De Caro prende il posto dell’uscente Emiliano, mentre il centrodestra conserva la guida di Teramo Questi risultati maturano in un quadro di forte astensione. Rispetto a 15 giorni fa, quando si era presentato alle urne il 70,61 per cento degli elettori, ieri ha votato solo 49,50 per cento, restando dunque sotto la soglia psicologica del 50 per cento. Il secondo turno non è mai stato molto amato dagli italiani e la tendenza si è così confermata anche questa volta. Complice anche la prima vera domenica estiva della stagione, Il crollo va da un minimo ad Urbino, meno 8,79%, a cifre a due cifre: per esempio Terni con meno 28,20%, Foggia dove si registra un meno 25,88%, Verbania 11 meno 24,60% e Vercelli dove manca all’appello il 20,77%. Ma non va meglio altrove. Cremona meno 14,72%, Potenza meno 16,74%,. Biella meno 10 per cento%., Bergamo meno 15,18%. Un risultato finale che conferma il dato parziale delle 19, quando era andato a votare il 33,8% degli aventi diritto contro il 52,4% del primo turno. 12 LEGALITA’DEMOCRATICA del 09/06/14, pag. 6 Da ‘0 milionario al baby-boss vestito da donna DOPO LA GUERRA TRA SCISSIONISTI E DI LAURO, NESSUNA FAMIGLIA RIESCE PIÙ A DOMINARE SUL TERRITORIO: LE PIAZZE DI SPACCIO SI SPOSTANO ALLA PERIFERIA NORD Scampia - Secondigliano, per loro e per le altre enclave napoletane dominate dai clan della camorra, il sociologo Isaia Sales coniò il termine di “quartieri-Stato”. E vide giusto. Perché in queste periferie sterminate di Napoli negli anni d’oro della camorra lo Stato non c’era, o almeno aveva difficoltà ad affermare la sua potenza. Le leggi, il controllo e il governo del territorio, tutto ciò che riguarda il governo di una comunità era assicurato dai boss dalle, loro “paranze”, gli eserciti di guaglioni, guardie e killer al loro servizio. E ADESSO? “Mo – ci risponde un signore sulla cinquantina incontrato in un bar di Scampia – tutto è diverso, quando c’era Ciruzzo 'o milionario, (al secolo Paolo Di Lauro , padrone della droga e delle piazze di spaccio a Nord di Napoli) nessuno ci dava fastisdio. Non si toccava una macchina, le donne non venivano infastidite. Ma quei tempi sono passati”. Ora neppure lo Stato-camorra c’è più. Quello ufficiale si è ripreso il controllo di buona parte del territorio, ha arrestato i boss e li ha rinchiusi in galera al 41 bis, ne ha decimato gli eserciti, ha agevolato le confessioni dei pentiti, ma non è riuscito a fare altro. La condizione di questa sterminata periferia rimane quella di un pezzo di metropoli abbandonata. Tassi di disoccupazione che vanno oltre il 60-65 per cento, progetti di riqualificazione urbanistica rimasti sulla carta. Basta girare per Scampia e toccare con mano l’abbandono, quel poco che c’è è la realtà delle associazioni, cattoliche e laiche, che da sempre, anche nei periodi più duri delle guerre di camorra, hanno costruito un argine di civiltà contro la barbarie dei boss. “Dottò – ci dice ancora l’uomo – li vedete quei ragazzi seduti davanti al bar, quelli non hanno futuro, se vengono avvicinati per fare i pali all’ingresso di una piazza di spaccio, o per fare di peggio, quelli accettano”. Il problema, però, è che anche l’altro Stato, quello della camorra, non ha più i mezzi e la forza di una volta. Quando con i soldi della droga si potevano finanziare vere e proprie schiere di affiliati. Per tutti c’era da mangiare, anche per le famiglie dei detenuti. Per loro c’era “la mesata”, uno stipendio. Ora i soldi sono pochi e anche le “mesate” vengono centellinate. Chi sta all’ulti - mo gradino della piramide ospite di Poggiorerale, ora deve vedersela da solo. Scampia non è più la piazza di spaccio di una volta, ora, raccontano i rapporti investigativi e le cronache di tutti i giorni, l’asse si è spostato ancora più a nord di Napoli, nei paesi come Caivano. Una decisione assunta mesi fa da boss del calibro di Raf - faele Amato e Cesare Pagano, perché ormai su Scampia e Secondigliano troppi sono i fari accesi, e troppi gli arresti. LÌ, TRA LE VELE e i vialoni bui di notte, sono rimasti gli eredi dei Di Lauro e i Vanella Grassi. Ognuno con le sue zone di influenza e di controllo. Cambia pelle la camorra di Napoli Nord, ora il potere è nelle mani di giovanissimi boss. Mario, “Mariano”, Riccio aveva 22 anni quando lo arrestarono mesi fa a Qualiano. È il genero del capoclan Cesare Pagano, deve scontare sei anni per associazione mafiosa e spaccio di droga. Giovane pure lui, ha poco più di trent'anni, “F4”, alias Marco di Lauro. La F sta per figlio, il numero 13 indica il quarto rampollo della dinastia criminale di Ciruzzo 'o milionario. È latitante, per il Viminale tra i dieci ricercati più pericolosi, e ha un ergastolo da scontare sulle spalle. La faccia da ragazzino e i tratti femminili del volto lo hanno aiutato un anno fa. I carabinieri erano sulle sue tracce, avevano scoperto il covo dove si nascondeva. TENTARONO IL BLITZ, ma il giovane Marco gli sfuggì sotto il naso. Tacchi a spillo e minigonna, si travestì da donna per non farsi prendere. Certo non il massimo per un boss. Tanto che nel cuore di Scampia, riferisce Enzo Ciaccio , uno dei migliori cronisti di Napoli, si giocarono i numeri: “21 la donna, 38 il travestito, 18 il latitante...”. Terno secco sulla ruota della camorra. Aneddoti a parte, Marco Di Lauro è un boss dalla mente fredda. Avrebbe i soldi e le coperture per fuggire all’estero per sempre, ma non lo fa perché sa che la regola fondamentale per continuare ad esercitare il potere della famiglia, è stare lì, a Scampia, a controllare quello che resta del territorio. Camorra sconfitta? “Militar - mente ha subito colpi durissimi – ragiona un investigatore – il problema è l'aggressione alla potenza economica. I Di Lauro e gli altri avranno perso quando lo Stato riuscirà a mettere le mani sulle loro immense ricchezze”. del 09/06/14, pag. 10 Il consorzio del Mose e i politici amici «Aiutai Lunardi per un indennizzo» Così Baita sull’ex ministro. Dalle carte emerge una griglia dei finanziamenti «ecumenica»: tutti andavano pagati perché tutti potevano tornare utili Di Andrea Pasqualetto In un clima surreale, dove l’acqua alta è diventato l’ultimo dei problemi, a Venezia spunta un ministro al giorno e non per un encomio. Dopo il nome di Altero Matteoli che guidava le Infrastrutture e che si trova ora a fare i conti con un’indagine per corruzione del Tribunale dei ministri, e dopo quelli dei suoi ex colleghi Giancarlo Galan, sul quale pende una richiesta di arresto, e Giulio Tremonti, che non è indagato ma è stato chiamato in causa dall’ex segretaria di Galan Claudia Minutillo a proposito di una presunta tangente versata al suo uomo di fiducia Marco Milanese, ecco affacciarsi all’inchiesta sul Mose un altro rappresentante di spicco dei passati governi. Si tratta di Pietro Lunardi, pure lui un ex delle Infrastrutture e dei trasporti, del quale parla diffusamente il supertestimone dell’inchiesta: Piergiorgio Baita, l’ex presidente del gruppo Mantovani, cioè il socio più importante del potente Consorzio Venezia Nuova a cui fanno capo le opere di salvaguardia di Venezia e prima fra tutte il Mose. Concessionario unico del ministero delle Infrastrutture, il Consorzio gestisce i miliardi di euro pubblici destinati a questi interventi (5,4 quelli del Mose). Ebbene, Baita, in uno dei verbali secretati nei quali ha raccontato ai pm le mazzette distribuite a politici e pubblici funzionari, ritenuto attendibile dalla procura e dal gip di Venezia che ha disposto i 35 arresti di mercoledì scorso, tira in ballo l’ingegner Lunardi (non indagato) a proposito di una singolare vicenda, sulla quale gli inquirenti stanno cercando conferme. Parla della società Rocksoil, che fa capo alla famiglia dell’ex ministro e si occupa di ingegneria civile, e di un lavoro che sarebbe stato realizzato versando 500 mila euro più del dovuto. E ha motivato così la sorprendente generosità: a chiedere il favore sarebbe stato Gianni Letta, ex sottosegretario alla Presidenza del consiglio Berlusconi, in contatto con l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova Carlo Mazzacurati, con il quale aveva incontri frequenti proprio per la grande opera veneziana. 14 Sempre secondo il racconto di Baita, Letta avrebbe avuto un ruolo di consigliere di Mazzacurati, nel senso che era il massimo punto di riferimento della politica centrale al quale si rivolgeva per chiedere lumi. Andava a chiedere come fare e a chi rivolgersi per risolvere i problemi legati al Mose e in particolare allo sblocco del finanziamento da 400 milioni della delibera del Cipe. Dice Baita che qualche favore gli veniva comunque fatto. Come, per esempio, quello di aver concesso un subappalto e una piccola impresa di Roma. Il risarcimento Mentre la vicenda Lunardi sarebbe scaturita dalla condanna del ministro da parte della Corte dei conti a un robusto risarcimento danni per aver versato una buonuscita di 1,5 milioni di euro a uno sgradito presidente dell’Anas, pur di allontanarlo. Baita dice che l’intervento sarebbe stato chiesto proprio per aiutare Lunardi a restituire la somma elargita. Il Pdl milanese Oltre all’imponente corruzione contestata a politici, Corte dei conti e Magistrato alle acque, nei confronti dei politici emerge un quadro di distribuzione a pioggia di finanziamenti da parte del Consorzio Venezia Nuova. Dopo i 560 mila euro che sono costati l’arresto al sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, dall’inchiesta emergono altre curiosità. Per esempio, sempre Baita racconta delle crescenti richieste di intervento «politico» da parte del Consorzio Venezia Nuova. Fu in quel periodo, erano gli anni 2005 e 2006, che il gruppo Mantovani pensò di usare la società Bmc di San Marino per creare fondi neri da utilizzare per versare tangenti e per sostenere campagne elettorali: «Come quella del governatore Galan». Un’attività che a detta dell’ex presidente della Mantovani faceva già con l’entourage del Pdl milanese. I cui esponenti, afferma, si sarebbero presentati con l’accredito di Niccolò Ghedini, allora coordinatore del partito in Veneto. La griglia La griglia dei finanziamenti politici era ben definita. C’erano quelli episodici e c’erano quelli «periodici regolari», cioè le campagne elettorali. Tutte quelle degli ultimi dieci anni (tranne l’ultima), dalle politiche alle amministrative: Regione, Provincia, Comune. Perché tutti avevano qualche competenza, qualche autorizzazione da dare per il lavori del Consorzio e tutti dunque dovevano essere coccolati. I ministeri per i finanziamenti e per la concessione degli specchi d’acqua, la Regione per la valutazione di impatto ambientale e per rimuovere «ostacoli» improvvisi come le proteste dei Verdi, il Comune per i temi urbanistici. Mazzacurati proponeva così un budget di fondi neri per ogni campagna elettorale, dice Baita. L’elenco l’avrebbe fatto lui in persona, la scelta era ecumenica: «Pagava tutti», destra, sinistra e centro, dal Pdl alla sinistra vicina alle coop rosse che facevano capo a Pio Savioli. «Uniti e compatti con Lenin, Togliatti e Mao Tse Tung» gli dice in un’intercettazione un uomo di Mazzacurati. I soldi non andavano ai partiti ma ai politici, soprattutto quelli che avevano la possibilità di vincere. Cosa che avrebbe infastidito talvolta le segreterie che non vedevano arrivare un euro. Baita parla di un tariffario fissato di volta in volta ma che andava dai circa 200 mila euro per le regionali e comunali a una cifra compresa fra i 300 e i 500 mila