UN POETA NELLA TERRA DI DIO: LA PALESTINA DI MONTALE 1. POESIA E GIORNALISMO, OVVERO: LA RIPRODUZIONE E L’AMORE Eugenio 0RQWDOHVLVRWWUDHYDDGRJQLIRUPDGLLGHQWLÀFD]LRQHWRWDOH con un ruolo, per temperamento più che per snobismo. Per questo, né il primo dei suoi mestieri – quello di poeta –, né tanto meno l’ormai famoso «secondo mestiere» di giornalista potevano essere assunti da lui come maschere coincidenti senza residui con il volto dell’acteur. Si trattava di una ritrosia costitutiva a lasciarsi ingabbiare LQXQDGHÀQL]LRQHRLQXQDSDUWHXQDUHVLVWHQ]DRVWLQDWDLOFXLFRUULVSHWWLYRHUDQHOUDFFRQWRDXWRELRJUDÀFRORVFKL]]RGLXQULWUDWWR di sé molto prossimo a quello di un indeciso costretto a scegliere, o meglio ‘scelto’ dalla vita stessa, che lo aveva condotto, quasi «suo malgrado»,1 a intraprendere prima la via della poesia e poi quella della scrittura giornalistica. Sempre incapace di dichiararsi «sicuro di essere un poeta»,2 Montale non fece d’altronde mai mistero delle necessità economiche che lo avevano spinto ad entrare nel mondo della carta stampata,3 e non a caso si divertiva a indicare paradossalmente nella pittura – unica arte abbracciata per puro diletto personale – quella che «un giorno» sarebbe stata «la sola mia posizione 1 I “Meridiani” da cui sono tratte le citazioni montaliane (E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984;; ID., Prose e racconti, a cura di L. Privitera, Milano, Mondadori, 1985;; ID., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, 2 voll., a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996;; ID., Il secondo mestiere. Arte, musica e società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996) saranno contraddiVWLQWLGDVLJOHOXQJRWXWWRLOFRUVRGHOODYRURDFXLVDUjDIÀDQFDWDVRORO·LQGLFD]LRQH dei titoli dei testi citati e delle pagine relative: Tutte le poesie: TP;; Prose e racconti: PR;; Il secondo mestiere. Arte, musica, società: AMS;; Il secondo mestiere. Prose I: PS 1;; Il secondo mestiere. Prose II: PS 2. Cfr. Ho scritto un solo libro, AMS, p. 1723. 2 Intervista immaginaria, AMS, p. 1476. 3 Si pensi, ad esempio, alle considerazioni espresse in Auto da fé (Il secondo mestiere, AMS, p. 128).. 329 avanzata».4 Si difendeva insomma, anzitutto dai suoi intervistatori, reali o immaginari che fossero, per sfuggire all’etichetta, per non allinearsi, per non essere catalogato. Ma non solo. C’era, dietro questa posizione, profondamente, la volontà di mantenere di fronte al proprio lavoro una sorta di riserva esistenziale, ovvero il desiderio di ravvivare dentro di sé la memoria della condizione umana, di quell’essere uomini, semplicemente, che precede ogni mestiere e lo salva da una terribile perdita di senso e di realtà: «La poesia, del resto, è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che un poeta stia più in alto di un altr’uomo che veramente esista, che sia qualcuno».5 La scrittura è una delle forme autentiche dell’esistere, un modo di ‘esserci’ nutrito di consapevolezza e insieme di umiltà. Montale sentì come profondamente connaturato al proprio temperamento il dimorare in quella distanza che preserva l’essere uomini rispetto ad ogni fare, ad ogni progettare, il permanere in quel senso inquietante ma salutare di ciò che siamo veramente, in ultimo, al di là di tutto. Era, in fondo, una specie di pregiudiziale ‘escatologica’, che gli scavava attorno uno spazio di libertà, ma che non gli impediva una assoluta serietà di fronte ai propri impegni, una dedizione senza risparmio ai suoi «mestieri». Certo, pur nel quadro di un medesimo distanziamento dal ruolo, la differenza tra la poesia e il giornalismo era per Montale molto chiara. (VVHUH¶VFHOWL·SHUODSRHVLDVLJQLÀFDYDLQFRQFUHWRXQDGLsposizione interiore a non cercarla, a non impadronirsene, coltivando al contrario l’attesa paziente del momento – imperscrutabile, imprevedibile – della ‘visita’ («Ma io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato. Scrivo poco, con pochi ritocchi, quando mi pare di non poterne fare a meno»,6 dirà nell’Intervista immaginaria). La ‘costrizione’ al giornalismo era stata invece per lui (e per molti come lui) di ben altra natura, ed esigeva dunque, nel quotidiano, un ritmo di attività e di scrittura molto sostenuto, un darsi da fare stretto da scadenze improrogabili e da appuntamenti ravvicinati. II giornalista, si sa, non può ‘aspettare’ la scrittura, ma – totalmente preso dal demone moderno della praxis – deve trovarla ovunque, 4 Montale svagato, AMS, p. 1653. Intervista immaginaria, AMS, p. 1476. 6 Ivi, p. 1483. 5 330 perché lo spazio bianco deve essere riempito, al limite non importa come. Solo la pagina piena infatti ottiene una ricompensa, diventa merce collocabile sul mercato. Montale aveva piena coscienza di tutto questo, e non a caso, in Botta e risposta II, descrisse il proprio mestiere di giornalista, spesso in viaggio per interviste e ritratti, in termini estremamente crudi: «Vivevo allora in cerca di fandonie / da vendere».7 Parole lancinanti, lapidarie. Eppure, la consapevolezza della modalità consueta del proprio secondo mestiere non gli impediva di intravedere una possibilità di contatto tra la poesia e il giornalismo. In una intervista del 1955, a Enrico Roda che gli chiedeva quale rapporto esistesse per lui tra letteratura e giornalismo, Montale rispose: «Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta all’amore. In qualche caso i due fatti possono coincidere».8 Come a dire che la poesia e il giornalismo vivono in spazi contigui, ma separati. La poesia è la scrittura che si realizza nel segno della comunione, dell’affetto libero e senza riserve, della bellezza colta nell’apparire dell’altro, che conquista e conduce all’incontro;; il giornalismo è il ULVYROWRPHFFDQLFRODFRQWURÀJXUDSXUDPHQWHIXQ]LRQDOHGHOODSDrola poetica. Se la riproduzione è quel che nell’amore accade a livello biologico, ma che può prescindere dall’intesa e dalla comunione, così nel giornalismo la scrittura si dà ugualmente, giunge al segno, ma solo grazie ad un apparato geneticamente predisposto, senza il sostegno di quella relazione nutriente e coinvolgente che contestuaOL]]D LO JHVWR OR ULHPSLH GL VLJQLÀFDWR ROWUHSDVVDQGR LO SXUR GDUVL dell’atto. Come le generazioni possono riprodursi senza amore, così è possibile scrivere per necessità e per abitudine, esercitando capacità consolidate ma prive di eros. C’è «qualche caso», però, in cui le due scritture «possono coincidere», le due parole possono riunirsi. O perché lo scavo quotidiano nella realtà, e anche nella banalità del mondo, può fare della parola giornalistica il lievito della poesia (e tanti testi del secondo Montale sono lì a dimostrarlo), o perché DFFDGHFKHO·HVHUFL]LRPHFFDQLFRGHOODVFULWWXUDYHQJDLQWHQVLÀFDWR dalla corrente della SRLēVLV, LQ TXDQWR O·HYHQWR FROORFDWR QHO ÁXVVR quotidiano tocca inaspettatamente zone sensibili del mondo interiore di chi scrive e gli ridona unità, concentrando in un punto vitale i 7 8 Botta e risposta II, in Satura, TP, p. 355. Quarantuno domande a Eugenio Montale, AMS, p. 1597. 331 GLYHUVLVSD]LGHOODSDURODHYLYLÀFDQGRFRVuODFURQDFDRLOFRPPHQWR con l’aria inafferrabile ma certa della poesia. Casi rari, sembra dire Montale, ma possibili. Ebbene, mi pare che fra questi kairoi siano certamente da annoverare i viaggi mediorientali dell’inviato speciale del «Corriere della Sera» Eugenio Montale. Il poeta genovese si recò infatti due volte in Medioriente: la prima nel 1948, in Siria e in Libano, per la terza conferenza dell’Unesco;; la seconda nel 1964, in Israele e in Giordania, al seguito di 3DROR 9, SHOOHJULQR QHOOD ©7HUUD GL 'LRª FRPH YHQLYD GHÀQLWD OD Palestina sul «Corriere» del 6 gennaio del 1964, dove apparve originariamente il pezzo montaliano Da Gerusalemme divisa.9 Su questo secondo viaggio concentreremo ora la nostra attenzione, ma svolgendo considerazioni estensibili anche al primo. In entrambi i casi, infatti, Montale scrive da giornalista, ma nello sfondo appare chiaUDPHQWHFRPHOHVXHSDUROHVLDQRDWWUDYHUVDWHGDXQDIÁDWRFKHQH dilata il senso e la portata, come se le questioni, le immagini, i temi relativi a questi viaggi avessero per l’inviato una forza tale da oltrepassare la contingenza, per situarsi su un piano diverso, più alto e implicante. A testimoniarlo sono certamente i numerosi testi poetici nati dai soggiorni mediorientali, ma soprattutto i ritorni costanti di quelle sensazioni di viaggio lungo tutto il corpus montaliano. D’altra parte, non è senza motivo il fatto che proprio nella chiusa del primo pezzo del 1964 Montale si abbandoni ad una sorta di confessio cordis per lui assolutamente inusuale: «terre che si possono amare o detestare, prendere o lasciare, ma che in nessun caso possono lasciarci indifferenti. E per conto mio anche stavolta, vincendo la ripugnanza del grasso di montone e delle sugne di olio di sesamo, posso dire che non mi pento di aver deciso senza esitazione di prenderle e di conservarle gelosamente tra i miei ricordi più cari».10 6HQ]DÀOWUL0RQWDOH elegge qui le terre del Medioriente al rango di nuclei essenziali della sua memoria, e dunque della sua poesia. Non si creda però che i servizi montaliani dalle terre orientali siano tutti su questo registro di scrittura. Quello di Fuori di casa resta, anche qui, un Montale stilisticamente controllatissimo, sobrio, secco, determinato verso l’uso costante delle tonalità ‘in minore’. Ciò non vuol dire che questi testi 9 Ora in Fuori di casa, PR, pp. 503-8. Ivi, p. 508. 