RASSEGNA STAMPA

RASSEGNA STAMPA
lunedì 9 giugno 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 09/06/14, pag. 2
VIVA L’ITALIA VIVA
Migliaia a Gattatico per la festa del Fatto
di Silvia Bia
L’impegno nella buona politica di Enrico Berlinguer, la partecipazione intorno alla sua
figura e a quello che ha rappresentato per l’Italia. A trent’anni dalla scomparsa, sul palco
della festa nazionale del Fatto Quotidiano e dei Comuni Virtuosi, Walter Veltroni ha
ricordato il segretario del Pci, presentando il suo film documentario Quando c’era
Berlinguer.
INSIEME ad Andrea Scanzi e al direttore de Il Fatto Antonio Padellaro, Veltroni ha
ripercorso la vita e le imprese di Berlinguer, i successi e le delusioni, fino alla sua morte
alla vigilia delle elezioni europee. “Il suo lascito è che la politica può essere bella – ha
detto – L’altro è che si può cambiare rimanendo fedeli all’ispirazione dei propri valori. Per
questo, anche a distanza di anni, è importante parlare ancora di lui”. Veltroni ha raccontato
la storia politica dell’ex leadere del Pci fino al suo malore, da cui non si riprese più, durante
il suo ultimo comizio a Padova: “Doveva decidere se pensare alla sua salute, o se finire il
suo discorso, per gli altri. E scelse la seconda opzione, dicendo la sua ultima frase alla
perfezione, con un sorriso”.
NELLA DUE GIORNI di festa “Viva l’Italia viva”, al circolo Arci Fuori Orario di Taneto di
Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, protagonista è stata anche l’Italia che vuole
cambiare e che, nel suo piccolo, cerca di farlo. Incontri e dibattiti, musica e stand
gastronomici, hanno animato la manifestazione che ha visto la partecipazione di
Emergency, Slow Food e Banca Etica. A chiudere la prima giornata che ha avuto come
ospiti, tra gli altri, il segretario di Fiom Cgil Maurizio Landini, l’attore e candidato alle
europee con Tsipras Moni Ovadia e la giornalista Milena Gabanelli, è stato il condirettore
de Il Fatto Marco Travaglio, che ha parlato di trattativa Stato- mafia e di informazione nel
suo monologo “Viva l’Italia”. Nella seconda giornata i riflettori si sono accesi sui Comuni
Virtuosi, con la partecipazione di sindaci come Federico Pizzarotti di Parma, entrato da
poco nell’associazione, o la rappresentanza di realtà più piccole che hanno fatto di
raccolta differenziata, partecipazione e mobilità sostenibile la propria quotidianità,
raggiungendo risultati che, se applicati a livello nazionale, potrebbero far diventare l’Italia
un Paese virtuoso.
2
ESTERI
Del 09/06/2014, pag. 20
Nasce l’Internazionale nera anti-Ue
ANDREA TARQUINI
BERLINO Nasce l’Internazionale nera, la “Santa alleanza” delle destre radicali antieuropee, anti-occidentali e omofobe del Vecchio continente. E nasce con la benedizione e
la sponsorizzazione di oligarchi russi vicini a Putin, nonché la partecipazione di Aleksandr
Dugin, il noto leader nazionalista del “Movimento euroasiatico” le cui idee sono state
riprese, con l’Unione euroasiatica, proprio dal capo del Cremlino. Una loro riunione a porte
chiuse si è tenuta l’ultimo sabato di maggio a Vienna, nello Stadtpalais del principe di
Liechtenstein. E dopo aver concluso il vertice con un gran gala, si sono dati appuntamento
per gennaio. Probabilmente a Mosca.
La notizia, ripresa dal Tagesanzeiger svizzero, ha creato allarme negli ambienti politici e
dell’intelligence di diversi paesi democratici, a cominciare dalla Germania di Angela
Merkel. Gli obiettivi comuni non mancano: nazionalismo ed Europa delle patrie, opposta
all’Europa come unità politica, e poi opposizione al liberalismo, in senso economico,
politico e culturale, ostilità alla “lobby satanica”
degli omosessuali, richiamo ai vecchi valori tradizionali di legge e ordine. Ospitante e
sponsor l’oligarca russo Konstantin Malofe’ev, con la sua Fondazione intitolata a San
Basilio il Grande. Malofe’ev, secondo il Financial Times, avrebbe accesso diretto a Putin
ed è sospettato di aver finanziato i separatisti dell’Ucraina orientale. Al suo fianco
Aleksandr Dugin, ex ultrà di destra, poi spostatosi su posizioni nazionaliste più moderate.
E ancora: Marion Maréchal- Le Pen, la giovane nipote della carismatica numero uno del
Front national, il popolare leader della Fpö (destra radicale austriaca) Heinz-Christian
Strache, il capo dei radical- nazionalisti bulgari Volen Siderov. Dugin ha auspicato la
creazione di «una quinta colonna filorussa di intellettuali che come noi vogliono rafforzare
le identità nazionali ». E ha aggiunto: «Così potremo conquistare l’Europa e le sue anime
e unirla a noi», e difenderla dalla decadenza occidentale, liberal e gay. L’idea, ovviamente,
è di cavalcare l’onda populista uscita dalle urne: non fosse che proprio ieri Marine Le Pen
ha dovuto per la prima volta sconfessare pubblicamente suo padre, il patriarca della destra
francese, Jean-Marie Le Pen, che in un video ha attaccato un popolare cantautore ebreo,
Patrick Bruel, con una battuta pesantissima: «Critica il Fronte? La prossima volta ne
faremo un’infornata». Le Pen figlia si è vista costretta di dichiarare al Figaro che il padre
«ha fatto un errore politico». Per quel che riguarda la “Internazionale nera”, il grande
interrogativo che inquieta le cancellerie europee, è fino a che punto l’alleanza sia in
contatto col Cremlino. In ogni caso la Fpö di Strache ha ottimi contatti ufficiali in Russia,
mentre Marine Le Pen fin dall’inizio della crisi con l’Ucraina ha voluto lodare la fermezza di
Putin. Intanto prevale la riservatezza. Alla riunione niente immagini: quando Strache ha
voluto scattare un selfie col suo smartphone, Malofe’ev lo ha subito rimproverato.
Del 09/06/2014, pag. 22
Un sondaggio conferma: più di sei spagnoli su dieci vogliono andare
alle urne per decidere il futuro della Casa Reale “La famiglia ha
3
abbandonato Juan Carlos e lui ha abdicato”, scrive in un retroscena il
quotidiano “El Mundo”
Monarchia, Madrid vuole il referendum
OMERO CIAI
LA MAGGIORANZA
degli spagnoli vorrebbe un referendum per decidere se cambiare la forma dello Stato:
monarchia o repubblica? È il dato, anche un po’ sorprendente, che emerge da un
sondaggio realizzato per El País subito dopo l’annuncio dell’abdicazione di re Juan Carlos
il 2 giugno scorso e reso pubblico ieri. Il 62% dei cittadini si dice favorevole alla
convocazione di un referendum sulla monarchia anche se poi una leggera maggioranza,
intorno al 53%, afferma di preferire come Capo di Stato il prossimo re, Felipe VI, piuttosto
che un presidente repubblicano. La maggioranza a favore del referendum è schiacciante
tra i più giovani e, nell’età compresa fra i 18 e i 34 anni, sfiora il 75%. Più repubblicani che
monarchici a sinistra, nel partito socialista, dove le due opzioni si contendono la
maggioranza, con l’organizzazione giovanile — Juventudes socialistas — che ha il ritorno
alla Repubblica fra le sue bandiere. E nella “Sinistra Unita”, che a sostegno dei cortei antimonarchici di questi giorni, ha lanciato la campagna “Referendum subito”, presentando
una mozione in Parlamento. Secondo il sondaggio la scelta di abdicare è stata accolta con
favore nel Paese e ha migliorato l’immagine e la considerazione di Juan Carlos.
In una estesa ricostruzione degli avvenimenti degli ultimi mesi alla Corte del re, il
quotidiano El Mundo svela alcuni particolari che avrebbero accelerato la decisione. L’idea
di lasciare avrebbe preso forza a partire da gennaio quando era diventato evidente che
l’immagine del re si offuscava mentre quella del principe andava affermandosi. «Non
voglio — avrebbe detto allora Juan Carlos ai suoi consiglieri — che Felipe marcisca
nell’attesa come Carlo d’Inghilterra ». Ma è anche la conseguenza di una condizione più
generale. «Il re oggi è solo», racconta El Mundo . «Con Sofia praticamente non si
parlano» mentre con il principe Felipe, che adesso lo sostituirà, ha una relazione
«abbastanza fredda», soprattutto perché il figlio è più legato alla madre «ed è naturale che
lo accusi per i brutti momenti che ha vissuto la regina in seguito alle sue avventure
amorose». Scarso affetto, segnala la “fonte reale” del Mundo , sarebbe anche quello
mostrato da Juan Carlos verso le nipoti, Leonor e Sofia, che dopotutto vivono nel palazzo
accanto. E relazioni «poco cordiali» anche quelle con la principessa Letizia perché «non
gli piace». Restano le figlie Cristina e Elena. Con Cristina, che aveva una eccellente
relazione con il padre, i rapporti «sono completamente interrotti» dopo lo scandalo
Urdangarin, l’appropriazione indebita di fondi pubblici, che rischia di portarla nelle
prossime settimane alla sbarra. L’unica con la quale conserva un buon rapporto è Elena,
la figlia divorziata. Corinna zu Sayn-Wittgenstein, l’ultima amante del re di Spagna, che
viene descritta come “una donna diabolica”, sarebbe anche la colpevole dello scandalo in
Botswana perché «lui ci andò per passare qualche giorno con lei non per cacciare
elefanti». Comunque sia, Corinna è scomparsa dai radar un anno fa e, conclude la
ricostruzione, «ormai Juan Carlos è quasi sempre da solo e i suoi weekend sono diventati
lunghissimi e noiosi».
4
del 09/06/14, pag. 8
Re o presidente? La Spagna vuole un
referendum
Secondo un sondaggio del Paìs il 62 per cento dei cittadini vorrebbe
esprimersi sulla forma dello Stato ● Alle Cortes i referendari hanno però
solo il 10% ● Il 19 giugno sarà il giorno di Felipe VI
La maggioranza degli spagnoli vorrebbe essere consultata sul regime statuale del proprio
Paese. Questo almeno è quello che dice l’inchiesta di Metroscopia pubblicata da El país
questa domenica. Magari per confermare il mandato al futuro re Filippo VI, ma oltre il 60%
degli intervistati si dice favorevole ad un referendum sulla monarchia.
Così, uno dei nodi mai risolti della transizione democratica, il compromesso per cui la
sinistra repubblicana accettò la monarchia, elemento di continuità del franchismo in
cambio di uno Stato democratico non confessionale, si ripresenta prepotente nel momento
del passaggio di potere determinato dall’abdicazione di re Juan Carlos in favore di suo
figlio, il principe Felipe. A quanto sembra, non sono solo le manifestazioni di piazza a
rivendicarlo, quanto il senso comune popolare, che vorrebbe approfittare dell’occasione
per esercitare un normale esercizio democratico non riconosciuto nel momento
dell’emanazione della Costituzione del 1978. È vero che quella Costituzione fu votata con
referendum e approvata dalla maggioranza dei cittadini spagnoli, ma era piuttosto il nuovo
modello statuale democratico che veniva messo ai voti, non tanto la forma dello Stato. Ed
oggi che quel modello dimostra di avere esaurito la sua forza e necessita di una
evoluzione, sembra naturale a molti che ciò riguardi anche il regime monarchico.
Probabilmente è per non sollevare un problema di questo tipo che Zapatero non andò mai
avanti nella sua riforma costituzionale che promuoveva l’eguaglianza di genere nell’asse
ereditario della corona - la figlia primogenita dei futuri re di Spagna, Felipe e Letizia, sarà
l’erede al regno solo perché ha la fortuna di non avere un fratello maschio.
L’IMMUNITÀ
È anche per questo che l’articolo della Costituzione sull’abdicazione non è stato mai risolto
prima - Così ora Juan Carlos - quando smetterà formalmente di essere re - si vedrà
privato dell’immunità, perché non è sembrato il caso di proporre nella legge che il
parlamento voterà sull’abdicazione anche la definizione del futuro status dell’ex-monarca
di fronte alla legge. Tanto più, che non si sta parlando dell’operato nel corso del regno,
che rimane fuori da ogni possibile contenzioso, ma della protezione giuridica di Juan
Carlos per il futuro, una volta decaduto. Comunque, sondaggi a parte, sembra certo che il
parlamento spagnolo approverà il passaggio di testimone dal vecchio al nuovo re con una
maggioranza più che importante. Non la stessa però che sostenne il patto costituzionale
del ’78, perché a smarcarsi, questa volta, è Convergència i Unió, il partito nazionalista di
destra al governo della generalitat catalana, che ha dichiarato che si asterrà
sull’abdicazione di re Juan Carlos. E così, messa la sordina ai rigurgiti di repubblicanesimo
tra i socialisti, sarà meno di un 10% dei deputati a chiedere espressamente la
celebrazione di un referendum sulla forma statuale.
Le Cortes cominceranno l’iter della legge che accetta l’abdicazione del re il prossimo 11 di
giugno, per concludersi il 18 di questo mese al Senato. Sarà allora il re Juan Carlos a
controfirmare la legge, mettendo fine al suo regno. Il giorno successivo, il 19 giugno,
Felipe verrà proclamato re, a camere riunite, con il titolo di Felipe VI. Perché si tratta di un
atto di proclamazione, non di incoronazione, con i simboli del potere, corona e scettro, non
5
materialmente indossati. Comincerà così il regno del nuovo capo di Stato spagnolo, di cui
tutti immaginano la capacità di rinnovare l’immagine della monarchia, dopo gli ultimi
incidenti personali dell’anziano monarca e quelli politici in cui è stata coinvolta la casa
reale. Tutti lo aspettano soprattutto alla prova della questione catalana, con il desiderio
maggioritario di una popolo che vuole votare per decidere della sua relazione con il resto
della Spagna. Con in più una curiosità storica, determinata dal fatto che, trecento anni fa,
un altro Filippo di Borbone, Filippo V, portò alla capitolazione di Barcellona e alla perdita
della libertà per i catalani nella guerra per la Successione spagnola.
del 09/06/14, pag. 16
Carriera, ricchezze (e segreti) del generale
che si prende l’Egitto
In abito blu di buon taglio e con la consueta aria austera, Abdel Fattah Al Sisi ieri ha
giurato al Cairo da sesto presidente dell’Egitto, il quinto militare. Dopo la cerimonia nella
sede in stile egizio della Corte costituzionale, poco lontano dalle celle dei suoi
predecessori (Mubarak sconta tre anni per furto di fondi pubblici, Morsi attende il giudizio e
forse la pena di morte), Al Sisi ha incontrato i suoi ospiti al palazzo presidenziale di
Heliopolis. Tra loro i reali di Abu Dhabi, Kuwait, Bahrain e Giordania, oltre al numero 2 dei
sauditi in rappresentanza dell’anziano re Abdullah, primo sponsor (anche con miliardi di
dollari) dell’«eroe» che ha eliminato dalla scena i Fratelli musulmani. Solo a livello di
ambasciatori le diplomazie occidentali: il pugno di ferro del nuovo raìs — centinaia di
islamici uccisi, decine di migliaia arrestati, la dichiarazione che «la democrazia arriverà tra
25 anni» — non suscita entusiasmo, come le elezioni di maggio vinte con il 97% dei voti
senza veri rivali. Ma anche l’Occidente ha preso atto che Al Sisi è saldamente al comando.
Per quanto è difficile dire, ma ora ha ogni potere: esecutivo, legislativo (il parlamento è
sciolto), di fatto giudiziario, militare.
Eppure fino al 3 luglio 2013 nessuno lo conosceva, in Egitto era noto da poco come
ministro della Difesa scelto dal presidente Morsi. Molti pensavano ci fosse un’alleanza tra i
due, entrambi molto religiosi. Ma quel 3 luglio fu Al Sisi a deporre il raìs islamico. Un
improvviso voltafaccia? Non pare: nonostante fino a tre mesi fa lui abbia negato di volere il
potere, molti elementi indicano il contrario. Già da ragazzo, dice chi lo conosceva, «era
serio e puntava in alto». Nato nel 1954 a Gamaliya, il quartiere raccontato da Mahfuz nel
cuore della Cairo islamica, era il secondo di otto figli di un mobiliere. Durante la campagna
elettorale lo staff di Al Sisi, scarno come lui nelle informazioni, lo ha definito «figlio del
popolo» se non povero. Ma in realtà, ricordano i vicini, la famiglia era ricca, il padre «era il
solo ad avere una Mercedes e possedeva varie botteghe» nel bazar Khan Khalili.
