Abilitazione - Intersezioni 3 - CEUX QUI

UN POETA NELLA TERRA DI DIO: LA PALESTINA DI MONTALE
1. POESIA E GIORNALISMO, OVVERO: LA RIPRODUZIONE E L’AMORE
Eugenio 0RQWDOHVLVRWWUDHYDDGRJQLIRUPDGLLGHQWLÀFD]LRQHWRWDOH
con un ruolo, per temperamento più che per snobismo. Per questo,
né il primo dei suoi mestieri – quello di poeta –, né tanto meno
l’ormai famoso «secondo mestiere» di giornalista potevano essere
assunti da lui come maschere coincidenti senza residui con il volto
dell’acteur. Si trattava di una ritrosia costitutiva a lasciarsi ingabbiare
LQXQDGHÀQL]LRQHRLQXQDSDUWHXQDUHVLVWHQ]DRVWLQDWDLOFXLFRUULVSHWWLYRHUDQHOUDFFRQWRDXWRELRJUDÀFRORVFKL]]RGLXQULWUDWWR
di sé molto prossimo a quello di un indeciso costretto a scegliere,
o meglio ‘scelto’ dalla vita stessa, che lo aveva condotto, quasi «suo
malgrado»,1 a intraprendere prima la via della poesia e poi quella
della scrittura giornalistica. Sempre incapace di dichiararsi «sicuro
di essere un poeta»,2 Montale non fece d’altronde mai mistero delle
necessità economiche che lo avevano spinto ad entrare nel mondo
della carta stampata,3 e non a caso si divertiva a indicare paradossalmente nella pittura – unica arte abbracciata per puro diletto personale – quella che «un giorno» sarebbe stata «la sola mia posizione
1
I “Meridiani” da cui sono tratte le citazioni montaliane (E. MONTALE, Tutte
le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984;; ID., Prose e racconti, a cura
di L. Privitera, Milano, Mondadori, 1985;; ID., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979,
2 voll., a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996;; ID., Il secondo mestiere. Arte,
musica e società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996) saranno contraddiVWLQWLGDVLJOHOXQJRWXWWRLOFRUVRGHOODYRURDFXLVDUjDIÀDQFDWDVRORO·LQGLFD]LRQH
dei titoli dei testi citati e delle pagine relative: Tutte le poesie: TP;; Prose e racconti: PR;;
Il secondo mestiere. Arte, musica, società: AMS;; Il secondo mestiere. Prose I: PS 1;; Il secondo
mestiere. Prose II: PS 2. Cfr. Ho scritto un solo libro, AMS, p. 1723.
2
Intervista immaginaria, AMS, p. 1476.
3
Si pensi, ad esempio, alle considerazioni espresse in Auto da fé (Il secondo
mestiere, AMS, p. 128)..
329
avanzata».4 Si difendeva insomma, anzitutto dai suoi intervistatori,
reali o immaginari che fossero, per sfuggire all’etichetta, per non
allinearsi, per non essere catalogato. Ma non solo. C’era, dietro questa posizione, profondamente, la volontà di mantenere di fronte al
proprio lavoro una sorta di riserva esistenziale, ovvero il desiderio di ravvivare dentro di sé la memoria della condizione umana,
di quell’essere uomini, semplicemente, che precede ogni mestiere e
lo salva da una terribile perdita di senso e di realtà: «La poesia, del
resto, è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che
un poeta stia più in alto di un altr’uomo che veramente esista, che
sia qualcuno».5 La scrittura è una delle forme autentiche dell’esistere,
un modo di ‘esserci’ nutrito di consapevolezza e insieme di umiltà.
Montale sentì come profondamente connaturato al proprio temperamento il dimorare in quella distanza che preserva l’essere uomini
rispetto ad ogni fare, ad ogni progettare, il permanere in quel senso
inquietante ma salutare di ciò che siamo veramente, in ultimo, al di là
di tutto. Era, in fondo, una specie di pregiudiziale ‘escatologica’, che
gli scavava attorno uno spazio di libertà, ma che non gli impediva
una assoluta serietà di fronte ai propri impegni, una dedizione senza
risparmio ai suoi «mestieri».
Certo, pur nel quadro di un medesimo distanziamento dal ruolo,
la differenza tra la poesia e il giornalismo era per Montale molto
chiara. (VVHUH¶VFHOWL·SHUODSRHVLDVLJQLÀFDYDLQFRQFUHWRXQDGLsposizione interiore a non cercarla, a non impadronirsene, coltivando al contrario l’attesa paziente del momento – imperscrutabile, imprevedibile – della ‘visita’ («Ma io non vado alla ricerca della poesia,
attendo di esserne visitato. Scrivo poco, con pochi ritocchi, quando
mi pare di non poterne fare a meno»,6 dirà nell’Intervista immaginaria).
La ‘costrizione’ al giornalismo era stata invece per lui (e per molti
come lui) di ben altra natura, ed esigeva dunque, nel quotidiano,
un ritmo di attività e di scrittura molto sostenuto, un darsi da fare
stretto da scadenze improrogabili e da appuntamenti ravvicinati. II
giornalista, si sa, non può ‘aspettare’ la scrittura, ma – totalmente
preso dal demone moderno della praxis – deve trovarla ovunque,
4
Montale svagato, AMS, p. 1653.
Intervista immaginaria, AMS, p. 1476.
6
Ivi, p. 1483.