euro per le politiche. Fin qui, le rivelazioni dell’imprenditore. «Sono sconcertato da queste parole» ha replicato venerdì Mazzacurati, un tempo amico e socio del presidente della Mantovani. Il disturbatore L’ultima indiscrezione riguarda l’attività di tutela delle sue telefonate. Temendo intercettazioni da parte degli inquirenti, cosa che fu confermata dal generale della Guardia di finanza, il presidentissimo chiamò pure una società di sicurezza privata, la Italia service di Mirco Voltazza, finito indagato. Il quale lo avrebbe dotato di un sofisticato sistema di disturbo della linea telefonica. Fra i tanti favori a politici, magistrati e funzionari, il giudice per le indagine preliminari di Venezia, Alberto Scaramuzza, ricorda infine una cena del 18 15 novembre 2009 all’Harry’s Bar. Si festeggiava il compleanno della moglie del Magistrato alle acque, Patrizio Ciccioletta, arrestato per lo «stipendio» in nero di 400 mila euro l’anno. Quella sera pagò Mazzacurati e gli invitati, dieci, ringraziarono. Per il gip non ci sono dubbi: «Era denaro pubblico». Del 09/06/2014, pag. 1-8 L’INCHIESTA “Ecco il manuale per comprare i politici del Mose” FABIO TONACCI FRANCESCO VIVIANO QUESTIONE di colori. «Avevamo deciso che per quello che riguardava il Pd i soldi venivano dati tramite Co.ve.co usiamo la parola “bianco”, con regolare fattura, con somme registrate», racconta il compagno Pio. Di colori, e di binari. «Quando c’era la campagna elettorale si attivavano i “doppi binari” », puntualizza Piergiorgio Baita. «TANTO finanziavamo ufficialmente, tanto finanziavamo in nero» dichiara Baita, il primo degli amministratori della Mantovani finito in carcere per lo scandalo Mose. Ma il manuale cromatico dell’imperfetto tangentista prevedeva anche le sfumature. «Talvolta il bianco e il nero insieme». Tradotto: denaro proveniente da fatture gonfiate e fondi neri, ma che veniva regolarmente registrato dai comitati elettorali. C’è anche questo nelle 700 e passa pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Alberto Scaramuzza, che ha spedito in carcere la cupola veneziana. La spiegazione, passaggio dopo passaggio, di come il Consorzio di Mazzacurati decideva di finanziare i politici ritenuti «amici», o anche solo «utili». Chi, quanto e in quale modalità. E c’è pure una lista dei presunti beneficiari, nella quale oltre ai nomi già noti del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, dell’europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori e dell’ex vicepresidente del consiglio regionale Giampietro Marchese, si aggiungono quelli di due deputati veneti del Partito democratico, Delia Murer e Andrea Martella, rieletti alle politiche del 2013. Anche loro avrebbero avuto finanziamenti per sostenere la campagna elettorale dalle ditte che lavoravano al Mose, ma «in bianco», specificano i pm che seguono l’indagine. Dunque leciti e registrati. Accettati però quando già il Consorzio Venezia Nuova era “chiacchierato”, portato sotto i riflettori dall’arresto di Baita nel febbraio di un anno fa, proprio nei giorni del voto. Per Orsoni, Marchese e la Sartori la cupola aveva deciso invece di attivare i doppi binari, il “nero” e il “nero-bianco”. «Gli ho portato a casa sua, personalmente, 400-500mila euro», ha raccontato Mazzacurati ai pm. Denaro liquido di cui, secondo il gip, il sindaco di Venezia «conosceva la provenienza illecita». Erano il risultato di fatture gonfiate col metodo del “Fondo Neri”, che, per ironia del destino, è il cognome del funzionario del Consorzio ideatore del sistema tangentizio. Addetto alla “raccolta” dalle aziende consorziate che stavano nella partita era il “compagno Pio”, Pio Salvioli, l’uomo che «durante i suoi giri» prendeva denaro dalle coop rosse per girarlo a politici del Pdl (Renato Chisso, l’assessore regionale veneto, riceverà così 150 mila euro). Ma le somme in uscita dai bilanci delle ditte dovevano essere comunque giustificate. Come? Ci pensava Luciano Neri. Produceva fatture taroccate per prestazioni tecniche fittizie o anticipi sulle riserve sovradimensionate. Contratti e istanze «predisposte da Neri, depositario della contabilità», scrive il gip. Sulle fatture false, quindi le aziende pagavano un surplus di tasse. «Mettiamola così, maresciallo — mette a verbale Savioli — il nero ha un suo costo, ecco». Il sindaco di Venezia ai domiciliari, nella sua dichiarazione spontanea 16 durante l’interrogatorio di garanzia, ha respinto ogni accusa. «Mai preso un euro in nero da Mazzacurati, gli unici sono i 150mila rendicontati dal mio commercialista che seguiva il comitato elettorale». Arrivati però sul binario “nero-bianco”, cioè alzati con sovrafatturazioni e poi rendicontati. Ritorniamo alla ricostruzione di Baita così come la consegna lui stesso ai pubblici ministeri nell’interrogatorio del 17 settembre: «Il Consorzio non voleva assolutamente che i soci finanziassero direttamente in nero dei politici che avrebbero potuto rappresentare degli interessi collaterali ». Dunque non era ammessa, nella cupola del Mose, alcuna iniziativa autonoma. La scelta su chi far piovere denaro «veniva presa durante le riunioni del consiglio direttivo». Tutti insieme, senza lasciare traccia nei verbali delle riunioni. È Mazzacurati, il “capo supremo” che stabilisce come ripartire i fondi, «limitandosi poi a rassicurare i consorziati, a decisione avvenuta e contributo consegnato, che il loro politico di riferimento (rappresentanti del Pdl nel caso della Mantovani e Fincost, rappresentanti del Pd per le coop Condotte e Co. Ve. Co.) è stato adeguatamente remunerato». Anche per Marchese, il candidato Pd alle regionali del Veneto del 2010, i soldi transitarono sui binari “nero”, e il “nerobianco”. Gli vengono versati 58 mila euro, «somma iscritta regolarmente in bilancio come finanziamento elettorale», ma risultato del solito giro di fatture false dell’ingegner Neri. Il quale, per l’occasione, crea un contratto ad hoc con la Selc, a cui il Consorzio ha affidato uno studio per la salvaguardia di Venezia e della Laguna. L’operazione è inesistente, ma quei 54 mila finiscono al comitato di Marchese. Non solo, però. Sostiene Mazzacurati: «A lui abbiamo dato in contati anche circa mezzo milione di euro in otto anni». Il cosiddetto binario “nero”. Del 09/06/2014, pag. 10 “A Orsoni serviva il voto dei cattolici” la pista dei fondi neri dirottati sulla Curia Baita: il Patriarcato fece una scelta di campo e anche noi decidemmo di scaricare Brunetta CORRADO ZUNINO ROMA . I 450mila euro che il supremo tessitore Giovanni Mazzacurati sostiene di aver dato al sindaco (in uscita) di Venezia, Giorgio Orsoni, avrebbero alimentato il voto cattolico alla vigilia delle elezioni amministrative del 2010. Gli investigatori stanno trovando le prime conferme a questa pista giudiziaria. Orsoni, agli arresti domiciliari nella sua casa veneziana “alla fermata del vaporetto di San Silvestro”, nega di aver ricevuto i 450 mila euro in nero, ammette solo i finanziamenti registrati (110 mila). Alle parole dell’accusatore Mazzacurati si sono aggiunte nel tempo, però, due conferme: la testimonianza a verbale di Piergiorgio Baita, già amministratore della Mantovani spa, capofila del Conzorzio Venezia Nuova guidato proprio da Mazzacurati, e quella di Federico Sutto, uno dei due cassieri del consorzio. La finanza, che ha certificato undici incontri tra Orsoni e l’ingegner Mazzacurati, di cui otto a casa del sindaco con passaggi di denaro in tre-quattro occasioni, ora sta verificando la consistenza del filone “finanziamenti Mose girati alla chiesa cattolica veneziana”. L’ipotesi, abbiamo visto, è che all’inizio del 2010 l’avvocato Orsoni avesse bisogno di denaro per condurre la sua campagna elettorale in salita: era sfavorito di fronte all’avversario pdl, il ministro Renato Brunetta. In alcune intercettazioni si ascolta Orsoni chiedere ai sostenitori potenti di far presto, vuole più soldi di quelli che — centomila euro —gli vengono prospettati. È stato lo stesso Baita, in altre occasioni, a raccontare come i dirigenti del Consorzio per costruire il Mose fossero inizialmente orientati sul candidato più 17 affine, Brunetta appunto. «Quando abbiamo saputo che il Patriarcato aveva fatto una scelta di campo, quella di Orsoni, abbiamo cambiato linea ». Il contante girato da Mazzacurati al sindaco aveva ottenuto il suo effetto spostando “voti cattolici” verso il centrosinistra. Nelle carte di procura c’è un altro passaggio che lega il Consorzio Venezia Nuova alla curia locale ed è il sequestro degli appunti dei pagamenti realizzati fino all’11 ottobre 2001 dal Consorzio veneto cooperativo (socio, appunto, del grande Cnv). Quelle consegne in contante erano state segnate su un foglio poi nascosto nell’abitazione dei genitori di una dipendente del Coveco. La lista sequestrata segnalava, tra molti politici locali, anche la Fondazione Marcianum. Centomila euro, per loro: “quota annuale”. La fondazione è un polo pedagogico e accademico fortemente voluto e quindi fondato nel 2004 a Venezia, sestiere Dorsoduro, dall’allora patriarca Angelo Scola, oggi arcivescovo di Milano. Istituto di studi religiosi, liceo classico, facoltà San Pio X, biblioteca. Una struttura costosa, la fondazione. Che da sempre ha stretti rapporti con le istituzioni del territorio. Tra i quattro soci fondatori del polo cattolico c’è, non a caso, il Consorzio Venezia Nuova che, per missione, non ha quella di tirare su biblioteche cattoliche. Presidente del Marcianum viene nominato Giovanni Mazzacurati, lo stratega del Mose che sarà arrestato nel luglio 2013. Nel consiglio della fondazione entrano Romeo Chiarotto, il padrone della Mantovani Spa, e lo stesso sindaco Orsoni, cattolico di sinistra i cui rapporti con Scola sono tenuti dal capo di gabinetto Marco Agostini. Sostenitore della fondazione tra i primi, si fa avanti la Regione Veneto. Il suo presidente, Giancarlo Galan, nel 2004 dirotta 50 milioni alla curia di Venezia prelevandoli dai fondi della legge speciale: servono a ristrutturare il seminario patriarcale alla Salute (foresteria per 70 persone, sale multimediali), il palazzo patriarcale, restaurare la basilica della Salute (accanto al Marcianum). Nella comunità diocesana e in città quel finanziamento fa discutere. Lo scorso 19 luglio, subito dopo l’arresto di Mazzacurati, il nucleo tributario è andato alla sede della Fondazione Marcianum e ha sequestrato i documenti che certificavano i finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova all’ente ecclesiale e i finanziamenti (tra i 10 e i 50 mila euro a testa) di molte società del Cvn: Mantovani, Coedmar, Lmd, la Hmr dell’attuale neodirettore Hermes Redi. «Un’azione normale», là definì l’amministratore Marco Agostini, l’uomo di Scola, l’uomo di Orsoni. Era solo l’inizio della caccia ai fondi neri elettorali. Del 09/06/2014, pag. 11 Gli uomini del Mose si erano dati nomi d’arte per riconoscersi e non essere identificati. E tutto girava attorno a Mazzacurati Burattinai, politici, spioni, segretarie e consiglieri fidati hanno agito impuniti per anni Il Supremo, la Dogessa e Mister Fortissimo la cupola in maschera che derubava Venezia I personaggi FABIO TONACCI DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA Il “supremo” muove i fili e il “compagno Pio” fa i suoi giri. Il “fortissimo” va in Svizzera con i soldi, mentre l’ ”ingegnere” li nasconde dietro l’armadio e lo “spione” li sotterra in giardino. E la “dogessa” pentita? Parla e accusa. Sì