Ricchezza cresciuta negli anni tanto che l’eredità del neoraìs sarebbe stata di 3 milioni di
euro, aveva scritto in febbraio il quotidiano Al Watan (notizia mai pubblicata: il governo
aveva fatto cambiare all’ultimo la prima pagina). In quanto al giovane Abdel Fattah, chi lo
conosceva lo descrive «introverso e devoto: non giocava con gli altri, al massimo a
scacchi, invece studiava, sollevava pesi, andava a letto presto e a volte si autopuniva. Una
volta si rasò i capelli a zero dopo che il padre l’aveva sgridato per una camicia scollata».
Nessuna ragazza, pare, fino al fidanzamento a 21 anni con una cugina diventata poi sua
moglie (velata) e madre dei suoi quattro figli.
Anche la carriera di Al Sisi, che non ha mai combattuto pur essendo chiamato il «leone»»,
pare senza sorprese: studi in un liceo militare, poi nell’esercito, nel 1992 è a un collegio
6
militare nel Surrey (nessuno lo ricorda, secondo i media britannici). Quindi è addetto
militare a Riad e nel 2005 all’accademia in Pennsylvania. Negli ultimi anni di Mubarak è
capo dell’intelligence dell’esercito. Su questo ultimo periodo, però, qualche sorpresa è
emersa. Secondo vari testimoni Al Sisi già dal 2010 aveva convinto molti generali ad
abbandonare Mubarak, in procinto di passare il potere al figlio Gamal. E quando esplose
la rivoluzione l’esercito si schierò con la piazza. Altre fonti hanno poi dichiarato che Al Sisi
riteneva da tempo che la Fratellanza fosse un pericolo. E che l’alleanza con Morsi fosse di
facciata. Super riservato per carattere e per il passato da 007, convinto che le parole non
vadano sprecate e il potere vada esercitato dall’alto (non ha fatto comizi elettorali né
presentato un programma), Al Sisi è ancora un mistero per molti, egiziani compresi. Ma i
fatti che ora sarà più difficile celare, le sue azioni da presidente, saranno presto sotto gli
occhi di tutti.
Cecilia Zecchinelli
del 09/06/14, pag. 2
Shalom, salam: il Papa unisce il Medio
Oriente
STORICO INCONTRO FRA IL PRESIDENTE PERES E IL LEADER
PALESTINESE ABU MAZEN. BERGOGLIO: CI VUOLE MOLTO
CORAGGIO PER VOLERE LA PACE
Il Sinai è atterrato su un prato all’ombra della Cupola perfetta, che è romana e universale
insieme. Karol Wojtyla sognava un incontro delle tre fedi abramitiche sul monte sacro,
dove Mosè aveva ricevuto la legge. Papa Francesco ha realizzato il sogno, portando
ebrei, cristiani e musulmani a pregare per la pace in Terrasanta nei giardini del Vaticano.
In un lento tramonto, con la luna a metà che appariva in trasparenza in cielo, il pontefice
ha messo su un pullmino il presidente israeliano Shimon Peres, il presidente palestinese
Mahmoud Abbas, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e il custode francescano di
Terrasanta padre Pizzaballa e li ha condotti dalla sua “casa”, la residenza di Santa Marta
dove li aveva ricevuti separatamente, ad un angolo dei giardini dove il miracolo si è
realizzato.
Nella lingua di Abramo
Sul prato sono arrivati tutti e cinque affiancati, di Francesco – in controluce – si vedevano
sotto la veste bianca i pantaloni neri da prete gesuita. All’aperto – perché le epifanie di Dio
avvengono sempre sotto il cielo –in uno spazio sgombro da segni di possesso di una sola
religione, il rabbino ebreo ha invocato cantando Adonai (il Signore) nella lingua di Abramo
e il saggio musulmano in turbante ha cantato la misericordia di Allah nei versetti coranici,
che mai erano risuonati tra le mura della capitale del cattolicesimo romano. Si è pregato in
tempi distinti, secondo il ritmo della Storia – prima gli ebrei, poi i cristiani, poi i musulmani
– ma rimarrà indimenticabile la mescolanza di invocazioni al Signore da cui emerge la
profonda intimità tra i salmi biblici, il linguaggio evangelico e i versetti del Corano. Lode al
Signore, riconoscimento dei peccati, invocazione alla pace sono stati i tre capitoli della
preghiera di ogni religione. Più netta e specifica l’autocritica di parte cristiana, fatta
utilizzando il mea culpa di Giovanni Paolo II per il Giubileo: il pentimento per ogni volta in
cui i cristiani hanno “causato guerre, fomentato violenza, insegnato il disprezzo verso i
7
nostri fratelli e sorelle”. Sedevano seri, immersi in riflessioni ascoltando le preghiere, i tre
protagonisti di questo storico vertice. Immobile, quasi scolpito il viso di Shimon Peres,
l’ebreo venuto dalla Polonia, sopravvissuto alla guerra e alla Shoah e poi diventato
costruttore e presidente dello stato di Israele. Teso e pensieroso Mahmoud Abbas, il
palestinese che ha attraverso la “catastrofe” del suo popolo ma è riuscito a portare la
Palestina ad essere stato riconosciuto dalla gran parte dei paesi del mondo. Quando ha
preso la parola, Francesco è riuscito ancora una volta ad unire l’aspetto umano, religioso e
anche geopolitico. “Troppi figli – ha ricordato –sono caduti vittime di guerre e violenza”.
Il dialogo al posto della violenza
La loro memoria chiede pace, rispetto e coesistenza pacifica. “Ci vuole coraggio per fare
la pace – ha insistito – molto più che per fare la guerra” e dunque “sì al dialogo no alla
violenza, sì al rispetto dei patti no alle provocazioni, si alla sincerità no alla doppiezza, sì al
negoziato no alle ostilità”. Bisogna “spezzare la spirale la spirale dell’odio e della violenza
– ha rimarcato in crescendo ma sempre con la sua voce dal tono basso e modesto – e lo
si può fare con una sola parola: Fratello!”. Altre volte tuttavia, ha ammonito, i negoziati si
sono arenati, il Maligno si è messo di traverso, e allora è necessario rivolgersi al Dio di
Abramo e dei profeti perché indichi la strada da seguire e trasformare la paura in fiducia e
le tensioni in perdono. E così arrivare alla pace. “Shalom, Pace, Salam” ha scandito il
papa argentino, che in pochi mesi – con il suo no alla guerra di Siria e il progetto di vertice
interreligioso in Vaticano – ha dimostrato di avere la stoffa di un leader capace di stare
sulla scena internazionale. Erano commossi tutti e due Peres e Abbas, quando hanno
preso la parola. Il presidente israeliano ha sostenuto la necessità della “perseveranza” e
della disponibilità a “sacrifici e compromessi” per raggiungere una pace tra eguali. Ma con
fede e determinazione “la raggiungeremo!”. Il presidente palestinese è intervenuto
prolungando la preghiera. Rivolgendosi a Dio perché vi sia “libertà per la Palestina e
Gerusalemme sia salva e sicura per tutti i credenti”, perchè abbiano fine le sofferenze del
popolo palestinese e via sia per tutto il Medio Oriente una “pace comprensiva”. Lo ha
ribadito nel finale: “Pace, stabilità, coesistenza”. Una preghiera per cambiare il mondo
Mentre le immagini di Francesco, Peres, Abbas e Bartolomeo – una pala in pugno per
piantare un ulivo beneaugurante – facevano il giro del pianeta, correva l’interrogati - vo
inevitabile: può una preghiera cambiare il mondo? Probabilmente no. Anzi certamente tutti
gli ostacoli alla pace sono ancora sul tavolo. Ma il gesto potente di leader e capi religiosi,
che si stringono in preghiera agli occhi del mondo per cercare la via del negoziato, è
destinato ad imprimersi nel sentire dell’opinione pubblica internazionale, mettendo in luce
il fatto che la situazione in Terrasanta – come disse Francesco a Betlemme –è diventata
“sempre più inaccettabile”. Ormai il permanere dell’occupazione della Palestina si è fatto
intollerabile. Da oggi Hamas deve capire che non può negare Israele e deve imparare a
“comprendere il dolore altrui” (parole di Francesco in Terrasanta). Da oggi il premier
Netanyahu è più isolato con la provocazione dei nuovi insediamenti in terra palestinese e
le sue pretese nazionalistiche territoriali, ispirate dall’estremismo del partito dei coloni.
Del 09/06/2014, pag. 1-2
Peres e Abu Mazen pregano con il Papa “Più
coraggio per la pace che per fare la guerra”
Lo storico abbraccio tra i presidenti israeliano e palestinese L’arrivo in
pulmino: poi tutti insieme piantano un ulivo
8
MARCO ANSALDO
CITTA’ DEL VATICANO Dentro un pulmino, in un clima sereno, verso la pace. Una pace
per la quale, dice Papa Francesco, «ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra».
Così i quattro protagonisti di questo incontro inedito in Vaticano — il Pontefice cattolico, il
Patriarca ortodosso, il presidente israeliano, il leader palestinese — arrivano da Casa
Santa Marta, la residenza del Papa, nel luogo convenuto per la preghiera. Pregando però
non assieme, ma ognuno per conto proprio, e ognuno il proprio Dio, per la distensione in
Medio Oriente. Lo sfondo è il verde acceso dei Giardini vaticani. La regia di Jorge Mario
Bergoglio. Dietro, un tocco d’arpa, il soffio di un flauto, la corda di violino. Note che fanno
risuonare, anche questo per la prima volta, dentro le Mura vaticane i versetti del Corano.
«Dio, togli tutte le colpe!», invoca un rabbino. «Noi abbiamo intrapreso guerre, compiuto
violenza», legge il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ricordando le parole di
Giovanni Paolo II. «O Dio, porta la pace nella terra della pace », recita un imam. Avvolti
dalla musica, i momenti di preghiera sono toccanti. Ma le parole non restano meno
intense, soprattutto quelle pronunciate dai quattro protagonisti di una giornata memorabile,
frutto del viaggio da poco concluso di Francesco in Giordania, Palestina e Israele. E sotto
il suo sguardo, sostenuto anche dalla presenza del Patriarca ecumenico di Costantinopoli,
Bartolomeo I, tra l’israeliano Shimon Peres e il palestinese Abu Mazen scatta subito un
abbraccio sentito appena si incontrano, e un altro alla fine con un doppio bacio. In mezzo,
il simbolico impianto di un ulivo.
Dalla Domus Sanctae Marthae, assurta per l’occasione a “palazzo presidenziale” con
tanto di svizzeri alabardati alla porta, i quattro si infilano nel pulmino bianco insieme con
padre Pierfrancesco Pizzaballa, custode di Terra santa. I volti sono rilassati. Nel breve
tragitto c’è anche un momento di ilarità, e tutti scoppiano a ridere stretti fra i sedili. Ai
Giardini dove li aspettano le quattro delegazioni e un’ottantina di giornalisti — molti gli
israeliani e gli arabi, alla fine tutti concordi nel commentare positivamente la giornata —
Francesco, Bartolomeo, Peres e Abu Mazen arrivano camminando assieme come su una
linea invisibile. È una foto storica, una delle tante che regala questo pomeriggio.
Francesco prende posto su una piccola pedana con accanto i due presidenti. Il Patriarca
su un altro podio. «Spero che questo incontro sia l’inizio di un cammino nuovo —
esordisce il Pontefice — alla ricerca di ciò che unisce, per superare ciò che divide. Per
fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per
dire sì all’incontro e no allo scontro. Mai più la guerra! Con la guerra tutto è distrutto».
Peres gli risponde: «Quando ero ragazzo, a 9 anni, mi ricordo la guerra. Mai più! Lei ci ha
toccato con il calore del suo cuore. Lei si è presentato come un costruttore di ponti di
fratellanza e di pace. Due popoli — gli israeliani e i palestinesi — desiderano ancora
ardentemente la pace. Pace fra eguali. La pace non viene facilmente. Noi dobbiamo
adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla. Anche se ciò richiede sacrifici o
compromessi». È la volta di Abu Mazen: «Una pace giusta, una vita degna e la libertà. La
libertà in uno Stato sovrano e indipendente. Noi ti chiediamo, Signore, la pace nella Terra
Santa, Palestina, e Gerusalemme insieme con il suo popolo. Noi ti chiediamo di rendere la
Palestina e Gerusalemme una terra sicura per tutti i credenti».
Francesco ringrazia, e omaggia la partecipazione del «fratello Bartolomeo»: «Un prezioso
sostegno». La cerimonia scorre mentre la sera comincia a scendere. Jorge Mario
Bergoglio è assorto nella lettura dei testi. Shimon Peres compito. Abu Mazen ha la mano
sul bracciolo della sedia, le gambe ognuna per conto suo, ma è ugualmente attento.
Bartolomeo felice dopo il suo invito a Francesco per il recente viaggio comune a
Gerusalemme. «Sarebbe stato importante — nota il rabbino capo di Roma, Riccardo Di
Segni — che la preghiera per la pace avvenisse a Gerusalemme, perché è lì la Città santa
alle tre religioni e non il Vaticano». Aveva twittato Francesco al mattino, lanciando
9
l’hashtag #weprayforpeace: «Tutti si uniscano alla preghiera». E dopo la messa invocava
a «una Chiesa che sorprende e scompiglia», «capace di sorprendere ». Perché, aveva
aggiunto, «la Chiesa che non sorprende va subito ricoverata in rianimazione».
Del 09/06/2014, pag. 23
Un commando entra sulla pista cargo La polizia spara: almeno sette i
morti Ancora sangue sui negoziati con i Taliban
Terrore a Karachi attaccato l’aeroporto con
bombe e granate battaglia nella notte
GIAMPAOLO CADALANU
UN COMMANDO di uomini armati con mitragliatori e granate ha assalito ieri sera il
vecchio terminal dell’aeroporto Jinnah di Karachi, escluso dal traffico commerciale ma
destinato ad arrivi e partenze di persone di rilievo. I terroristi, da quattro a sei secondo la
polizia pachistana, hanno lanciato bombe a mano e aperto il fuoco sul personale di
sicurezza: il primo provvisorio bilancio parla di almeno cinque guardie e due assalitori
rimasti uccisi nello scambio di fucilate. Ma fino a tarda serata lo scontro continuava,
mentre sullo scalo convergevano polizia e corpi speciali. Le autorità pachistane hanno
sospeso i voli sull’aeroporto. Nelle immagini diffuse dalla tv pachistana, si intravede un
incendio nel terminal, accanto ai jet parcheggiati. Un altro sanguinoso attentato ha
stravolto la zona del Baluchistan, al confine fra Pakistan e Iran: un attentatore suicida ha
straziato gli avventori di un ristorante, si parla di 23 morti ma il bilancio sembra destinato a
farsi ancora più tragico. Il locale era frequentato soprattutto dalla comunità sciita e in
particolare, sottolinea la France Presse, il gruppo all’interno del ristorante era reduce da
un viaggio in Iran: questo fa pensare a un attacco di natura qaedista, secondo la prassi
ormai abituali già seguita in Iraq e in Siria. Per ora non è chiaro se i due attentati siano
collegati, come non è facile capire quale sia lo scopo dell’attacco all’aeroporto, soprattutto
perché resta ancora da capire chi siano gli assalitori. La prima, più ovvia, ipotesi è quella
che punta il dito contro i Taliban pachistani, da sempre disponibili ad attacchi sanguinari,
anche rivolti verso i civili. Gli “studenti coranici” pachistani sono diversi dai Taliban
dell’Afghanistan anzi tutto per l’obiettivo strategico, che per loro è il rovesciamento dello
Stato pachistano (da sempre sostenitore più o meno occulto dei Taliban afgani). Ma
differenze forti sono anche nel modo di condurre le azioni: il nucleo centrale dei Taliban
pachistani, il Tehrik-i-Taliban Pakistan, adopera tecniche sanguinose, bombe contro civili e
rapimenti a scopo di estorsione, al punto che una parte del gruppo ha preferito staccarsi e
agire per conto suo, considerando queste tecniche anti-islamiche.
Il fatto che l’attacco allo scalo sia avvenuto a Karachi, però, lascia aperta la strada a
un’altra ipotesi, che la sparatoria sia il seguito dei disordini dei giorni scorsi, collegati
all’arresto martedì a Londra di Altaf Hussain, leader del Muttahida Qaumi Movement, il
partito laico della popolazione di lingua urdu, molto forte in città.