5
330
perché lo spazio bianco deve essere riempito, al limite non importa
come. Solo la pagina piena infatti ottiene una ricompensa, diventa merce collocabile sul mercato. Montale aveva piena coscienza di
tutto questo, e non a caso, in Botta e risposta II, descrisse il proprio
mestiere di giornalista, spesso in viaggio per interviste e ritratti, in
termini estremamente crudi: «Vivevo allora in cerca di fandonie /
da vendere».7 Parole lancinanti, lapidarie. Eppure, la consapevolezza
della modalità consueta del proprio secondo mestiere non gli impediva di intravedere una possibilità di contatto tra la poesia e il giornalismo. In una intervista del 1955, a Enrico Roda che gli chiedeva
quale rapporto esistesse per lui tra letteratura e giornalismo, Montale
rispose: «Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta
all’amore. In qualche caso i due fatti possono coincidere».8 Come a
dire che la poesia e il giornalismo vivono in spazi contigui, ma separati. La poesia è la scrittura che si realizza nel segno della comunione, dell’affetto libero e senza riserve, della bellezza colta nell’apparire dell’altro, che conquista e conduce all’incontro;; il giornalismo è il
ULVYROWRPHFFDQLFRODFRQWURÀJXUDSXUDPHQWHIXQ]LRQDOHGHOODSDrola poetica. Se la riproduzione è quel che nell’amore accade a livello biologico, ma che può prescindere dall’intesa e dalla comunione,
così nel giornalismo la scrittura si dà ugualmente, giunge al segno,
ma solo grazie ad un apparato geneticamente predisposto, senza il
sostegno di quella relazione nutriente e coinvolgente che contestuaOL]]D LO JHVWR OR ULHPSLH GL VLJQLÀFDWR ROWUHSDVVDQGR LO SXUR GDUVL
dell’atto. Come le generazioni possono riprodursi senza amore, così
è possibile scrivere per necessità e per abitudine, esercitando capacità consolidate ma prive di eros. C’è «qualche caso», però, in cui le
due scritture «possono coincidere», le due parole possono riunirsi. O perché lo scavo quotidiano nella realtà, e anche nella banalità
del mondo, può fare della parola giornalistica il lievito della poesia
(e tanti testi del secondo Montale sono lì a dimostrarlo), o perché
DFFDGHFKHO·HVHUFL]LRPHFFDQLFRGHOODVFULWWXUDYHQJDLQWHQVLÀFDWR
dalla corrente della SRLēVLV, LQ TXDQWR O·HYHQWR FROORFDWR QHO ÁXVVR
quotidiano tocca inaspettatamente zone sensibili del mondo interiore di chi scrive e gli ridona unità, concentrando in un punto vitale i
7
8
Botta e risposta II, in Satura, TP, p. 355.
Quarantuno domande a Eugenio Montale, AMS, p. 1597.
331
GLYHUVLVSD]LGHOODSDURODHYLYLÀFDQGRFRVuODFURQDFDRLOFRPPHQWR
con l’aria inafferrabile ma certa della poesia. Casi rari, sembra dire
Montale, ma possibili. Ebbene, mi pare che fra questi kairoi siano
certamente da annoverare i viaggi mediorientali dell’inviato speciale
del «Corriere della Sera» Eugenio Montale.
Il poeta genovese si recò infatti due volte in Medioriente: la prima nel 1948, in Siria e in Libano, per la terza conferenza dell’Unesco;; la seconda nel 1964, in Israele e in Giordania, al seguito di
3DROR 9, SHOOHJULQR QHOOD ©7HUUD GL 'LRª FRPH YHQLYD GHÀQLWD OD
Palestina sul «Corriere» del 6 gennaio del 1964, dove apparve originariamente il pezzo montaliano Da Gerusalemme divisa.9 Su questo
secondo viaggio concentreremo ora la nostra attenzione, ma svolgendo considerazioni estensibili anche al primo. In entrambi i casi,
infatti, Montale scrive da giornalista, ma nello sfondo appare chiaUDPHQWHFRPHOHVXHSDUROHVLDQRDWWUDYHUVDWHGDXQDIÁDWRFKHQH
dilata il senso e la portata, come se le questioni, le immagini, i temi
relativi a questi viaggi avessero per l’inviato una forza tale da oltrepassare la contingenza, per situarsi su un piano diverso, più alto e
implicante. A testimoniarlo sono certamente i numerosi testi poetici
nati dai soggiorni mediorientali, ma soprattutto i ritorni costanti di
quelle sensazioni di viaggio lungo tutto il corpus montaliano. D’altra
parte, non è senza motivo il fatto che proprio nella chiusa del primo
pezzo del 1964 Montale si abbandoni ad una sorta di confessio cordis
per lui assolutamente inusuale: «terre che si possono amare o detestare, prendere o lasciare, ma che in nessun caso possono lasciarci
indifferenti. E per conto mio anche stavolta, vincendo la ripugnanza
del grasso di montone e delle sugne di olio di sesamo, posso dire che
non mi pento di aver deciso senza esitazione di prenderle e di conservarle gelosamente tra i miei ricordi più cari».10 6HQ]DÀOWUL0RQWDOH
elegge qui le terre del Medioriente al rango di nuclei essenziali della
sua memoria, e dunque della sua poesia. Non si creda però che i
servizi montaliani dalle terre orientali siano tutti su questo registro
di scrittura. Quello di Fuori di casa resta, anche qui, un Montale stilisticamente controllatissimo, sobrio, secco, determinato verso l’uso
costante delle tonalità ‘in minore’. Ciò non vuol dire che questi testi
9
Ora in Fuori di casa, PR, pp. 503-8.
Ivi, p. 508.
10
332
non siano intessuti della sapienza del grande letterato, che sa giocare
UDIÀQDWDPHQWHODSDUROD¶TXRWLGLDQD·JLRVWUDQGRODVLQRDOUHIHUWRSHU
poi improvvisamente ravvivarla con poche, ma incisive illuminazioni. Si tratta di metafore fulminee (i «laocoonti arborei» di Getsemani), di similitudini penetranti («i quartieri dei rifugiati» ad Amman
«formano una sorta di lebbrosario edilizio»), ma soprattutto di lievi
riferimenti letterari (il pascaliano «naso di Cleopatra» accostato alla
«medaglia di Ussèin» nella chiusa di Noterelle di uno dei Mille)11 o anche
di sguardi divergenti, note apparentemente incongruenti che proiettano una luce straniante sulla scena del testo (si pensi al paesaggio
della sua Via Crucis: «Era una sera di luna, non si vedeva anima viva.
In un seminterrato un uomo impastava coi piedi nudi una melma di
olio di sesamo e il tanfo dilagava intorno»).12 Quel che però ci preme
soprattutto rilevare è la densità semantica dei resoconti di viaggio
da Israele e Giordania e il rilievo che nell’opera montaliana hanno
i temi lì affrontati, proprio perché queste terre hanno trovato un
posto stabile tra i «lacerti» della memoria del poeta.
Per andare più a fondo in questa direzione, è probabilmente il
caso di leggere gli articoli inviati dal Medioriente nel gennaio del
1964 secondo tre differenti livelli ermeneutici. A un primo livello,
il più immediato, si colloca ovviamente il resoconto del viaggio di
Paolo VI: il suo itinerario, i suoi gesti, i suoi discorsi. Su un secondo
piano di lettura bisogna considerare i passaggi montaliani riguardanWLLOFRQWHVWRVWRULFRJHRJUDÀFRGHOYLDJJLROD3DOHVWLQDFRPHRJJHWWRGHOFRQÁLWWRDUDERLVUDHOLDQRHODFXOWXUDRULHQWDOHYLVWDDQ]LWXWWR
nel suo rapporto con lo sviluppo industriale e tecnologico dell’Occidente. C’è poi un terzo livello ermeneutico, che è certamente il più
profondo e interessante. Si tratta della dimensione esistenziale del
‘pellegrinaggio’ PRQWDOLDQRHGHOOHVXHGRPDQGHHULÁHVVLRQLLQWLPH
VXOOHUHOLJLRQLPRQRWHLVWHVXOODIHGHVXOODÀJXUDGL&ULVWRËHYLGHQte infatti che qui si situa il vero cuore del viaggio e dei testi ad esso
collegati, come Montale stesso ebbe a riconoscere molti anni dopo,
11
Si tratta del secondo pezzo palestinese, Noterelle di uno dei Mille, ora raccolto
in PR, pp. 509-13.