10 332 non siano intessuti della sapienza del grande letterato, che sa giocare UDIÀQDWDPHQWHODSDUROD¶TXRWLGLDQD·JLRVWUDQGRODVLQRDOUHIHUWRSHU poi improvvisamente ravvivarla con poche, ma incisive illuminazioni. Si tratta di metafore fulminee (i «laocoonti arborei» di Getsemani), di similitudini penetranti («i quartieri dei rifugiati» ad Amman «formano una sorta di lebbrosario edilizio»), ma soprattutto di lievi riferimenti letterari (il pascaliano «naso di Cleopatra» accostato alla «medaglia di Ussèin» nella chiusa di Noterelle di uno dei Mille)11 o anche di sguardi divergenti, note apparentemente incongruenti che proiettano una luce straniante sulla scena del testo (si pensi al paesaggio della sua Via Crucis: «Era una sera di luna, non si vedeva anima viva. In un seminterrato un uomo impastava coi piedi nudi una melma di olio di sesamo e il tanfo dilagava intorno»).12 Quel che però ci preme soprattutto rilevare è la densità semantica dei resoconti di viaggio da Israele e Giordania e il rilievo che nell’opera montaliana hanno i temi lì affrontati, proprio perché queste terre hanno trovato un posto stabile tra i «lacerti» della memoria del poeta. Per andare più a fondo in questa direzione, è probabilmente il caso di leggere gli articoli inviati dal Medioriente nel gennaio del 1964 secondo tre differenti livelli ermeneutici. A un primo livello, il più immediato, si colloca ovviamente il resoconto del viaggio di Paolo VI: il suo itinerario, i suoi gesti, i suoi discorsi. Su un secondo piano di lettura bisogna considerare i passaggi montaliani riguardanWLLOFRQWHVWRVWRULFRJHRJUDÀFRGHOYLDJJLROD3DOHVWLQDFRPHRJJHWWRGHOFRQÁLWWRDUDERLVUDHOLDQRHODFXOWXUDRULHQWDOHYLVWDDQ]LWXWWR nel suo rapporto con lo sviluppo industriale e tecnologico dell’Occidente. C’è poi un terzo livello ermeneutico, che è certamente il più profondo e interessante. Si tratta della dimensione esistenziale del ‘pellegrinaggio’ PRQWDOLDQRHGHOOHVXHGRPDQGHHULÁHVVLRQLLQWLPH VXOOHUHOLJLRQLPRQRWHLVWHVXOODIHGHVXOODÀJXUDGL&ULVWRËHYLGHQte infatti che qui si situa il vero cuore del viaggio e dei testi ad esso collegati, come Montale stesso ebbe a riconoscere molti anni dopo, 11 Si tratta del secondo pezzo palestinese, Noterelle di uno dei Mille, ora raccolto in PR, pp. 509-13. 12 Per un’analisi dello stile del Montale «inviato speciale» si vedano le osservazioni di P. V. MENGALDO, Montale «fuori di casa», in ID., La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 339-56. Il saggio era già uscito nel 1970 in «Strumenti critici». 333 in un articolo sulla morte di Paolo VI su cui torneremo a momenti: «Allora mi interessavano più i luoghi che visitavo. Misuravo me stesso con i luoghi che sono stati la culla del monoteismo. E dal senso dell’eternità che essi trasmettevano, io stesso ero contagiato».13 Mentre segue il papa pellegrinante, Eugenio Montale non resiste al fascino di un mondo che pare incredibilmente trasportarlo in quelO·©ROWUHWHPSRªGDOXLSUHÀJXUDWR6RSUDWWXWWRSHUzLOYLDJJLRLQ3Dlestina diventa per il poeta un’occasione, una sua «occasione», per misurarsi in maniera serrata e diretta con i grandi problemi posti dalla fede nel Dio di Israele, dalla quale ebrei, cristiani e musulmani sono da sempre accomunati. 2. FENOMENOLOGIA DEL VIAGGIO PAPALE E DINTORNI Il 6 agosto del 1978 muore Giovanni Battista Montini, salito al soglio SRQWLÀFLRQHOFROQRPHGLPaolo VI. Il suo era stato un papato GLIÀFLOHWUDYDJOLDWR$YHYDULFHYXWRGDOOHPDQLGLGiovanni XXIII la pesante eredità di un Concilio dalle proporzioni e dalle prospettive assolutamente inusitate, volto ad un profondo cambiamento della chiesa, sia al suo interno che nell’atteggiamento verso il mondo contemporaneo. Montini era riuscito a portarlo a termine, attenuando la carica innovativa dell’evento (i suoi interventi, ad esempio, avevano ristretto di molto la libertà concessa all’assemblea conciliare da Giovanni XXIII nella prima sessione dei lavori),14 ma anche mediando fra le forti spinte contrapposte chiaramente emergenti nel dibattito GHOO·DXOD1RQDFDVRG·DOWURQGHQHOSRQWLÀFDWRGLPaolo VI c’erano stati gesti e parole di diversa natura: momenti di slancio, di grande apertura si erano alternati con scelte, pur angosciose a volte, di ritrosia e di chiusura nei confronti di una vita sociale e culturale sempre 13 Ha creato molti dubbi, e lo sapeva, PS 2, p. 3062. A questo proposito cfr. G. ALBERIGO, «Imparare da sé». L’esperienza conciliare, in Storia del Concilio Vaticano II. La formazione della coscienza conciliare, ottobre 1962-settembre 1963, dir. da G. Alberigo, vol. II, Leuven-Bologna, Peeters-Il Mulino, 1996, pp. 613-34. 14 334 più secolarizzata.15 Il viaggio in Palestina era stato certamente uno GHLSDVVLSLSURIHWLFLGHOSRQWLÀFDWRmontiniano. Da allora, il Montale giornalista non si era più occupato del papa, se non di sfuggita. Quando Paolo VI muore, però, il poeta rimane profondamente toccato e scrive alcune note, pubblicate sul «Corriere» dell’8 agosto 1978: «Ho scoperto a fondo Paolo VI l’altra sera quando davanti al televisore ho appreso della sua morte. Mi sono sentito commosso come lo sono ora nel rivivere quel momento: una profonda commozione, come un dolore mio. Perché questo sentimento? Perché è morto un uomo che soffriva, soffriva intensamente, e che si è portato dietro forse più che un mistero di angoscia».16 È proprio in relazione all’intensità sentimentale del momento che Montale misura, quella sera, il disinteresse per il papa che aveva contraddistinto la sua esperienza di inviato in Medioriente: «Alla commozione e alla pietà, vorrei aggiungere il rammarico di non aver fatto molto di più per avvicinarlo quando ne ho avuto l’occasione, cioè durante quel lontano viaggio in Palestina. Lo vidi pochissimo, sempre da lontano, non gli parlai mai. Vivevo quell’esperienza come la vivevano i capi delle tante sette cristiane o paracristiane che popolano l’Oriente, abituati a veder arrivare i profeti dal punto cardinale opposto da cui arrivava questo esile, bianco prete romano, semplice, quasi spaurito. [...] Mi sono distratto molto in quel viaggio dall’uomo che è morto l’altra sera».17 15 In particolare, Montale restò negativamente colpito dalla scelta del referendum sul divorzio, su cui si espresse nelle Variazioni: «Il fatto più importante del ’74, qui in Italia, è stato il censimento dei cattolici [...]. Nella mia ingenuità non vedo perché mai S.S. Paolo VI non abbia chiesto al prof. Lombardi di desistere dalla sua stolta iniziativa. L’idea stessa di porre a referendum l’anima dell’uomo (che di questo si trattava) non poteva che ripugnare ad ogni singolo credente. E di fatto questo avvenne. Naturalmente le acque si confusero ed è alquanto semSOLFLVWLFRSDUODUHGLFHQVLPHQWR0DLOVLJQLÀFDWRqVWDWRanche questo. Peccato che Paolo VI abbia perduto l’occasione. Avrebbe potuto portarsi al livello dell’ultimo grande papa: Benedetto XV» (PR, p. 1158. Il corsivo è di Montale). 16 Ha creato molti dubbi, e lo sapeva, cit., p. 3060. 17 Ivi, p. 3061. D’altra parte, come era nel suo temperamento, Montale si guarGzEHQHGDOSUHQGHUHWURSSRVXOVHULRO·LPSHJQRÀVLFRHQHUYRVRFKHHUDULFKLHVWR ai giornalisti al seguito del papa in Palestina (esibizione di tessere, salvacondotti, sveglie in piena notte), e ne offrì anzi un ritratto alquanto umoristico in Noterelle di uno dei Mille, pur con un’immancabile dose di autoironia. 