10
INTERNI
Del 09/06/2014, pag. 1-4
I democratici conquistano Pavia, Bergamo, Cremona e Vercelli ma
perdono Padova
Bari e Pescara a sinistra, Perugia va a destra. Crolla l’affluenza: al voto
solo 1 su 2
Il Nord al Pd, Livorno a Grillo
SILVIO BUZZANCA
Ieri 148 Comuni italiani sono tornati al voto per il turno di ballottaggio per eleggere il loro
sindaco. L’affluenza è crollata al 49,5 percento (il dato del Viminale non tiene conto delle
comunali in Friuli Venezia Giulia e Sicilia), contro il 70,6 percento del primo turno, il 25
maggio scorso. Un calo di oltre venti punti. A Bari si conferma il centrosinistra con Antonio
Decaro. Il Pd conquista al Nord Bergamo, con Giorgio Gori, e Pavia, con Massimo
Depaoli, ma perde Padova. Il Movimento 5Stelle espugna Livorno, dove il candidato
grillino, Filippo Nogarin, sorpassa quello democratico, Marco Ruggeri. Perugia passa al
centrodestra con Andrea Romizi.
Ribaltone. È la parola chiave del turno di ballottaggio delle comunali. Con ben 13 comuni
che passano da uno schieramento all’altro. E con risultati clamorosi. Come a Livorno,
dove il Movimento Cinque Stelle espugna il comune dopo quasi 70 anni di governo della
sinistra. Il candidato grillino Filippo Nogarin ha infatti battuto quello del Pd Marco Ruggeri,
ex segretario cittadino e fino a qualche mese fa capogruppo democratico nel Consiglio
regionale toscano. I grillini poi portano a casa anche la vittoria a Civitavecchia.
Il tracollo di Livorno però segnala un vero e proprio caso politico se associato con un’altra
bruciante sconfitta: il centrodestra conquista infatti Perugia, altra città simbolo del potere
“rosso” nell’Italia centrale. E a completare la frana in questa zona dell’Italia arriva anche la
sconfitta ad Urbino dove vince Maurizio Gambini del centrodestra. Il Pd perde infine anche
Potenza, piccolo feudo del centrosinistra in Basilicata, dove si era presentato Luigi Petroni,
battuto dal candidato del centrodestra Dario De Luca. I democratici inoltre, non riescono a
riconfermarsi nella Padova dell’ex ministro Flavio Zanonato che viene riconquistata dal
centrodestra guidato dal leghista Massimo Bitonci. Infine anche Foggia torna al
centrodestra. Nonostante i timori, molto simili a quelli di Livorno, il partito del premier tiene
invece a Modena, dove aveva sfiorato la vittoria al primo turno e al ballottaggio tiene
lontana l’alleanza fra tutto il centrodestra e i grillini. A parziale compensazione il Partito
democratico strappa agli avversari sette città. A partire da Bergamo, dove vince Giorgio
Gori, molto vicino a Matteo Renzi, e soprattutto Pavia, guidata fino ad ieri da Alessandro
Cattaneo, il “formattattore” di Forza Italia, indicato da molti come uno degli astri nascenti
del partito berlusconiano. I democratici riescono a ribaltare i precedenti rapporti di forza
anche a Pescara, Vercelli, Cremona, Biella e Verbania. Il partito di Renzi si riconferma a
Bari, dove Antonio De Caro prende il posto dell’uscente Emiliano, mentre il centrodestra
conserva la guida di Teramo Questi risultati maturano in un quadro di forte astensione.
Rispetto a 15 giorni fa, quando si era presentato alle urne il 70,61 per cento degli elettori,
ieri ha votato solo 49,50 per cento, restando dunque sotto la soglia psicologica del 50 per
cento. Il secondo turno non è mai stato molto amato dagli italiani e la tendenza si è così
confermata anche questa volta. Complice anche la prima vera domenica estiva della
stagione, Il crollo va da un minimo ad Urbino, meno 8,79%, a cifre a due cifre: per
esempio Terni con meno 28,20%, Foggia dove si registra un meno 25,88%, Verbania
11
meno 24,60% e Vercelli dove manca all’appello il 20,77%. Ma non va meglio altrove.
Cremona meno 14,72%, Potenza meno 16,74%,. Biella meno 10 per cento%., Bergamo
meno 15,18%. Un risultato finale che conferma il dato parziale delle 19, quando era
andato a votare il 33,8% degli aventi diritto contro il 52,4% del primo turno.
12
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 09/06/14, pag. 6
Da ‘0 milionario al baby-boss vestito da
donna
DOPO LA GUERRA TRA SCISSIONISTI E DI LAURO, NESSUNA
FAMIGLIA RIESCE PIÙ A DOMINARE SUL TERRITORIO:
LE PIAZZE DI SPACCIO SI SPOSTANO ALLA PERIFERIA NORD
Scampia - Secondigliano, per loro e per le altre enclave napoletane dominate dai clan
della camorra, il sociologo Isaia Sales coniò il termine di “quartieri-Stato”. E vide giusto.
Perché in queste periferie sterminate di Napoli negli anni d’oro della camorra lo Stato non
c’era, o almeno aveva difficoltà ad affermare la sua potenza. Le leggi, il controllo e il
governo del territorio, tutto ciò che riguarda il governo di una comunità era assicurato dai
boss dalle, loro “paranze”, gli eserciti di guaglioni, guardie e killer al loro servizio.
E ADESSO? “Mo – ci risponde un signore sulla cinquantina incontrato in un bar di
Scampia – tutto è diverso, quando c’era Ciruzzo 'o milionario, (al secolo Paolo Di Lauro ,
padrone della droga e delle piazze di spaccio a Nord di Napoli) nessuno ci dava fastisdio.
Non si toccava una macchina, le donne non venivano infastidite. Ma quei tempi sono
passati”. Ora neppure lo Stato-camorra c’è più.
Quello ufficiale si è ripreso il controllo di buona parte del territorio, ha arrestato i boss e li
ha rinchiusi in galera al 41 bis, ne ha decimato gli eserciti, ha agevolato le confessioni dei
pentiti, ma non è riuscito a fare altro. La condizione di questa sterminata periferia rimane
quella di un pezzo di metropoli abbandonata. Tassi di disoccupazione che vanno oltre il
60-65 per cento, progetti di riqualificazione urbanistica rimasti sulla carta.
Basta girare per Scampia e toccare con mano l’abbandono, quel poco che c’è è la realtà
delle associazioni, cattoliche e laiche, che da sempre, anche nei periodi più duri delle
guerre di camorra, hanno costruito un argine di civiltà contro la barbarie dei boss.
“Dottò – ci dice ancora l’uomo – li vedete quei ragazzi seduti davanti al bar, quelli non
hanno futuro, se vengono avvicinati per fare i pali all’ingresso di una piazza di spaccio, o
per fare di peggio, quelli accettano”. Il problema, però, è che anche l’altro Stato, quello
della camorra, non ha più i mezzi e la forza di una volta. Quando con i soldi della droga si
potevano finanziare vere e proprie schiere di affiliati. Per tutti c’era da mangiare, anche per
le famiglie dei detenuti. Per loro c’era “la mesata”, uno stipendio.
Ora i soldi sono pochi e anche le “mesate” vengono centellinate. Chi sta all’ulti - mo
gradino della piramide ospite di Poggiorerale, ora deve vedersela da solo. Scampia non è
più la piazza di spaccio di una volta, ora, raccontano i rapporti investigativi e le cronache di
tutti i giorni, l’asse si è spostato ancora più a nord di Napoli, nei paesi come Caivano. Una
decisione assunta mesi fa da boss del calibro di Raf - faele Amato e Cesare Pagano,
perché ormai su Scampia e Secondigliano troppi sono i fari accesi, e troppi gli arresti.
LÌ, TRA LE VELE e i vialoni bui di notte, sono rimasti gli eredi dei Di Lauro e i Vanella
Grassi. Ognuno con le sue zone di influenza e di controllo. Cambia pelle la camorra di
Napoli Nord, ora il potere è nelle mani di giovanissimi boss. Mario, “Mariano”, Riccio aveva
22 anni quando lo arrestarono mesi fa a Qualiano. È il genero del capoclan Cesare
Pagano, deve scontare sei anni per associazione mafiosa e spaccio di droga. Giovane
pure lui, ha poco più di trent'anni, “F4”, alias Marco di Lauro. La F sta per figlio, il numero
13
indica il quarto rampollo della dinastia criminale di Ciruzzo 'o milionario. È latitante, per il
Viminale tra i dieci ricercati più pericolosi, e ha un ergastolo da scontare sulle spalle.
La faccia da ragazzino e i tratti femminili del volto lo hanno aiutato un anno fa. I carabinieri
erano sulle sue tracce, avevano scoperto il covo dove si nascondeva.
TENTARONO IL BLITZ, ma il giovane Marco gli sfuggì sotto il naso. Tacchi a spillo e
minigonna, si travestì da donna per non farsi prendere. Certo non il massimo per un boss.
Tanto che nel cuore di Scampia, riferisce Enzo Ciaccio , uno dei migliori cronisti di Napoli,
si giocarono i numeri: “21 la donna, 38 il travestito, 18 il latitante...”. Terno secco sulla
ruota della camorra. Aneddoti a parte, Marco Di Lauro è un boss dalla mente fredda.
Avrebbe i soldi e le coperture per fuggire all’estero per sempre, ma non lo fa perché sa
che la regola fondamentale per continuare ad esercitare il potere della famiglia, è stare lì,
a Scampia, a controllare quello che resta del territorio. Camorra sconfitta? “Militar - mente
ha subito colpi durissimi – ragiona un investigatore – il problema è l'aggressione alla
potenza economica. I Di Lauro e gli altri avranno perso quando lo Stato riuscirà a mettere
le mani sulle loro immense ricchezze”.
del 09/06/14, pag. 10
Il consorzio del Mose e i politici amici
«Aiutai Lunardi per un indennizzo»
Così Baita sull’ex ministro. Dalle carte emerge una griglia dei
finanziamenti «ecumenica»: tutti andavano pagati perché tutti potevano
tornare utili
Di Andrea Pasqualetto
In un clima surreale, dove l’acqua alta è diventato l’ultimo dei problemi, a Venezia spunta
un ministro al giorno e non per un encomio. Dopo il nome di Altero Matteoli che guidava le
Infrastrutture e che si trova ora a fare i conti con un’indagine per corruzione del Tribunale
dei ministri, e dopo quelli dei suoi ex colleghi Giancarlo Galan, sul quale pende una
richiesta di arresto, e Giulio Tremonti, che non è indagato ma è stato chiamato in causa
dall’ex segretaria di Galan Claudia Minutillo a proposito di una presunta tangente versata
al suo uomo di fiducia Marco Milanese, ecco affacciarsi all’inchiesta sul Mose un altro
rappresentante di spicco dei passati governi. Si tratta di Pietro Lunardi, pure lui un ex delle
Infrastrutture e dei trasporti, del quale parla diffusamente il supertestimone dell’inchiesta:
Piergiorgio Baita, l’ex presidente del gruppo Mantovani, cioè il socio più importante del
potente Consorzio Venezia Nuova a cui fanno capo le opere di salvaguardia di Venezia e
prima fra tutte il Mose. Concessionario unico del ministero delle Infrastrutture, il Consorzio
gestisce i miliardi di euro pubblici destinati a questi interventi (5,4 quelli del Mose).
Ebbene, Baita, in uno dei verbali secretati nei quali ha raccontato ai pm le mazzette
distribuite a politici e pubblici funzionari, ritenuto attendibile dalla procura e dal gip di
Venezia che ha disposto i 35 arresti di mercoledì scorso, tira in ballo l’ingegner Lunardi
(non indagato) a proposito di una singolare vicenda, sulla quale gli inquirenti stanno
cercando conferme. Parla della società Rocksoil, che fa capo alla famiglia dell’ex ministro
e si occupa di ingegneria civile, e di un lavoro che sarebbe stato realizzato versando 500
mila euro più del dovuto. E ha motivato così la sorprendente generosità: a chiedere il
favore sarebbe stato Gianni Letta, ex sottosegretario alla Presidenza del consiglio
Berlusconi, in contatto con l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova Carlo
Mazzacurati, con il quale aveva incontri frequenti proprio per la grande opera veneziana.
14
Sempre secondo il racconto di Baita, Letta avrebbe avuto un ruolo di consigliere di
Mazzacurati, nel senso che era il massimo punto di riferimento della politica centrale al
quale si rivolgeva per chiedere lumi. Andava a chiedere come fare e a chi rivolgersi per
risolvere i problemi legati al Mose e in particolare allo sblocco del finanziamento da 400
milioni della delibera del Cipe. Dice Baita che qualche favore gli veniva comunque fatto.
Come, per esempio, quello di aver concesso un subappalto e una piccola impresa di
Roma.
Il risarcimento
Mentre la vicenda Lunardi sarebbe scaturita dalla condanna del ministro da parte della
Corte dei conti a un robusto risarcimento danni per aver versato una buonuscita di 1,5
milioni di euro a uno sgradito presidente dell’Anas, pur di allontanarlo. Baita dice che
l’intervento sarebbe stato chiesto proprio per aiutare Lunardi a restituire la somma elargita.
Il Pdl milanese
Oltre all’imponente corruzione contestata a politici, Corte dei conti e Magistrato alle acque,
nei confronti dei politici emerge un quadro di distribuzione a pioggia di finanziamenti da
parte del Consorzio Venezia Nuova. Dopo i 560 mila euro che sono costati l’arresto al
sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, dall’inchiesta emergono altre curiosità. Per esempio,
sempre Baita racconta delle crescenti richieste di intervento «politico» da parte del
Consorzio Venezia Nuova. Fu in quel periodo, erano gli anni 2005 e 2006, che il gruppo
Mantovani pensò di usare la società Bmc di San Marino per creare fondi neri da utilizzare
per versare tangenti e per sostenere campagne elettorali: «Come quella del governatore
Galan». Un’attività che a detta dell’ex presidente della Mantovani faceva già con
l’entourage del Pdl milanese. I cui esponenti, afferma, si sarebbero presentati con
l’accredito di Niccolò Ghedini, allora coordinatore del partito in Veneto.
La griglia
La griglia dei finanziamenti politici era ben definita. C’erano quelli episodici e c’erano quelli
«periodici regolari», cioè le campagne elettorali. Tutte quelle degli ultimi dieci anni (tranne
l’ultima), dalle politiche alle amministrative: Regione, Provincia, Comune. Perché tutti
avevano qualche competenza, qualche autorizzazione da dare per il lavori del Consorzio e
tutti dunque dovevano essere coccolati. I ministeri per i finanziamenti e per la concessione
degli specchi d’acqua, la Regione per la valutazione di impatto ambientale e per rimuovere
«ostacoli» improvvisi come le proteste dei Verdi, il Comune per i temi urbanistici.
Mazzacurati proponeva così un budget di fondi neri per ogni campagna elettorale, dice
Baita. L’elenco l’avrebbe fatto lui in persona, la scelta era ecumenica: «Pagava tutti»,
destra, sinistra e centro, dal Pdl alla sinistra vicina alle coop rosse che facevano capo a
Pio Savioli. «Uniti e compatti con Lenin, Togliatti e Mao Tse Tung» gli dice in
un’intercettazione un uomo di Mazzacurati. I soldi non andavano ai partiti ma ai politici,
soprattutto quelli che avevano la possibilità di vincere. Cosa che avrebbe infastidito
talvolta le segreterie che non vedevano arrivare un euro. Baita parla di un tariffario fissato
di volta in volta ma che andava dai circa 200 mila euro per le regionali e comunali a una
cifra compresa fra i 300 e i 500 mila euro per le politiche. Fin qui, le rivelazioni
dell’imprenditore. «Sono sconcertato da queste parole» ha replicato venerdì Mazzacurati,
un tempo amico e socio del presidente della Mantovani.
Il disturbatore
L’ultima indiscrezione riguarda l’attività di tutela delle sue telefonate. Temendo
intercettazioni da parte degli inquirenti, cosa che fu confermata dal generale della Guardia
di finanza, il presidentissimo chiamò pure una società di sicurezza privata, la Italia service
di Mirco Voltazza, finito indagato. Il quale lo avrebbe dotato di un sofisticato sistema di
disturbo della linea telefonica. Fra i tanti favori a politici, magistrati e funzionari, il giudice
per le indagine preliminari di Venezia, Alberto Scaramuzza, ricorda infine una cena del 18
15
novembre 2009 all’Harry’s Bar. Si festeggiava il compleanno della moglie del Magistrato
alle acque, Patrizio Ciccioletta, arrestato per lo «stipendio» in nero di 400 mila euro l’anno.