12
Per un’analisi dello stile del Montale «inviato speciale» si vedano le osservazioni di P. V. MENGALDO, Montale «fuori di casa», in ID., La tradizione del Novecento.
Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 339-56. Il saggio era già uscito
nel 1970 in «Strumenti critici».
333
in un articolo sulla morte di Paolo VI su cui torneremo a momenti: «Allora mi interessavano più i luoghi che visitavo. Misuravo me
stesso con i luoghi che sono stati la culla del monoteismo. E dal senso dell’eternità che essi trasmettevano, io stesso ero contagiato».13
Mentre segue il papa pellegrinante, Eugenio Montale non resiste al
fascino di un mondo che pare incredibilmente trasportarlo in quelO·©ROWUHWHPSRªGDOXLSUHÀJXUDWR6RSUDWWXWWRSHUzLOYLDJJLRLQ3Dlestina diventa per il poeta un’occasione, una sua «occasione», per
misurarsi in maniera serrata e diretta con i grandi problemi posti
dalla fede nel Dio di Israele, dalla quale ebrei, cristiani e musulmani
sono da sempre accomunati.
2. FENOMENOLOGIA DEL VIAGGIO PAPALE E DINTORNI
Il 6 agosto del 1978 muore Giovanni Battista Montini, salito al soglio
SRQWLÀFLRQHOFROQRPHGLPaolo VI. Il suo era stato un papato
GLIÀFLOHWUDYDJOLDWR$YHYDULFHYXWRGDOOHPDQLGLGiovanni XXIII la
pesante eredità di un Concilio dalle proporzioni e dalle prospettive
assolutamente inusitate, volto ad un profondo cambiamento della
chiesa, sia al suo interno che nell’atteggiamento verso il mondo contemporaneo. Montini era riuscito a portarlo a termine, attenuando la
carica innovativa dell’evento (i suoi interventi, ad esempio, avevano
ristretto di molto la libertà concessa all’assemblea conciliare da Giovanni XXIII nella prima sessione dei lavori),14 ma anche mediando
fra le forti spinte contrapposte chiaramente emergenti nel dibattito
GHOO·DXOD1RQDFDVRG·DOWURQGHQHOSRQWLÀFDWRGLPaolo VI c’erano
stati gesti e parole di diversa natura: momenti di slancio, di grande
apertura si erano alternati con scelte, pur angosciose a volte, di ritrosia e di chiusura nei confronti di una vita sociale e culturale sempre
13
Ha creato molti dubbi, e lo sapeva, PS 2, p. 3062.
A questo proposito cfr. G. ALBERIGO, «Imparare da sé». L’esperienza conciliare,
in Storia del Concilio Vaticano II. La formazione della coscienza conciliare, ottobre 1962-settembre 1963, dir. da G. Alberigo, vol. II, Leuven-Bologna, Peeters-Il Mulino, 1996,
pp. 613-34.
14
334
più secolarizzata.15 Il viaggio in Palestina era stato certamente uno
GHLSDVVLSLSURIHWLFLGHOSRQWLÀFDWRmontiniano. Da allora, il Montale giornalista non si era più occupato del papa, se non di sfuggita. Quando Paolo VI muore, però, il poeta rimane profondamente
toccato e scrive alcune note, pubblicate sul «Corriere» dell’8 agosto
1978: «Ho scoperto a fondo Paolo VI l’altra sera quando davanti al
televisore ho appreso della sua morte. Mi sono sentito commosso
come lo sono ora nel rivivere quel momento: una profonda commozione, come un dolore mio. Perché questo sentimento? Perché
è morto un uomo che soffriva, soffriva intensamente, e che si è
portato dietro forse più che un mistero di angoscia».16 È proprio in
relazione all’intensità sentimentale del momento che Montale misura, quella sera, il disinteresse per il papa che aveva contraddistinto
la sua esperienza di inviato in Medioriente: «Alla commozione e alla
pietà, vorrei aggiungere il rammarico di non aver fatto molto di più
per avvicinarlo quando ne ho avuto l’occasione, cioè durante quel
lontano viaggio in Palestina. Lo vidi pochissimo, sempre da lontano,
non gli parlai mai. Vivevo quell’esperienza come la vivevano i capi
delle tante sette cristiane o paracristiane che popolano l’Oriente, abituati a veder arrivare i profeti dal punto cardinale opposto da cui
arrivava questo esile, bianco prete romano, semplice, quasi spaurito.
[...] Mi sono distratto molto in quel viaggio dall’uomo che è morto
l’altra sera».17
15
In particolare, Montale restò negativamente colpito dalla scelta del referendum sul divorzio, su cui si espresse nelle Variazioni: «Il fatto più importante del
’74, qui in Italia, è stato il censimento dei cattolici [...]. Nella mia ingenuità non
vedo perché mai S.S. Paolo VI non abbia chiesto al prof. Lombardi di desistere
dalla sua stolta iniziativa. L’idea stessa di porre a referendum l’anima dell’uomo
(che di questo si trattava) non poteva che ripugnare ad ogni singolo credente. E
di fatto questo avvenne. Naturalmente le acque si confusero ed è alquanto semSOLFLVWLFRSDUODUHGLFHQVLPHQWR0DLOVLJQLÀFDWRqVWDWRanche questo. Peccato che
Paolo VI abbia perduto l’occasione. Avrebbe potuto portarsi al livello dell’ultimo
grande papa: Benedetto XV» (PR, p. 1158. Il corsivo è di Montale).
16
Ha creato molti dubbi, e lo sapeva, cit., p. 3060.
17
Ivi, p. 3061. D’altra parte, come era nel suo temperamento, Montale si guarGzEHQHGDOSUHQGHUHWURSSRVXOVHULRO·LPSHJQRÀVLFRHQHUYRVRFKHHUDULFKLHVWR
ai giornalisti al seguito del papa in Palestina (esibizione di tessere, salvacondotti,
sveglie in piena notte), e ne offrì anzi un ritratto alquanto umoristico in Noterelle di
uno dei Mille, pur con un’immancabile dose di autoironia.