335 A quasi quindici anni di distanza, Montale conferma la propria scarsa attenzione di allora per il viaggio del papa e per lo stesso Montini. I pezzi inviati al «Corriere» in quei primi giorni del 1964 toccano in maniera molto esterna i temi del pellegrinaggio paolino, ricostruendone l’itinerario solo in funzione dei reali interessi dell’inviato (Cana, Ramla o il colle delle Beatitudini vengono ad esempio appena nominati, mentre Getsemani e la Via Dolorosa occupano XQSRVWRDVVROXWDPHQWHFHQWUDOHQHOOHULÁHVVLRQLmontaliane), e accennando di passaggio alle date e agli appuntamenti fondamentali dell’itinerario di Paolo VI (solo «la prima messa di un Papa in Terrasanta» viene esplicitamente citata da Montale con l’indicazione della relativa data: lo «storico 4 gennaio 1964»). Per il resto, l’evento del viaggio papale in Palestina rimane chiaramente sullo sfondo. Al limite, Montale si preoccupa della ‘ricezione’ della visita del papa, del modo in cui uomini di culture e religioni ‘altre’ hanno accolto Paolo 9,©&KHFRVDSHQVDQRJOL$UDELGHOQRVWURFRUDJJLRVR3RQWHÀFH" Lo abbiamo chiesto ad un arabo ed egli ci ha interrogato a sua volta: sa camminare sull’acqua il Papa? E alla nostra risposta se ne è andato deluso. Ciò non toglie che in questo paese l’interesse per l’inopinato gesto di Paolo VI sia stato altissimo».18 «In Israele non so che effetto abbia fatto: buono senz’altro ai politici, ai capi;; meno buono alle soldatesse di vent’anni. Ma era inevitabile. Troppe piaghe sono ancora aperte in queste terre e ai giovani non si può chiedere imparzialità e senso di giustizia. E alle donne poi!».19 Per quel che riguarda la memoria profonda dell’evento, le poesie di Satura e di Altri versi ci restituiscono alcuni ÁDVKHVdel viaggio, sotto forma, al solito, di avvenimenti o discorsi magari marginali, ma FKHKDQQRWURYDWRVSD]LRQHOO·LPSUHYHGLELOHVRIÀWWDmontaliana dei ricordi. Si tratta essenzialmente di un discorso di Paolo VI sulle religioni monoteiste – «Tutte le religioni del Dio unico / sono una sola: variano i cuochi e le cotture. / Così rimuginavo [...] Anche il papa / 18 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 504. Noterelle di uno dei Mille, cit., p. 512. In un’intervista concessa a Vigorelli nel 1964 Montale tornò a parlare del recente viaggio in Israele e in particolare dell’accoglienza ricevuta dal papa: «Il viaggio di un papa in Terra Santa è stato un grande avvenimento – non solo apostolico o religioso, ma “politico” – che certo avrà notevoli ripercussioni in tutto il mondo. È straordinario l’entusiasmo che ha suscitato laggiù anche tra i non cristiani» (Cinque domande a Montale, AMS, p. 1632). 19 336 in Israele disse la stessa cosa»20 – citato in La morte di Dio (un testo su cui dovremo tornare, in quanto si serve dell’occasione memoriale per affrontare, in realtà, le questioni più scottanti sollevate nell’animo del poeta dal viaggio mediorientale);; e di un curioso episodio sul le rive del lago di Tiberiade, narrato in Da Gerusalemme divisa («Una piccola monaca espone alla mia ammirazione un grosso luccio che HUDFRQYLQWDIRVVHGHVWLQDWRDOODFHQDGHO3RQWHÀFHª21 HDPSOLÀFDWR in Un invito a pranzo («Le monachelle sul Lago di Tiberiade / reggevano a fatica un grande luccio / destinato dicevano a Sua Santità / mi chiesero di restare qualora il Santo Padre / dichiarasse forfait (il che avvenne dipoi). / Non senza assicurarsi che sebbene at large / io ero un buon cattolico. Purtroppo / generose sorelle sono atteso al monte degli Ulivi / fu la risposta accolta da rimpianti / benedizioni e altro. Così ripresi il viaggio. / Sarebbe stato il primo luccio della mia vita / e l’ho perduto non so se con mio danno / o con vantaggio. Un luccio oppure un laccio?»),22 dove con l’ironia tipica della sua seconda maniera Montale pare alludere al pericolo scampato di una captatio imprevedibile, e probabilmente indesiderabile, nelle schiere della cattolicità più ortodossa e organizzata. In ogni caso, all’inviato speciale del «Corriere della Sera» sfugJHO·HYHQWXDOHVLJQLÀFDWRVWRULFRGHOYLDJJLRGLPaolo VI. Sebbene sia ammesso in via di ipotesi nell’ultima parte di Da Gerusalemme divisa («Ma sul piano della storia esistono forze che agiscono nel sottosuolo e che sfuggono alla comprensione dei contemporanei. Forse io mi sono trovato come Fabrizio del Dongo a Waterloo: ho assistito ad una grande azione storica senza rendermene conto. Più tardi attraverso il ricordo ne prenderò piena coscienza»),23 esso vieQHSHUzSRLGHÀQLWLYDPHQWHSRVWRIXRULJLRFRQHOO·DUWLFRORGHO «Se rivado con la memoria a una frase che ebbi occasione di scrivere una sera in un albergo di Gerusalemme («Un giorno prenderò piena coscienza di ciò che mi accade oggi d’intorno»), debbo dire che que- 20 La morte di Dio, in Satura, cit., p. 327. Da Gerusalemme divisa, cit., p. 506. 22 Un invito a pranzo, in Altri versi, TP, p. 704. 23 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508. 21 337 sto giorno non è ancora venuto. Forse la morte di Paolo VI mi farà meditare anche su questo».24 Letti dal punto di vista dell’inviato standard, il cui obbligo è anzitutto l’informazione sui fatti, i pezzi montaliani dalla Palestina appaiono insomma come una serie di corrispondenze mancate. Non era il pellegrinaggio di quell’«esile, bianco prete romano» a muovere e ad appassionare Montale sulle vie della Terrasanta. Se il suo giudizio su Paolo VI, dopo anni di implicitezza, maturerà in quella sera di agosto del 1978, ponendogli dinanzi agli occhi l’immagine di un uomo che non ha voluto chiudere «alcuna partita», aprendo «molti dubbi» e sottoponendosi ad una «sosta amara» della storia ecclesiastica, dopo gli sconvolgimenti provocati dal papato giovanneo (che Montale non stimava);; se la sofferenza di Montini ora lo «commuove» e lo «riempie di pietà», resta altrettanto chiaro per Montale, anche quindici anni dopo, che durante quel viaggio in Palestina Paolo VI era stato per lui nient’altro che un’«ombra».25 3. LE CULTURE E IL CONFLITTO: LA PALESTINA FRA ORIENTE E OCCIDENTE «Nel Libano si vive come se il mondo / non esistesse, quasi / più sepolti dei cedri sotto la neve».26 Questi versi di Trascolorando, una poesia di Diario del ’71 e del ’72, rendono plasticamente l’idea dell’attrazione montaliana per la civiltà e la cultura d’Oriente. Lo intrigava la sensazione che in quelle terre il tempo fosse come sospeso, che ci si muovesse in una dimensione diversa, un’aria di pace molto simile DTXHOODGLXQDPRUWH¶EXRQD·GLXQDÀQHJUDYLGDGLDYYHQLUHLQFXL FLVLSXzGLPHQWLFDUHGHOPRQGRFRPHLQXQDSHUHQQHLQGHÀQLWD attesa. «Paesi come questi lasciano, come ha detto il vecchio re ’Abd Allah assassinato qui a Gerusalemme, un’impressione di eternità».27 Per questo Montale era molto disturbato da qualunque elemento VSXULRFKHVFRQYROJHVVHLOSDHVDJJLRRULJLQDULRLQGHÀQLWLYDGHWXU24 Ha creato molti dubbi, e lo sapeva, cit., p. 3063. Ivi, pp. 3061-2. 26 Trascolorando, in Diario del ’71 e del ’72, TP, p. 425. 27 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508. 25 338 pandolo. Nel 1964 il fastidio si appunta anzitutto sulle architetture orrendamente sovrapposte ai luoghi santi, capaci di far perdere loro l’aura di mistero, il senso del religioso che li contraddistingue: «Anche a Nazareth bisogna scendere sotto terra per vedere le grotte dove vissero a lungo Maria e Gesù e dove Giuseppe lavorò come falegname. Purtroppo la chiesa che sovrasta le grotte raffredderebbe la fede più ardente e il paesaggio circostante, assai deturpato, non JLXVWLÀFDSLODVXDUHSXWD]LRQHª28 In ogni caso, il pellegrino Montale appare completamente aperto, e direi predisposto, ad interiorizzare l’alterità dei luoghi che sta visitando. Molte volte, a proposito di Fuori di casa, la critica ha insistito sulla tendenza dei pezzi montaliani a riportare il diverso alla misura del familiare, a far rientrare il mondo negli schemi di quel letterato e uomo di cultura occidentale che Montale certamente era.29 Ma se tale rilievo può venir confermato in diversi casi, certo i viaggi mediorientali fanno eccezione. Non che il poeta genovese non sia partito dall’Italia con un bagaglio ricco di attrezzi ermeneutici (si pensi solamente alla chiusa di Le Cinque Terre, un pezzo del 1946: «E chi non ha visto tornare all’alba, semisommerse da cento rubbi (ottocento chili) di acciughe una di queste barche, entro le quali i vogaWRULVHPEUDQRDUDUHLÁXWWLVWDQGRLQSLHGLVXOOHDFTXHQRQSRWUjGLUH che i pescatori del Nuovo Testamento gli siano in qualche modo familiari»),30 ma non c’è dubbio che una volta giunto in Medioriente Montale abbia cercato di cogliere anzitutto la distanza che separava quei luoghi dai nostri, annusandone gli odori, osservandone attentamente i paesaggi, ascoltandone con passione i suoni: «Ho sostato a lungo – scrive nel 1948 – per ascoltare i vocalizzi di un nero muezzin, nero su una torretta bianca protetta da una tettoia illuminata da corone di lampadine elettriche. Lo scroscio della pioggia pareva renGHUHSLIXQHEUHTXHOO·DQWLIRQDPDODUDJD]]DOLEDQHVHFKHO·XIÀFLR Protocollo ha messo a mia disposizione come guida e hostess non trova affatto triste la melopea del buon sagrestano sunnita».31 Con28 Ivi, p. 506. Oltre che nel saggio di Mengaldo già citato, la medesima osservazione si trova ad esempio in M. FORTI, Montale fuori di casa: implicazioni e concordanze, «Il Bimestre», I, 3-4, luglio-ottobre 1969, pp. 4-13. 