Quella sera pagò Mazzacurati e gli invitati, dieci, ringraziarono. Per il gip non ci sono
dubbi: «Era denaro pubblico».
Del 09/06/2014, pag. 1-8
L’INCHIESTA
“Ecco il manuale per comprare i politici del
Mose”
FABIO TONACCI FRANCESCO VIVIANO
QUESTIONE di colori. «Avevamo deciso che per quello che riguardava il Pd i soldi
venivano dati tramite Co.ve.co usiamo la parola “bianco”, con regolare fattura, con somme
registrate», racconta il compagno Pio. Di colori, e di binari. «Quando c’era la campagna
elettorale si attivavano i “doppi binari” », puntualizza Piergiorgio Baita. «TANTO
finanziavamo ufficialmente, tanto finanziavamo in nero» dichiara Baita, il primo degli
amministratori della Mantovani finito in carcere per lo scandalo Mose. Ma il manuale
cromatico dell’imperfetto tangentista prevedeva anche le sfumature. «Talvolta il bianco e il
nero insieme». Tradotto: denaro proveniente da fatture gonfiate e fondi neri, ma che
veniva regolarmente registrato dai comitati elettorali. C’è anche questo nelle 700 e passa
pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Alberto Scaramuzza, che ha spedito in
carcere la cupola veneziana. La spiegazione, passaggio dopo passaggio, di come il
Consorzio di Mazzacurati decideva di finanziare i politici ritenuti «amici», o anche solo
«utili». Chi, quanto e in quale modalità. E c’è pure una lista dei presunti beneficiari, nella
quale oltre ai nomi già noti del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, dell’europarlamentare di
Forza Italia Lia Sartori e dell’ex vicepresidente del consiglio regionale Giampietro
Marchese, si aggiungono quelli di due deputati veneti del Partito democratico, Delia Murer
e Andrea Martella, rieletti alle politiche del 2013. Anche loro avrebbero avuto finanziamenti
per sostenere la campagna elettorale dalle ditte che lavoravano al Mose, ma «in bianco»,
specificano i pm che seguono l’indagine. Dunque leciti e registrati. Accettati però quando
già il Consorzio Venezia Nuova era “chiacchierato”, portato sotto i riflettori dall’arresto di
Baita nel febbraio di un anno fa, proprio nei giorni del voto.
Per Orsoni, Marchese e la Sartori la cupola aveva deciso invece di attivare i doppi binari, il
“nero” e il “nero-bianco”. «Gli ho portato a casa sua, personalmente, 400-500mila euro»,
ha raccontato Mazzacurati ai pm. Denaro liquido di cui, secondo il gip, il sindaco di
Venezia «conosceva la provenienza illecita». Erano il risultato di fatture
gonfiate col metodo del “Fondo Neri”, che, per ironia del destino, è il cognome del
funzionario del Consorzio ideatore del sistema tangentizio. Addetto alla “raccolta” dalle
aziende consorziate che stavano nella partita era il “compagno Pio”, Pio Salvioli, l’uomo
che «durante i suoi giri» prendeva denaro dalle coop rosse per girarlo a
politici del Pdl (Renato Chisso, l’assessore regionale veneto, riceverà così 150 mila euro).
Ma le somme in uscita dai bilanci delle ditte dovevano essere comunque giustificate.
Come? Ci pensava Luciano Neri. Produceva fatture taroccate per prestazioni tecniche
fittizie o anticipi sulle riserve sovradimensionate. Contratti e istanze «predisposte da Neri,
depositario della contabilità», scrive il gip. Sulle fatture false, quindi le aziende pagavano
un surplus di tasse. «Mettiamola così, maresciallo — mette a verbale Savioli — il nero ha
un suo costo, ecco». Il sindaco di Venezia ai domiciliari, nella sua dichiarazione spontanea
16
durante l’interrogatorio di garanzia, ha respinto ogni accusa. «Mai preso un euro in nero
da Mazzacurati, gli unici sono i 150mila rendicontati dal mio commercialista che seguiva il
comitato elettorale». Arrivati però sul binario “nero-bianco”, cioè alzati con
sovrafatturazioni e poi rendicontati. Ritorniamo alla ricostruzione di Baita così come la
consegna lui stesso ai pubblici ministeri nell’interrogatorio del 17 settembre: «Il Consorzio
non voleva assolutamente che i soci finanziassero direttamente in nero dei politici che
avrebbero potuto rappresentare degli interessi collaterali ». Dunque non era ammessa,
nella cupola del Mose, alcuna iniziativa autonoma. La scelta su chi far piovere denaro
«veniva presa durante le riunioni del consiglio direttivo». Tutti insieme, senza lasciare
traccia nei verbali delle riunioni. È Mazzacurati, il “capo supremo” che stabilisce come
ripartire i fondi, «limitandosi poi a rassicurare i consorziati, a decisione avvenuta e
contributo consegnato, che il loro politico di riferimento (rappresentanti del Pdl nel caso
della Mantovani e Fincost, rappresentanti del Pd per le coop Condotte e Co. Ve. Co.) è
stato adeguatamente remunerato». Anche per Marchese, il candidato Pd alle regionali del
Veneto del 2010, i soldi transitarono sui binari “nero”, e il “nerobianco”. Gli vengono versati
58 mila euro, «somma iscritta regolarmente in bilancio come finanziamento elettorale», ma
risultato del solito giro di fatture false dell’ingegner Neri. Il quale, per l’occasione, crea un
contratto ad hoc con la Selc, a cui il Consorzio ha affidato uno studio per la salvaguardia di
Venezia e della Laguna. L’operazione è inesistente, ma quei 54 mila finiscono al comitato
di Marchese. Non solo, però. Sostiene Mazzacurati: «A lui abbiamo dato in contati anche
circa mezzo milione di euro in otto anni». Il cosiddetto binario “nero”.
Del 09/06/2014, pag. 10
“A Orsoni serviva il voto dei cattolici” la pista
dei fondi neri dirottati sulla Curia
Baita: il Patriarcato fece una scelta di campo e anche noi decidemmo di
scaricare Brunetta
CORRADO ZUNINO
ROMA . I 450mila euro che il supremo tessitore Giovanni Mazzacurati sostiene di aver
dato al sindaco (in uscita) di Venezia, Giorgio Orsoni, avrebbero alimentato il voto cattolico
alla vigilia delle elezioni amministrative del 2010. Gli investigatori stanno trovando le prime
conferme a questa pista giudiziaria. Orsoni, agli arresti domiciliari nella sua casa
veneziana “alla fermata del vaporetto di San Silvestro”, nega di aver ricevuto i 450 mila
euro in nero, ammette solo i finanziamenti registrati (110 mila). Alle parole dell’accusatore
Mazzacurati si sono aggiunte nel tempo, però, due conferme: la testimonianza a verbale di
Piergiorgio Baita, già amministratore della Mantovani spa, capofila del Conzorzio Venezia
Nuova guidato proprio da Mazzacurati, e quella di Federico Sutto, uno dei due cassieri del
consorzio. La finanza, che ha certificato undici incontri tra Orsoni e l’ingegner
Mazzacurati, di cui otto a casa del sindaco con passaggi di denaro in tre-quattro occasioni,
ora sta verificando la consistenza del filone “finanziamenti Mose girati alla chiesa cattolica
veneziana”. L’ipotesi, abbiamo visto, è che all’inizio del 2010 l’avvocato Orsoni avesse
bisogno di denaro per condurre la sua campagna elettorale in salita: era sfavorito di fronte
all’avversario pdl, il ministro Renato Brunetta. In alcune intercettazioni si ascolta Orsoni
chiedere ai sostenitori potenti di far presto, vuole più soldi di quelli che — centomila euro
—gli vengono prospettati. È stato lo stesso Baita, in altre occasioni, a raccontare come i
dirigenti del Consorzio per costruire il Mose fossero inizialmente orientati sul candidato più
17
affine, Brunetta appunto. «Quando abbiamo saputo che il Patriarcato aveva fatto una
scelta di campo, quella di Orsoni, abbiamo cambiato linea ». Il contante girato da
Mazzacurati al sindaco aveva ottenuto il suo effetto spostando “voti cattolici” verso il
centrosinistra. Nelle carte di procura c’è un altro passaggio che lega il Consorzio Venezia
Nuova alla curia locale ed è il sequestro degli appunti dei pagamenti realizzati fino all’11
ottobre 2001 dal Consorzio veneto cooperativo (socio, appunto, del grande Cnv). Quelle
consegne in contante erano state segnate su un foglio poi nascosto nell’abitazione dei
genitori di una dipendente del Coveco. La lista sequestrata segnalava, tra molti politici
locali, anche la Fondazione Marcianum. Centomila euro, per loro: “quota annuale”. La
fondazione è un polo pedagogico e accademico fortemente voluto e quindi fondato nel
2004 a Venezia, sestiere Dorsoduro, dall’allora patriarca Angelo Scola, oggi arcivescovo di
Milano. Istituto di studi religiosi, liceo classico, facoltà San Pio X, biblioteca. Una struttura
costosa, la fondazione. Che da sempre ha stretti rapporti con le istituzioni del territorio. Tra
i quattro soci fondatori del polo cattolico c’è, non a caso, il Consorzio Venezia Nuova che,
per missione, non ha quella di tirare su biblioteche cattoliche. Presidente del Marcianum
viene nominato Giovanni Mazzacurati, lo stratega del Mose che sarà arrestato nel luglio
2013. Nel consiglio della fondazione entrano Romeo Chiarotto, il padrone della Mantovani
Spa, e lo stesso sindaco Orsoni, cattolico di sinistra i cui rapporti con Scola sono tenuti dal
capo di gabinetto Marco Agostini. Sostenitore della fondazione tra i primi, si fa avanti la
Regione Veneto. Il suo presidente, Giancarlo Galan, nel 2004 dirotta 50 milioni alla curia di
Venezia prelevandoli dai fondi della legge speciale: servono a ristrutturare il seminario
patriarcale alla Salute (foresteria per 70 persone, sale multimediali), il palazzo patriarcale,
restaurare la basilica della Salute (accanto al Marcianum). Nella comunità diocesana e in
città quel finanziamento fa discutere. Lo scorso 19 luglio, subito dopo l’arresto di
Mazzacurati, il nucleo tributario è andato alla sede della Fondazione Marcianum e ha
sequestrato i documenti che certificavano i finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova
all’ente ecclesiale e i finanziamenti (tra i 10 e i 50 mila euro a testa) di molte società del
Cvn: Mantovani, Coedmar, Lmd, la Hmr dell’attuale neodirettore Hermes Redi. «Un’azione
normale», là definì l’amministratore Marco Agostini, l’uomo di Scola, l’uomo di Orsoni. Era
solo l’inizio della caccia ai fondi neri elettorali.
Del 09/06/2014, pag. 11
Gli uomini del Mose si erano dati nomi d’arte per riconoscersi e non
essere identificati. E tutto girava attorno a Mazzacurati Burattinai,
politici, spioni, segretarie e consiglieri fidati hanno agito impuniti per
anni
Il Supremo, la Dogessa e Mister Fortissimo la
cupola in maschera che derubava Venezia
I personaggi
FABIO TONACCI
DAL NOSTRO INVIATO
VENEZIA Il “supremo” muove i fili e il “compagno Pio” fa i suoi giri. Il “fortissimo” va in
Svizzera con i soldi, mentre l’ ”ingegnere” li nasconde dietro l’armadio e lo “spione” li
sotterra in giardino. E la “dogessa” pentita? Parla e accusa. Sì che sarebbero piaciuti
questi personaggi a Carlo Goldoni, sono ideali per una commedia dell’arte. Arte
18
dell’intrallazzo, però. Arte della truffa, della mazzetta, della ruberia, sul proscenio della più
costosa infrastruttura d’Italia. Il Mose. Che doveva proteggere Venezia dalle acque, ma chi
ci pensava che il pericolo sarebbe arrivato da terra? Eccola, dunque, la cupola.
L’IMPERATORE
Da trent’anni c’è un uomo che in Laguna tutto decide e tutto sorveglia. Giovanni
Mazzacurati, 82 anni, prima direttore poi presidente del Consorzio Venezia Nuova a cui fu
data dallo Stato la concessione unica per costruire il Mose. È lì da sempre, da quando il
progetto nemmeno era stato ancora disegnato. Definito dai suoi sodali «il capo supremo»,
«il re», «il monarca», «il doge», «l’imperatore». Tanto per dire di che pasta è fatto.
È lui che mette insieme la cupola, che convince l’80 per cento dei partecipanti al suo
Consorzio della necessità di irrorare di mazzette una decina di politici locali, di finanziare
«con 400-500mila euro che gli ho portato personalmente a casa», racconterà lui stesso
davanti ai pm, la campagna elettorale del sindaco Giorgio Orsoni, finito ai domiciliari per
finanziamento illecito. Di abbattere a suon di regali, assunzioni e tangenti (i magistrati ne
hanno contate per 22,5 milioni di euro, ma sarebbero molte di più) qualsiasi ostacolo
burocratico che si frapponga tra il Mose e la sua realizzazione. Il sogno però si spezza nel
luglio scorso, quando il “supremo” viene arrestato per turbativa d’asta, assieme alla ex
segretaria di Giancarlo Galan, Claudia Minutillo. La “dogessa”, la donna che maneggia
centinaia di migliaia di euro in contanti «frutto di sovraffatturazioni delle imprese dei
Consorzio» e che, interrogata, stila una prima lista dei beneficiati. «Vi erano…omissis…e
Milanese, uomo di fiducia del ministro Tremonti. A quest’ultimo era destinata la somma di
500mila euro», sostiene la “dogessa”.
IL COMPAGNO PIO
Marco Milanese, quindi. Per tutti è il consigliere politico di Tremonti, per la cupola è
«l’amico nostro». Mazzacurati lo incontra più volte a Roma, al dicastero dell’Economia. È
l’uomo che si attiva con Tremonti e con gli uffici del gabinetto delle Infrastrutture per far
sbloccare 400 milioni del Cipe per il Mose. Ci riesce, ma non prima di «aver intascato
500mila euro, glieli portai in una scatola». La richiesta di custodia cautelare era scritta
anche per lui, ma è stata revocata 20 giorni prima degli arresti. Di soldi, il Consorzio, ne ha
dati tanti, a tutti, a destra e a sinistra, al Pdl e al Pd, «in bianco» per usare le parole di
Mazzacurati, e «in nero». Lecitamente, o illegalmente. Senza fare troppe distinzioni,
rinnegando anche tutta la propria storia politica. Come fa Pio Salvioli, il “compagno Pio”,
braccio destro del “supremo”, trevigiano cresciuto nelle fila del Pci che è finito a succhiare
150mila euro dalla Coop rossa San Martino per oliare Renato Chisso, l’assessore
regionale del partito di Berlusconi che decideva sulle commissioni Via. Soldi delle
cooperative di sinistra al Pdl. Accade più volte. «Sto in giro a distribuire», rideva allusivo il
compagno Pio, mentre attraversava a passo svelto i campielli di Venezia, «prima o poi mi
mettono in galera». E così è stato.
L’UOMO DELLA GALASSIA
Di soldi, tra mazzette e finanziamenti più o meno dubbi, la cupola ne ha dati anche al
Partito democratico, per carità. Ma nessuno ha ottenuto tanto quanto Giancarlo Galan, ex
ministro ed ex governatore veneto. Uno stipendio fisso di un milione di euro e regali vari
tra cui anche un trattore. L’esoso. «Non ce la faccio più — si lamentava Piergiorgio Baita,
amministratore della Mantovani, che gli ha ristrutturato la villa di Cinto Euganeo con 1,1
milioni di euro di fatture gonfiate — chiede troppo». Ma Galan è anche l’uomo della
«galassia», come scrivono i pm quando scoprono le sue dieci e passa società «controllate
direttamente o tramite prestanome», gli interessi nel mercato del gas in Indonesia («un
affare da 55 milioni di euro»), le quote in società di consulenza sanitaria, in aziende
agricole, le dieci barche in Croazia, gli immobili. Il sistema per far fiorire le mazzette dai
bilanci delle società consorziate ruota attorno a un personaggio di cui si parla troppo poco,
19
Luciano Neri, l’”ingegnere”. È un dipendente del Consorzio che raccoglie tutti i contanti
raccolti da Mazzacurati nel “fondo Neri”, che altro non è che la cassettiera del suo ufficio.
Ne ricorda le gesta memorabili la Minutillo: «C’erano 500mila euro dentro durante
l’ispezione della Finanza, li ha nascosti gettandoli dietro l’armadio». La fifa di essere
beccati, agli uomini della cupola del Mose, fa fare cose strane. Anche mangiare la carta.