335
A quasi quindici anni di distanza, Montale conferma la propria
scarsa attenzione di allora per il viaggio del papa e per lo stesso
Montini. I pezzi inviati al «Corriere» in quei primi giorni del 1964
toccano in maniera molto esterna i temi del pellegrinaggio paolino,
ricostruendone l’itinerario solo in funzione dei reali interessi dell’inviato (Cana, Ramla o il colle delle Beatitudini vengono ad esempio
appena nominati, mentre Getsemani e la Via Dolorosa occupano
XQSRVWRDVVROXWDPHQWHFHQWUDOHQHOOHULÁHVVLRQLmontaliane), e accennando di passaggio alle date e agli appuntamenti fondamentali
dell’itinerario di Paolo VI (solo «la prima messa di un Papa in Terrasanta» viene esplicitamente citata da Montale con l’indicazione della
relativa data: lo «storico 4 gennaio 1964»). Per il resto, l’evento del
viaggio papale in Palestina rimane chiaramente sullo sfondo. Al limite, Montale si preoccupa della ‘ricezione’ della visita del papa, del
modo in cui uomini di culture e religioni ‘altre’ hanno accolto Paolo
9,©&KHFRVDSHQVDQRJOL$UDELGHOQRVWURFRUDJJLRVR3RQWHÀFH"
Lo abbiamo chiesto ad un arabo ed egli ci ha interrogato a sua volta:
sa camminare sull’acqua il Papa? E alla nostra risposta se ne è andato
deluso. Ciò non toglie che in questo paese l’interesse per l’inopinato
gesto di Paolo VI sia stato altissimo».18 «In Israele non so che effetto
abbia fatto: buono senz’altro ai politici, ai capi;; meno buono alle soldatesse di vent’anni. Ma era inevitabile. Troppe piaghe sono ancora
aperte in queste terre e ai giovani non si può chiedere imparzialità e
senso di giustizia. E alle donne poi!».19
Per quel che riguarda la memoria profonda dell’evento, le poesie
di Satura e di Altri versi ci restituiscono alcuni ÁDVKHVdel viaggio, sotto forma, al solito, di avvenimenti o discorsi magari marginali, ma
FKHKDQQRWURYDWRVSD]LRQHOO·LPSUHYHGLELOHVRIÀWWDmontaliana dei
ricordi. Si tratta essenzialmente di un discorso di Paolo VI sulle religioni monoteiste – «Tutte le religioni del Dio unico / sono una sola:
variano i cuochi e le cotture. / Così rimuginavo [...] Anche il papa /
18
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 504.
Noterelle di uno dei Mille, cit., p. 512. In un’intervista concessa a Vigorelli
nel 1964 Montale tornò a parlare del recente viaggio in Israele e in particolare
dell’accoglienza ricevuta dal papa: «Il viaggio di un papa in Terra Santa è stato un
grande avvenimento – non solo apostolico o religioso, ma “politico” – che certo
avrà notevoli ripercussioni in tutto il mondo. È straordinario l’entusiasmo che ha
suscitato laggiù anche tra i non cristiani» (Cinque domande a Montale, AMS, p. 1632).
19
336
in Israele disse la stessa cosa»20 – citato in La morte di Dio (un testo
su cui dovremo tornare, in quanto si serve dell’occasione memoriale
per affrontare, in realtà, le questioni più scottanti sollevate nell’animo del poeta dal viaggio mediorientale);; e di un curioso episodio sul
le rive del lago di Tiberiade, narrato in Da Gerusalemme divisa («Una
piccola monaca espone alla mia ammirazione un grosso luccio che
HUDFRQYLQWDIRVVHGHVWLQDWRDOODFHQDGHO3RQWHÀFHª21 HDPSOLÀFDWR
in Un invito a pranzo («Le monachelle sul Lago di Tiberiade / reggevano a fatica un grande luccio / destinato dicevano a Sua Santità /
mi chiesero di restare qualora il Santo Padre / dichiarasse forfait (il
che avvenne dipoi). / Non senza assicurarsi che sebbene at large /
io ero un buon cattolico. Purtroppo / generose sorelle sono atteso
al monte degli Ulivi / fu la risposta accolta da rimpianti / benedizioni e altro. Così ripresi il viaggio. / Sarebbe stato il primo luccio della
mia vita / e l’ho perduto non so se con mio danno / o con vantaggio. Un luccio oppure un laccio?»),22 dove con l’ironia tipica della sua
seconda maniera Montale pare alludere al pericolo scampato di una
captatio imprevedibile, e probabilmente indesiderabile, nelle schiere
della cattolicità più ortodossa e organizzata.
In ogni caso, all’inviato speciale del «Corriere della Sera» sfugJHO·HYHQWXDOHVLJQLÀFDWRVWRULFRGHOYLDJJLRGLPaolo VI. Sebbene
sia ammesso in via di ipotesi nell’ultima parte di Da Gerusalemme
divisa («Ma sul piano della storia esistono forze che agiscono nel
sottosuolo e che sfuggono alla comprensione dei contemporanei.
Forse io mi sono trovato come Fabrizio del Dongo a Waterloo: ho
assistito ad una grande azione storica senza rendermene conto. Più
tardi attraverso il ricordo ne prenderò piena coscienza»),23 esso vieQHSHUzSRLGHÀQLWLYDPHQWHSRVWRIXRULJLRFRQHOO·DUWLFRORGHO
«Se rivado con la memoria a una frase che ebbi occasione di scrivere
una sera in un albergo di Gerusalemme («Un giorno prenderò piena
coscienza di ciò che mi accade oggi d’intorno»), debbo dire che que-
20
La morte di Dio, in Satura, cit., p. 327.
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 506.
22
Un invito a pranzo, in Altri versi, TP, p. 704.
23
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508.