30 Le Cinque Terre, in Fuori di casa, PR, pp. 236-237. 31 Da Tripoli di Siria, in Fuori di casa, cit., p. 282. 29 339 siderazioni con cui fanno il paio quelle del 1964: «Qui [a Betania] la chiesa è quasi addossata a una moschea e il suono dell’organo e il canto rauco del muezzin si fondono in un unico stupefacente concerto».32 Mi si consenta a questo proposito una nota attualizzante. Mentre in Italia scrittori certo lontanissimi dalla statura umana e artistica di Eugenio Montale hanno fatto dell’attacco «alla vociaccia sguaiata del muezzin» la bandiera di una rabbia e di un orgoglio tanto gratuiti quanto sostanziati di ignoranza e di rozzezza culturale (oltre che di insipienza politica), il maggiore poeta del Novecento italiano dimostra, in un semplice servizio dalla Terrasanta, quanta disposizione all’ascolto e all’accoglienza autentica dell’altro si possa ricevere da una profonda maturazione della grande paradosis dell’Occidente. Sin dal viaggio del ’48, infatti, Montale era rimasto preso dall’OULHQWHQRQFRQO·LQJHQXLWjGHOQHRÀWDSHUOXLDVVROXWDPHQWHLPSRVVLELOHPDFRQODÀQH]]DG·DQLPRGHOJUDQGHXPDQLVWDFKHVHQWLYD preservata in quelle terre la dimensione spirituale, non pragmatica, della nostra esistenza: «Ma bisogna andare in Oriente – dichiara in un’intervista del 1964, al ritorno dalla Palestina – per capire cos’è la religione. Ho inteso veramente il sentimento religioso solo laggiù: la vera sede delle religioni è l’Oriente».33 L’impressione più forte che la Terrasanta gli lascia dentro è quella dell’autenticità: «Lì tutto è autentico, un albero è un albero, una capra è una capra»,34 ovvero: in Palestina ogni cosa è restituita alla semplicità originaria del proprio ruolo, ogni cosa si rivela per quello che è, senza manipola]LRQLRLQÀQJLPHQWLFRQVHJQDQGRVLDOO·XRPRLQXQDVRUWDGLGDWLWjFKHRFFXSDORVJXDUGRHFRQVHQWHODQHWWH]]DGLXQDGHÀQL]LRQH dei contorni priva di equivoci, come se chi guarda fosse collocato nella quiete dell’essere, di quella tautologia che appartiene al puro essere, dal roveto ardente in poi. La salvezza degli uomini si trova, secondo Montale, in una tale trasparenza del mondo, ormai come VPDUULWDLQ2FFLGHQWH0HQWUHO·XPDQHVLPRSRWUHEEHHVVHUHDOODÀQH («Potrei citare Hegel. L’uomo dell’umanesimo (intendo: da Cristo ad oggi) non è che una piccola fase: cosa sono duemila anni nella 32 Da Gerusalemme divisa, cit., pp. 505-6. Cinque domande a Montale, cit., p. 1632. 34 Il profeta dell’Apocalisse, AMS, p. 1637. 33 340 storia dell’uomo? Si attendono altre fasi»),35 il dominio della mentaOLWjVFLHQWLÀFDULVFKLDGLDQQLFKLOLUHRJQLVSD]LRGLFRQWHPSOD]LRQH HGLULÁHVVLRQHGLVLQWHUHVVDWDSULYDQGRLQGHÀQLWLYDODFXOWXUDRFFLGHQWDOHGHOO·DOLWRYLWDOHFKHÀQRDGRUDO·DYHYDVRVWHQXWDHJHWWDQGROD nel «caos».36 Sono cose che Montale pensa sin dagli anni ’50, come dimostrano i suoi resoconti del Processo dell’Oriente all’Occidente, un grande incontro tra intellettuali orientali e occidentali svoltosi a Venezia nel 1955 per iniziativa della Fondazione Cini. Ovviamente, nei suoi ragionamenti non ci sono condanne sbrigative o moralistiche. Quel che emerge, anzitutto, è il timore di una occidentalizzazione GHOPRQGRFKHIDFFLDSHUGHUHDOO·2ULHQWHODSURSULDVSHFLÀFLWj(UD una domanda già presente nei pezzi veneziani del ’55 («a noi pare che il punto veramente problematico della questione sia qui: l’altisVLPROLYHOORWHFQLFRVFLHQWLÀFRGHOODFLYLOWjRFFLGHQWDOHKDFRPHSURprio suo carattere imprescindibile l’allontanamento dell’uomo dallo spirito religioso? E in tal caso, non seguirà la stessa amara sorte lo spirito religioso anche in Oriente, fortemente occidentalizzato?»),37 HFKHSXQWXDOPHQWHULWRUQDDOODÀQHGLDa Gerusalemme divisa: «Abbiamo creato tante macchine, il progresso, sebbene a rilento, è giunto anche qui, eppure noi sentiamo che la via del progresso meccanico non è che una delle vie possibili e forse non è neppure la via giusta per l’Oriente che noi possiamo dire cristiano anche se i cristiani vi siano in minoranza».38 D’altra parte, proprio il viaggio di Paolo VI – questo imprevedibile gesto della ‘visita’ all’Oriente da parte della maggiore personalità religiosa occidentale – ha avuto quasi come contrappasso, annota Montale, la penetrazione in Giordania e Israele della «macchina diabolica»,39 ossia della televisione, mentre agli occhi del poeta appare già allora lampante la contraddizione tra ODPRGHUQLWjLVUDHOLDQDHO·DIÁDWRDQFRUDWXWWRRULHQWDOHGHOODFXOWXUD araba in Giordania: «La Gerusalemme ebraica è una città moderna dove esiste quasi ogni comfort, escluso un buon riscaldamento. Israele conta ben sette università e non ha analfabeti. Il contrasto psico35 Il mestiere di poeta, AMS, p. 1647. Processo dell’Oriente all’Occidente, PS 2, p. 1860. 37 Ivi, p. 1875. 38 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508. 39 Ivi, p. 505. 36 341 logico con lo Stato giordano non potrebbe essere più forte. Di là l’Oriente con la sua inerzia e la sua apparente inoffensività: di qua uno Stato moderno, ma ibridato incredibilmente».40 In realtà, infatti, lo stesso Israele si porta dentro, come incapsulata nell’involucro della modernità, la propria storia, quella di un popolo orientale, che ha vissuto l’esperienza religiosa con una assoluta radicalità e ha da sempre pensato che la propria consistenza dipendesse, LQGHÀQLWLYDGDOODUHOD]LRQHFRQ'LR0RQWDOHVLUHQGHFRQWRDFXWDmente del dramma e della terribile contraddizione insita in un tessuto sociale in cui «accanto agli ortodossi, che portano lunghe trecce e insultano chi si permette di fumare il sabato, stanno gli stessi uomini che possiamo incontrare in Via Montenapoleone».41 È sorprendente notare come, visitando la Palestina nel medesimo torno di tempo, anche Pier Paolo Pasolini sia rimasto colpito dalla condizione israeliana negli stessi termini di Montale. In Una giornata a Tel Aviv, uno splendido testo di Poesia in forma di rosa – il suo libro del 1964 – il poeta friulano percepisce il solco che si è ormai scavato in Israele fra tradizione e modernità. Si tratta, per lui, di un fossato che separa L SDGUL DQFRUD OHJDWL DOOD VWRULD DQWLFD GDL ÀJOL FKH ©SDVVHJJLDQR si radunano, belli, / per le vie della loro città, / come a Piazza del Popolo o Montmartre».42 Pasolini protesta accoratamente contro l’occidentalizzazione dei giovani israeliani, che pare abbiano perso il senso e la memoria delle proprie radici: «Ma sono Ebrei. Perché VLFRPSRUWDQRFRVuFRPHÀJOLGLERUJKHVLDULDQLGHOOHJUDQGL stupide stirpi d’occidente?»:43 un appello, un lamento quasi, certamente lontano dalla sensibilità linguistica di Montale. Eppure anche l’inviato speciale del «Corriere della Sera» è intimamente convinto che l’impresa della costruzione di uno stato moderno, o, meglio ancora, la trasformazione di Israele da comunità spirituale in potenza 40 Ivi, p. 507. Ibidem. 42 P. P. PASOLINI, Una giornata a Tel Aviv, in Poesia in forma di rosa, ora in Le poesie, Milano, Garzanti, 1975, p. 495 (cito da questa edizione che riproduce il testo dato alle stampe nell’aprile del 1964, e poi ritirato e rivisto da Pasolini – per motivi proIRQGLHÀORORJLFDPHQWHVLJQLÀFDWLYLFKHKRFHUFDWRGLVSLHJDUHLQA. SICHERA, La FRQVHJQDGHOÀJOLR/HFFH0LOHOOD²FRQVXFFHVVLYDXVFLWDPRGLÀFDWDQHOJLXgno dello stesso anno;; è questo il testo riprodotto nell’edizione Chiarcossi-Siti). 43 Ibidem. 