«Mi raccomando — consiglia Enrico Morbiolo al telefono parlando di un biglietto
compromettente — se lo devi tenere in taccuino, su carta mangiabile…se arriva qualcuno
un giorno…non sto scherzando».
LA TALPA
Qualcuno un giorno è arrivato davvero. Prima è partita l’ispezione fiscale sul Consorzio,
siamo nel 2010, poi le indagini della procura di Venezia e i primi arresti nel 2012.
Mazzacurati si affida allora all’ex generale della Finanza Emilio Spaziante, al quale
promette 2,5 milioni di euro per avere informazioni. La “talpa” dai suoi colleghi ottiene
qualcosa, la lista dei telefonini sotto controllo, ma non tutta la mappa delle intercettazioni
ambientali. Per questo il pagamento per il suo disturbo si riduce a 500mila.
Dopo l’arresto viene perquisita la casa romana di Spaziante, e saltano fuori 200mila euro
sporchi di terra e umidi. Li teneva sotterrati in giardino. Meglio sarebbe stato fare, forse,
come Nicolò Buson, responsabile amministrativo della Mantovani, che il denaro della
cupola lo depositava alla Corner Bank svizzera su un conto cifrato, nominato Fortissimo.
«Quindi quando contattavo la banca per prelevare — ha raccontato in un interrogatorio —
mi presentavo con quel nome». Buon giorno, sono Mister Fortissimo.
del 09/06/14, pag. 11
Fondi e leggi speciali
Così i padroni delle acque si spartiscono
Venezia
Sindaco, ma perché sta sempre in televisione? «In Comune non ho un beneamato nulla
da fare». La scena risale a qualche anno addietro. E l’espressione usata da Massimo
Cacciari era molto più colorita di quella riportata qui sopra. Il concetto risulta comunque
chiaro. Al netto di ruberie e disonestà personali, per quanto possibile, lo scandalo del
Mose è anche nella peculiarità di un manager come Giovanni Mazzacurati che da solo
contava più del primo cittadino di Venezia e del governatore di una regione con il prodotto
interno lordo tra i più alti d’Europa. Da ormai quarant’anni gli enti locali di uno dei posti più
belli e visitati del mondo hanno funzione decorativa, soprammobili istituzionali di decisioni
prese altrove. L’ormai ex sindaco Giorgio Orsoni, le dimissioni dopo l’arresto ai domiciliari
per finanziamento illecito ai partiti sono in dirittura d’arrivo, raccontava spesso che nel suo
mandato ha convissuto con quattro diversi governi e con ognuno di essi si è lamentato dei
tagli ai bilanci del Comune. «Ma tanto ci sono i soldi del Mose…». La solita risposta, la
stessa da quarant’anni.
L’alluvione del 1973 portò all’approvazione della legge speciale per Venezia. Fu allora che
cominciarono bei tempi per gli amministratori locali, travolti da un insolito benessere che si
concretizzava in finanziamenti per qualunque necessità, dal rifacimento delle piazze, alla
pedonalizzazione del centro di Mestre, al restauro dei palazzi nobiliari. Ma la fetta più
grande andava alla protezione di città e laguna, microrganismi delicati e fragili. I soldi
arrivavano sopratutto da voci come rialzo delle rive, difesa idraulica e bonifiche. La legge
20
speciale è stata una specie di Cassa del Mezzogiorno per Venezia e dintorni. I bei tempi
sono finiti con l’arrivo del Mose, proprio lui. L’approvazione definitiva dell’opera ha
comportato il suo inserimento nella legge obiettivo, che dal 2001 determina i finanziamenti
per le infrastrutture di importanza nazionale. E di soldi, il Modulo sperimentale
elettromeccanico ne ha dragati proprio tanti, presenza stabile nei primi cinque posti degli
stanziamenti deliberati dalla legge obiettivo nei suoi dodici anni di vita (2002-2013). Le
dighe mobili avevano di tutto e di più, il resto della città è rimasto a secco. E siccome sono
i soldi a decidere chi comanda davvero, ecco che sindaci e amministratori assortiti
vengono buoni ultimi. Tanto più se i soldi del Mose finiscono in tasca a una sola entità, il
Consorzio Venezia Nuova. L’idea del concessionario unico, che molto fa discutere alla
luce delle prodezze di Mazzacurati e soci, parte da lontano ed è sempre piaciuta molto
prima al Psi poi a Forza Italia. Ma, quando l’idea venne lanciata, a fine anni 70, l’adesione
e la spinta più importante al progetto sperimentale arrivarono dall’Iri, che di suo ci mise
ingegneri e consulenti, fino a ottenere la nomina del primo presidente, Luigi Zanda, l’ex
capogruppo al Senato del Pd.
Il passo decisivo per la creazione di una sorta di monopolio arrivò nel 1984. Il Consorzio
era neonato e Gianni De Michelis, all’epoca ministro del Lavoro, varò la seconda legge
speciale per Venezia, che prevedeva la possibilità di concedere studi, progetti e opere di
salvaguardia della laguna a un solo soggetto, in deroga alle norme sui lavori pubblici.
Aboliti appalti e gare pubbliche, decide un solo concessionario dello Stato. Era nato il
monopolio del Mose. Poco importa se la Corte dei conti nel 2009 osò scrivere che con
questo sistema i costi dell’opera erano raddoppiati e l’Ue aprì una procedura d’infrazione
perché la legge prevedeva almeno un 40% degli stanziamenti da assegnare con appalto
ma nessuno se lo ricordava. Tutto andò avanti come nulla fosse. Fino alle inchieste e agli
arresti.
E siamo al paradosso di oggi. Il Comune conta poco, in una città che ha storiche
stratificazioni di potere. Oltre al Consorzio, i veri padroni sono il Magistrato delle acque,
organo statale che gestisce l’intera laguna, e l’Autorità portuale, titolare dei canali delle
grandi navi, dal Bacino di San Marco alla Giudecca. Il sindaco comanda sulle calli, che
cartina alla mano rappresentano il 6% della superficie di Venezia. Ma il suo arresto, con
conseguente paralisi istituzionale, ha bloccato i pochi progetti «indipendenti», come la
costruzione del nuovo stadio, nell’area del Quadrante di Tessera, e la creazione di una
nuova compagnia per le aree di Porto Marghera e la riconversione del sito industriale.
Invece sabato, mentre i magistrati interrogavano vecchi e nuovi protagonisti della vicenda,
a Chioggia è stato ancorato al fondo del mare il primo cassone della barriera all’ingresso
del porto. Il Mose si muove, Venezia è ferma.
Marco Imarisio
21
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 09/06/14, pag. 11
In sei mesi salvati oltre 50mila migranti
Continua l’ondata di sbarchi nelle coste siciliane. Ieri recuperati tre
corpi ● Fassino chiede un incontro con Alfano: «La situazione è
insostenibile»
Più di duemila migranti soccorsi nelle ultime ore, almeno 3400 se si abbraccia un arco di
tempo di 48 ore. Oltre 50mila dall’inizio del 2014 per un costo di oltre cento milioni
all’anno. Le coste della Puglia e quelle della Sicilia sono prese d’assalto, ma l’emergenza
adesso è a Pozzallo, nel ragusano, dove sono arrivate le motonavi Anwar con 102
immigrati e quella maltese Norient Star che viaggia con altri 102 profughi e a bordo ha tre
cadaveri di persone morte probabilmente durante il viaggio. L’allarme è stato lanciato dal
sindaco Luigi Ammatuna: «Tutti gli immigrati che arrivano - ha spiegato il primo cittadino
che teme serie ripercussioni sul turismo - vengono quasi subito trasferiti. Il problema sono
i continui arrivi con cifre che generano paura: se i numeri continuano ad essere questi la
situazione rischia di diventare ingestibile. Già abbiamo le prime disdette di turisti; la gente
non sa bene cosa accade veramente, teme di arrivare in una splendida località che trova
invasa dai migranti. Pozzallo, la nostra comunità, è da sempre accogliente. Siamo ospitali,
ma non possiamo essere penalizzati, questa sta diventando una vera e propria
emergenza e continuando così saremo davvero nei guai. Qualche giorno fa avevo fatto la
proposta di ricevere 10 euro per ogni migrante che accogliamo, ma nessuno ha preso l’ha
presa in considerazione. Chiederò al più presto un incontro a Roma, c’è bisogno di una
sorta di compensazione per una città così ospitale, ma che non ce la fa più».
Naturalmente non è l’emergenza turismo che preoccupa. Piuttosto la latitanza dell’Unione
europea come denuncia anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. «Ormai - ha detto il
primo cittadino - la macchina dell’accoglienza ai migranti è sperimentata ed è frutto di
professionalità e d’amore. Resta ancora una volta la denuncia per l’insensibilità
dell’Europa nei confronti di un dramma che si consuma nella acque siciliane. Non si può
pensare infatti di affrontare un problema di carattere europeo affidandosi soltanto alla
sensibilità delle amministrazioni locali siciliane». E di Sicilia sola davanti alla crisi parla
anche il prefetto di Trapani Leopoldo Falco: «La Sicilia è stata lasciata da sola a
fronteggiare l’emergenza immigrati. Le navi mercantili che soccorrono i migranti non
possono andare oltre la Sicilia e i ponti aerei non ci sono. Così l’Isola come al solito lavora
per tutti. Anche Trapani fa la sua parte ». Al momento, la provincia ospita 2100 migranti in
27 strutture, l’ultima aperta oggi a Salemi in occasione dei nuovi arrivi. A questi si
aggiungono altri 400 rifugiati accolti in 12 Sprar e 50 extracomunitari reclusi nel Cie di
Milo. E poi c’è il problema della criminalità organizzata che ora ha scoperto l’affare
accoglienza. Approfittando dell’emergenza sbarchi «la criminalità ha cercato di inserirsi nel
sistema dell’accoglienza dei migranti - ha detto ancora Falco -. Ci sono stati soggetti
grossi, multinazionali legate a faccendieri locali che non ci piacciono, le quali disponendo
di molto denaro si sono proposte dietro facce pulite ma noi le abbiamo individuate e
respinte». Si diceva più di duemila persone sbarcate tra sabato e domenica. E questi sono
solo i migranti soccorsi in mare dalle navi della Marina Militare, altri 700 sono stati caricati
a bordo di mercantili. La fregata Scirocco ha soccorso ieri 186 persone tra cui 45 donne e
58 minori, circa dieci i neonati. La fregata Bergamini ha soccorso 554 immigrati tra cui 34
22
donne e 37 minori. La nave Etna ha invece fatto salire a bordo 1335 migranti salvati da
una vedetta della capitaneria di porto e si è diretta verso Taranto dove solo nelle ultime
ore è previsto l’arrivo di 1800 persone. Tutte le persone tratte in salvo erano allo stremo,
con gravi sintomi di disidratazione. Poi c’è la motonave City of Sidon che arriverà oggi a
Palermo con a bordo 529 migranti. Di dimensioni drammatiche e insostenibili del
fenomeno parla il presidente dell’Anci Piero Fassino che ha chiesto ieri un incontro
urgente con il ministro Alfano. «Gli sbarchi sulle coste italiane stanno assumendo
dimensioni drammatiche e insostenibili per i Comuni siciliani le cui strutture sono
insufficienti e, in ogni caso, già ipersature. - ha detto Fassino - Per altro, senza un
impegno finanziario e operativo straordinario dello Stato e delle Regioni, anche gli altri
Comuni italiani non sono in grado di farsi carico da soli di una situazione così critica. Per
questo chiedo al ministro Alfano di promuovere un incontro urgente con la partecipazione
delle diverse istituzioni interessate, per adottare tutte le misure necessarie».
del 09/06/14, pag. 11
Quei fatti (mai chiariti) nel Cie di Gradisca
Luigi Manconi
Valentina Calderone
Valentina Brinis
Il mese scorso l’Associazione «Tenda per la Pace e i Diritti» e alcune delle organizzazioni
che hanno aderito alla campagna LasciateCIEntrare hanno depositato presso le Procure
della Repubblica di Gorizia, di Roma e di Napoli un esposto per chiedere accertamenti e
indagini sugli avvenimenti dell’agosto 2013 all’interno del Cie (Centro di Identificazione ed
Espulsione) di Gradisca d’Isonzo. In quei giorni, infatti, il centro era stato teatro di scontri,
pestaggi, lanci di lacrimogeni. Nella notte tra l’11 e il 12 agosto, una delle persone lì
trattenute era caduta dal tetto sul quale si trovava in segno di protesta, ed era entrato in
coma. È morto il 30 aprile scorso all’ospedale di Monfalcone. Le proteste sono continuate
anche nei mesi successivi a quelli estivi, fino a che il 5 novembre 2013 il Ministero
dell’Interno ha svuotato il centro, disponendo il trasferimento delle persone trattenute
verso altri cie. Una decisione presa a causa delle condizioni di degrado in cui verteva la
struttura, tali da determinare la violazione dei diritti «non solo delle persone lì
trattenute,maanche di quelli che vi lavoravano». Attualmente il centro è chiuso e Alfano ha
dichiarato che non sarà riaperto. Sulle rivolte ci sono molte ombre che l’esposto vuole
chiarire. Nel testo presentato vengono evidenziati i fatti, ricostruiti grazie alle testimonianze
dei migranti, di associazioni e dei parlamentari che sono giunti sul posto chiamati
d’urgenza durante quei giorni di proteste e di rivolte. Uno dei punti che viene
maggiormente enfatizzato riguarda il ricorso a metodi coercitivi utilizzati dalle forze di
sicurezza per placare le proteste. Bisogna ricordare, però, che quelle manifestazioni erano
inscenate da persone trattenute in uno spazio circondato da sbarre e che avevano una
ridotta possibilità di movimento. In questo contesto appare dunque spropositato l’utilizzo di
lacrimogeni il cui gas è stato completamente inalato da chi si trovava lì dentro, causando
malori. Nei giorni della protesta sono state molte le persone a voler essere presenti e a
seguire le vicende anche solo tramite il web e la stampa. Alcuni dei parlamentari accorsi
sul posto, poi, hanno aderito alla Campagna LasciateCIEntrare, un movimento sorto nel
2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli
organi di stampa nei Cie. Appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della
Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione
23
della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione
amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Ma è sull’abolizione dei Cie
che bisogna continuare a insistere. Questi centri, infatti, presentano enormi carenze sotto
il profilo della tutela dei diritti umani e, oltre a essere inutilmente dispendiosi, risultano
palesemente inefficaci rispetto allo scopo per il quale sono stati istituiti.
Del 09/06/2014, pag. 27
Tragedia nel Mediterraneo. Nave maltese urta un gommone carico di
migranti durante il salvataggio L’imbarcazione si ribalta: tre vittime e
due dispersi. I centri siciliani al collasso: via ai trasferimenti in Puglia
Collisione col barcone, cinque morti
FEDERICA MOLE’
POZZALLO La morte è arrivata quando la salvezza era a poche braccia di distanza. Le
mani dei soccorritori a bordo del mercantile maltese “Norient Star” erano già pronte a tirare
a bordo i 107 migranti, quasi tutti eritrei, assiepati su un gommone partito dalla Libia,
quando — secondo la ricostruzione di chi era a bordo — la scaletta di ferro calata dalla
nave ha toccato l’imbarcazione sulla quale viaggiavano i profughi facendola capovolgere:
cinque uomini sono finiti in mare e sono morti affogati. Tre cadaveri sono stati subito
recuperati mentre i corpi di altri due sono dispersi.
È l’ennesima tragedia del Mediterraneo sulla quale indaga la procura di Ragusa che
cercherà di capire, con l’aiuto del medico legale, l’esatta dinamica che ha portato alla
morte dei cinque migranti. Gli altri 102 profughi a bordo del gommone che aveva lanciato
l’Sos sono stati portati in salvo sul mercantile maltese che, in serata, ha raggiunto il porto
di Pozzallo, in provincia di Ragusa, uno dei punti caldi della nuova emergenza
immigrazione che sta coinvolgendo la Sicilia. Sull’isola, secondo le cifre fornite dalle
prefetture, da sabato scorso sono sbarcati circa diecimila migranti la maggior parte dei
quali salpati dai porti della Libia. E i numeri sono destinati a crescere ancora. Alcuni degli
uomini arrivati ieri a Pozzallo hanno raccontato che «dalla Libia sono pronte a partire
migliaia di persone verso l’Italia, la Sicilia». Sono i sindaci a fare i conti con i numeri
dell’esodo. Pozzallo, per esempio, è diventata la “nuova Lampedusa” visto che da gennaio
ad oggi sono arrivati undicimila migranti. Il paese, che conta meno di ventimila abitanti, è
sotto pressione. Il centro di prima accoglienza ospita già 475 persone ma potrebbe
accoglierne appena 180. Vista l’emergenza, da metà marzo la prefettura di Ragusa ha
messo a disposizione la masseria “Don Pietro” di Comiso, che un tempo era un centro di
sperimentazione agricola, e che adesso è una succursale del Cpa di Pozzallo. Da ieri
ospita 250 persone. «Gli aiuti che aspettavamo dall’Europa non sono mai arrivati — dice il
sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna — il resto dell’Italia li rifiuta e sembra quasi che
l’operazione “Mare nostrum” riguardi solamente la Sicilia. Io voglio essere il sindaco della
vita e non quello che deve preoccuparsi di ricevere i cadaveri e trovare una sistemazione.