21
337
sto giorno non è ancora venuto. Forse la morte di Paolo VI mi farà
meditare anche su questo».24
Letti dal punto di vista dell’inviato standard, il cui obbligo è anzitutto l’informazione sui fatti, i pezzi montaliani dalla Palestina appaiono insomma come una serie di corrispondenze mancate. Non
era il pellegrinaggio di quell’«esile, bianco prete romano» a muovere
e ad appassionare Montale sulle vie della Terrasanta. Se il suo giudizio su Paolo VI, dopo anni di implicitezza, maturerà in quella sera
di agosto del 1978, ponendogli dinanzi agli occhi l’immagine di un
uomo che non ha voluto chiudere «alcuna partita», aprendo «molti
dubbi» e sottoponendosi ad una «sosta amara» della storia ecclesiastica, dopo gli sconvolgimenti provocati dal papato giovanneo (che
Montale non stimava);; se la sofferenza di Montini ora lo «commuove» e lo «riempie di pietà», resta altrettanto chiaro per Montale, anche quindici anni dopo, che durante quel viaggio in Palestina Paolo
VI era stato per lui nient’altro che un’«ombra».25
3. LE CULTURE E IL CONFLITTO: LA PALESTINA FRA ORIENTE E
OCCIDENTE
«Nel Libano si vive come se il mondo / non esistesse, quasi / più
sepolti dei cedri sotto la neve».26 Questi versi di Trascolorando, una
poesia di Diario del ’71 e del ’72, rendono plasticamente l’idea dell’attrazione montaliana per la civiltà e la cultura d’Oriente. Lo intrigava
la sensazione che in quelle terre il tempo fosse come sospeso, che ci
si muovesse in una dimensione diversa, un’aria di pace molto simile
DTXHOODGLXQDPRUWH¶EXRQD·GLXQDÀQHJUDYLGDGLDYYHQLUHLQFXL
FLVLSXzGLPHQWLFDUHGHOPRQGRFRPHLQXQDSHUHQQHLQGHÀQLWD
attesa. «Paesi come questi lasciano, come ha detto il vecchio re ’Abd
Allah assassinato qui a Gerusalemme, un’impressione di eternità».27
Per questo Montale era molto disturbato da qualunque elemento
VSXULRFKHVFRQYROJHVVHLOSDHVDJJLRRULJLQDULRLQGHÀQLWLYDGHWXU24
Ha creato molti dubbi, e lo sapeva, cit., p. 3063.
Ivi, pp. 3061-2.
26
Trascolorando, in Diario del ’71 e del ’72, TP, p. 425.
27
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508.
25
338
pandolo. Nel 1964 il fastidio si appunta anzitutto sulle architetture
orrendamente sovrapposte ai luoghi santi, capaci di far perdere loro
l’aura di mistero, il senso del religioso che li contraddistingue: «Anche a Nazareth bisogna scendere sotto terra per vedere le grotte
dove vissero a lungo Maria e Gesù e dove Giuseppe lavorò come
falegname. Purtroppo la chiesa che sovrasta le grotte raffredderebbe
la fede più ardente e il paesaggio circostante, assai deturpato, non
JLXVWLÀFDSLODVXDUHSXWD]LRQHª28
In ogni caso, il pellegrino Montale appare completamente aperto,
e direi predisposto, ad interiorizzare l’alterità dei luoghi che sta visitando. Molte volte, a proposito di Fuori di casa, la critica ha insistito
sulla tendenza dei pezzi montaliani a riportare il diverso alla misura
del familiare, a far rientrare il mondo negli schemi di quel letterato e uomo di cultura occidentale che Montale certamente era.29 Ma
se tale rilievo può venir confermato in diversi casi, certo i viaggi
mediorientali fanno eccezione. Non che il poeta genovese non sia
partito dall’Italia con un bagaglio ricco di attrezzi ermeneutici (si
pensi solamente alla chiusa di Le Cinque Terre, un pezzo del 1946: «E
chi non ha visto tornare all’alba, semisommerse da cento rubbi (ottocento chili) di acciughe una di queste barche, entro le quali i vogaWRULVHPEUDQRDUDUHLÁXWWLVWDQGRLQSLHGLVXOOHDFTXHQRQSRWUjGLUH
che i pescatori del Nuovo Testamento gli siano in qualche modo
familiari»),30 ma non c’è dubbio che una volta giunto in Medioriente
Montale abbia cercato di cogliere anzitutto la distanza che separava
quei luoghi dai nostri, annusandone gli odori, osservandone attentamente i paesaggi, ascoltandone con passione i suoni: «Ho sostato a
lungo – scrive nel 1948 – per ascoltare i vocalizzi di un nero muezzin,
nero su una torretta bianca protetta da una tettoia illuminata da corone di lampadine elettriche. Lo scroscio della pioggia pareva renGHUHSLIXQHEUHTXHOO·DQWLIRQDPDODUDJD]]DOLEDQHVHFKHO·XIÀFLR
Protocollo ha messo a mia disposizione come guida e hostess non
trova affatto triste la melopea del buon sagrestano sunnita».31 Con28
Ivi, p. 506.
Oltre che nel saggio di Mengaldo già citato, la medesima osservazione si
trova ad esempio in M. FORTI, Montale fuori di casa: implicazioni e concordanze, «Il
Bimestre», I, 3-4, luglio-ottobre 1969, pp. 4-13.
30
Le Cinque Terre, in Fuori di casa, PR, pp. 236-237.
31
Da Tripoli di Siria, in Fuori di casa, cit., p. 282.
29
339
siderazioni con cui fanno il paio quelle del 1964: «Qui [a Betania]
la chiesa è quasi addossata a una moschea e il suono dell’organo
e il canto rauco del muezzin si fondono in un unico stupefacente
concerto».32 Mi si consenta a questo proposito una nota attualizzante. Mentre in Italia scrittori certo lontanissimi dalla statura umana e
artistica di Eugenio Montale hanno fatto dell’attacco «alla vociaccia
sguaiata del muezzin» la bandiera di una rabbia e di un orgoglio tanto
gratuiti quanto sostanziati di ignoranza e di rozzezza culturale (oltre
che di insipienza politica), il maggiore poeta del Novecento italiano
dimostra, in un semplice servizio dalla Terrasanta, quanta disposizione all’ascolto e all’accoglienza autentica dell’altro si possa ricevere
da una profonda maturazione della grande paradosis dell’Occidente.
Sin dal viaggio del ’48, infatti, Montale era rimasto preso dall’OULHQWHQRQFRQO·LQJHQXLWjGHOQHRÀWDSHUOXLDVVROXWDPHQWHLPSRVVLELOHPDFRQODÀQH]]DG·DQLPRGHOJUDQGHXPDQLVWDFKHVHQWLYD
preservata in quelle terre la dimensione spirituale, non pragmatica,
della nostra esistenza: «Ma bisogna andare in Oriente – dichiara in
un’intervista del 1964, al ritorno dalla Palestina – per capire cos’è la
religione. Ho inteso veramente il sentimento religioso solo laggiù: la
vera sede delle religioni è l’Oriente».33 L’impressione più forte che
la Terrasanta gli lascia dentro è quella dell’autenticità: «Lì tutto è
autentico, un albero è un albero, una capra è una capra»,34 ovvero: in Palestina ogni cosa è restituita alla semplicità originaria del
proprio ruolo, ogni cosa si rivela per quello che è, senza manipola]LRQLRLQÀQJLPHQWLFRQVHJQDQGRVLDOO·XRPRLQXQDVRUWDGLGDWLWjFKHRFFXSDORVJXDUGRHFRQVHQWHODQHWWH]]DGLXQDGHÀQL]LRQH
dei contorni priva di equivoci, come se chi guarda fosse collocato
nella quiete dell’essere, di quella tautologia che appartiene al puro
essere, dal roveto ardente in poi. La salvezza degli uomini si trova,
secondo Montale, in una tale trasparenza del mondo, ormai come
VPDUULWDLQ2FFLGHQWH0HQWUHO·XPDQHVLPRSRWUHEEHHVVHUHDOODÀQH
(«Potrei citare Hegel. L’uomo dell’umanesimo (intendo: da Cristo
ad oggi) non è che una piccola fase: cosa sono duemila anni nella
32
Da Gerusalemme divisa, cit., pp. 505-6.