41 342 politica, sebbene assolutamente alla portata di un popolo tanto fattivo e intelligente, possa essere un evento completamente negativo per il mondo ebraico: «Ciò non toglie che la Galilea sia molto bella e che tutto il paesaggio israeliano dimostri la presenza di una stirpe forte e risoluta. Che cosa accadrebbe se tutti gli Ebrei del mondo convergessero qui e ricostruissero il loro tempio? Il loro impero dilagherebbe in tutto il vasto territorio oggi occupato dagli Arabi: i quali, feroci sporadicamente, sono però incapaci di organizzarsi e di credere che l’uomo è nato per lavorare. Ma gli Ebrei della diaspora non avrebbero molto da guadagnare venendo qui: intendo nulla da guadagnare come collettività universale. Il destino del popolo di ,VUDHOHVHPEUDTXHOORGLHVVHUHGLVSHUVRHLQVLHPHXQLÀFDWRPDQRQ in senso territoriale. La sua vera unità l’ha formata una volta per tutte Faraone – e chi legge la Bibbia non fatica a rendersene conto».44 Non la terra, e meno che mai il regno, hanno fatto di Israele un popolo. Il suo atto di nascita è stata la storia di Esodo, l’epos incredibile GL XRPLQL VÀJXUDWL GDOOD VFKLDYLW H GDOO·RSSUHVVLRQH GL XQ SRWHUH crudele ed imperialistico, il cui grido è stato gratuitamente raccolto dalla misericordia di Jahvè (Es 3). Fuori di questa comunione nel dolore, di questa storia degli anawîm soccorsi dal loro Dio di fronte ai potenti della terra, il mistero stesso di Israele si esaurisce, annullando la tipicità dell’esperienza religiosa degli Ebrei. In termini molto forti, provocatori, si tratta della medesima idea espressa dai versi di Pasolini: «Perché questo stato d’impoeticità? / Non sono qui forse per essere uccisi? Non lo sanno? Perché questi sguardi / di ÀJOLSDGULGLIURQWHDFXLLORURSDGULQRQVRQRFKHPLVHUHIHWLGH bestie / nei cortiletti dei campi di sterminio, / nei treni merci già pieni di morti? / Da quei vermi sublimi essi nacquero: / e adesso rinfacciano loro la morte / che è la loro vita? Li vogliono / vincitori: ma forse non lo sono?».45 A quasi cinquant’anni di distanza dai versi e dalle parole di Pasolini e di Montale, sarebbe stupido operarne meccaniche applicazioni sull’attualità. Non c’è dubbio però che i due poeti colsero, su registri GLYHUVLXQQRGRSURIRQGRGHOFRQÁLWWRDUDERLVUDHOLDQRXQQRGR che Israele non ha mai voluto o saputo sciogliere. «Potranno un 44 45 Noterelle di uno dei Mille, cit., p. 510. P. P. PASOLINI, op. cit. Il corsivo è di Pasolini. 343 giorno Arabi e Israeliani convivere in pace? È quello che si augura ogni uomo di buona volontà. Ma il solco è ancora profondo e le previsioni sono inutili»:46 il solco che Montale constatava nel 1964 si è certo, in questi anni, allargato. L’inviato del «Corriere» si rese conto già allora, però, che esso lacerava lo stesso tessuto vitale di Israele, rendendo quasi inestricabili la semantica e la simbologia del FRQÁLWWR $OOD ÀQH D 0RQWDOH LQ 3DOHVWLQD QRQ UHVWz dunque che prendere atto delle condizioni miserevoli di vita di «un milione di rifugiati», concentrati nei «lebbrosari edilizi» di Amman e ripartire. Ma la memoria del dolore e della divisione respirati in Terrasanta non lo abbandonerà più. Non a caso, nel 1978, dopo gli accordi di Camp David, Montale sentirà la necessità di scrivere di nuovo su un dramma ancora vivo ai suoi occhi: «Quando visitai Israele e la Giordania con i giornalisti al seguito di Paolo VI, guardai a lungo quello scenario tra i più dolci del mondo, reso aspro dalla macchina della guerra che vi si era impiantata. Mi colpirono soprattutto le centinaia di baracche di rifugiati e di internati politici. Ora si è soliti dire che Israele evoca nei giovani l’olocausto di un popolo, ma che il palestinese si è sostituito all’ebreo nel ruolo dell’emarginato, del senza terra. Fa meditare il pensiero che il mondo ha questo destino: di presentarsi come una scacchiera troppo stretta, nella quale a turno una pedina non trova posto».47 In un momento di grandi speranze GLSDFHGRSRODÀUPDGHOO·DFFRUGRWUDSadat e Begin, Montale non poteva cancellare dentro di sé il ricordo della sofferenza percepita GXUDQWH LO YLDJJLR GHO Ë LQ GHÀQLWLYD LO GRORUH GHJOL XRPLQL che ora soprattutto lo tocca, al di là di ogni schieramento o di ogni appartenenza: «In queste ore in cui domina la parola pace, mi riesce impossibile non pensare al mio viaggio a Gerusalemme, città nella quale non c’era famiglia che non piangesse un morto, un morto che evocava altri morti, altre famiglie in lutto della riva opposta».48 Ciò che prevale nel ricordo, quindici anni dopo, è la dimensione umana GHOFRQÁLWWRO·HYLGHQ]DWHUULELOHGHLPRUWLSLDQWLVXHQWUDPEHOHULYH di quella piccola terra. 46 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 507. Una gioia inquinata dal dubbio, PS 2, pp. 3067-8. 48 Ivi, p. 3068. 47 344 4. L’APPARIZIONE DELLA CARITÀ Pur avendo già perlustrato molti testi del Montale palestinese, abbiamo però trascurato, in realtà, tutta una zona nevralgica dei suoi servizi da Israele e Giordania, quella dove si esprime più chiaramente che cosa volesse dire il poeta di Genova quando confessava «con quale emozione di pellegrino culturale» aveva «rimesso piede dopo anni nelle terre dove è nato il monoteismo».49 Per capire, dobbiamo probabilmente prendere le mosse proprio dall’esordio di Da Gerusalemme divisa: «Se è vero che le forme verbali dell’aramaico non consentono una netta distinzione tra passato, presente e futuro, e lascio la responsabilità dell’affermazione a Raymond Aron, si può comprendere che il continuum GLXQHWHUQRSUHVHQWHDEELDÀQLWRSHU imporre una certa iconoclastia ai paesi di lingue semitiche. Da un lato concreto, la vita quotidiana, dall’altro ciò che non si può né YHGHUHQpUDSSUHVHQWDUH&RVuLO'LRQRQHIÀJLDWRGRYHYDSUHQGHUH presso gli Ebrei, anche gli attributi meno nobili dell’uomo: la collera, la violenza».50 Il paradosso dell’iconoclastia risiede dunque in un GLVWDQ]LDPHQWRGHO©'LRQRQHIÀJLDWRªWDOHGDDYYROJHUORLQXQ·DXUD di schiacciante irraggiungibilità, facilmente convertibile – in termini DQWURSRPRUÀFL²QHOO·imago del Dio tremendo e collerico. Sottratto ad ogni rappresentazione possibile, Dio si muta inaspettatamente in un soggetto vicino al mondo umano proprio in ciò che esso ha di meno nobile e alto. In un modo molto ellittico, Montale pone in questo passo una delle questioni fondamentali del proprio universo poetico, il cui peso andrà lievitando nei testi successivi alla svolta della sua lirica, da Satura in poi, dove il problema di Dio, per espressa ammissione del poeta genovese, «ricorre» ormai «in forma più esplicita».51 In questo quadro, mi pare che, almeno a proposito delle note dalla Terrasanta, si debba rovesciare l’indicazione di metodo a cui si è spesso ispirata la critica rispetto alla prosa montaliana. Si tratta non di testi che possono introdurre alla comprensione della poesia, ma di testi che, data la forza e l’intensità dei loro temi, devo49 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508. Ivi, p. 503. 51 La poesia e il resto, AMS, p. 1708. 50 345 no leggersi, a mio modo di vedere, poeticamente, ovvero sulla scorta della poesia stessa, facendosi guidare da essa. Posta in maniera molto radicale, la questione potrebbe formularsi all’incirca così: che cosa possiamo sapere di Dio? In che termini ed entro quali limiti possiamo pensarlo, farcene una qualsiasi immagine, assumerlo ad oggetto di ricerca e di discorso? Tutta la poesia montaliana è probabilmente assillata da questo interrogativo di fondo, ma sono gli anni sessanta il tempo del suo sviluppo esplicito, proprio a partire dai componimenti in qualche modo collegati al secondo viaggio mediorientale. Appare emblematico, in questo senso, un testo di Satura FKHDEELDPRJLjVÀRUDWRLa morte di Dio: «Tutte le religioni del Dio unico / sono una sola: variano i cuochi e le cotture. / Così rimuginavo;; e m’interruppi quando / tu scivolasti vertiginosamente / dentro la scala a chiocciola della Périgourdine / e di laggiù ridesti a crepapelle. / Fu una buona serata con un attimo appena / di spavento. Anche il papa / in Israele disse la stessa cosa / ma se ne pentì quando fu informato / che il sommo Emarginato, se mai fu, / era perento». Il testo si regge chiaramente su di una GLQDPLFDRSSRVLWLYDLQFXLOHULÁHVVLRQLVXOPRQRWHLVPR²GHOSRHWD come del papa – vengono fatte scontrare senza mediazioni con la caduta di Mosca dalla scala a chiocciola del ristorante francese, con il relativo spavento, e poi con l’allegria del pericolo scampato, che corrobora la «buona serata» del poeta e della moglie. Con il consueto rivestimento di un’ironia sottile, la poesia montaliana lavora insomma sul contrasto irrimediabile fra la concretezza dell’esistere, con le sue piccole angosce quotidiane e le sue lievi gioie impreviste, e l’impervia astrattezza dei problemi teologici, scrutati dal punto di vista della pura teoria. Il Dio di queste elaborazioni, di questi schemi esclusivamente mentali è davvero, per il Montale degli anni sessanta, un Dio «morto». Ad esso fa da contraltare la sapienza di Mosca, che «dio» non lo nomina «neppure con la minuscola»,52 sa che le questioni ultime appartengono al dominio dell’«Impronunciabile».53 Per tale motivo, la riduzione di Dio alla misura dell’uomo, la sua UHVDDQWURSRPRUÀFDLQTXDOXQTXHPRGRVLGLDDVVLOODHGLVWXUEDLO «secondo» Montale. La sua polemica si rivolge contro i teologi, gli 52 53 Le monache e le vedove, in Satura, cit., p. 313. Il tuffatore, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 440. 