È arrivato il momento di creare corridori umanitari direttamente nei loro paesi d’origine:
oppure in Libia, da dove prendono il mare dopo lunghi viaggi. Ormai la situazione è
ingovernabile e invivibile per questi uomini costretti a fuggire dalle loro terre».
Il sindaco di Pozzallo non è il solo a dover fare i conti con la mancanza di luoghi adeguati
nei quali accogliere i migranti. I sei centri gestiti dal governo presenti sull’isola sono
strapieni: con oltre 6 mila ospiti a fronte dei 5 mila posti ordinari. Anche le 55 strutture per
rifugiati e richiedenti asilo gestite dagli enti locali sono piene e le prefetture ormai
24
accreditano per l’accoglienza case e appartamenti privati. I migranti che sbarcano sulla
costa sud della Sicilia vengono smistati anche a Catania e a Palermo. Così, ieri, si è levata
la protesta dei sindaci delle due città più grandi. «I comuni sono ormai allo stremo — dice
il sindaco di Catania Enzo Bianco — non possiamo più fronteggiare tutto da soli. Il
governo dichiari lo stato d’emergenza». «Denuncio ancora una volta l’insensibilità
dell’Europa nei confronti di questo dramma», ha aggiunto il sindaco di Palermo Leoluca
Orlando. Una protesta, quella dei sindaci, che ieri è stata rilanciata anche dal presidente
dell’Anci Piero Fassino, che ha chiesto un incontro urgente con il ministro
Alfano. «Gli sbarchi stanno assumendo dimensioni drammatiche e insostenibili», ha detto
Fassino. Il ministero dell’Interno, qualcosa sta tentando per alleggerire la pressione sulla
Sicilia. Ieri la nave “Etna”, diretta verso Catania con a bordo 825 migranti, ha ricevuto
l’ordine di fare rotta verso il porto di Taranto, in Puglia.
del 09/06/14, pag. 13
I turisti a guardare i disperati a morire
di Veronica Tomassini
Le grotte hanno il vincolo paesaggistico, sono annerite dalla guaina bruciata per ricavarne
rame, se ne trovano a tratti: operazioni clandestine che si consumano nel parco degli ulivi.
Siamo in via Politi Laudien, a Siracusa. Zona residenziale. E invece c’è una precisa
mappa intestina che governa un regno segreto. Quel che non si vede, è quel che conta.
Qui è posta una lapide in ricordo del Santo Papa Wojtyla. Gli uomini degli sbarchi abitano
le grotte verso il promontorio, peggio che nei barrios di Bogotà. La sera esalano terribili
fumi, gli africani si riscaldano con bombolette di gas da campeggio, sono gli stessi uomini
che chiedono ai semafori di giorno, quelli che non arrivano nemmeno al Cie, che dopo
Mare Nostrum incassano il loro decreto di espulsione e arrivederci, un confino perenne e
ligio che non potranno mai rispettare ovvio, dovrebbero tornarsene al paesello loro entro
sette giorni, usando la frontiera di un aeroporto. Un po’ ridicolo, anche soltanto pensarlo.
Lungo i sentieri, si inerpicano verso la Croce, in cima, costruzioni con compensato, una
mimesi perfetta dentro il paesaggio, tutto intorno pietra, terra, rovi e mondezza. Sono
caverne abitate da rumeni. Questo è consolatorio. Non ci sono italiani, men che meno
indigeni. Sbagliato. Nelle grotte sono tornati a viverci, tutti, clemenza per nessuno, non i
buoni non i cattivi, tutti, come ratti nel tombino, italiani, siracusani, gente con residenza un
tempo, con un’a u t o m o b ile, uno status borghese. Uomini, donne. Bambini.
Giocattolini franano verso i dirupi tra una grotta e l’altra, al centro riparano i drogati, hanno
la loro cava, veri tornanti di flaconcini di metadone o acqua distillata senza beccuccio, di
siringhe e lacci emostatici, raggiungono nuovi cimiteri. Ogni grotta ha il suo terrore. In
alcune, ci sono i disegni dei ragazzini appiccicati alle pareti fredde, alla pietra, il letto
appena rifatto, un tavolo con un vassoio, un uovo al centro, una lattina vuota. I ragazzini
vanno a scuola, i disegni sono precisi, sono colorati senza sbavature, le parole usate non
contengono errori di grammatica. Una macchinina rotola verso un abisso di lamiera, sul
fronte della prima grotta, entrando a destra, accanto a un albergo antico, lusso e blasoni
forse pure, ospiti eccellenti, la maestosa villa Politi scelta persino da Churchill: parquet e
boiserie alle pareti, una gran pineta che aleggia sui moti intestini delle grotte arroccate
sopra, in prossimità di certe pensiline, stessa linea d’aria (moti paurosi, come taluni afrori
nella notte, di cadaveri una volta, ne sono morti due, anni fa, o di uomini vivi rivoltati
25
dall’abiezione, i loro nauseanti pagliericci). Eppure è stato un primo maggio grandioso,
musica a palla nel parco, musica dal vivo, rock, vino e salsicce, bandiere a sventolare.
Non è una provocazione. È stata un’ideona dell’amministrazione. Ma: e gli uomini delle
grotte? Macché, chitarre a ruggire al massimo e slogan anarchici e comunisti tutt’al più.
Picchetti pregni di indignazione erano già bell’è pronti con i militanti dell’associazione di
destra “Italiani in movimento”, che hanno esortato il sindaco (loro, proprio loro): faccia
qualcosa, la prego, consideri questi uomini. Era la festa del lavoro, un ossimoro
incommensurabile celebrato lì, a ridosso di terrificanti tombini, uomini di una qualche
sottospecie, annichiliti nelle cave, ratti costretti da chiusini. Non era solo una metafora,
piuttosto una fatwa. L’auspicio ieratico della comunità spera ardentemente che almeno
non crepi nessuno, come capitò con il povero Miroslaw Dabek o la povera polacca Ewa,
morti a Natale, dentro le grotte. Ewa non la tiravano fuori, era incastrata esangue nel suo
feretro di pietra, fuori pioveva, era Natale. Anche Miroslaw morì a Natale, la sua grotta
puzzava appresso all’altra quella visitata dagli altri, dalla persone perbene, dentro si
conduceva un presepe vivente. Era tutto abbastanza triste. Il presepe vivente e l’uomo
morto di là, non si sono accorti della parabola evangelica in quell’assisa platea, moriva il
figlio dell’u omo mentre nasceva il Figlio di Dio.
Nessuna vibrante protesta, nemmeno i cannoni nelle piazze di De André ne La domenica
delle salme, pronti per un va a quel paese onnicomprensivo, destinatari sparsi. Siracusa
non conosce un welfare, non esiste una rete sociale, l’anarchia per certi versi, o una
rozzezza estesa a far valere qualsiasi diritto contrabbandato di solito per favore. Storie
vecchie, da profondo sud. Siracusa, tolta la parrocchia di padre Carlo D’Antoni, un
dormitorio nato per iniziativa privata, di venti posti, e uno della San Martino di Tours di
appena otto, non propone altro. Nasceranno mausolei per profughi, non supereranno il
centinaio di posti letto, competenza di prefetture e ministero dell’interno, poco c’entra con
gli uomini delle grotte, e ad ogni modo non sono nemmeno loro una risposta. A Siracusa si
muore per strada, cioè chi vive per strada , ci resta. Non la chiesa di questi uomini (non è
la chiesa di Dio), non un esecutore di un qualsiasi ente morale che si sia mai visto lungo i
sentieri delle grotte raccogliere la miseria o uomini vestiti di purezza uscire dai loro rigidi
paramenti e asciugare il sudore dei lerci o le loro lacrime nere da profughi o da disgraziati,
ombre anche nostre, credeteci. Che alle grotte ci possano vivere anche indigeni secondo
un condiviso sentire della comunità prossima è da escludere, altrimenti è un commentare
sussurrando, con le mani davanti la bocca, i frequentatori della zona procedono oltre
allora. Chiediamo a loro: “Conoscete gli uomini delle grotte?”. Accelerano il passo,
scuotono il capo, si schermiscono con un braccio dinanzi a una tale bestemmia. Eppure in
quel parco il senso dell’apocalisse si svolgeva in pieno giorno per anni. Donne e uomini si
trascinavano in quei luoghi, vinti dai vizi più terribili, dalle più terribili miserie. Miroslaw
moriva a Natale, senza esofago, vomitando sangue, seduto su una pietra. Poi sono venute
le ruspe, ma i topi sono tornati.
26
SOCIETA’
del 09/06/14, pag. 7
Da ceto medio a quasi poveri: ecco i
«penultimi»
SEMPRE PER PIÙ PERSONE IL LAVORO NON È PIÙ IN GRADO DI
GARANTIRE UNA VITA SENZA STENTI
CARLO BUTTARONI
Per lungo tempo il lavoro è stato il paradigma di una società che faceva perno intorno alla
fabbrica e all’ufficio. Un modello di organizzazione sociale riflesso di una pienezza che
copriva l’intero ciclo di vita, il cui tracciato essenziale era stato incastonato nel primo
articolo della Costituzione: una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ritmi scanditi,
spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria ma
anche le altre sfere dell’esistenza: la scuola accompagnava il giovane all’età lavorativa, la
sanità pubblica si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti dalle malattie, le pensioni
di anzianità garantivano la sicurezza economica all’uscita dal mondo della produzione. È
su queste premesse che l’Italia è cresciuta fino a diventare uno dei Paesi più ricchi del
mondo, dando corpo al suo «ceto medio» e facendolo diventare il principale bacino di
approvvigionamento del sistema di welfare: dalla scuola alla sanità, dalle pensioni agli
strumenti di sostegno alle famiglie più disagiate. Per oltre mezzo secolo tutto questo è
stato il tracciato di una storia di crescita economica, culturale e sociale straordinaria: a
livello macro, erano molti più gli italiani che accedevano a livelli superiori di benessere di
quanti, già benestanti, accumulavano altra ricchezza. E mentre le disuguaglianze
diminuivano, il benessere si diffondeva insieme ai diritti di cittadinanza cui accedevano
fasce sempre più ampie di popolazione. Oggi tutto questo sembra lontanissimo: il lavoro
non è più (se non a parole) il fulcro del modello di organizzazione sociale, il sistema di
welfare è stato ampiamente rimodulato e non è più in grado di rispondere alla crescita
della domanda di protezione sociale. E un fantasma si aggira fra i detriti della «tempesta
perfetta»: quello della povertà. Chi diventa povero in Italia ha probabilità maggiori di
restarlo per tutta la vita, contrariamente a ciò che accade in altri Paesi avanzati dove la
povertà ha caratteristiche più transitorie e meno definitive. E nemmeno il lavoro, che ne ha
sempre costituito l’antidoto, è in grado ormai di preservare dai rischi di vedere
materializzarsi una condizione che in Italia ha tradizionalmente forme definitive. Nel
complesso, la condizione di povertà riguarda l’11% degli occupati ed è cresciuta sia tra i
lavoratori dipendenti che tra gli autonomi, colpendo soprattutto le fasce affluenti del ceto
medio, come dirigenti e impiegati. I segnali di peggioramento si rilevano in tutte le
ripartizioni geografiche: il 6% nel Nord, il 7% nel Centro e il 26% nel Mezzogiorno. In
quest’area, in particolare, vive in condizioni di povertà il 32% delle famiglie di operai, il
24% di quelle con a capo un lavoratore dipendente e il 21% di quelle che hanno come
persona di riferimento un lavoratore autonomo. L’Italia è il Paese che, in questi ultimi due
anni, ha perso più posizioni in Europa negli indicatori dello sviluppo economico e sociale e
l’indice della popolazione a rischio di povertà propone gli scenari più inquietanti proprio per
la quota di poveri che dispongono di un reddito mensile fisso. E qui la crisi c’entra, ma fino
a un certo punto. Di più hanno contribuito le scelte di politica economica basate su
quell’ossimoro che, con una punta di cinismo, è stata chiamata «austerità espansiva».
Scelte che hanno dato forma a nuove traiettorie d’impoverimento, modificato le forme del
disagio sociale, spostato l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di
27
«povertà cronica» a quella di «processi d’impoverimento diffuso» in cui si è trovata
coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita
dignitosa e il sostentamento necessario. Ed ecco che quindi gli working poors, definiti
anche «poveri in giacca e cravatta», rappresentano una delle più drammatiche
conseguenze del momento buio che stiamo vivendo. Una zona grigia di nuove povertà,
forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui
rappresentano una condizione che ha radici, non nella mancanza del lavoro, ma nel lavoro
stesso che non è più in grado di garantire un reddito sufficiente per una vita senza stenti.
Se, un tempo, la presenza di anche solo un membro portatore di reddito in famiglia era
condizione sufficiente per non cadere in povertà, oggi, con le medesime condizioni, ci si
sposta rapidamente sotto la soglia. E questo vale per una famiglia su dieci che stenta ad
arrivare alla fine del mese. Il fenomeno non ha «professione»,ma ingloba quasi tutte le
categorie: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal
dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione. Ed ecco
che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti «penultimi». Una
grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che non riesce più a
puntare verso l’alto della piramide sociale, ma si sente risucchiata verso il basso e sfiora
pericolosamente la soglia di povertà fino a oltrepassarla. Un ceto medio che va
scomparendo, quindi, portando alla destabilizzazione degli stabili, con una regressione
nella scala sociale fino alla proletarizzazione, fino alla discesa nella sfera del bisogno e
nella perdita del benessere, mettendo a nudo, in modo impietoso, lo stato di degradante
malessere del Paese. È un’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati,
altri milioni che non riescono ugualmente a far fronte alle necessità quotidiane. Le bollette
della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un
incubo: oltre un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle. Mentre le
diseguaglianze (dati Ocse) sono aumentate molto più che in altre economie occidentali:
chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente
peggio.
Il crollo del ceto medio è il segnale di allarme rosso che suona da Nord a Sud. È la povertà
dei «non-poveri », chiamati anche «poveri grigi», in bilico tra normalità e miseria,
precipitati nel mondo del bisogno con percorsi di caduta diversi dal tradizionale accumulo
di eventi critici (disoccupazione, problemi di salute, separazioni), come cartelle esattoriali
impreviste e persino multe. E in quel corpo sociale che, per anni, ha rappresentato il
motore economico dell’Italia e il grande incubatore della fiducia nel futuro, oggi prevale
una sofferenza che non avevamo mai conosciuto, un’incertezza che li ha scoperti
impreparati ad affrontare i problemi che si sono trovati davanti, senza che qualcuno si
occupi veramente di loro.
del 09/06/14, pag. 15
Visite specialistiche ed esami, ticket più cari
del 25%
Le cifre — scomposte anno per anno — non sono nuove, ma il confronto su base
triennale, elaborato dalla Corte dei conti, quello sì, colpisce. Nel 2013 — evidenziano i
giudici contabili nei loro Rapporti della finanza pubblica — gli italiani hanno pagato più di
2,9 miliardi di ticket sanitari per farmaci, diagnostica, specialistica e pronto soccorso, cioè
il 25% in più, pari a circa 700 milioni di euro, rispetto al 2010, quando avevano speso 2,2
28
miliardi. Da qui la decisione del governo di rivedere assieme alle Regioni lo schema in
vigore per la compartecipazione della spesa sanitaria nel nuovo Patto per la Salute che
dovrebbe essere presentato a fine giugno.
Allo studio dei tavoli tecnici — ricorda l’Ansa approfondendo i dati della Corte dei conti —
ci sono novità su indicatori reddituali, tetti di spesa e criteri di esenzioni. L’obiettivo è
quello di ottenere un meccanismo con più equità e più attenzione ai nuclei familiari colpiti
dalla crisi.