che sarebbero piaciuti questi personaggi a Carlo Goldoni, sono ideali per una commedia dell’arte. Arte 18 dell’intrallazzo, però. Arte della truffa, della mazzetta, della ruberia, sul proscenio della più costosa infrastruttura d’Italia. Il Mose. Che doveva proteggere Venezia dalle acque, ma chi ci pensava che il pericolo sarebbe arrivato da terra? Eccola, dunque, la cupola. L’IMPERATORE Da trent’anni c’è un uomo che in Laguna tutto decide e tutto sorveglia. Giovanni Mazzacurati, 82 anni, prima direttore poi presidente del Consorzio Venezia Nuova a cui fu data dallo Stato la concessione unica per costruire il Mose. È lì da sempre, da quando il progetto nemmeno era stato ancora disegnato. Definito dai suoi sodali «il capo supremo», «il re», «il monarca», «il doge», «l’imperatore». Tanto per dire di che pasta è fatto. È lui che mette insieme la cupola, che convince l’80 per cento dei partecipanti al suo Consorzio della necessità di irrorare di mazzette una decina di politici locali, di finanziare «con 400-500mila euro che gli ho portato personalmente a casa», racconterà lui stesso davanti ai pm, la campagna elettorale del sindaco Giorgio Orsoni, finito ai domiciliari per finanziamento illecito. Di abbattere a suon di regali, assunzioni e tangenti (i magistrati ne hanno contate per 22,5 milioni di euro, ma sarebbero molte di più) qualsiasi ostacolo burocratico che si frapponga tra il Mose e la sua realizzazione. Il sogno però si spezza nel luglio scorso, quando il “supremo” viene arrestato per turbativa d’asta, assieme alla ex segretaria di Giancarlo Galan, Claudia Minutillo. La “dogessa”, la donna che maneggia centinaia di migliaia di euro in contanti «frutto di sovraffatturazioni delle imprese dei Consorzio» e che, interrogata, stila una prima lista dei beneficiati. «Vi erano…omissis…e Milanese, uomo di fiducia del ministro Tremonti. A quest’ultimo era destinata la somma di 500mila euro», sostiene la “dogessa”. IL COMPAGNO PIO Marco Milanese, quindi. Per tutti è il consigliere politico di Tremonti, per la cupola è «l’amico nostro». Mazzacurati lo incontra più volte a Roma, al dicastero dell’Economia. È l’uomo che si attiva con Tremonti e con gli uffici del gabinetto delle Infrastrutture per far sbloccare 400 milioni del Cipe per il Mose. Ci riesce, ma non prima di «aver intascato 500mila euro, glieli portai in una scatola». La richiesta di custodia cautelare era scritta anche per lui, ma è stata revocata 20 giorni prima degli arresti. Di soldi, il Consorzio, ne ha dati tanti, a tutti, a destra e a sinistra, al Pdl e al Pd, «in bianco» per usare le parole di Mazzacurati, e «in nero». Lecitamente, o illegalmente. Senza fare troppe distinzioni, rinnegando anche tutta la propria storia politica. Come fa Pio Salvioli, il “compagno Pio”, braccio destro del “supremo”, trevigiano cresciuto nelle fila del Pci che è finito a succhiare 150mila euro dalla Coop rossa San Martino per oliare Renato Chisso, l’assessore regionale del partito di Berlusconi che decideva sulle commissioni Via. Soldi delle cooperative di sinistra al Pdl. Accade più volte. «Sto in giro a distribuire», rideva allusivo il compagno Pio, mentre attraversava a passo svelto i campielli di Venezia, «prima o poi mi mettono in galera». E così è stato. L’UOMO DELLA GALASSIA Di soldi, tra mazzette e finanziamenti più o meno dubbi, la cupola ne ha dati anche al Partito democratico, per carità. Ma nessuno ha ottenuto tanto quanto Giancarlo Galan, ex ministro ed ex governatore veneto. Uno stipendio fisso di un milione di euro e regali vari tra cui anche un trattore. L’esoso. «Non ce la faccio più — si lamentava Piergiorgio Baita, amministratore della Mantovani, che gli ha ristrutturato la villa di Cinto Euganeo con 1,1 milioni di euro di fatture gonfiate — chiede troppo». Ma Galan è anche l’uomo della «galassia», come scrivono i pm quando scoprono le sue dieci e passa società «controllate direttamente o tramite prestanome», gli interessi nel mercato del gas in Indonesia («un affare da 55 milioni di euro»), le quote in società di consulenza sanitaria, in aziende agricole, le dieci barche in Croazia, gli immobili. Il sistema per far fiorire le mazzette dai bilanci delle società consorziate ruota attorno a un personaggio di cui si parla troppo poco, 19 Luciano Neri, l’”ingegnere”. È un dipendente del Consorzio che raccoglie tutti i contanti raccolti da Mazzacurati nel “fondo Neri”, che altro non è che la cassettiera del suo ufficio. Ne ricorda le gesta memorabili la Minutillo: «C’erano 500mila euro dentro durante l’ispezione della Finanza, li ha nascosti gettandoli dietro l’armadio». La fifa di essere beccati, agli uomini della cupola del Mose, fa fare cose strane. Anche mangiare la carta. «Mi raccomando — consiglia Enrico Morbiolo al telefono parlando di un biglietto compromettente — se lo devi tenere in taccuino, su carta mangiabile…se arriva qualcuno un giorno…non sto scherzando». LA TALPA Qualcuno un giorno è arrivato davvero. Prima è partita l’ispezione fiscale sul Consorzio, siamo nel 2010, poi le indagini della procura di Venezia e i primi arresti nel 2012. Mazzacurati si affida allora all’ex generale della Finanza Emilio Spaziante, al quale promette 2,5 milioni di euro per avere informazioni. La “talpa” dai suoi colleghi ottiene qualcosa, la lista dei telefonini sotto controllo, ma non tutta la mappa delle intercettazioni ambientali. Per questo il pagamento per il suo disturbo si riduce a 500mila. Dopo l’arresto viene perquisita la casa romana di Spaziante, e saltano fuori 200mila euro sporchi di terra e umidi. Li teneva sotterrati in giardino. Meglio sarebbe stato fare, forse, come Nicolò Buson, responsabile amministrativo della Mantovani, che il denaro della cupola lo depositava alla Corner Bank svizzera su un conto cifrato, nominato Fortissimo. «Quindi quando contattavo la banca per prelevare — ha raccontato in un interrogatorio — mi presentavo con quel nome». Buon giorno, sono Mister Fortissimo. del 09/06/14, pag. 11 Fondi e leggi speciali Così i padroni delle acque si spartiscono Venezia Sindaco, ma perché sta sempre in televisione? «In Comune non ho un beneamato nulla da fare». La scena risale a qualche anno addietro. E l’espressione usata da Massimo Cacciari era molto più colorita di quella riportata qui sopra. Il concetto risulta comunque chiaro. Al netto di ruberie e disonestà personali, per quanto possibile, lo scandalo del Mose è anche nella peculiarità di un manager come Giovanni Mazzacurati che da solo contava più del primo cittadino di Venezia e del governatore di una regione con il prodotto interno lordo tra i più alti d’Europa. Da ormai quarant’anni gli enti locali di uno dei posti più belli e visitati del mondo hanno funzione decorativa, soprammobili istituzionali di decisioni prese altrove. L’ormai ex sindaco Giorgio Orsoni, le dimissioni dopo l’arresto ai domiciliari per finanziamento illecito ai partiti sono in dirittura d’arrivo, raccontava spesso che nel suo mandato ha convissuto con quattro diversi governi e con ognuno di essi si è lamentato dei tagli ai bilanci del Comune. «Ma tanto ci sono i soldi del Mose…». La solita risposta, la stessa da quarant’anni. L’alluvione del 1973 portò all’approvazione della legge speciale per Venezia. Fu allora che cominciarono bei tempi per gli amministratori locali, travolti da un insolito benessere che si concretizzava in finanziamenti per qualunque necessità, dal rifacimento delle piazze, alla pedonalizzazione del centro di Mestre, al restauro dei palazzi nobiliari. Ma la fetta più grande andava alla protezione di città e laguna, microrganismi delicati e fragili. I soldi arrivavano sopratutto da voci come rialzo delle rive, difesa idraulica e bonifiche. La legge 20 speciale è stata una specie di Cassa del Mezzogiorno per Venezia e dintorni. I bei tempi sono finiti con l’arrivo del Mose, proprio lui. L’approvazione definitiva dell’opera ha comportato il suo inserimento nella legge obiettivo, che dal 2001 determina i finanziamenti per le infrastrutture di importanza nazionale. E di soldi, il Modulo sperimentale elettromeccanico ne ha dragati proprio tanti, presenza stabile nei primi cinque posti degli stanziamenti deliberati dalla legge obiettivo nei suoi dodici anni di vita (2002-2013). Le dighe mobili avevano di tutto e di più, il resto della città è rimasto a secco. E siccome sono i soldi a decidere chi comanda davvero, ecco che sindaci e amministratori assortiti vengono buoni ultimi. Tanto più se i soldi del Mose finiscono in tasca a una sola entità, il Consorzio Venezia Nuova. L’idea del concessionario unico, che molto fa discutere alla luce delle prodezze di Mazzacurati e soci, parte da lontano ed è sempre piaciuta molto prima al Psi poi a Forza Italia. Ma, quando l’idea venne lanciata, a fine anni 70, l’adesione e la spinta più importante al progetto sperimentale arrivarono dall’Iri, che di suo ci mise ingegneri e consulenti, fino a ottenere la nomina del primo presidente, Luigi Zanda, l’ex capogruppo al Senato del Pd. Il passo decisivo per la creazione di una sorta di monopolio arrivò nel 1984. Il Consorzio era neonato e Gianni De Michelis, all’epoca ministro del Lavoro, varò la seconda legge speciale per Venezia, che prevedeva la possibilità di concedere studi, progetti e opere di salvaguardia della laguna a un solo soggetto, in deroga alle norme sui lavori pubblici. Aboliti appalti e gare pubbliche, decide un solo concessionario dello Stato. Era nato il monopolio del Mose. Poco importa se la Corte dei conti nel 2009 osò scrivere che con questo sistema i costi dell’opera erano raddoppiati e l’Ue aprì una procedura d’infrazione perché la legge prevedeva almeno un 40% degli stanziamenti da assegnare con appalto ma nessuno se lo ricordava. Tutto andò avanti come nulla fosse. Fino alle inchieste e agli arresti. E siamo al paradosso di oggi. Il Comune conta poco, in una città che ha storiche stratificazioni di potere. Oltre al Consorzio, i veri padroni sono il Magistrato delle acque, organo statale che gestisce l’intera laguna, e l’Autorità portuale, titolare dei canali delle grandi navi, dal Bacino di San Marco alla Giudecca. Il sindaco comanda sulle calli, che cartina alla mano rappresentano il 6% della superficie di Venezia. Ma il suo arresto, con conseguente paralisi istituzionale, ha bloccato i pochi progetti «indipendenti», come la costruzione del nuovo stadio, nell’area del Quadrante di Tessera, e la creazione di una nuova compagnia per le aree di Porto Marghera e la riconversione del sito industriale. Invece sabato, mentre i magistrati interrogavano vecchi e nuovi protagonisti della vicenda, a Chioggia è stato ancorato al fondo del mare il primo cassone della barriera all’ingresso del porto. Il Mose si muove, Venezia è ferma. Marco Imarisio 21 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 09/06/14, pag. 11 In sei mesi salvati oltre 50mila migranti Continua l’ondata di sbarchi nelle coste siciliane. Ieri recuperati tre corpi ● Fassino chiede un incontro con Alfano: «La situazione è insostenibile» Più di duemila migranti soccorsi nelle ultime ore, almeno 3400 se si abbraccia un arco di tempo di 48 ore. Oltre 50mila dall’inizio del 2014 per un costo di oltre cento milioni all’anno. Le coste della Puglia e quelle della Sicilia sono prese d’assalto, ma l’emergenza adesso è a Pozzallo, nel ragusano, dove sono arrivate le motonavi Anwar con 102 immigrati e quella maltese Norient Star che viaggia con altri 102 