346 VFLHQ]LDWLLÀORVRÀWXWWLFRORURLQVRPPDFKHIDFHQGRGHOFRQFHWWR il loro mestiere credono di poter riportare Dio su scala umana o ridurlo ad un fenomeno tra gli altri. I teologi, anzitutto. Non importa se «in tuta / o paludati»:54 la loro colpa è quella di presentarci «un Deus absconditus che ha barEDEDIÀHRFFKLDPLOLDUGLSHUFKpQXOODJOLVIXJJHGLQRLHGXQque quasi un complice dei nostri / misfatti, un vero onnipotente che / può tutto e non lo può o non lo vuole».55 Nascondimento e antroSRPRUÀVPRVLPHVFRODQRLQTXHOODFKHGLYHQWDXQDIXPRVDWHRULD buona per «i chierici», ostinati a mantenere per sé il monopolio del divino, comminando magari ridicole sospensioni, a divinis appunto («Sospeso sì, ma da chi? Da che cosa e perché? / A mezz’aria atWDFFDWRDXQÀOR"(LOGLYLQRVDUHEEHXQJDQFLRDFXLFLVLDSSHQde? / Si può annusarlo come qualsiasi odore?»),56 R SUHÀJXUDQGR FRPH©LIHGHOLGHOYHFFKLR'LRªXQDÀQDOHOLEHUD]LRQH©GDOPDJPDª l’estenuante speranza in un coup de théàtre, che ci fa vivere come «una doppia vita», sempre protesi verso un oltre.57 Né si pensi che possa essere la scienza a farci uscire dall’impasse. Nella prospettiva montaliana il Dio degli scienziati risulta forse ancora più inservibile di quello dei teologi. Sarebbe in fondo il Dio della cosmologia, non più creatore con la «bacchetta magica»,58 ma SUREDELOH©$UWHÀFHª²PDJDUL©DFRUWRGLDUJRPHQWLª²GHO©JUDQde scoppio iniziale»,59 ovvero del Big Bang. Dio, insomma, come ©DUWLÀFLHUHFKHIDVFRSSLDUHWXWWRLOEHQHHLOPDOHHVLFKLHGH perché noi ci siamo cacciati / tra i suoi piedi, non chiesti, non voluti, / meno che meno amati».60 Se il Dio dei teologi è «spaventosamenWHªDQWURSRPRUÀFRTXHOORGHJOLVFLHQ]LDWLqVSHFXODUPHQWHDVHWWLFR lontano, niente di più che una sorta di Ur-fenomeno della natura, al limite, un Dio assente: «Dicono / che gli dèi non discendono quaggiù, / che il creatore non cala col paracadute, / che il fondatore 54 Piove, in Satura, cit., p. 346. Il mio ottimismo, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 508. 56 L’odore dell’eresia, ivi, p. 474. 57 Cfr. La buccia della terra, in Altri versi, cit., p. 670. 58 Big Bang o altro, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 545. 59 Il grande scoppio iniziale, in Altri versi, cit., p. 677. 60 Il mio ottimismo, cit., p. 508. 55 347 non fonda perché nessuno / l’ha mai fondato o fonduto / e noi siaPRVRORGLVJXLGLGHOVXRQXOOLÀFDQWHPDJLVWHURª61 In questi versi di Divinità in incognito – un testo su cui torneremo, in quanto titolo e tema vengono, non a caso, direttamente dai pezzi palestinesi di Montale – il poeta di Satura protesta ironicamente contro il consesso dei sapienti che ha tagliato fuori Dio da ogni relazione vitale con gli umani, rendendo questi ultimi nient’altro che errori di un agire superiore ed insondabile, il cui obiettivo sarebbe paradossalmente il nulla. A questo ordine semantico appartengono dunque, nella poesia del secondo Montale, «il Proto», di cui Mosca e il poeta sarebbero «due prove, / due bozze scorrette» indegne «d’uno sguardo» e del quale anche «l’americana di Brünnen», morta suicida, non è stata che «un lapsus madornale»;;62 il «Chi volle tu fossi... e se ne pentì» di Il primo gennaio;;63 «l’Altro», «i nostri commerci» col quale «sono stati un lungo inghippo».64 D’altra parte, nella Lettera da Albenga, scritta pochi mesi prima della partenza per la Palestina e raccolta in Auto da fé, Montale contrappone, in un medesimo movimento polemico, il Dio DQWURSRPRUÀFR©GHOOHUHOLJLRQLVWRULFKHªDO'LRGHLÀVLFLFKH©LJQRUD l’opera sua e le conseguenze che ne sono venute [...] Diciamo pure tutto: un simile Dio non dà consolazione all’anima umana ed era inevitabile che il suo volto subisse adattamenti e mascheramenti».65 I primi anni sessanta sono dunque per Montale un tempo di costante ULÁHVVLRQHVXOWHPDGHOO·imago Dei, e non è allora senza motivo che sia proprio una personalissima meditazione teologica ad aprire L VHUYL]L GDOOD 3DOHVWLQD /RQWDQR GDO 'LR FRGLÀFDWR GDOOH WHRORJLH come anche dal Dio degli scienziati, addirittura sprezzante verso ODVYROWDOLQJXLVWLFDGHOODÀORVRÀDFRQWHPSRUDQHDFKHULFRQGXFHLO 61 Divinità in incognito, in Satura, cit., pp. 376-7. Botta e risposta II, in Satura, cit., p. 355. 63 Il primo gennaio, ivi, p. 412. 64 L’Altro, ivi, p. 417. La distanza dell’Altro dalla condizione degli uomini e dalla loro esistenza è crudamente sottolineata in Realismo non magico, testo sempre inserito in Satura: «Che cosa di noi resta / agli altri / (nulla di nulla all’Altro) / quando avremo dimesso / noi stessi / e non penseremo ai pensieri / che abbiamo avuto perché / non lo permetterà / Chi potrà o non potrà, / questo non posso dirlo» (TP, p. 344). 65 Lettera da Albenga, in Auto da fé, AMS, pp. 373-4. 62 348 mondo alla «struttura del linguaggio»66 messo al posto di Dio67 – un «dio dimidiato» però, «che non porta a salvezza»68 – il poeta di Satura opta per una radicale contestazione di ogni pretesa umana di pensarlo, Dio, di ogni volontà di disamina puramente teorica della questione fondamentale dell’esistenza. Se «il pensiero è aberrante per natura»,69YROHUYLULQFKLXGHUH'LRVLJQLÀFDO·RUURUHGL©SHQVDUH l’impensabile»,70 mentre «la nostra testa non è fatta per questo».71 Alla domanda angosciosa posta dal poeta davanti alle mura della Chiesa di Edimburgo («Ma insomma, dov’è Iddio, dov’è?»),72 non possono dare risposte né il razionalismo dei teologi o dei predicatori, né l’empirismo degli scienziati o gli avvitamenti concettuali dei ÀORVRÀ(DOORUD" C’è per Montale un’altra via, indicata, ancora molto ellitticamente, in Da Gerusalemme divisa: «Mancando ai monoteisti il conforto che ebbero i Greci di popolare la Terra di divinità terrene o subdivinità in incognito, molto lento dovette essere il processo che vide nascere la carità, in sostituzione dell’antica pietas, accessibile solo a pochi privilegiati. E fu la rivoluzione cristiana, da duemila anni la sola rivoluzione che, incompiuta com’è, dica ancora qualcosa al cuore dell’uomo».73 Si tratta di un passaggio non semplice, ma incentrato abbastanza chiaramente su due perni essenziali: la relazione della cultura greca col divino e l’apparizione della carità. Se per il primo FRUQRGHOODULÁHVVLRQHmontaliana si può citare la quasi contemporanea Lettera da Albenga («I Greci avevano risolto il problema in altro modo: inventando gli Dei, divinità ad hoc fatte a loro misura. Non diverso il pensiero di Hölderlin che credeva all’esistenza di divinità terrestri, viventi in incognito tra di noi»),74 il secondo punto – la na66 La forma del mondo, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 447. La lingua di Dio, ivi, p. 455. 68 Un tempo, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 530. 69 Terminare la vita, ivi, p. 584. 70 Due epigrammi, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 509. 71 Il dono, in Poesie disperse, cit., p. 862. 72 Sosta ad Edimburgo, in Farfalla di Dinard, PR, p. 199. Si tratta del medesimo interrogativo di Vento sulla Mezzaluna nella Bufera: «L’uomo che predicava sul Crescente / mi chiese: “Sai dov’è Dio?”» (TP, p. 235). 73 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 503. 74 Lettera da Albenga, cit., p. 374. 