Cinque domande a Montale, cit., p. 1632.
34
Il profeta dell’Apocalisse, AMS, p. 1637.
33
340
storia dell’uomo? Si attendono altre fasi»),35 il dominio della mentaOLWjVFLHQWLÀFDULVFKLDGLDQQLFKLOLUHRJQLVSD]LRGLFRQWHPSOD]LRQH
HGLULÁHVVLRQHGLVLQWHUHVVDWDSULYDQGRLQGHÀQLWLYDODFXOWXUDRFFLGHQWDOHGHOO·DOLWRYLWDOHFKHÀQRDGRUDO·DYHYDVRVWHQXWDHJHWWDQGROD
nel «caos».36 Sono cose che Montale pensa sin dagli anni ’50, come
dimostrano i suoi resoconti del Processo dell’Oriente all’Occidente, un
grande incontro tra intellettuali orientali e occidentali svoltosi a Venezia nel 1955 per iniziativa della Fondazione Cini. Ovviamente, nei
suoi ragionamenti non ci sono condanne sbrigative o moralistiche.
Quel che emerge, anzitutto, è il timore di una occidentalizzazione
GHOPRQGRFKHIDFFLDSHUGHUHDOO·2ULHQWHODSURSULDVSHFLÀFLWj(UD
una domanda già presente nei pezzi veneziani del ’55 («a noi pare
che il punto veramente problematico della questione sia qui: l’altisVLPROLYHOORWHFQLFRVFLHQWLÀFRGHOODFLYLOWjRFFLGHQWDOHKDFRPHSURprio suo carattere imprescindibile l’allontanamento dell’uomo dallo
spirito religioso? E in tal caso, non seguirà la stessa amara sorte lo
spirito religioso anche in Oriente, fortemente occidentalizzato?»),37
HFKHSXQWXDOPHQWHULWRUQDDOODÀQHGLDa Gerusalemme divisa: «Abbiamo creato tante macchine, il progresso, sebbene a rilento, è giunto
anche qui, eppure noi sentiamo che la via del progresso meccanico
non è che una delle vie possibili e forse non è neppure la via giusta per l’Oriente che noi possiamo dire cristiano anche se i cristiani
vi siano in minoranza».38 D’altra parte, proprio il viaggio di Paolo
VI – questo imprevedibile gesto della ‘visita’ all’Oriente da parte
della maggiore personalità religiosa occidentale – ha avuto quasi
come contrappasso, annota Montale, la penetrazione in Giordania
e Israele della «macchina diabolica»,39 ossia della televisione, mentre
agli occhi del poeta appare già allora lampante la contraddizione tra
ODPRGHUQLWjLVUDHOLDQDHO·DIÁDWRDQFRUDWXWWRRULHQWDOHGHOODFXOWXUD
araba in Giordania: «La Gerusalemme ebraica è una città moderna
dove esiste quasi ogni comfort, escluso un buon riscaldamento. Israele
conta ben sette università e non ha analfabeti. Il contrasto psico35
Il mestiere di poeta, AMS, p. 1647.
Processo dell’Oriente all’Occidente, PS 2, p. 1860.
37
Ivi, p. 1875.
38
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508.
39
Ivi, p. 505.
36
341
logico con lo Stato giordano non potrebbe essere più forte. Di là
l’Oriente con la sua inerzia e la sua apparente inoffensività: di qua
uno Stato moderno, ma ibridato incredibilmente».40
In realtà, infatti, lo stesso Israele si porta dentro, come incapsulata
nell’involucro della modernità, la propria storia, quella di un popolo
orientale, che ha vissuto l’esperienza religiosa con una assoluta radicalità e ha da sempre pensato che la propria consistenza dipendesse,
LQGHÀQLWLYDGDOODUHOD]LRQHFRQ'LR0RQWDOHVLUHQGHFRQWRDFXWDmente del dramma e della terribile contraddizione insita in un tessuto sociale in cui «accanto agli ortodossi, che portano lunghe trecce e
insultano chi si permette di fumare il sabato, stanno gli stessi uomini
che possiamo incontrare in Via Montenapoleone».41 È sorprendente
notare come, visitando la Palestina nel medesimo torno di tempo,
anche Pier Paolo Pasolini sia rimasto colpito dalla condizione israeliana negli stessi termini di Montale. In Una giornata a Tel Aviv, uno
splendido testo di Poesia in forma di rosa – il suo libro del 1964 – il
poeta friulano percepisce il solco che si è ormai scavato in Israele
fra tradizione e modernità. Si tratta, per lui, di un fossato che separa
L SDGUL DQFRUD OHJDWL DOOD VWRULD DQWLFD GDL ÀJOL FKH ©SDVVHJJLDQR
si radunano, belli, / per le vie della loro città, / come a Piazza del
Popolo o Montmartre».42 Pasolini protesta accoratamente contro
l’occidentalizzazione dei giovani israeliani, che pare abbiano perso
il senso e la memoria delle proprie radici: «Ma sono Ebrei. Perché
VLFRPSRUWDQRFRVuFRPHÀJOLGLERUJKHVLDULDQLGHOOHJUDQGL
stupide stirpi d’occidente?»:43 un appello, un lamento quasi, certamente lontano dalla sensibilità linguistica di Montale. Eppure anche
l’inviato speciale del «Corriere della Sera» è intimamente convinto
che l’impresa della costruzione di uno stato moderno, o, meglio ancora, la trasformazione di Israele da comunità spirituale in potenza
40
Ivi, p. 507.
Ibidem.
42
P. P. PASOLINI, Una giornata a Tel Aviv, in Poesia in forma di rosa, ora in Le poesie,
Milano, Garzanti, 1975, p. 495 (cito da questa edizione che riproduce il testo dato
alle stampe nell’aprile del 1964, e poi ritirato e rivisto da Pasolini – per motivi proIRQGLHÀORORJLFDPHQWHVLJQLÀFDWLYLFKHKRFHUFDWRGLVSLHJDUHLQA. SICHERA, La
FRQVHJQDGHOÀJOLR/HFFH0LOHOOD²FRQVXFFHVVLYDXVFLWDPRGLÀFDWDQHOJLXgno dello stesso anno;; è questo il testo riprodotto nell’edizione Chiarcossi-Siti).