profughi e a bordo ha tre cadaveri di persone morte probabilmente durante il viaggio. L’allarme è stato lanciato dal sindaco Luigi Ammatuna: «Tutti gli immigrati che arrivano - ha spiegato il primo cittadino che teme serie ripercussioni sul turismo - vengono quasi subito trasferiti. Il problema sono i continui arrivi con cifre che generano paura: se i numeri continuano ad essere questi la situazione rischia di diventare ingestibile. Già abbiamo le prime disdette di turisti; la gente non sa bene cosa accade veramente, teme di arrivare in una splendida località che trova invasa dai migranti. Pozzallo, la nostra comunità, è da sempre accogliente. Siamo ospitali, ma non possiamo essere penalizzati, questa sta diventando una vera e propria emergenza e continuando così saremo davvero nei guai. Qualche giorno fa avevo fatto la proposta di ricevere 10 euro per ogni migrante che accogliamo, ma nessuno ha preso l’ha presa in considerazione. Chiederò al più presto un incontro a Roma, c’è bisogno di una sorta di compensazione per una città così ospitale, ma che non ce la fa più». Naturalmente non è l’emergenza turismo che preoccupa. Piuttosto la latitanza dell’Unione europea come denuncia anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. «Ormai - ha detto il primo cittadino - la macchina dell’accoglienza ai migranti è sperimentata ed è frutto di professionalità e d’amore. Resta ancora una volta la denuncia per l’insensibilità dell’Europa nei confronti di un dramma che si consuma nella acque siciliane. Non si può pensare infatti di affrontare un problema di carattere europeo affidandosi soltanto alla sensibilità delle amministrazioni locali siciliane». E di Sicilia sola davanti alla crisi parla anche il prefetto di Trapani Leopoldo Falco: «La Sicilia è stata lasciata da sola a fronteggiare l’emergenza immigrati. Le navi mercantili che soccorrono i migranti non possono andare oltre la Sicilia e i ponti aerei non ci sono. Così l’Isola come al solito lavora per tutti. Anche Trapani fa la sua parte ». Al momento, la provincia ospita 2100 migranti in 27 strutture, l’ultima aperta oggi a Salemi in occasione dei nuovi arrivi. A questi si aggiungono altri 400 rifugiati accolti in 12 Sprar e 50 extracomunitari reclusi nel Cie di Milo. E poi c’è il problema della criminalità organizzata che ora ha scoperto l’affare accoglienza. Approfittando dell’emergenza sbarchi «la criminalità ha cercato di inserirsi nel sistema dell’accoglienza dei migranti - ha detto ancora Falco -. Ci sono stati soggetti grossi, multinazionali legate a faccendieri locali che non ci piacciono, le quali disponendo di molto denaro si sono proposte dietro facce pulite ma noi le abbiamo individuate e respinte». Si diceva più di duemila persone sbarcate tra sabato e domenica. E questi sono solo i migranti soccorsi in mare dalle navi della Marina Militare, altri 700 sono stati caricati a bordo di mercantili. La fregata Scirocco ha soccorso ieri 186 persone tra cui 45 donne e 58 minori, circa dieci i neonati. La fregata Bergamini ha soccorso 554 immigrati tra cui 34 22 donne e 37 minori. La nave Etna ha invece fatto salire a bordo 1335 migranti salvati da una vedetta della capitaneria di porto e si è diretta verso Taranto dove solo nelle ultime ore è previsto l’arrivo di 1800 persone. Tutte le persone tratte in salvo erano allo stremo, con gravi sintomi di disidratazione. Poi c’è la motonave City of Sidon che arriverà oggi a Palermo con a bordo 529 migranti. Di dimensioni drammatiche e insostenibili del fenomeno parla il presidente dell’Anci Piero Fassino che ha chiesto ieri un incontro urgente con il ministro Alfano. «Gli sbarchi sulle coste italiane stanno assumendo dimensioni drammatiche e insostenibili per i Comuni siciliani le cui strutture sono insufficienti e, in ogni caso, già ipersature. - ha detto Fassino - Per altro, senza un impegno finanziario e operativo straordinario dello Stato e delle Regioni, anche gli altri Comuni italiani non sono in grado di farsi carico da soli di una situazione così critica. Per questo chiedo al ministro Alfano di promuovere un incontro urgente con la partecipazione delle diverse istituzioni interessate, per adottare tutte le misure necessarie». del 09/06/14, pag. 11 Quei fatti (mai chiariti) nel Cie di Gradisca Luigi Manconi Valentina Calderone Valentina Brinis Il mese scorso l’Associazione «Tenda per la Pace e i Diritti» e alcune delle organizzazioni che hanno aderito alla campagna LasciateCIEntrare hanno depositato presso le Procure della Repubblica di Gorizia, di Roma e di Napoli un esposto per chiedere accertamenti e indagini sugli avvenimenti dell’agosto 2013 all’interno del Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Gradisca d’Isonzo. In quei giorni, infatti, il centro era stato teatro di scontri, pestaggi, lanci di lacrimogeni. Nella notte tra l’11 e il 12 agosto, una delle persone lì trattenute era caduta dal tetto sul quale si trovava in segno di protesta, ed era entrato in coma. È morto il 30 aprile scorso all’ospedale di Monfalcone. Le proteste sono continuate anche nei mesi successivi a quelli estivi, fino a che il 5 novembre 2013 il Ministero dell’Interno ha svuotato il centro, disponendo il trasferimento delle persone trattenute verso altri cie. Una decisione presa a causa delle condizioni di degrado in cui verteva la struttura, tali da determinare la violazione dei diritti «non solo delle persone lì trattenute,maanche di quelli che vi lavoravano». Attualmente il centro è chiuso e Alfano ha dichiarato che non sarà riaperto. Sulle rivolte ci sono molte ombre che l’esposto vuole chiarire. Nel testo presentato vengono evidenziati i fatti, ricostruiti grazie alle testimonianze dei migranti, di associazioni e dei parlamentari che sono giunti sul posto chiamati d’urgenza durante quei giorni di proteste e di rivolte. Uno dei punti che viene maggiormente enfatizzato riguarda il ricorso a metodi coercitivi utilizzati dalle forze di sicurezza per placare le proteste. Bisogna ricordare, però, che quelle manifestazioni erano inscenate da persone trattenute in uno spazio circondato da sbarre e che avevano una ridotta possibilità di movimento. In questo contesto appare dunque spropositato l’utilizzo di lacrimogeni il cui gas è stato completamente inalato da chi si trovava lì dentro, causando malori. Nei giorni della protesta sono state molte le persone a voler essere presenti e a seguire le vicende anche solo tramite il web e la stampa. Alcuni dei parlamentari accorsi sul posto, poi, hanno aderito alla Campagna LasciateCIEntrare, un movimento sorto nel 2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei Cie. Appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione 23 della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Ma è sull’abolizione dei Cie che bisogna continuare a insistere. Questi centri, infatti, presentano enormi carenze sotto il profilo della tutela dei diritti umani e, oltre a essere inutilmente dispendiosi, risultano palesemente inefficaci rispetto allo scopo per il quale sono stati istituiti. Del 09/06/2014, pag. 27 Tragedia nel Mediterraneo. Nave maltese urta un gommone carico di migranti durante il salvataggio L’imbarcazione si ribalta: tre vittime e due dispersi. I centri siciliani al collasso: via ai trasferimenti in Puglia Collisione col barcone, cinque morti FEDERICA MOLE’ POZZALLO La morte è arrivata quando la salvezza era a poche braccia di distanza. Le mani dei soccorritori a bordo del mercantile maltese “Norient Star” erano già pronte a tirare a bordo i 107 migranti, quasi tutti eritrei, assiepati su un gommone partito dalla Libia, quando — secondo la ricostruzione di chi era a bordo — la scaletta di ferro calata dalla nave ha toccato l’imbarcazione sulla quale viaggiavano i profughi facendola capovolgere: cinque uomini sono finiti in mare e sono morti affogati. Tre cadaveri sono stati subito recuperati mentre i corpi di altri due sono dispersi. È l’ennesima tragedia del Mediterraneo sulla quale indaga la procura di Ragusa che cercherà di capire, con l’aiuto del medico legale, l’esatta dinamica che ha portato alla morte dei cinque migranti. Gli altri 102 profughi a bordo del gommone che aveva lanciato l’Sos sono stati portati in salvo sul mercantile maltese che, in serata, ha raggiunto il porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, uno dei punti caldi della nuova emergenza immigrazione che sta coinvolgendo la Sicilia. Sull’isola, secondo le cifre fornite dalle prefetture, da sabato scorso sono sbarcati circa diecimila migranti la maggior parte dei quali salpati dai porti della Libia. E i numeri sono destinati a crescere ancora. Alcuni degli uomini arrivati ieri a Pozzallo hanno raccontato che «dalla Libia sono pronte a partire migliaia di persone verso l’Italia, la Sicilia». Sono i sindaci a fare i conti con i numeri dell’esodo. Pozzallo, per esempio, è diventata la “nuova Lampedusa” visto che da gennaio ad oggi sono arrivati undicimila migranti. Il paese, che conta meno di ventimila abitanti, è sotto pressione. Il centro di prima accoglienza ospita già 475 persone ma potrebbe accoglierne appena 180. Vista l’emergenza, da metà marzo la prefettura di Ragusa ha messo a disposizione la masseria “Don Pietro” di Comiso, che un tempo era un centro di sperimentazione agricola, e che adesso è una succursale del Cpa di Pozzallo. Da ieri ospita 250 persone. «Gli aiuti che aspettavamo dall’Europa non sono mai arrivati — dice il sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna — il resto dell’Italia li rifiuta e sembra quasi che l’operazione “Mare nostrum” riguardi solamente la Sicilia. Io voglio essere il sindaco della vita e non quello che deve preoccuparsi di ricevere i cadaveri e trovare una sistemazione. È arrivato il momento di creare corridori umanitari direttamente nei loro paesi d’origine: oppure in Libia, da dove prendono il mare dopo lunghi viaggi. Ormai la situazione è ingovernabile e invivibile per questi uomini costretti a fuggire dalle loro terre». Il sindaco di Pozzallo non è il solo a dover fare i conti con la mancanza di luoghi adeguati nei quali accogliere i migranti. I sei centri gestiti dal governo presenti sull’isola sono strapieni: con oltre 6 mila ospiti a fronte dei 5 mila posti ordinari. Anche le 55 strutture per rifugiati e richiedenti asilo gestite dagli enti locali sono piene e le prefetture ormai 24 accreditano per l’accoglienza case e appartamenti privati. I migranti che sbarcano sulla costa sud della Sicilia vengono smistati anche a Catania e a Palermo. Così, ieri, si è levata la protesta dei sindaci delle due città più grandi. «I comuni sono ormai allo stremo — dice il sindaco di Catania Enzo Bianco — non possiamo più fronteggiare tutto da soli. Il governo dichiari lo stato d’emergenza». «Denuncio ancora una volta l’insensibilità dell’Europa nei confronti di questo dramma», ha aggiunto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Una protesta, quella dei sindaci, che ieri è stata rilanciata anche dal presidente dell’Anci Piero Fassino, che ha chiesto un incontro urgente con il ministro Alfano. «Gli sbarchi stanno assumendo dimensioni drammatiche e insostenibili», ha detto Fassino. Il ministero dell’Interno, qualcosa sta tentando per alleggerire la pressione sulla Sicilia. Ieri la nave “Etna”, diretta verso Catania con a bordo 825 migranti, ha ricevuto l’ordine di fare rotta verso il porto di Taranto, in Puglia. del 09/06/14, pag. 13 I turisti a guardare