67 349 scita della carità – potrebbe far pensare ad uno schema hegeliano, VXOWLSRGLTXHOORHVSRVWRGDOÀORVRIRGL6WRFFDUGDLQLo spirito del Cristianesimo e il suo destino, dove la contrapposizione tra l’umanità degli Dei greci e l’alterità disumana del Dio degli Ebrei viene risolta dialetticamente proprio grazie all’amore predicato da Cristo, uomo e Dio.75 Ma probabilmente, per andare più a fondo, bisogna nuovamente volgersi alla poesia, come già implicitamente suggeriva la Lettera da Albenga a proposito delle «divinità viventi in incognito tra di noi»: «Ma non è facile incontrarne qualcuna;; solo ai poeti è concessa tale possibilità. Ed è ancor oggi questo l’unico modo di avere un’esperienza concreta del divino».76 Chi scorre il corpus poetico montaliano comprende infatti, immediatamente, che per il poeta di Clizia, di Mosca, di Adelheit, la QHJD]LRQHGHO'LRDQWURSRPRUIRQRQSXzVLJQLÀFDUHODUHVDDGXQ contatto impossibile col divino. Come a dire che se è folle la pretesa umana di trattare Dio alla stregua di un problema da risolvere teoriFDPHQWHqDOWUHWWDQWRIRQGDWDODÀGXFLDGHLSRHWLQHOODSRVVLELOLWjGL un’esperienza umana di Dio. Se Dio non è una cosa, un oggetto, un IHQRPHQRRXQDJLJDQWRJUDÀDGHOO·XRPRVHQRQqULGXFLELOHDGXQR schema teorico, Egli resta però l’insondabile diffuso in varie forme nella concretezza dell’esistenza. Il venir meno della teoria non chiude lo spazio del divino, ma lo dilata, riconsegnandolo all’unica dimensione che può appartenere a tutti: l’esperienza, la quotidianità della vita. Si tratta certamente di uno spazio impuro, dove le rappresentazioni e i costrutti trascendentali sono impossibili («Ho incontrato il divino in forme e modi / che ho sottratto al demonico senza sentirmi ladro»);;77 un territorio scavato nel nulla, il nulla della nostra HVLVWHQ]DLOQXOODFKHFLUHVWDLQPDQRDOODÀQHHFKHSXUHFLDFFRUgiamo di amare disperatamente («e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla»),78 un nulla la cui realtà ultima, come ci dice il Montale di Ai tuoi piedi, è la memoria («Mi sono inginocchiato ai 75 Cfr. G. W. F. HEGEL, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, tr. it., in ID., Scritti teologici giovanili, a cura di E. Mirri, Napoli, Guida, 1972 [1795], pp. 353-457. 76 Lettera da Albenga, cit., p. 374. 77 Vaniloquio, in Poesie disperse, p. 863. Un tema che ritorna anche in Satura: «La mia strada è passata / tra i demoni e gli dèi, indistinguibili» (La mia strada è passata, TP, p. 396). 78 In negativo, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 589. 350 tuoi piedi / o forse è un’illusione perché non si vede / nulla di te / ed ho chiesto perdono per i miei peccati [...] Attendendo il verdetto [...] ricorderò gli oggetti che ho lasciati / al loro posto, un posto tanto studiato, / agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio / di giornale, alle tre o quattro medaglie / di cui sarò derubato o forse anche / alle IRWRJUDÀHGLTXDOFKHPLD0XVDFKHPDLVHSSHGLHVVHUORULIDUzLO censimento di quel nulla / che fu vivente perché fu tangibile / e mi dirò se non fossero / queste solo e non altro la mia consistenza»).79 Pochi, poveri oggetti, che segnano il percorso di una vita e che in GHÀQLWLYDUDSSUHVHQWDQRFLzFKHQHULPDQHLVHJQDOLTXDVLLPSDOSDbili di una intima densità dell’esistenza che nel ricordo si coagula e miracolosamente si mantiene. ‘Siamo’, in senso forte, nient’altro FKHLOGHSRVLWRDSSDUHQWHPHQWHLQXWLOHRLQVLJQLÀFDQWHGHOQRVWUR passato;; ‘siamo’ cellule connesse dal ricordo;; ‘siamo’ il nostro corpo, ovvero la nostra memoria. Ed è nel centro della memoria-corpo che accadono le epifanie del divino e lasciano una scia inafferrabile sì, ma incancellabile: «[...] credono / che i savi antichi fossero tutti pazzi, / schiavi di sortilegi se opinavano / che qualche nume in LQFRJQLWROLYLVLWDVVH>@HSSXUHVHXQDGLYLQLWjDQFKHG·LQÀPR JUDGRPLKDVÀRUDWRTXHOEULYLGRP·KDGHWWRWXWWRHLQWDQWR l’agnizione mancava e il non essente / essere dileguava».80 Mentre il mondo dei critici e dei sapienti resta sospeso ai pregiudizi delle proprie teorie, il poeta rivendica il valore di un’esperienza umile e numinosa, che dà forza e senso alla vita, trattenendola sul limitare del niente («Piove ma dove appari / non è acqua né atmosfera, / piove perché se non sei / è solo la mancanza / e può affogare»).81 Il divino ha il volto di un ‘tu’. Non però il volto generico di un Dio antropomorfo, razionalmente descritto una volta per tutte, ma quello inconfondibile e speciale di un ‘questo’: un oggetto, XQDQLPDOHXQXRPRRXQDGRQQDRVSLWDWLGHÀQLWLYDPHQWHQHOFRUpo della memoria, resi divini: «A forza d’inzeppare / in una qualche YDOLJLDGLÀQWRFXRLRJRQÀDDVFRSSLDUHWXWWLLODFHUWLGHOODQRVWUD vita / ci siamo detti che il politeismo / non era da buttar via. // Le abbiamo più volte incontrate, / viste di faccia o di sbieco / le nostre 79 Ai tuoi piedi, ivi, pp. 594-5. Divinità in incognito, cit., p. 377. 81 Piove, cit., p. 346. 80 351 mezze divinità».82 Si tratta di «deità in fustagno e tascapane, / sacerdotesse in gabardine e sandali, / pizie assorte nel fumo di un gran falò di pigne, / numinose fantasime non irreali, tangibili, / toccate mai».83 Come abbiamo visto, Montale ha esplicitamente indicato nella Grecia e in Hölderlin le sorgenti delle proprie «divinità in incognito». Eppure è altrettanto chiaro, nei suoi testi, il legame fra i tanti ‘tu’ che manifestano il divino per il poeta, e l’amore, o meglio, con parola montaliana, «la carità». Voglio dire che tutte queste «deità» che DIIROODQRODSRHVLDGL0RQWDOHPRVWUDQRLQGHÀQLWLYDLOvolto di chi soccorre, di chi sostiene l’altro, gli dona forza e gioia, lo ravviva e lo custodisce. C’è come un’aria di famiglia fra i numi montaliani, di alto RGL©LQÀPRJUDGRªFKHVLDQRXQ·DWPRVIHUDFRPXQHLOFXLVLPEROR estremo è forse la Mosca che prima di morire raccomanda al marito di prendere il sonnifero, dedicando la propria ultima parola ancora alla custodia di lui.84 D’altra parte, la pizia di Divinità in incognito, assorta «nel fumo di un gran falò di pigne», è evidentemente l’Iride delle Silvae, nella Bufera («Quando di colpo San Martino smotta / le sue braci e le attizza in fondo al cupo / fornello dell’Ontario, schiocchi di pigne verdi fra la cenere»),85 colei che «il Volto insanguinato sul sudario» divide dal poeta: «Perché l’opera tua (che della Sua / qXQDIRUPDÀRULVVHLQDOWUHOXFL,ULGHO&DQDDQWLGLOHJXDVWLLQ quel nimbo di vischi e pugnitopi / che il tuo cuore conduce / nella QRWWHGHOPRQGRROWUHLOPLUDJJLRGHLÀRULGHOGHVHUWRWXRLJHUmani». L’autocommento di Montale a questo testo è famosissimo: ©/DVÀQJHGHOOHNuove Stanze, che aveva lasciato l’Oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice HVLPERORGHOO·HWHUQRVDFULÀFLRFULVWLDQRª86 È come se Cristo fosse il typos, il modello originario a cui si ispirano gli atti e le parole delle tante divinità PRQWDOLDQH1HOQHVVRIRUWHGHOVDFULÀFLRGHOGDUVLSHU altri, da Crisalide in poi («le tacite offerte che sostengono le case dei viventi»), le forme del divino trovano una loro unità. Non a caso il 82 Quel che più conta, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 486. Divinità in incognito, cit., p. 376. 84 Il grillo di Strasburgo, in Satura, cit., p. 416. 85 Iride, in La Bufera e altro, cit., p. 247. 86 Intervista immaginaria, AMS, p. 1483 83 352 viaggio dell’inviato in Palestina è segnato da un interesse inoppugnabile proprio per i luoghi della passione di Gesù, dalla Via Dolorosa a Getsemani: «L’orto ha ancora l’ingenuità dei quadri dei primitivi, la luce sgronda dagli alberi, un uccellino ammaestrato dai francescani viene a posarsi sulla vostra spalla;; e nemmeno il cuore più indurito può trattenere la commozione vedendo la più che bimillenaria lastra di pietra sulla quale il Salvatore, per lunga e ininterrotta tradizione, si adagiò e pianse».87 D’altra parte, non si può fare a meno di notare come nel corpus montaliano la carità abbia i medesimi caratteri dell’epifania del divino: «Non appartiene a nessuno la carità. Sua pari / la bolla di sapone che brilla un attimo, scoppia, / e non sa di chi era il VRIÀRª88 Tangibile ma mai toccata, come i numi di Divinità in incognito, la carità brilla, alla stessa maniera dei «lampi» dei tanti Dei che abbiamo «a portata di mano / senza saperne nulla».89 E se la verità «sguiscia come un’anguilla»,90 e nessuno può pensare di impadronirsene, così la carità non è «una seconda pelle che poi si butta via», ma un dono inafferrabile e fugace che abita al di là di noi. Nel 1948 era sembrato a Montale che in Oriente «la fucina di Dio» fosse «più bollente e operosa che in altri luoghi» perché «qui, meglio che altrove, l’uomo sente che la sua proporzione, il suo aspetto, la sua misura, sono in qualche modo conformi alla Misura di chi lo ha espresso da sé».91 Più di quindici anni dopo gli apparve probabilmente chiaro che la «giusta misura» era quella del Re Pescatore,92 la misura dell’amore. 