43
Ibidem.
41
342
politica, sebbene assolutamente alla portata di un popolo tanto fattivo e intelligente, possa essere un evento completamente negativo
per il mondo ebraico: «Ciò non toglie che la Galilea sia molto bella
e che tutto il paesaggio israeliano dimostri la presenza di una stirpe
forte e risoluta. Che cosa accadrebbe se tutti gli Ebrei del mondo
convergessero qui e ricostruissero il loro tempio? Il loro impero
dilagherebbe in tutto il vasto territorio oggi occupato dagli Arabi: i
quali, feroci sporadicamente, sono però incapaci di organizzarsi e di
credere che l’uomo è nato per lavorare. Ma gli Ebrei della diaspora non avrebbero molto da guadagnare venendo qui: intendo nulla
da guadagnare come collettività universale. Il destino del popolo di
,VUDHOHVHPEUDTXHOORGLHVVHUHGLVSHUVRHLQVLHPHXQLÀFDWRPDQRQ
in senso territoriale. La sua vera unità l’ha formata una volta per tutte Faraone – e chi legge la Bibbia non fatica a rendersene conto».44
Non la terra, e meno che mai il regno, hanno fatto di Israele un popolo. Il suo atto di nascita è stata la storia di Esodo, l’epos incredibile
GL XRPLQL VÀJXUDWL GDOOD VFKLDYLW H GDOO·RSSUHVVLRQH GL XQ SRWHUH
crudele ed imperialistico, il cui grido è stato gratuitamente raccolto
dalla misericordia di Jahvè (Es 3). Fuori di questa comunione nel
dolore, di questa storia degli anawîm soccorsi dal loro Dio di fronte
ai potenti della terra, il mistero stesso di Israele si esaurisce, annullando la tipicità dell’esperienza religiosa degli Ebrei. In termini
molto forti, provocatori, si tratta della medesima idea espressa dai
versi di Pasolini: «Perché questo stato d’impoeticità? / Non sono
qui forse per essere uccisi? Non lo sanno? Perché questi sguardi / di
ÀJOLSDGULGLIURQWHDFXLLORURSDGULQRQVRQRFKHPLVHUHIHWLGH
bestie / nei cortiletti dei campi di sterminio, / nei treni merci già
pieni di morti? / Da quei vermi sublimi essi nacquero: / e adesso
rinfacciano loro la morte / che è la loro vita? Li vogliono / vincitori:
ma forse non lo sono?».45
A quasi cinquant’anni di distanza dai versi e dalle parole di Pasolini e di Montale, sarebbe stupido operarne meccaniche applicazioni
sull’attualità. Non c’è dubbio però che i due poeti colsero, su registri
GLYHUVLXQQRGRSURIRQGRGHOFRQÁLWWRDUDERLVUDHOLDQRXQQRGR
che Israele non ha mai voluto o saputo sciogliere. «Potranno un
44
45
Noterelle di uno dei Mille, cit., p. 510.
P. P. PASOLINI, op. cit. Il corsivo è di Pasolini.
343
giorno Arabi e Israeliani convivere in pace? È quello che si augura
ogni uomo di buona volontà. Ma il solco è ancora profondo e le
previsioni sono inutili»:46 il solco che Montale constatava nel 1964
si è certo, in questi anni, allargato. L’inviato del «Corriere» si rese
conto già allora, però, che esso lacerava lo stesso tessuto vitale di
Israele, rendendo quasi inestricabili la semantica e la simbologia del
FRQÁLWWR $OOD ÀQH D 0RQWDOH LQ 3DOHVWLQD QRQ UHVWz dunque che
prendere atto delle condizioni miserevoli di vita di «un milione di
rifugiati», concentrati nei «lebbrosari edilizi» di Amman e ripartire.
Ma la memoria del dolore e della divisione respirati in Terrasanta
non lo abbandonerà più. Non a caso, nel 1978, dopo gli accordi di
Camp David, Montale sentirà la necessità di scrivere di nuovo su un
dramma ancora vivo ai suoi occhi: «Quando visitai Israele e la Giordania con i giornalisti al seguito di Paolo VI, guardai a lungo quello
scenario tra i più dolci del mondo, reso aspro dalla macchina della
guerra che vi si era impiantata. Mi colpirono soprattutto le centinaia
di baracche di rifugiati e di internati politici. Ora si è soliti dire che
Israele evoca nei giovani l’olocausto di un popolo, ma che il palestinese si è sostituito all’ebreo nel ruolo dell’emarginato, del senza
terra. Fa meditare il pensiero che il mondo ha questo destino: di
presentarsi come una scacchiera troppo stretta, nella quale a turno
una pedina non trova posto».47 In un momento di grandi speranze
GLSDFHGRSRODÀUPDGHOO·DFFRUGRWUDSadat e Begin, Montale non
poteva cancellare dentro di sé il ricordo della sofferenza percepita
GXUDQWH LO YLDJJLR GHO Ë LQ GHÀQLWLYD LO GRORUH GHJOL XRPLQL
che ora soprattutto lo tocca, al di là di ogni schieramento o di ogni
appartenenza: «In queste ore in cui domina la parola pace, mi riesce
impossibile non pensare al mio viaggio a Gerusalemme, città nella
quale non c’era famiglia che non piangesse un morto, un morto che
evocava altri morti, altre famiglie in lutto della riva opposta».48 Ciò
che prevale nel ricordo, quindici anni dopo, è la dimensione umana
GHOFRQÁLWWRO·HYLGHQ]DWHUULELOHGHLPRUWLSLDQWLVXHQWUDPEHOHULYH
di quella piccola terra.
46
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 507.
Una gioia inquinata dal dubbio, PS 2, pp. 3067-8.
48
Ivi, p. 3068.