i disperati a morire di Veronica Tomassini Le grotte hanno il vincolo paesaggistico, sono annerite dalla guaina bruciata per ricavarne rame, se ne trovano a tratti: operazioni clandestine che si consumano nel parco degli ulivi. Siamo in via Politi Laudien, a Siracusa. Zona residenziale. E invece c’è una precisa mappa intestina che governa un regno segreto. Quel che non si vede, è quel che conta. Qui è posta una lapide in ricordo del Santo Papa Wojtyla. Gli uomini degli sbarchi abitano le grotte verso il promontorio, peggio che nei barrios di Bogotà. La sera esalano terribili fumi, gli africani si riscaldano con bombolette di gas da campeggio, sono gli stessi uomini che chiedono ai semafori di giorno, quelli che non arrivano nemmeno al Cie, che dopo Mare Nostrum incassano il loro decreto di espulsione e arrivederci, un confino perenne e ligio che non potranno mai rispettare ovvio, dovrebbero tornarsene al paesello loro entro sette giorni, usando la frontiera di un aeroporto. Un po’ ridicolo, anche soltanto pensarlo. Lungo i sentieri, si inerpicano verso la Croce, in cima, costruzioni con compensato, una mimesi perfetta dentro il paesaggio, tutto intorno pietra, terra, rovi e mondezza. Sono caverne abitate da rumeni. Questo è consolatorio. Non ci sono italiani, men che meno indigeni. Sbagliato. Nelle grotte sono tornati a viverci, tutti, clemenza per nessuno, non i buoni non i cattivi, tutti, come ratti nel tombino, italiani, siracusani, gente con residenza un tempo, con un’a u t o m o b ile, uno status borghese. Uomini, donne. Bambini. Giocattolini franano verso i dirupi tra una grotta e l’altra, al centro riparano i drogati, hanno la loro cava, veri tornanti di flaconcini di metadone o acqua distillata senza beccuccio, di siringhe e lacci emostatici, raggiungono nuovi cimiteri. Ogni grotta ha il suo terrore. In alcune, ci sono i disegni dei ragazzini appiccicati alle pareti fredde, alla pietra, il letto appena rifatto, un tavolo con un vassoio, un uovo al centro, una lattina vuota. I ragazzini vanno a scuola, i disegni sono precisi, sono colorati senza sbavature, le parole usate non contengono errori di grammatica. Una macchinina rotola verso un abisso di lamiera, sul fronte della prima grotta, entrando a destra, accanto a un albergo antico, lusso e blasoni forse pure, ospiti eccellenti, la maestosa villa Politi scelta persino da Churchill: parquet e boiserie alle pareti, una gran pineta che aleggia sui moti intestini delle grotte arroccate sopra, in prossimità di certe pensiline, stessa linea d’aria (moti paurosi, come taluni afrori nella notte, di cadaveri una volta, ne sono morti due, anni fa, o di uomini vivi rivoltati 25 dall’abiezione, i loro nauseanti pagliericci). Eppure è stato un primo maggio grandioso, musica a palla nel parco, musica dal vivo, rock, vino e salsicce, bandiere a sventolare. Non è una provocazione. È stata un’ideona dell’amministrazione. Ma: e gli uomini delle grotte? Macché, chitarre a ruggire al massimo e slogan anarchici e comunisti tutt’al più. Picchetti pregni di indignazione erano già bell’è pronti con i militanti dell’associazione di destra “Italiani in movimento”, che hanno esortato il sindaco (loro, proprio loro): faccia qualcosa, la prego, consideri questi uomini. Era la festa del lavoro, un ossimoro incommensurabile celebrato lì, a ridosso di terrificanti tombini, uomini di una qualche sottospecie, annichiliti nelle cave, ratti costretti da chiusini. Non era solo una metafora, piuttosto una fatwa. L’auspicio ieratico della comunità spera ardentemente che almeno non crepi nessuno, come capitò con il povero Miroslaw Dabek o la povera polacca Ewa, morti a Natale, dentro le grotte. Ewa non la tiravano fuori, era incastrata esangue nel suo feretro di pietra, fuori pioveva, era Natale. Anche Miroslaw morì a Natale, la sua grotta puzzava appresso all’altra quella visitata dagli altri, dalla persone perbene, dentro si conduceva un presepe vivente. Era tutto abbastanza triste. Il presepe vivente e l’uomo morto di là, non si sono accorti della parabola evangelica in quell’assisa platea, moriva il figlio dell’u omo mentre nasceva il Figlio di Dio. Nessuna vibrante protesta, nemmeno i cannoni nelle piazze di De André ne La domenica delle salme, pronti per un va a quel paese onnicomprensivo, destinatari sparsi. Siracusa non conosce un welfare, non esiste una rete sociale, l’anarchia per certi versi, o una rozzezza estesa a far valere qualsiasi diritto contrabbandato di solito per favore. Storie vecchie, da profondo sud. Siracusa, tolta la parrocchia di padre Carlo D’Antoni, un dormitorio nato per iniziativa privata, di venti posti, e uno della San Martino di Tours di appena otto, non propone altro. Nasceranno mausolei per profughi, non supereranno il centinaio di posti letto, competenza di prefetture e ministero dell’interno, poco c’entra con gli uomini delle grotte, e ad ogni modo non sono nemmeno loro una risposta. A Siracusa si muore per strada, cioè chi vive per strada , ci resta. Non la chiesa di questi uomini (non è la chiesa di Dio), non un esecutore di un qualsiasi ente morale che si sia mai visto lungo i sentieri delle grotte raccogliere la miseria o uomini vestiti di purezza uscire dai loro rigidi paramenti e asciugare il sudore dei lerci o le loro lacrime nere da profughi o da disgraziati, ombre anche nostre, credeteci. Che alle grotte ci possano vivere anche indigeni secondo un condiviso sentire della comunità prossima è da escludere, altrimenti è un commentare sussurrando, con le mani davanti la bocca, i frequentatori della zona procedono oltre allora. Chiediamo a loro: “Conoscete gli uomini delle grotte?”. Accelerano il passo, scuotono il capo, si schermiscono con un braccio dinanzi a una tale bestemmia. Eppure in quel parco il senso dell’apocalisse si svolgeva in pieno giorno per anni. Donne e uomini si trascinavano in quei luoghi, vinti dai vizi più terribili, dalle più terribili miserie. Miroslaw moriva a Natale, senza esofago, vomitando sangue, seduto su una pietra. Poi sono venute le ruspe, ma i topi sono tornati. 26 SOCIETA’ del 09/06/14, pag. 7 Da ceto medio a quasi poveri: ecco i «penultimi» SEMPRE PER PIÙ PERSONE IL LAVORO NON È PIÙ IN GRADO DI GARANTIRE UNA VITA SENZA STENTI CARLO BUTTARONI Per lungo tempo il lavoro è stato il paradigma di una società che faceva perno intorno alla fabbrica e all’ufficio. Un modello di organizzazione sociale riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita, il cui tracciato essenziale era stato incastonato nel primo articolo della Costituzione: una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria ma anche le altre sfere dell’esistenza: la scuola accompagnava il giovane all’età lavorativa, la sanità pubblica si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti dalle malattie, le pensioni di anzianità garantivano la sicurezza economica all’uscita dal mondo della produzione. È su queste premesse che l’Italia è cresciuta fino a diventare uno dei Paesi più ricchi del mondo, dando corpo al suo «ceto medio» e facendolo diventare il principale bacino di approvvigionamento del sistema di welfare: dalla scuola alla sanità, dalle pensioni agli strumenti di sostegno alle famiglie più disagiate. Per oltre mezzo secolo tutto questo è stato il tracciato di una storia di crescita economica, culturale e sociale straordinaria: a livello macro, erano molti più gli italiani che accedevano a livelli superiori di benessere di quanti, già benestanti, accumulavano altra ricchezza. E mentre le disuguaglianze diminuivano, il benessere si diffondeva insieme ai diritti di cittadinanza cui accedevano fasce sempre più ampie di popolazione. Oggi tutto questo sembra lontanissimo: il lavoro non è più (se non a parole) il fulcro del modello di organizzazione sociale, il sistema di welfare è stato ampiamente rimodulato e non è più in grado di rispondere alla crescita della domanda di protezione sociale. E un fantasma si aggira fra i detriti della «tempesta perfetta»: quello della povertà. Chi diventa povero in Italia ha probabilità maggiori di restarlo per tutta la vita, contrariamente a ciò che accade in altri Paesi avanzati dove la povertà ha caratteristiche più transitorie e meno definitive. E nemmeno il lavoro, che ne ha sempre costituito l’antidoto, è in grado ormai di preservare dai rischi di vedere materializzarsi una condizione che in Italia ha tradizionalmente forme definitive. Nel complesso, la condizione di povertà riguarda l’11% degli occupati ed è cresciuta sia tra i lavoratori dipendenti che tra gli autonomi, colpendo soprattutto le fasce affluenti del ceto medio, come dirigenti e impiegati. I segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche: il 6% nel Nord, il 7% nel Centro e il 26% nel Mezzogiorno. In quest’area, in particolare, vive in condizioni di povertà il 32% delle famiglie di operai, il 24% di quelle con a capo un lavoratore dipendente e il 21% di quelle che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo. L’Italia è il Paese che, in questi ultimi due anni, ha perso più posizioni in Europa negli indicatori dello sviluppo economico e sociale e l’indice della popolazione a rischio di povertà propone gli scenari più inquietanti proprio per la quota di poveri che dispongono di un reddito mensile fisso. E qui la crisi c’entra, ma fino a un certo punto. Di più hanno contribuito le scelte di politica economica basate su quell’ossimoro che, con una punta di cinismo, è stata chiamata «austerità espansiva». Scelte che hanno dato forma a nuove traiettorie d’impoverimento, modificato le forme del disagio sociale, spostato l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di 27 «povertà cronica» a quella di «processi d’impoverimento diffuso» in cui si è trovata coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario. Ed ecco che quindi gli working poors, definiti anche «poveri in giacca e cravatta», rappresentano una delle più drammatiche conseguenze del momento buio che stiamo vivendo. Una zona grigia di nuove povertà, forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui rappresentano una condizione che ha radici, non nella mancanza del lavoro, ma nel lavoro stesso che non è più in grado di garantire un reddito sufficiente per una vita senza stenti. Se, un tempo, la presenza di anche solo un membro portatore di reddito in famiglia era condizione sufficiente per non cadere in povertà, oggi, con le medesime condizioni, ci si sposta rapidamente sotto la soglia. E questo vale per una famiglia su dieci che stenta ad arrivare alla fine del mese. Il fenomeno non ha «professione»,ma ingloba quasi tutte le categorie: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione. Ed ecco che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti «penultimi». Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che non riesce più a puntare verso l’alto della piramide sociale, ma si sente risucchiata verso il basso e sfiora pericolosamente la soglia di povertà fino a oltrepassarla. Un ceto medio che va scomparendo, quindi, portando alla destabilizzazione degli stabili, con una regressione nella scala sociale fino alla proletarizzazione, fino alla discesa nella sfera del bisogno e nella perdita del benessere, mettendo a nudo, in modo impietoso, lo stato di degradante malessere del Paese. È un’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati, altri milioni che non riescono ugualmente a far fronte alle necessità quotidiane. Le bollette della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un incubo: oltre un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle. Mentre le diseguaglianze (dati Ocse) sono aumentate molto più che in altre economie occidentali: chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente peggio. Il crollo del ceto medio è il segnale di allarme rosso che suona da Nord a Sud. È la povertà dei «non-poveri », chiamati anche «poveri grigi», in bilico tra normalità e miseria, precipitati nel mondo del bisogno con percorsi di caduta diversi dal tradizionale accumulo di eventi critici (disoccupazione, problemi di salute, separazioni), come cartelle esattoriali impreviste e persino multe. E in quel corpo sociale che, per anni, ha rappresentato il motore economico dell’Italia e il grande incubatore della fiducia nel futuro, oggi prevale una sofferenza che non avevamo mai conosciuto, un’incertezza che li ha scoperti impreparati ad affrontare i problemi che si sono trovati davanti, senza che qualcuno si occupi veramente di loro. del 09/06/14, pag. 15 Visite specialistiche ed esami, ticket più cari del 25% Le cifre — scomposte anno per anno — non sono nuove, ma il confronto su base triennale, elaborato dalla Corte dei conti, quello sì, colpisce. Nel 2013 — evidenziano i giudici contabili nei loro Rapporti della finanza pubblica — gli italiani hanno pagato più di 2,9 miliardi di ticket sanitari per farmaci, diagnostica, specialistica e pronto soccorso, cioè il 25% in più, pari a circa 700 milioni di euro, rispetto al 2010, quando avevano speso 2,2 28 miliardi. Da qui la decisione del governo di rivedere assieme alle Regioni lo schema in vigore per la compartecipazione della spesa sanitaria nel nuovo Patto per la Salute che dovrebbe essere presentato a fine giugno. Allo studio dei tavoli tecnici — ricorda l’Ansa approfondendo i dati della Corte dei conti — ci sono novità su indicatori reddituali, tetti di spesa e criteri di esenzioni. L’obiettivo è quello di ottenere un meccanismo con più equità e più attenzione ai nuclei familiari colpiti dalla crisi. Passando ad un altro settore colpito dalla crisi, in misura anche maggiore — mercato del lavoro e previdenza — il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ieri ha ribadito che il governo Renzi «non ha in previsione di cambiare l’età pensionabile, né innalzandola né abbassandola. Tutto resta com’è». Bisogna ora lavorare — ha aggiunto Poletti intervenendo a Napoli al convegno organizzato da Repubblica — «per trovare delle vie di equità, partendo da quelle persone che sono fuori dal mercato del lavoro e con gli ammortizzatori non arrivano alla pensione». Non c’è dunque solo l’emergenza giovani. Il ministro pensa «a chi ha 60 anni e perde il lavoro a tre anni dalla pensione, con la possibilità di usufruire solo di due anni di ammortizzatori e nessuna occasione di trovare un’altra occupazione». A questi, che sono una sorta di «esodati» di fatto, «dobbiamo dare una risposta». Poletti ha quindi ricordato gli elementi della legge delega presentata in Parlamento che «trasforma radicalmente tutti gli elementi del mercato del lavoro, degli ammortizzatori sociali, della strumentazione per le politiche attive del lavoro». Insomma «altro che antipasto, io dico che questo è il piatto» ha quindi affermato il ministro riferendosi al presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che sabato aveva definito il provvedimento del governo «un antipasto», a cui dovrebbe seguire una riforma più ampia. Tornando a parlare della legge delega, Poletti ha infine indicato il timing dell’approvazione parlamentare e quello dell’entrata in vigore delle misure previste: «Siamo convinti di poterla realizzare in tempi rapidi: entro fine luglio il Senato concluderà i suoi lavori e quindi a inizio settembre potremo andare alla Camera per chiedere e ottenere l’approvazione definitiva della delega a cui seguiranno i decreti attuativi». Decreti che i tecnici del ministero del Lavoro stanno già preparando. R.R. 29 BENI COMUNI/AMBIENTE del 09/06/14, pag. 13 Le Grandi opere che l’Italia non sa più costruire: 395 cantieri mai finiti Dalla Salerno-Reggio al ponte sullo Stretto, tra tempi incerti e costi altissimi. Nel calcolo delle opere pubbliche che non sono state completate al primo posto c’è la Sicilia Di Sergio Rizzo Che le cose non funzionino affatto come dovrebbero, lo sappiamo da mezzo secolo. Basta rileggere quello che disse in una intervista al Corriere negli anni Settanta Fedele Cova, uno dei progettisti dell’Autostrada del Sole. «Il segno del cambiamento», ricordava, «si ebbe nel 1964. Prima mi avevano lasciato tranquillo, forse perché non credevano nelle autostrade, forse perché non si erano neppure accorti di quello che stava accadendo. Ma, nel ‘64, con la fine dell’Autosole, cominciarono gli appetiti, le interferenze...». Fu lì che si perse l’innocenza del dopoguerra. E che le opere pubbliche cominciarono a diventare la greppia per politici e affaristi. Più che la loro utilità, interessavano i soldi che potevano far girare. Oppure il ritorno in termini di consenso politico. Memorabile la vicenda del tracciato dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori iniziarono nel 1963, che con scarso rispetto della logica fu fatto inerpicare nel collegio elettorale del ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini. Se si vuole trovare una spiegazione alla nostra cronica incapacità di costruire opere pubbliche in tempi umani e a costi civili, non si può che partire da qui. L’Autostrada del Sole venne realizzata in poco più di otto anni, al ritmo di 94 chilometri l’anno con un costo medio, in euro attuali, di 4 milioni al chilometro. Per la Salerno-Reggio Calabria, poco più che una semplice statale lunga 443 chilometri invece dei 794 dell’Autosole, di anni ne servirono 11, e il costo a chilometro era già salito a 5,5 milioni. L’attuale rifacimento della stessa autostrada, iniziato nel 1997, potrà forse dirsi completato in vent’anni, a un costo chilometrico esattamente valutabile soltanto alla fine: ma certo non molto distante da un quintuplo di quello di quando l’arteria fu costruita. Per non parlare della famosa variante di valico, il nuovo tratto appenninico dell’Autosole, del quale si parla da vent’anni e non è ancora percorribile. Passando dalle strade alle ferrovie, la musica non cambia. Un recente studio di Intesa Sanpaolo ha appurato che il costo medio di un chilometro di alta velocità made in Italy è triplo rispetto alla Spagna, alla Francia e al Giappone. Vari sono i motivi: non ultimo le compensazioni che vengono imposte dai Comuni attraversati dai binari. Ma oltre al costo economico c’è da mettere nel conto anche la perdita di tempo: per realizzare l’alta velocità ferroviaria in Italia c’è voluto un ventennio. Fatto sta che nel 2012 avevamo 876 chilometri di linee veloci, contro 2.125 della Francia e 3.230 della Spagna: e pensare che la prima tratta europea per i supertreni, la direttissima Roma-Firenze, era stata costruita proprio in Italia, all’inizio degli anni Settanta. Tempi lungi, costi assurdi, procedure complicatissime che sembrano ideate apposta per favorire i ritardi e le spese faraoniche, ma anche la corruzione. E una profondissima ipocrisia: regole minuziose e controlli accurati sulla carta, assenza di regole e assenza di controlli nella realtà. Come sta a dimostrare proprio il caso del Mose. Dove per giunta gli incarichi di collaudo venivano assegnati, oltre che a manager come il presidente dell’Anas Pietro Ciucci e ad altri suoi 30 colleghi esperti in strade, addirittura a persone prive di laurea come il geometra Gualtiero Cesarali. Non c’è opera pubblica la cui vicenda non sia scandita da varianti infinite, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, arbitrati nei quali lo Stato finisce inevitabilmente per soccombere. Senza che le uniche due necessarie certezze siamo mai certe: il tempo e il prezzo. Il risultato è che mentre continuiamo a divorare il nostro meraviglioso paesaggio con brutta e inutile edilizia abitativa, non facciamo le opere pubbliche necessarie. E anche questo è un costo. Enorme. Chi si è preso la briga di calcolare i costi del «non fare» ha stimato che la mancata costruzione di ferrovie e autostrade che hanno fatto scivolare l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi europei per dotazione infrastrutturale ci abbia causato una perdita di 278 miliardi di euro. A cui va aggiunta, ovviamente, la fattura delle opere pubbliche mai completate: record, anche questo, tutto italiano. Ne sono state censite 395, con una punta di 150 nella sola Sicilia. Numeri e circostanze che alla vigilia del 2015, e con gli scandali delle tangenti dell’Expo e del Mose, ci mettono ancora di più di fronte a un interrogativo cruciale: l’Italia è in grado di realizzare opere pubbliche importanti? È una domanda a cui dobbiamo dare una risposta, se vogliamo considerarci a pieno titolo un Paese sviluppato che fa parte dell’Unione Europea. Ma qui, purtroppo, gli esempi lasciano poche speranze. Il ponte sullo Stretto di Messina, per esempio. Un’infrastruttura controversa, sulla quale le opinioni nel Paese erano assolutamente discordi. Che però ha offerto al mondo uno spettacolo inverosimile. Messa nel 2001 dal governo di Silvio Berlusconi in cima alla lista delle opere strategiche, cancellata con un colpo di spugna nel 2006 dal governo di Romano Prodi, riesumata nuovamente da Berlusconi nel 2008 e affossata dallo stesso governo del Cavaliere nel 2011. Per essere poi definitivamente sepolta con uno stratagemma ideato dall’abbinata fra politica e burocrazia quando a Palazzo Chigi è arrivato Mario Monti. Il tutto dopo aver fatto una gara internazionale e aver firmato otto anni fa un contratto miliardario con imprese italiane e internazionali. Uno scherzetto già costato ai contribuenti 350 milioni fra progetto e mantenimento in vita della società Stretto di Messina. E con le penali il conto potrebbe arrivare anche a un miliardo: senza che ci resti un solo mattone. 