87 Da Gerusalemme divisa, cit., p. 505. Anche a questo proposito non si può non notare come lo stesso senso di trepidazione di fronte a Getsemani sia testimoniato dal Pasolini di Sopraluoghi in Palestina. In viaggio, nel 1964, nella terra di Gesù, sperando di trovarvi l’ambientazione giusta per il suo Vangelo secondo Matteo, il regista manifesta il proprio disappunto per la diversità della Palestina moderna rispetto a quella dei Vangeli, ma nutre un profondo rispetto per i luoghi di Cristo e vive un momento di speciale commozione quando visita il giardino che una WUDGL]LRQHELPLOOHQDULDLGHQWLÀFDFRQO·2UWRGHJOL8OLYL 88 Dove comincia la carità, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 441. 89 I pressepapiers, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 581. 90 Amici, non credete, in Altri versi, cit., p. 660. 91 Sulla strada di Damasco, in Fuori di casa, PR, p. 297. 92 Il Re Pescatore, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 434. L’amore oblativo, in prospettiva implicitamente o esplicitamente cristologica, è d’altronde un tema centrale delle meditazioni montaliane in prosa, oltre che in poesia. Basti pensare al sogno del risveglio nella camera d’albergo in Svizzera con attorno al letto dieci 353 In ogni caso, quel che ci preme porre in rilievo è che il viaggio in Palestina rappresentò veramente, per Eugenio Montale, una forma di pellegrinaggio alla ricerca dell’altrove. I temi essenziali della sua quête PHWDÀVLFD YL DSSDLRQR WXWWL SUHVHQWL VHSSXU LQ PDQLHUD prodigiosamente sincopata. La sua posizione ci si è manifestata FKLDUDPHQWHXQULÀXWRQHWWRGHLFDVWHOOLWHRULFLVX'LRXQDÀGXFLD autentica nella possibilità di un’apprensione del divino, sotto il segno dell’amore, nello spazio esistenziale della memoria-corpo. Ma questo vuol dire che è inconcepibile un dialogo con Dio nell’universo montaliano, e che egli non abbia trovato parole o forme anche paradossali di traduzione teologica, seppur in poesia, del suo senso del divino? In altri termini: c’è un Dio ‘di’ Montale, una fede per lui in qualche modo professabile? In verità, di fede si parla anche nei pezzi palestinesi, in particolare in Se gli archeologi... – un appunto che fa parte di Noterelle di uno dei Mille – in termini certo interessanti, ma non risolutivi per le nostre domande: «E così a chi mi chiede se un YLDJJLRLQ7HUUDVDQWDULHVFHDFRQIHUPDUHRDLQÀDFFKLUHODIHGHGL un cristiano d’altre terre io posso rispondere: ai cristiani di scarsa fede il viaggio sarà certamente utile, perché solo un cieco e un sordo potrebbero negare che qui qualcosa è accaduto, qualcosa molto più importante della scoperta dell’America e della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ai cristiani di fede salda, a quelli che hanno la foi du charbonnier direi invece: non venite, per voi il viaggio non è necessario. L’immagine che voi vi siete formati del Cristo non può essere controllata sul posto, non ha bisogno di puntelli esterni».93 La foi du charbonnier, come ci spiega l’ing. Menalchi in Quando si incarnano i personaggi immaginari – una prosa apparsa sul «Corriere della Sera» del 15 settembre 1946 – è «la fede del carbonaio: la fede buona, senza angeli in forma di ragazze: «“Siamo svedesi” mi disse la ragazza che stava nel centro. “Santa Lucia è per noi la festa della luce, la nostra festa nazionale. Vede questa ragazza” e additò la più giovane, quella dai candelotti sui riccioli, mezzo Medusa mezzo arcangelo Gabriele “è la migliore di noi, elle a le Christ dans son coeur. In Italia ha salvato la vita a un uomo. Festeggiamo anche lei”» (Risvegliato da dieci angeli, in Fuori di casa, cit., p. 311). Montale insomma era sensibilissimo al vibrare della «corda dell’amore» – come la chiama nella Lettera a Luca Canali del 16 febbraio 1964 (AMS, p. 338) – perché profondamente convinto che «la carità, l’amore» fosse «la più grande forza della vita» (Il profeta dell’Apocalisse, cit., p. 1635). 93 Noterelle di uno dei Mille, cit., p. 511. 354 problemi».94 Si tratta della fede dei semplici, profondamente rispettata da Montale, ma ovviamente lontana dalla sua storia e dalla sua sensibilità. D’altra parte, la percezione dell’evento, possibile in Palestina per «i cristiani di scarsa fede», è orientata nettamente a Cristo, ovvero si muove in una sfera esperienziale vicina – come abbiamo visto – all’idea montaliana del divino, ma dunque inadatta a comunicarci i tratti di un’imago Dei che oltrepassi il piano della concretezza esistenziale, ovvero di un Dio letto, al limite, in relazione alla sua apertura cristologica (come accade ad esempio nei testi della Bufera). Non ci resta che cercare nelle poesie del secondo tempo montaliano. Scorrendole, si capisce subito che Montale vi gioca una partita GLIÀFLOLVVLPDQRQYROHUULQXQ]LDUHDSDUODUHGL'LRLQSRHVLDVHQ]D cadere però nelle secche di qualunque teoresi positiva. Il risultato è straniante ed affascinante a un tempo. Dai testi balenano infatti pochissimi tratti, terribilmente essenziali e costantemente in lotta col silenzio, che coinciderebbe con l’ammissione di una assoluta negatività. È intanto certamente un «dio senza nome»95 quello del secondo Montale – «Colui del quale non può dirsi il nome»96 –, in linea, d’altronde, con la stupenda sapienza di Mosca. La rinunzia al nome non è, evidentemente, solo un problema formale. Sottrarsi DO QRPH VLJQLÀFD QRQ YROHU GDUH D 'LR DOFXQD FRQQRWD]LRQH ÀORVRÀFDPHQWHSRVLWLYDFRQLOULVFKLRSHUzGLDOORQWDQDUORVHFRQGR i dettami dell’ortodossia ebraica, al punto da riproporne antropoPRUÀFDPHQWHODGLVWDQ]DVRWWRODIRUPDGHOODFROOHUDGHOO·LUD&HUWR per il Montale saggista, il Dio vendicatore degli Ebrei mantiene una maggiore dignità rispetto all’annacquamento proprio dell’ipotesi fenomenico-positivista,97 ma non può essere questa la strada della sua parola più intima su Dio. Il movimento che emerge nei testi è invece TXHOORGLXQPXWRDEEDQGRQRGLXQDIÀGDPHQWRVHQ]DUHWH6HLO sogno del poeta è nell’«intemporaneo», «Dio» solo «sa s’era tempo;; o s’era inutile»;;98 ed è a questo Dio che in Altri versi si chiede per ben 94 Quando si incarnano i personaggi immaginari, PR, p. 692. Il trionfo della spazzatura, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 459. 96 Vinca il peggiore, in Altri versi, cit., p. 672. 97 Cfr. Trentadue variazioni, PR, pp. 1121-2. 98 Le stagioni, in Satura, cit., p. 392. 95 355 due volte protezione per Clizia, «divina» lettrice di Bonaventura,99 come a consegnare nelle mani del Dio senza nome e senza volto quanto di più caro c’è stato nell’esistenza del poeta. Si tratta, insomma, di un Dio invisibile e realissimo, negato e pregato: «Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi / o forse è un’illusione perché non si vede / nulla di te»;;100 un Dio di cui è possibile dire solo ciò che non è (non è LO©'HXVDEVFRQGLWXVªFRQ©EDUEDEDIÀHRFFKLªRO·©DUWLÀFLHUHFKHID scoppiare tutto»), e che pure resta lì, disperatamente amato, invocato come con un grido fedele e senza voce, con un desiderio che non può e non deve oltrepassare la soglia del cuore, della più assoluta, segreta intimità: «Il mio non è / nulla di tutto questo e perciò lo amo / senza speranza e non gli chiedo nulla».101 Il Dio del poeta Eugenio Montale è in fondo lo stesso Dio del Robinson di Defoe, in cui all’inizio degli anni ’50, da prefatore d’eccezione, si era certo specchiato: «Il Dio di Robinson [...] è un Dio tutto costruito dall’interno, tutto scoperto per misteriosa illuminazione [...] È un Dio primigenio, è il più diretto, immediato e incontaminato grido religioso che possa salire dal profondo, in un uomo irreparabilmente solo. Dietro alla sua immagine non sentiamo né sette né Chiese possibili. Solo la Bibbia gli resiste».102 99 Rimuginando, in Altri versi, cit., p. 663;; Credo, ivi, p. 721. Ai tuoi piedi, cit., p. 594. 101 Il mio ottimismo, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 508. 102 Prefazione a Vita e avventure di Robinson Crusoe, SM, p. 1133. 100 356
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