Passando ad un altro settore colpito dalla crisi, in misura anche maggiore — mercato del
lavoro e previdenza — il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ieri ha ribadito che il governo
Renzi «non ha in previsione di cambiare l’età pensionabile, né innalzandola né
abbassandola. Tutto resta com’è». Bisogna ora lavorare — ha aggiunto Poletti
intervenendo a Napoli al convegno organizzato da Repubblica — «per trovare delle vie di
equità, partendo da quelle persone che sono fuori dal mercato del lavoro e con gli
ammortizzatori non arrivano alla pensione». Non c’è dunque solo l’emergenza giovani. Il
ministro pensa «a chi ha 60 anni e perde il lavoro a tre anni dalla pensione, con la
possibilità di usufruire solo di due anni di ammortizzatori e nessuna occasione di trovare
un’altra occupazione». A questi, che sono una sorta di «esodati» di fatto, «dobbiamo dare
una risposta».
Poletti ha quindi ricordato gli elementi della legge delega presentata in Parlamento che
«trasforma radicalmente tutti gli elementi del mercato del lavoro, degli ammortizzatori
sociali, della strumentazione per le politiche attive del lavoro». Insomma «altro che
antipasto, io dico che questo è il piatto» ha quindi affermato il ministro riferendosi al
presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che sabato aveva definito il provvedimento
del governo «un antipasto», a cui dovrebbe seguire una riforma più ampia.
Tornando a parlare della legge delega, Poletti ha infine indicato il timing dell’approvazione
parlamentare e quello dell’entrata in vigore delle misure previste: «Siamo convinti di
poterla realizzare in tempi rapidi: entro fine luglio il Senato concluderà i suoi lavori e quindi
a inizio settembre potremo andare alla Camera per chiedere e ottenere l’approvazione
definitiva della delega a cui seguiranno i decreti attuativi». Decreti che i tecnici del
ministero del Lavoro stanno già preparando.
R.R.
29
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 09/06/14, pag. 13
Le Grandi opere che l’Italia non sa più
costruire: 395 cantieri mai finiti
Dalla Salerno-Reggio al ponte sullo Stretto, tra tempi incerti e costi
altissimi. Nel calcolo delle opere pubbliche che non sono state
completate al primo posto c’è la Sicilia
Di Sergio Rizzo
Che le cose non funzionino affatto come dovrebbero, lo sappiamo da mezzo secolo. Basta
rileggere quello che disse in una intervista al Corriere negli anni Settanta Fedele Cova,
uno dei progettisti dell’Autostrada del Sole. «Il segno del cambiamento», ricordava, «si
ebbe nel 1964. Prima mi avevano lasciato tranquillo, forse perché non credevano nelle
autostrade, forse perché non si erano neppure accorti di quello che stava accadendo. Ma,
nel ‘64, con la fine dell’Autosole, cominciarono gli appetiti, le interferenze...».
Fu lì che si perse l’innocenza del dopoguerra. E che le opere pubbliche cominciarono a
diventare la greppia per politici e affaristi. Più che la loro utilità, interessavano i soldi che
potevano far girare. Oppure il ritorno in termini di consenso politico. Memorabile la vicenda
del tracciato dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori iniziarono nel 1963, che
con scarso rispetto della logica fu fatto inerpicare nel collegio elettorale del ministro dei
Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini.
Se si vuole trovare una spiegazione alla nostra cronica incapacità di costruire opere
pubbliche in tempi umani e a costi civili, non si può che partire da qui. L’Autostrada del
Sole venne realizzata in poco più di otto anni, al ritmo di 94 chilometri l’anno con un costo
medio, in euro attuali, di 4 milioni al chilometro. Per la Salerno-Reggio Calabria, poco più
che una semplice statale lunga 443 chilometri invece dei 794 dell’Autosole, di anni ne
servirono 11, e il costo a chilometro era già salito a 5,5 milioni. L’attuale rifacimento della
stessa autostrada, iniziato nel 1997, potrà forse dirsi completato in vent’anni, a un costo
chilometrico esattamente valutabile soltanto alla fine: ma certo non molto distante da un
quintuplo di quello di quando l’arteria fu costruita. Per non parlare della famosa variante di
valico, il nuovo tratto appenninico dell’Autosole, del quale si parla da vent’anni e non è
ancora percorribile. Passando dalle strade alle ferrovie, la musica non cambia. Un recente
studio di Intesa Sanpaolo ha appurato che il costo medio di un chilometro di alta velocità
made in Italy è triplo rispetto alla Spagna, alla Francia e al Giappone. Vari sono i motivi:
non ultimo le compensazioni che vengono imposte dai Comuni attraversati dai binari. Ma
oltre al costo economico c’è da mettere nel conto anche la perdita di tempo: per realizzare
l’alta velocità ferroviaria in Italia c’è voluto un ventennio. Fatto sta che nel 2012 avevamo
876 chilometri di linee veloci, contro 2.125 della Francia e 3.230 della Spagna: e pensare
che la prima tratta europea per i supertreni, la direttissima Roma-Firenze, era stata
costruita proprio in Italia, all’inizio degli anni Settanta. Tempi lungi, costi assurdi, procedure
complicatissime che sembrano ideate apposta per favorire i ritardi e le spese faraoniche,
ma anche la corruzione. E una profondissima ipocrisia: regole minuziose e controlli
accurati sulla carta, assenza di regole e assenza di controlli nella realtà. Come sta a
dimostrare proprio il caso del Mose. Dove per giunta gli incarichi di collaudo venivano
assegnati, oltre che a manager come il presidente dell’Anas Pietro Ciucci e ad altri suoi
30
colleghi esperti in strade, addirittura a persone prive di laurea come il geometra Gualtiero
Cesarali.
Non c’è opera pubblica la cui vicenda non sia scandita da varianti infinite, ricorsi al Tar e al
Consiglio di Stato, arbitrati nei quali lo Stato finisce inevitabilmente per soccombere.
Senza che le uniche due necessarie certezze siamo mai certe: il tempo e il prezzo. Il
risultato è che mentre continuiamo a divorare il nostro meraviglioso paesaggio con brutta e
inutile edilizia abitativa, non facciamo le opere pubbliche necessarie. E anche questo è un
costo. Enorme. Chi si è preso la briga di calcolare i costi del «non fare» ha stimato che la
mancata costruzione di ferrovie e autostrade che hanno fatto scivolare l’Italia in fondo alla
classifica dei Paesi europei per dotazione infrastrutturale ci abbia causato una perdita di
278 miliardi di euro. A cui va aggiunta, ovviamente, la fattura delle opere pubbliche mai
completate: record, anche questo, tutto italiano. Ne sono state censite 395, con una punta
di 150 nella sola Sicilia.
Numeri e circostanze che alla vigilia del 2015, e con gli scandali delle tangenti dell’Expo e
del Mose, ci mettono ancora di più di fronte a un interrogativo cruciale: l’Italia è in grado di
realizzare opere pubbliche importanti? È una domanda a cui dobbiamo dare una risposta,
se vogliamo considerarci a pieno titolo un Paese sviluppato che fa parte dell’Unione
Europea. Ma qui, purtroppo, gli esempi lasciano poche speranze. Il ponte sullo Stretto di
Messina, per esempio. Un’infrastruttura controversa, sulla quale le opinioni nel Paese
erano assolutamente discordi. Che però ha offerto al mondo uno spettacolo inverosimile.
Messa nel 2001 dal governo di Silvio Berlusconi in cima alla lista delle opere strategiche,
cancellata con un colpo di spugna nel 2006 dal governo di Romano Prodi, riesumata
nuovamente da Berlusconi nel 2008 e affossata dallo stesso governo del Cavaliere nel
2011. Per essere poi definitivamente sepolta con uno stratagemma ideato dall’abbinata fra
politica e burocrazia quando a Palazzo Chigi è arrivato Mario Monti. Il tutto dopo aver fatto
una gara internazionale e aver firmato otto anni fa un contratto miliardario con imprese
italiane e internazionali. Uno scherzetto già costato ai contribuenti 350 milioni fra progetto
e mantenimento in vita della società Stretto di Messina. E con le penali il conto potrebbe
arrivare anche a un miliardo: senza che ci resti un solo mattone.
31
INFORMAZIONE
del 09/06/14, pag. 1/15
Alla Rai quello che è della Rai
Roberto Zaccaria
La sottrazione alla Rai dei 150 milioni dei proventi del canone operata dal governo con il
decreto legge n.66 del 2014, ha aperto un dibattito enorme sulla stampa italiana intorno al
servizio pubblico, alla sua funzione e alla sua riforma. Un’ulteriore amplificazione di questo
dibattito è stata prodotta dall’annuncio di uno sciopero dei lavoratori per il giorno 13 giugno
ed ora revocato.
Dico subito che non mi sarei comunque misurato né sull’opportunità, né tanto meno sulla
legittimità di questo sciopero, perché mi pare che il tema dovesse essere comunque
circoscritto alle parti in causa. Sui 150 milioni e soprattutto sul modo in cui sono stati
prelevati (con effetto immediato e ad esercizio in corso) ho invece qualcosa da dire con
accenti simili a quelli usati dal direttore generale dell’Unione europea delle radiotelevisioni
pubbliche e indirizzati al Presidente Napolitano, proprio in questi giorni.
Sono convinto che incidere in questo modo, anche se per sacrosante ragioni di bilancio,
sulle risorse del servizio pubblico radiotelevisivo sia in contrasto con i nostri principi
costituzionali ed anche con quelli europei (art.10 Cedu e art.11 Carta di Nizza). Il principio
dell’indipendenza economica della RAI servizio pubblico radiotelevisivo costituisce uno dei
pilastri della configurazione dei servizi pubblici secondo le regole europee, a cominciare
dal Trattato di Amsterdam del 1997, e secondo i principi più volte ribaditi dalla nostra Corte
costituzionale, a partire dalla famosissima sentenza n.225 del 1974 per arrivare alla
sentenza n.284 del 2002, proprio in materia di canone. L’indipendenza economica
precede addirittura quella organizzativa ed anche quella dei contenuti. Inutile ricordare, in
passato, le energiche reazioni dopo gli attacchi di esponenti di governo alla libertà di
espressione. La situazione attuale non è meno grave. Il canone di abbonamento non
rappresenta un versamento dalle casse dello Stato, ma proviene direttamente dagli utenti.
Non costituisce quindi una somma della quale lo Stato può liberamente ed unilateralmente
disporre. Questo comportamento è foriero di nuova evasione.
Tutta la normativa in questa materia è stata impostata secondo un principio di rigorosa
concertazione, tanto è vero che alla fine degli anni 90, quando lo Stato eliminò il canone
autoradio, si preoccupò di indennizzare per alcuni esercizi il bilancio della Rai per una
somma corrispondente a circa 210 miliardi di lire all’anno. La stessa procedura di
«aumento» del canone prevista dall’art. 47 TU della radiotelevisione prevede, a monte di
quell’atto, una concertazione o quantomeno un confronto tra il Ministero e la RAI sulle
entrate necessarie per coprire i costi di esercizio. L’intera procedura deve comunque
concludersi prima dell’inizio del nuovo anno finanziario, in modo che sia consentito un
appropriato governo del bilancio. In tutta l’esperienza repubblicana ed anche in
circostanze economiche molto critiche per il paese non è dato ricordare un intervento di
questa natura. Altri strumenti d’intervento per lo Stato azionista della RAI sarebbero stati
possibili nel rispetto delle regole che valgono per qualsiasi soggetto economico operante
in regime di concorrenza. Non ricordo interventi analoghi neppure contro gli interessi
economici del gruppo Mediaset.
Quello che mi convince ancora meno è il ventilato scambio tra questo prelievo ed il
consenso ad alienare una parte di Ray Way, la società delle antenne, che a suo tempo il
Consiglio Rai stava per cedere ad una società americana nella misura del 49 per cento e
con un utile di 400 milioni di euro. Quell’operazione fu bloccata dal Ministro Gasparri 32
quello dell’improvvida legge che oggi governa la Rai -ma sarebbe comunque servita per
consentire all’azienda nuove opportunità strategiche e non per ripianare una falla di
bilancio. La vendita di quote azionarie determina un beneficio patrimoniale, mentre la
sottrazione del canone incide pesantemente sul conto economico. Lo stesso discorso
potrebbe farsi con riferimento alle sedi regionali, erette ora ingiustamente ad emblema di
tutti gli sprechi, dimenticando d’un colpo quanto possano essere importanti in una
rinnovata strategia aziendale. Cosa impedirebbe infatti di costruire intorno a queste sedi
dei centri di produzione polivalenti aperti a tutto il sistema pubblico e privato, magari con
una collaborazione organica delle Regioni, anche nella forma di società partecipate.
L’unico «scambio» con i 150 milioni sarebbe possibile con la dotazione dal parte del
governo di strumenti più appropriati per combattere l’evasione del canone, oggi stimata in
un importo pari almeno al doppio di quella cifra. Rinvio alle parole assai appropriate di
Vittorio Emiliani, su questo stesso giornale, solo per aggiungere che una riforma della Rai
potrebbe prendere lo spunto proprio da questo argomento. Nel tracciare le linee di questa
riforma è però importante «dare a Cesare quel che è di Cesare». Alcune cose le dovrà
fare la politica (il governo ma soprattutto il Parlamento) mentre altre le dovrà lasciar fare
all’azienda ed ai suoi vertici (questo vale in particolare per le nuove linee editoriali, sulle
quali molti politici si esercitano in questi giorni).
Al governo-Parlamento si chiedono alcune cose da fare rigorosamente con legge: mettere
in soffitta la pessima legge Gasparri, rinnovare la concessione, stabilire la missione,
definire la «governance» e garantire un finanziamento certo. Chi pensa di poter fare tutto
questo nel 2014 è ottimista, ma è bene crederci.
Lo snodo più delicato è quello della governance perché fino a questo momento nessun
modello ha saputo garantire l’indipendenza piena dalla politica. Io come molti sono colpito
dalla disaffezione dell’opinione pubblica verso la Rai che indubbiamente risente anche del
clima generale di disaffezione verso la politica. Proprio per questo mi domando perché
non si provi, nel delineare i nuovi organi di governo-Rai, a stabilire un connessione più
diretta con coloro che pagano il canone. Se coloro che devono pagare questa imposta
potranno dire qualcosa sulla scelta dei vertici aziendali e sui caratteri fondamentali della
produzione-programmazione, forse avremo fatto un grande passo in avanti sulla
ricostituzione di un rapporto di fiducia. Coraggio! Le proposte ci sono basta portarle avanti.
33
ECONOMIA E LAVORO
del 09/06/14, pag. 15
Imu, Tasi e Tari: istruzioni per l’uso Gli
inquilini pagheranno fino al 30%
La Tasi somiglia sempre di più a un vestito di Arlecchino. Mille colori, uno diverso per ogni
Comune. Tanta libertà di stile non sembra piacere nemmeno ai sarti, i municipi che
tagliano su misura aliquote e detrazioni. «Sì, la confusione c’è, inutile negarlo — constata
il sindaco di Ascoli, Guido Castelli, responsabile Finanza locale per l’Anci, l’associazione
dei Comuni italiani —. Tutto sommato aveva più senso l’impianto dell’Ici. In questi anni
non si è fatto altro che complicare le cose».
Adesso bisogna cominciare a pagare. La scadenza da segnare sul calendario è quella del
16 giugno. Un giorno da cerchiare di rosso sia per l’acconto Imu sia per l’acconto Tasi. Ma
già qui cominciano i distinguo. Perché solo 2.177 Comuni su circa 8.000 hanno deliberato
aliquote e detrazioni. Quindi a chi abita nei poco meno di 6.000 municipi senza delibera
non resta che aspettare. Un decreto approvato dal governo venerdì corso ha chiarito che
nei Comuni dove la delibera arriverà entro il 10 settembre la prima rata si pagherà entro il
16 ottobre. Mentre dove nemmeno questa scadenza sarà rispettata allora si pagherà tutto
in un’unica soluzione entro il 16 dicembre.
Fa discutere la quota di Tasi dovuta dagli inquilini. Nelle seconde case, infatti, una fetta del
tributo la deve pagare l’affittuario. Quanto? Una percentuale che oscilla tra il 10 e il 30%,
anche qui a seconda della decisione del Comune. Il decreto di venerdì scorso ha stabilito
che nei municipi che «dimenticano» di regolare questo aspetto o delibereranno in ritardo
l’inquilino pagherà il minimo, cioè il 10 per cento. Una misura che vede contrari i proprietari
degli immobili rappresentati da Confedilizia. «Ma non è solo questo — si inserisce Giorgio
Spaziani Testa, segretario generale dell’associazione —. Il punto è anche che le delibere
comunali dovrebbero legare gli importi della Tasi a un corrispettivo ben preciso. I
cosiddetti servizi indivisibili, quelli per il verde o l’illuminazione. Invece questo spesso non
avviene».