31 INFORMAZIONE del 09/06/14, pag. 1/15 Alla Rai quello che è della Rai Roberto Zaccaria La sottrazione alla Rai dei 150 milioni dei proventi del canone operata dal governo con il decreto legge n.66 del 2014, ha aperto un dibattito enorme sulla stampa italiana intorno al servizio pubblico, alla sua funzione e alla sua riforma. Un’ulteriore amplificazione di questo dibattito è stata prodotta dall’annuncio di uno sciopero dei lavoratori per il giorno 13 giugno ed ora revocato. Dico subito che non mi sarei comunque misurato né sull’opportunità, né tanto meno sulla legittimità di questo sciopero, perché mi pare che il tema dovesse essere comunque circoscritto alle parti in causa. Sui 150 milioni e soprattutto sul modo in cui sono stati prelevati (con effetto immediato e ad esercizio in corso) ho invece qualcosa da dire con accenti simili a quelli usati dal direttore generale dell’Unione europea delle radiotelevisioni pubbliche e indirizzati al Presidente Napolitano, proprio in questi giorni. Sono convinto che incidere in questo modo, anche se per sacrosante ragioni di bilancio, sulle risorse del servizio pubblico radiotelevisivo sia in contrasto con i nostri principi costituzionali ed anche con quelli europei (art.10 Cedu e art.11 Carta di Nizza). Il principio dell’indipendenza economica della RAI servizio pubblico radiotelevisivo costituisce uno dei pilastri della configurazione dei servizi pubblici secondo le regole europee, a cominciare dal Trattato di Amsterdam del 1997, e secondo i principi più volte ribaditi dalla nostra Corte costituzionale, a partire dalla famosissima sentenza n.225 del 1974 per arrivare alla sentenza n.284 del 2002, proprio in materia di canone. L’indipendenza economica precede addirittura quella organizzativa ed anche quella dei contenuti. Inutile ricordare, in passato, le energiche reazioni dopo gli attacchi di esponenti di governo alla libertà di espressione. La situazione attuale non è meno grave. Il canone di abbonamento non rappresenta un versamento dalle casse dello Stato, ma proviene direttamente dagli utenti. Non costituisce quindi una somma della quale lo Stato può liberamente ed unilateralmente disporre. Questo comportamento è foriero di nuova evasione. Tutta la normativa in questa materia è stata impostata secondo un principio di rigorosa concertazione, tanto è vero che alla fine degli anni 90, quando lo Stato eliminò il canone autoradio, si preoccupò di indennizzare per alcuni esercizi il bilancio della Rai per una somma corrispondente a circa 210 miliardi di lire all’anno. La stessa procedura di «aumento» del canone prevista dall’art. 47 TU della radiotelevisione prevede, a monte di quell’atto, una concertazione o quantomeno un confronto tra il Ministero e la RAI sulle entrate necessarie per coprire i costi di esercizio. L’intera procedura deve comunque concludersi prima dell’inizio del nuovo anno finanziario, in modo che sia consentito un appropriato governo del bilancio. In tutta l’esperienza repubblicana ed anche in circostanze economiche molto critiche per il paese non è dato ricordare un intervento di questa natura. Altri strumenti d’intervento per lo Stato azionista della RAI sarebbero stati possibili nel rispetto delle regole che valgono per qualsiasi soggetto economico operante in regime di concorrenza. Non ricordo interventi analoghi neppure contro gli interessi economici del gruppo Mediaset. Quello che mi convince ancora meno è il ventilato scambio tra questo prelievo ed il consenso ad alienare una parte di Ray Way, la società delle antenne, che a suo tempo il Consiglio Rai stava per cedere ad una società americana nella misura del 49 per cento e con un utile di 400 milioni di euro. Quell’operazione fu bloccata dal Ministro Gasparri 32 quello dell’improvvida legge che oggi governa la Rai -ma sarebbe comunque servita per consentire all’azienda nuove opportunità strategiche e non per ripianare una falla di bilancio. La vendita di quote azionarie determina un beneficio patrimoniale, mentre la sottrazione del canone incide pesantemente sul conto economico. Lo stesso discorso potrebbe farsi con riferimento alle sedi regionali, erette ora ingiustamente ad emblema di tutti gli sprechi, dimenticando d’un colpo quanto possano essere importanti in una rinnovata strategia aziendale. Cosa impedirebbe infatti di costruire intorno a queste sedi dei centri di produzione polivalenti aperti a tutto il sistema pubblico e privato, magari con una collaborazione organica delle Regioni, anche nella forma di società partecipate. L’unico «scambio» con i 150 milioni sarebbe possibile con la dotazione dal parte del governo di strumenti più appropriati per combattere l’evasione del canone, oggi stimata in un importo pari almeno al doppio di quella cifra. Rinvio alle parole assai appropriate di Vittorio Emiliani, su questo stesso giornale, solo per aggiungere che una riforma della Rai potrebbe prendere lo spunto proprio da questo argomento. Nel tracciare le linee di questa riforma è però importante «dare a Cesare quel che è di Cesare». Alcune cose le dovrà fare la politica (il governo ma soprattutto il Parlamento) mentre altre le dovrà lasciar fare all’azienda ed ai suoi vertici (questo vale in particolare per le nuove linee editoriali, sulle quali molti politici si esercitano in questi giorni). Al governo-Parlamento si chiedono alcune cose da fare rigorosamente con legge: mettere in soffitta la pessima legge Gasparri, rinnovare la concessione, stabilire la missione, definire la «governance» e garantire un finanziamento certo. Chi pensa di poter fare tutto questo nel 2014 è ottimista, ma è bene crederci. Lo snodo più delicato è quello della governance perché fino a questo momento nessun modello ha saputo garantire l’indipendenza piena dalla politica. Io come molti sono colpito dalla disaffezione dell’opinione pubblica verso la Rai che indubbiamente risente anche del clima generale di disaffezione verso la politica. Proprio per questo mi domando perché non si provi, nel delineare i nuovi organi di governo-Rai, a stabilire un connessione più diretta con coloro che pagano il canone. Se coloro che devono pagare questa imposta potranno dire qualcosa sulla scelta dei vertici aziendali e sui caratteri fondamentali della produzione-programmazione, forse avremo fatto un grande passo in avanti sulla ricostituzione di un rapporto di fiducia. Coraggio! Le proposte ci sono basta portarle avanti. 33 ECONOMIA E LAVORO del 09/06/14, pag. 15 Imu, Tasi e Tari: istruzioni per l’uso Gli inquilini pagheranno fino al 30% La Tasi somiglia sempre di più a un vestito di Arlecchino. Mille colori, uno diverso per ogni Comune. Tanta libertà di stile non sembra piacere nemmeno ai sarti, i municipi che tagliano su misura aliquote e detrazioni. «Sì, la confusione c’è, inutile negarlo — constata il sindaco di Ascoli, Guido Castelli, responsabile Finanza locale per l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani —. Tutto sommato aveva più senso l’impianto dell’Ici. In questi anni non si è fatto altro che complicare le cose». Adesso bisogna cominciare a pagare. La scadenza da segnare sul calendario è quella del 16 giugno. Un giorno da cerchiare di rosso sia per l’acconto Imu sia per l’acconto Tasi. Ma già qui cominciano i distinguo. Perché solo 2.177 Comuni su circa 8.000 hanno deliberato aliquote e detrazioni. Quindi a chi abita nei poco meno di 6.000 municipi senza delibera non resta che aspettare. Un decreto approvato dal governo venerdì corso ha chiarito che nei Comuni dove la delibera arriverà entro il 10 settembre la prima rata si pagherà entro il 16 ottobre. Mentre dove nemmeno questa scadenza sarà rispettata allora si pagherà tutto in un’unica soluzione entro il 16 dicembre. Fa discutere la quota di Tasi dovuta dagli inquilini. Nelle seconde case, infatti, una fetta del tributo la deve pagare l’affittuario. Quanto? Una percentuale che oscilla tra il 10 e il 30%, anche qui a seconda della decisione del Comune. Il decreto di venerdì scorso ha stabilito che nei municipi che «dimenticano» di regolare questo aspetto o delibereranno in ritardo l’inquilino pagherà il minimo, cioè il 10 per cento. Una misura che vede contrari i proprietari degli immobili rappresentati da Confedilizia. «Ma non è solo questo — si inserisce Giorgio Spaziani Testa, segretario generale dell’associazione —. Il punto è anche che le delibere comunali dovrebbero legare gli importi della Tasi a un corrispettivo ben preciso. I cosiddetti servizi indivisibili, quelli per il verde o l’illuminazione. Invece questo spesso non avviene». A proposito di Tasi anche i Caf, i Centri di assistenza fiscale, hanno di che lamentarsi. «Quando si è capito che la scadenza del 16 giugno sarebbe rimasta siamo stati presi d’assalto — racconta Vincenzo Vita, responsabile del Caf Cisl della Lombardia —. Ogni Comune è un mondo a sé, si tratta di studiare migliaia di delibere». Ma il timore è soprattutto un altro: l’ingorgo dei pagamenti. «Sulla Tari, la tassa sui rifiuti, la stragrande maggioranza dei Comuni non ha ancora deliberato. Finirà che si dovrà pagare tutto, Tasi e Tari oltre che la seconda rata Imu, tra ottobre e dicembre – teme Vita –. Un salasso per famiglie già messe in difficoltà dalla crisi»,. Per continuare con l’elenco delle criticità, qualche problema in più se lo trovano i Comuni, come Bergamo, che hanno deliberato e poi hanno deciso di posticipare la prima rata Tasi oltre la scadenza del 16 giugno. Sul piano giuridico questo slittamento non sarebbe possibile. Anche Bologna ha fatto la stessa cosa, ma per evitare il problema della legittimità o meno del rinvio, ha scelto di mantenere la scadenza del 16 giugno stabilendo però che, se si paga entro il 31 luglio, non ci saranno sanzioni e non saranno dovuti interessi. Ultimo ma forse più importante: le prime case che pagano solo la Tasi avranno un onere maggiore o minore rispetto a quando si pagava soltanto l’Imu? «24 miliardi era il gettito 34 dell’Imu come definita dal governo Monti, 24 miliardi è il gettito stimato di Tasi più Imu quest’anno», fa notare Guido Castelli, responsabile fiscalità locale dell’Anci. Certo poi, tenendo conto dell’infinita possibilità di articolazione delle detrazioni, la varietà delle Tasi possibili, a saldo costante, è tale che potrebbe esserci qualcuno che alla fine pagherà di più. Il servizio politiche territoriali della Uil ha fatto una simulazione su 40 famiglie residenti in 10 città. Il risultato è che per 18 su 40 la Tasi è più alta di quanto pagato come Imu nel 2012. «Serve più chiarezza — è la reazione del segretario della Uil Guglielmo Loy —. Se si vuole fare davvero una operazione di equità, allora ciascuno dovrebbe versare in base al proprio Isee». Rita Querzè Del 09/06/2014, pag. 18 Fiscal compact più morbido e grandi opere FEDERICO FUBINI ROMA .La rete dei contatti fra governi in vista della presidenza italiana della Ue sta entrando nella fase frenetica. Ma quando si tireranno le somme, nel 2015, il fattore determinante magari non risulterà Matteo Renzi o la nomina del prossimo presidente della Commissione. Piuttosto, sarà stata Marine Le Pen: è il successo dell’estrema destra francese alle europee che sta inducendo in Europa, Berlino inclusa, riflessioni in parte diverse da prima. L’agenda delle riforme per dare a ciascun Paese più capacità di competere e conti pubblici meno malsani resta in piedi. Ciò che si è aggiunto è una presa d’atto che, senza una spinta sugli investimenti e un attacco alla disoccupazione, la Francia rischia di trovarsi ostaggio del fattore Le Pen alle presidenziali del 2017. E neanche la Germania di fatto egemone di Angela Merkel può permettersi un’Unione europea senza Francia, o con Parigi paralizzata dal Front National. È questo lo sfondo che aiuta a dare un ritmo più operativo al giro delle capitali iniziato di recente da Pier Carlo Padoan. Il ministro dell’Economia è stato giovedì a Berlino dal suo pari grado Wolfgang Schaeuble, e prima ancora a Madrid, Parigi, Londra e l’Aia. In parallelo Sandro Gozi, sottosegretario alla Politiche europee, vede gli sherpa di Merkel e di quasi tutti gli altri governi. Non è detto che i risultati arriveranno. Non sarebbe la prima volta in Europa che grandi tournée diplomatiche in vista di un rito in agenda finiscono per incidere poco sulla realtà. Di nuovo, c’è però proprio lo choc che i risultati in Francia hanno trasmesso ai leader dell’area euro. È anche a partire da lì che Padoan, con l’appoggio di Gozi, cerca di costruire un doppio binario su cui spingere il sistema verso scelte che portino un po’ più di crescita in tempi rapidi. Né a Berlino né altrove il ministro ha proposto di sospendere o allentare le regole di bilancio del Fiscal Compact: sa che non sarebbe accettato, né probabilmente ci crede lui stesso. L’idea di Padoan è però di vincolare in modo stringente gli impegni di bilancio presi a Bruxelles con un’agenda di riforme nazionali, anch’essa concordata nei dettagli a Bruxelles. Il nostro Paese potrebbe ottenere più tempo per ridurre il debito pubblico e altre capitali europea potrebbero averlo per il deficit. In contropartita, ogni governo deve impegnarsi su un programma preciso di interventi e l’agenda di questo programma non verrebbe lasciata al caso: essa andrebbe scritta e messa in pratica in base alle raccomandazioni della Commissione e del Consiglio Ecofin (ministri finanziari) per ciascun Paese. Per l’Italia significa approvare le riforme del lavoro, della giustizia, l’apertura dei mercati dei servizi o i tagli di spesa di cui ha parlato la Commissione europea la scorsa 35 settimana: in altri termini, fare ciò che finora non è riuscito a nessun governo. L’attuazione verrebbe verificata e monitorata di continuo anche da Bruxelles, ma se passa l’esame, il governo avrebbe più tempo per far calare il debito. E poiché il Fiscal Compact prevede di ridurlo del 3% del Pil ogni anno dal 2016, con dosi crescenti di austerità, l’offerta non è priva di interesse. C’è poi il secondo binario, accanto a quello del patto fra tolleranza sui conti e riforme. Padoan pensa a come lanciare nuovi progetti di investimenti in grandi opere europee, soprattutto nelle reti di trasporti ed energia. Quel tipo di interventi potrebbe assorbire molta disoccupazione ma, visto lo stato della finanza pubblica, va fatto senza pesare troppo sui governi. La Banca europea degli investimenti (Bei) può svolgere un ruolo, ma è difficile che acceleri i prestiti ora che è nel pieno dell’aumento di capitale da 10 miliardi deciso due anni fa. Un’ipotesi in circolazione è che non si conti nel deficit ai fini del Fiscal Compact la spesa nazionale in progetti cofinanziati (o certificati) dalla Bei. Una seconda ipotesi, più accettabile per i tedeschi, è che i fondi europei vengano usati in modo coordinato in Europa per co-finanziare opere di trasporto o di reti dell’energia. Accanto a quelli si spera di attrarre finanziatori privati, con emissioni di titoli per lanciare progetti specifici. Ora che i tassi d’interesse sono ancora molto bassi, può funzionare. A Berlino non ci sono chiusure all’idea di favorire grandi investimenti per l’occupazione, ma molti paletti restano. Sulla base dell’esperienza, la Germania diffida di come vengono spesi i fondi europei in Italia e altri Paesi: ora Berlino vorrebbe che la Commissione avesse più potere di dire alle capitali in quali progetti investirli, e come. Tra pochi giorni arriveranno dal governo di Angela Merkel controproposte all’iniziativa dell’Italia. Il cantiere della presidenza italiana è aperto, e il settore più avanzato riguarda proprio lo scambio fra riforme per diventare competitivi e più flessibilità sui conti. Padoan ci sta lavorando molto, perché sospetta che un’altra occasione per muovere questo passo non si ripresenterà presto. Tra poco tocca a Renzi. E solo allora si vedrà se il premier vede nel suo ministro dell’Economia un protagonista di governo, o solo l’ambasciatore delle priorità ed emergenze di Palazzo Chigi. del 09/06/14, pag. 14 Cassa in deroga e Mobilità 138mila aspettano ancora In Italia ci sono oltre 138mila lavoratori che attendono ancora di percepire ammortizzatori sociali del 2013: in media assegni per oltre due mesi.Eper fortuna il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha appena sbloccato 400 milioni per saldarne almeno una parte. Il quadro che viene fuori dalla situazione di erogazione di Cassa integrazione e Mobilità in deroga è sconfortante. Le 19 Regioni e le due Province autonome che hanno il potere di concederla operano in modo totalmente diverso: una giungla di normative e di procedure a partire dai criteri di richiesta per passare alla durata dei trattamenti e alle modalità di autorizzazione ai pagamenti. Per ottenere i dati che trovate in tabella abbiamo impiegato più di due settimane e renderli omogenei è stato alquanto difficile. Leggendoli salta agli occhi una situazione sociale drammatica: se solo alcuni dei 138mila lavoratori sono ancora senza lavoro, stiamo parlando spesso di famiglie monoreddito che sui 600-700 euro della mobilità o i mille scarsi della media della Cig in deroga fondano gran parte della loro sopravvivenza. E se al Nord il dramma viene soprattutto dalle crisi delle piccole aziende - sotto i 15 dipendenti che non hanno la “cassa” ordinaria - lombarde (il picco di cassa in deroga) e 36 venete (il picco di mobilità), al Sud il disagio sociale si unisce spesso a pratiche clientelari con concessioni allegre al limite delle regole, come denunciato anche dagli stessi sindacati - la Cisl in testa. Una situazione che rende ancor più urgente una regolamentazione unica e nazionale dell’intero strumento degli ammortizzatori sociali, chiesta di fatti a gran voce da tutti i soggetti coinvolti: Regioni, sindacati, governo, Inps. Perché se è vero che fino al 2012 i fondi utilizzati per pagare gli ammortizzatori in deroga erano almeno per un terzo regionali - i famosi Fondi sociali europei - «da due anni le Regioni hanno solo risorse figurative, sono semplicemente un ufficio decentrato dello Stato con funzione amministrativa: tutte le responsabilità e i problemi li gestiamo noi, ma i soldi poi li eroga il governo centrale tramite l’Inps», spiega Gianfranco Simoncini, assessore toscano e coordinatore degli assessori regionali in materia di lavoro. È stato lui - assieme a Cgil, Cisl e Uil che hanno tenuto mobilitazioni e presidi nelle varie Regioni lungo tutti questi mesi - a combattere con i vari governi in questi due anni per riuscire a coprire almeno gli arretrati. «Con i 400 milioni sbloccati dal ministro Poletti noi come Regione Toscana contiamo di chiudere le pratiche 2013 entro giugno e speriamo che l’Inps, che ha già iniziato a pagare alcuni arretrati, possa chiudere tutti i pagamenti entro luglio, mettendo così fine ad una vera vergogna sociale», spiega Simoncini. Ma nonostante il Jobs act - il disegno di legge delega ora in discussione in Parlamento abbia messo tra le priorità la riforma degli ammortizzatori in deroga, la situazione si preannuncia ancora più drammatica per l’anno in corso. E la tabella lo dimostra in modo inconfutabile. Per chiudere le pendenze del solo 2013 le Regioni stimano che siano necessari ben 566 milioni. Ma per farlo gran parte di queste hanno già utilizzato 289 milioni della prima tranche del 2014 - da 400 milioni - stanziata il 22 gennaio. SICILIA E CALABRIA USANO I PAC Per non parlare del fatto che alcune Regioni del Sud - su tutte la Sicilia con 108 milioni e Calabria con 26,7 milioni - per pagare gli ammortizzatori in deroga hanno fatto ampio uso dei fondi europei per i Piani di azione e coesione (i cosiddetti Pac) che in teoria niente avrebbero a che fare con cassa integrazione e mobilità, mentre la Sardegna ha deciso di stanziare 52 milioni dei fondi del suo bilancio. Ecco dunque che per l’anno in corso le difficoltà sono già sicure. I fondi previsti in legge di stabilità sono solo 1,6 miliardi (di cui dunque 800 milioni già stanziati) e il ministro Poletti ha già stimato in 1 miliardo i soldi mancanti per assicurare a tutti i lavoratori coinvolti gli ammortizzatori per il 2014.Meno ottimista Simoncini: «per me servono almeno 400 milioni in più, anche perché per il 2013 arriveremo a spendere fra i 2,6 e i 2,8 miliardi». Le stime sono comunque difficili da fare per un motivo molto semplice: a giorni lo stesso ministero del Lavoro deve pubblicare il nuovo decreto interministeriale con i nuovi criteri di erogazione degli ammortizzatori in deroga. Criteri unici per tutta Italia e più stringenti riduzione dei periodi di cassa e mobilità, esclusione di alcune motivazioni, aziende e categorie di lavoratori che possono fare domanda - che quindi dovrebbero ridurre i fondi necessari. La prima versione del decreto messo a punto dall’allora sottosegretario al Lavoro del governo Letta, Carlo Dell’Aringa, è stata modificata anche dopo le richieste delle stesse Regioni e i pareri negativi delle commissioni parlamentari. Fugato il dubbio che il decreto sia retroattivo - «due settimane fa il ministro Poletti su questo ci ha tranquillizzato: il decreto non lo sarà e accoglierà alcune nostre richieste come l’inclusione dei lavoratori in somministrazione», spiega Simoncini - vi è dunque la certezza che il decreto opererà solo dal primo luglio. E dunque per i primi sei mesi dell’anno le normative saranno ancora le vecchie, con la giungla regionale a continuare a dettare legge. IL FLOP DELLA FORNERO Il problema deriva dall’occasione fallita da Elsa Fornero: la riforma del lavoro che porta il suo nome ha mancato clamorosamente la possibilità di sostituire la Cassa integrazione in 37 deroga con uno strumento che - come la cassa ordinaria e straordinaria - sia pagata con i fondi di lavoratori ed imprese. Il problema di fondo dell’ammortizzatore creato - su richiesta dei sindacati - da Giulio Tremonti è sempre lo stesso: diversamente dalla Cassa integrazione ordinaria e straordinaria, quella in Deroga è a carico della fiscalità generale e ogni anno va rifinanziata. E con le carenze di bilancio pubblico, da una parte, e con il boom della crisi specie in alcune zone del Paese (Veneto a Nord e quasi tutto il Sud) il problema di come finanziarlo è stato sempre più un rompicapo per i vari governi succedutisi dal 2009 ad oggi. Ma per sostituire la Cassa in deroga Elsa Fornero ha puntato sui fondi di solidarietà. Che sono miseramente falliti. Prevedendo poi vere e proprie storture: chi oggi ha diritto a 12 mesi di cassa in deroga passerà a sole 13 settimane. E non allargando le tutele a nessuna delle tante categorie ora escluse: lavoratori in aziende sotto i 15 dipendenti, precari, co.co.pro, partite Iva. Ecco quindi la necessità di modificare la riforma Fornero - che prevede la cancellazione della cassa in deroga dal 2016 e la progressiva sostituzione della mobilità con l’Aspi - e di accelerare un ridisegno complessivo degli ammortizzatori sociali. «Noi come Regioni da anni chiediamo il superamento degli ammortizzatori in deroga, anche perché o si cambia o saremo costretti a portare i nostri scatoloni di richieste arretrate a Roma. Con il governo Renzi e con il ministro Poletti per la prima volta abbiamo visto un’accelerazione sotto questo punto di vista - sottolinea Simoncini - . Nel disegno di legge delega, il cosiddetto Jobs act, al primo punto si parla di riforma degli ammortizzatori sociali e si prevede di farlo con due strumenti ben precisi: da una parte uno strumento universalistico per i lavoratori delle aziende in crisi, superando la distinzione tra aziende sopra e sotto i 15 dipendenti; dall’altra un altro strumento ugualmente universalistico per chi ha perso il lavoro, allargandolo ai precari oggi esclusi. Se il governo manterrà questo impianto, noi siamo assolutamente soddisfatti e appoggeremo la riforma », chiude Simoncini. «Al sesto anno della cassa in deroga siamo davanti ad un sistema ormai patologico - spiega Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil - . Come sindacati chiediamo però che l’uscita dalla deroga sia socialmente sostenibile. I nuovi criteri non potranno essere soluzioni tipo lo scalone Maroni o l’innalzamento a 67 anni della Fornero. Serve un periodo di armonizzazione che, sebbene cancelli le storture che ci sono state, non metta famiglie e lavoratori in mezzo ad una strada». 38
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