A proposito di Tasi anche i Caf, i Centri di assistenza fiscale, hanno di che lamentarsi.
«Quando si è capito che la scadenza del 16 giugno sarebbe rimasta siamo stati presi
d’assalto — racconta Vincenzo Vita, responsabile del Caf Cisl della Lombardia —. Ogni
Comune è un mondo a sé, si tratta di studiare migliaia di delibere». Ma il timore è
soprattutto un altro: l’ingorgo dei pagamenti. «Sulla Tari, la tassa sui rifiuti, la stragrande
maggioranza dei Comuni non ha ancora deliberato. Finirà che si dovrà pagare tutto, Tasi e
Tari oltre che la seconda rata Imu, tra ottobre e dicembre – teme Vita –. Un salasso per
famiglie già messe in difficoltà dalla crisi»,.
Per continuare con l’elenco delle criticità, qualche problema in più se lo trovano i Comuni,
come Bergamo, che hanno deliberato e poi hanno deciso di posticipare la prima rata Tasi
oltre la scadenza del 16 giugno. Sul piano giuridico questo slittamento non sarebbe
possibile. Anche Bologna ha fatto la stessa cosa, ma per evitare il problema della
legittimità o meno del rinvio, ha scelto di mantenere la scadenza del 16 giugno stabilendo
però che, se si paga entro il 31 luglio, non ci saranno sanzioni e non saranno dovuti
interessi.
Ultimo ma forse più importante: le prime case che pagano solo la Tasi avranno un onere
maggiore o minore rispetto a quando si pagava soltanto l’Imu? «24 miliardi era il gettito
34
dell’Imu come definita dal governo Monti, 24 miliardi è il gettito stimato di Tasi più Imu
quest’anno», fa notare Guido Castelli, responsabile fiscalità locale dell’Anci. Certo poi,
tenendo conto dell’infinita possibilità di articolazione delle detrazioni, la varietà delle Tasi
possibili, a saldo costante, è tale che potrebbe esserci qualcuno che alla fine pagherà di
più.
Il servizio politiche territoriali della Uil ha fatto una simulazione su 40 famiglie residenti in
10 città. Il risultato è che per 18 su 40 la Tasi è più alta di quanto pagato come Imu nel
2012. «Serve più chiarezza — è la reazione del segretario della Uil Guglielmo Loy —. Se
si vuole fare davvero una operazione di equità, allora ciascuno dovrebbe versare in base
al proprio Isee».
Rita Querzè
Del 09/06/2014, pag. 18
Fiscal compact più morbido e grandi opere
FEDERICO FUBINI
ROMA .La rete dei contatti fra governi in vista della presidenza italiana della Ue sta
entrando nella fase frenetica. Ma quando si tireranno le somme, nel 2015, il fattore
determinante magari non risulterà Matteo Renzi o la nomina del prossimo presidente della
Commissione. Piuttosto, sarà stata Marine Le Pen: è il successo dell’estrema destra
francese alle europee che sta inducendo in Europa, Berlino inclusa, riflessioni in parte
diverse da prima. L’agenda delle riforme per dare a ciascun Paese più capacità di
competere e conti pubblici meno malsani resta in piedi. Ciò che si è aggiunto è una presa
d’atto che, senza una spinta sugli investimenti e un attacco alla disoccupazione, la Francia
rischia di trovarsi ostaggio del fattore Le Pen alle presidenziali del 2017. E neanche la
Germania di fatto egemone di Angela Merkel può permettersi un’Unione europea senza
Francia, o con Parigi paralizzata dal Front National.
È questo lo sfondo che aiuta a dare un ritmo più operativo al giro delle capitali iniziato di
recente da Pier Carlo Padoan. Il ministro dell’Economia è stato giovedì a Berlino dal suo
pari grado Wolfgang Schaeuble, e prima ancora a Madrid, Parigi, Londra e l’Aia. In
parallelo Sandro Gozi, sottosegretario alla Politiche europee, vede gli sherpa di Merkel e
di quasi tutti gli altri governi. Non è detto che i risultati arriveranno.
Non sarebbe la prima volta in Europa che grandi tournée diplomatiche in vista di un rito in
agenda finiscono per incidere poco sulla realtà. Di nuovo, c’è però proprio lo choc che i
risultati in Francia hanno trasmesso ai leader dell’area euro.
È anche a partire da lì che Padoan, con l’appoggio di Gozi, cerca di costruire un doppio
binario su cui spingere il sistema verso scelte che portino un po’ più di crescita in tempi
rapidi. Né a Berlino né altrove il ministro ha proposto di sospendere o allentare le regole di
bilancio del Fiscal Compact: sa che non sarebbe accettato, né probabilmente ci crede lui
stesso. L’idea di Padoan è però di vincolare in modo stringente gli impegni di bilancio presi
a Bruxelles con un’agenda di riforme nazionali, anch’essa concordata nei dettagli a
Bruxelles. Il nostro Paese potrebbe ottenere più tempo per ridurre il debito pubblico e altre
capitali europea potrebbero averlo per il deficit. In contropartita, ogni governo deve
impegnarsi su un programma preciso di interventi e l’agenda di questo programma non
verrebbe lasciata al caso: essa andrebbe scritta e messa in pratica in base alle
raccomandazioni della Commissione e del Consiglio Ecofin (ministri finanziari) per ciascun
Paese. Per l’Italia significa approvare le riforme del lavoro, della giustizia, l’apertura dei
mercati dei servizi o i tagli di spesa di cui ha parlato la Commissione europea la scorsa
35
settimana: in altri termini, fare ciò che finora non è riuscito a nessun governo. L’attuazione
verrebbe verificata e monitorata di continuo anche da Bruxelles, ma se passa l’esame, il
governo avrebbe più tempo per far calare il debito. E poiché il Fiscal Compact prevede di
ridurlo del 3% del Pil ogni anno dal 2016, con dosi crescenti di austerità, l’offerta non è
priva di interesse. C’è poi il secondo binario, accanto a quello del patto fra tolleranza sui
conti e riforme. Padoan pensa a come lanciare nuovi progetti di investimenti
in grandi opere europee, soprattutto nelle reti di trasporti ed energia. Quel tipo di interventi
potrebbe assorbire molta disoccupazione ma, visto lo stato della finanza pubblica, va fatto
senza pesare troppo sui governi. La Banca europea degli investimenti (Bei) può svolgere
un ruolo, ma è difficile che acceleri i prestiti ora che è nel pieno dell’aumento di capitale da
10 miliardi deciso due anni fa. Un’ipotesi in circolazione è che non si conti nel deficit ai fini
del Fiscal Compact la spesa nazionale in progetti cofinanziati (o certificati) dalla
Bei. Una seconda ipotesi, più accettabile per i tedeschi, è che i fondi europei vengano
usati in modo coordinato in Europa per co-finanziare opere di trasporto o di reti
dell’energia. Accanto a quelli si spera di attrarre finanziatori privati, con emissioni di titoli
per lanciare progetti specifici. Ora che i tassi d’interesse sono ancora molto bassi, può
funzionare. A Berlino non ci sono chiusure all’idea di favorire grandi investimenti per
l’occupazione, ma molti paletti restano. Sulla base dell’esperienza, la Germania diffida di
come vengono spesi i fondi europei in Italia e altri Paesi: ora Berlino vorrebbe che la
Commissione avesse più potere di dire alle capitali in quali progetti investirli, e come. Tra
pochi giorni arriveranno dal governo di Angela Merkel controproposte all’iniziativa
dell’Italia. Il cantiere della presidenza italiana è aperto, e il settore più avanzato riguarda
proprio lo scambio fra riforme per diventare competitivi e più flessibilità sui conti. Padoan ci
sta lavorando molto, perché sospetta che un’altra occasione per muovere questo passo
non si ripresenterà presto. Tra poco tocca a Renzi. E solo allora si vedrà se il premier
vede nel suo ministro dell’Economia un protagonista di governo, o solo l’ambasciatore
delle priorità ed emergenze di Palazzo Chigi.
del 09/06/14, pag. 14
Cassa in deroga e Mobilità
138mila aspettano ancora
In Italia ci sono oltre 138mila lavoratori che attendono ancora di percepire ammortizzatori
sociali del 2013: in media assegni per oltre due mesi.Eper fortuna il ministro del Lavoro
Giuliano Poletti ha appena sbloccato 400 milioni per saldarne almeno una parte. Il quadro
che viene fuori dalla situazione di erogazione di Cassa integrazione e Mobilità in deroga è
sconfortante. Le 19 Regioni e le due Province autonome che hanno il potere di concederla
operano in modo totalmente diverso: una giungla di normative e di procedure a partire dai
criteri di richiesta per passare alla durata dei trattamenti e alle modalità di autorizzazione
ai pagamenti. Per ottenere i dati che trovate in tabella abbiamo impiegato più di due
settimane e renderli omogenei è stato alquanto difficile. Leggendoli salta agli occhi una
situazione sociale drammatica: se solo alcuni dei 138mila lavoratori sono ancora senza
lavoro, stiamo parlando spesso di famiglie monoreddito che sui 600-700 euro della
mobilità o i mille scarsi della media della Cig in deroga fondano gran parte della loro
sopravvivenza.
E se al Nord il dramma viene soprattutto dalle crisi delle piccole aziende - sotto i 15
dipendenti che non hanno la “cassa” ordinaria - lombarde (il picco di cassa in deroga) e
36
venete (il picco di mobilità), al Sud il disagio sociale si unisce spesso a pratiche clientelari
con concessioni allegre al limite delle regole, come denunciato anche dagli stessi sindacati
- la Cisl in testa. Una situazione che rende ancor più urgente una regolamentazione unica
e nazionale dell’intero strumento degli ammortizzatori sociali, chiesta di fatti a gran voce
da tutti i soggetti coinvolti: Regioni, sindacati, governo, Inps. Perché se è vero che fino al
2012 i fondi utilizzati per pagare gli ammortizzatori in deroga erano almeno per un terzo
regionali - i famosi Fondi sociali europei - «da due anni le Regioni hanno solo risorse
figurative, sono semplicemente un ufficio decentrato dello Stato con funzione
amministrativa: tutte le responsabilità e i problemi li gestiamo noi, ma i soldi poi li eroga il
governo centrale tramite l’Inps», spiega Gianfranco Simoncini, assessore toscano e
coordinatore degli assessori regionali in materia di lavoro. È stato lui - assieme a Cgil, Cisl
e Uil che hanno tenuto mobilitazioni e presidi nelle varie Regioni lungo tutti questi mesi - a
combattere con i vari governi in questi due anni per riuscire a coprire almeno gli arretrati.
«Con i 400 milioni sbloccati dal ministro Poletti noi come Regione Toscana contiamo di
chiudere le pratiche 2013 entro giugno e speriamo che l’Inps, che ha già iniziato a pagare
alcuni arretrati, possa chiudere tutti i pagamenti entro luglio, mettendo così fine ad una
vera vergogna sociale», spiega Simoncini.
Ma nonostante il Jobs act - il disegno di legge delega ora in discussione in Parlamento abbia messo tra le priorità la riforma degli ammortizzatori in deroga, la situazione si
preannuncia ancora più drammatica per l’anno in corso. E la tabella lo dimostra in modo
inconfutabile. Per chiudere le pendenze del solo 2013 le Regioni stimano che siano
necessari ben 566 milioni. Ma per farlo gran parte di queste hanno già utilizzato 289
milioni della prima tranche del 2014 - da 400 milioni - stanziata il 22 gennaio.
SICILIA E CALABRIA USANO I PAC
Per non parlare del fatto che alcune Regioni del Sud - su tutte la Sicilia con 108 milioni e
Calabria con 26,7 milioni - per pagare gli ammortizzatori in deroga hanno fatto ampio uso
dei fondi europei per i Piani di azione e coesione (i cosiddetti Pac) che in teoria niente
avrebbero a che fare con cassa integrazione e mobilità, mentre la Sardegna ha deciso di
stanziare 52 milioni dei fondi del suo bilancio. Ecco dunque che per l’anno in corso le
difficoltà sono già sicure. I fondi previsti in legge di stabilità sono solo 1,6 miliardi (di cui
dunque 800 milioni già stanziati) e il ministro Poletti ha già stimato in 1 miliardo i soldi
mancanti per assicurare a tutti i lavoratori coinvolti gli ammortizzatori per il 2014.Meno
ottimista Simoncini: «per me servono almeno 400 milioni in più, anche perché per il 2013
arriveremo a spendere fra i 2,6 e i 2,8 miliardi».
Le stime sono comunque difficili da fare per un motivo molto semplice: a giorni lo stesso
ministero del Lavoro deve pubblicare il nuovo decreto interministeriale con i nuovi criteri di
erogazione degli ammortizzatori in deroga. Criteri unici per tutta Italia e più stringenti riduzione dei periodi di cassa e mobilità, esclusione di alcune motivazioni, aziende e
categorie di lavoratori che possono fare domanda - che quindi dovrebbero ridurre i fondi
necessari. La prima versione del decreto messo a punto dall’allora sottosegretario al
Lavoro del governo Letta, Carlo Dell’Aringa, è stata modificata anche dopo le richieste
delle stesse Regioni e i pareri negativi delle commissioni parlamentari. Fugato il dubbio
che il decreto sia retroattivo - «due settimane fa il ministro Poletti su questo ci ha
tranquillizzato: il decreto non lo sarà e accoglierà alcune nostre richieste come l’inclusione
dei lavoratori in somministrazione», spiega Simoncini - vi è dunque la certezza che il
decreto opererà solo dal primo luglio. E dunque per i primi sei mesi dell’anno le normative
saranno ancora le vecchie, con la giungla regionale a continuare a dettare legge.
IL FLOP DELLA FORNERO
Il problema deriva dall’occasione fallita da Elsa Fornero: la riforma del lavoro che porta il
suo nome ha mancato clamorosamente la possibilità di sostituire la Cassa integrazione in
37
deroga con uno strumento che - come la cassa ordinaria e straordinaria - sia pagata con i
fondi di lavoratori ed imprese. Il problema di fondo dell’ammortizzatore creato - su richiesta
dei sindacati - da Giulio Tremonti è sempre lo stesso: diversamente dalla Cassa
integrazione ordinaria e straordinaria, quella in Deroga è a carico della fiscalità generale e
ogni anno va rifinanziata. E con le carenze di bilancio pubblico, da una parte, e con il
boom della crisi specie in alcune zone del Paese (Veneto a Nord e quasi tutto il Sud) il
problema di come finanziarlo è stato sempre più un rompicapo per i vari governi
succedutisi dal 2009 ad oggi. Ma per sostituire la Cassa in deroga Elsa Fornero ha
puntato sui fondi di solidarietà. Che sono miseramente falliti. Prevedendo poi vere e
proprie storture: chi oggi ha diritto a 12 mesi di cassa in deroga passerà a sole 13
settimane. E non allargando le tutele a nessuna delle tante categorie ora escluse:
lavoratori in aziende sotto i 15 dipendenti, precari, co.co.pro, partite Iva. Ecco quindi la
necessità di modificare la riforma Fornero - che prevede la cancellazione della cassa in
deroga dal 2016 e la progressiva sostituzione della mobilità con l’Aspi - e di accelerare un
ridisegno complessivo degli ammortizzatori sociali. «Noi come Regioni da anni chiediamo
il superamento degli ammortizzatori in deroga, anche perché o si cambia o saremo
costretti a portare i nostri scatoloni di richieste arretrate a Roma. Con il governo Renzi e
con il ministro Poletti per la prima volta abbiamo visto un’accelerazione sotto questo punto
di vista - sottolinea Simoncini - . Nel disegno di legge delega, il cosiddetto Jobs act, al
primo punto si parla di riforma degli ammortizzatori sociali e si prevede di farlo con due
strumenti ben precisi: da una parte uno strumento universalistico per i lavoratori delle
aziende in crisi, superando la distinzione tra aziende sopra e sotto i 15 dipendenti;
dall’altra un altro strumento ugualmente universalistico per chi ha perso il lavoro,
allargandolo ai precari oggi esclusi. Se il governo manterrà questo impianto, noi siamo
assolutamente soddisfatti e appoggeremo la riforma », chiude Simoncini. «Al sesto anno
della cassa in deroga siamo davanti ad un sistema ormai patologico - spiega Guglielmo
Loy, segretario confederale della Uil - . Come sindacati chiediamo però che l’uscita dalla
deroga sia socialmente sostenibile. I nuovi criteri non potranno essere soluzioni tipo lo
scalone Maroni o l’innalzamento a 67 anni della Fornero. Serve un periodo di
armonizzazione che, sebbene cancelli le storture che ci sono state, non metta famiglie e
lavoratori in mezzo ad una strada».
38