47
344
4. L’APPARIZIONE DELLA CARITÀ
Pur avendo già perlustrato molti testi del Montale palestinese, abbiamo però trascurato, in realtà, tutta una zona nevralgica dei suoi
servizi da Israele e Giordania, quella dove si esprime più chiaramente che cosa volesse dire il poeta di Genova quando confessava
«con quale emozione di pellegrino culturale» aveva «rimesso piede
dopo anni nelle terre dove è nato il monoteismo».49 Per capire, dobbiamo probabilmente prendere le mosse proprio dall’esordio di Da
Gerusalemme divisa: «Se è vero che le forme verbali dell’aramaico non
consentono una netta distinzione tra passato, presente e futuro, e
lascio la responsabilità dell’affermazione a Raymond Aron, si può
comprendere che il continuum GLXQHWHUQRSUHVHQWHDEELDÀQLWRSHU
imporre una certa iconoclastia ai paesi di lingue semitiche. Da un
lato concreto, la vita quotidiana, dall’altro ciò che non si può né
YHGHUHQpUDSSUHVHQWDUH&RVuLO'LRQRQHIÀJLDWRGRYHYDSUHQGHUH
presso gli Ebrei, anche gli attributi meno nobili dell’uomo: la collera, la violenza».50 Il paradosso dell’iconoclastia risiede dunque in un
GLVWDQ]LDPHQWRGHO©'LRQRQHIÀJLDWRªWDOHGDDYYROJHUORLQXQ·DXUD
di schiacciante irraggiungibilità, facilmente convertibile – in termini
DQWURSRPRUÀFL²QHOO·imago del Dio tremendo e collerico. Sottratto
ad ogni rappresentazione possibile, Dio si muta inaspettatamente
in un soggetto vicino al mondo umano proprio in ciò che esso ha
di meno nobile e alto. In un modo molto ellittico, Montale pone in
questo passo una delle questioni fondamentali del proprio universo
poetico, il cui peso andrà lievitando nei testi successivi alla svolta
della sua lirica, da Satura in poi, dove il problema di Dio, per espressa ammissione del poeta genovese, «ricorre» ormai «in forma più
esplicita».51 In questo quadro, mi pare che, almeno a proposito delle
note dalla Terrasanta, si debba rovesciare l’indicazione di metodo
a cui si è spesso ispirata la critica rispetto alla prosa montaliana. Si
tratta non di testi che possono introdurre alla comprensione della
poesia, ma di testi che, data la forza e l’intensità dei loro temi, devo49
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 508.
Ivi, p. 503.
51
La poesia e il resto, AMS, p. 1708.
50
345
no leggersi, a mio modo di vedere, poeticamente, ovvero sulla scorta
della poesia stessa, facendosi guidare da essa.
Posta in maniera molto radicale, la questione potrebbe formularsi all’incirca così: che cosa possiamo sapere di Dio? In che termini ed entro quali limiti possiamo pensarlo, farcene una qualsiasi
immagine, assumerlo ad oggetto di ricerca e di discorso? Tutta la
poesia montaliana è probabilmente assillata da questo interrogativo
di fondo, ma sono gli anni sessanta il tempo del suo sviluppo esplicito, proprio a partire dai componimenti in qualche modo collegati
al secondo viaggio mediorientale. Appare emblematico, in questo
senso, un testo di Satura FKHDEELDPRJLjVÀRUDWRLa morte di Dio:
«Tutte le religioni del Dio unico / sono una sola: variano i cuochi e
le cotture. / Così rimuginavo;; e m’interruppi quando / tu scivolasti
vertiginosamente / dentro la scala a chiocciola della Périgourdine /
e di laggiù ridesti a crepapelle. / Fu una buona serata con un attimo
appena / di spavento. Anche il papa / in Israele disse la stessa cosa
/ ma se ne pentì quando fu informato / che il sommo Emarginato,
se mai fu, / era perento». Il testo si regge chiaramente su di una
GLQDPLFDRSSRVLWLYDLQFXLOHULÁHVVLRQLVXOPRQRWHLVPR²GHOSRHWD
come del papa – vengono fatte scontrare senza mediazioni con la
caduta di Mosca dalla scala a chiocciola del ristorante francese, con
il relativo spavento, e poi con l’allegria del pericolo scampato, che
corrobora la «buona serata» del poeta e della moglie. Con il consueto rivestimento di un’ironia sottile, la poesia montaliana lavora
insomma sul contrasto irrimediabile fra la concretezza dell’esistere,
con le sue piccole angosce quotidiane e le sue lievi gioie impreviste,
e l’impervia astrattezza dei problemi teologici, scrutati dal punto di
vista della pura teoria. Il Dio di queste elaborazioni, di questi schemi
esclusivamente mentali è davvero, per il Montale degli anni sessanta,
un Dio «morto». Ad esso fa da contraltare la sapienza di Mosca,
che «dio» non lo nomina «neppure con la minuscola»,52 sa che le
questioni ultime appartengono al dominio dell’«Impronunciabile».53
Per tale motivo, la riduzione di Dio alla misura dell’uomo, la sua
UHVDDQWURSRPRUÀFDLQTXDOXQTXHPRGRVLGLDDVVLOODHGLVWXUEDLO
«secondo» Montale. La sua polemica si rivolge contro i teologi, gli
52
53
Le monache e le vedove, in Satura, cit., p. 313.
Il tuffatore, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 440.
346
VFLHQ]LDWLLÀORVRÀWXWWLFRORURLQVRPPDFKHIDFHQGRGHOFRQFHWWR
il loro mestiere credono di poter riportare Dio su scala umana o
ridurlo ad un fenomeno tra gli altri.
I teologi, anzitutto. Non importa se «in tuta / o paludati»:54 la
loro colpa è quella di presentarci «un Deus absconditus che ha barEDEDIÀHRFFKLDPLOLDUGLSHUFKpQXOODJOLVIXJJHGLQRLHGXQque quasi un complice dei nostri / misfatti, un vero onnipotente che
/ può tutto e non lo può o non lo vuole».55 Nascondimento e antroSRPRUÀVPRVLPHVFRODQRLQTXHOODFKHGLYHQWDXQDIXPRVDWHRULD
buona per «i chierici», ostinati a mantenere per sé il monopolio del
divino, comminando magari ridicole sospensioni, a divinis appunto
(«Sospeso sì, ma da chi? Da che cosa e perché? / A mezz’aria atWDFFDWRDXQÀOR"(LOGLYLQRVDUHEEHXQJDQFLRDFXLFLVLDSSHQde? / Si può annusarlo come qualsiasi odore?»),56 R SUHÀJXUDQGR
FRPH©LIHGHOLGHOYHFFKLR'LRªXQDÀQDOHOLEHUD]LRQH©GDOPDJPDª
l’estenuante speranza in un coup de théàtre, che ci fa vivere come «una
doppia vita», sempre protesi verso un oltre.57
Né si pensi che possa essere la scienza a farci uscire dall’impasse.
Nella prospettiva montaliana il Dio degli scienziati risulta forse ancora più inservibile di quello dei teologi. Sarebbe in fondo il Dio
della cosmologia, non più creatore con la «bacchetta magica»,58 ma
SUREDELOH©$UWHÀFHª²PDJDUL©DFRUWRGLDUJRPHQWLª²GHO©JUDQde scoppio iniziale»,59 ovvero del Big Bang. Dio, insomma, come
©DUWLÀFLHUHFKHIDVFRSSLDUHWXWWRLOEHQHHLOPDOHHVLFKLHGH
perché noi ci siamo cacciati / tra i suoi piedi, non chiesti, non voluti,
/ meno che meno amati».60 Se il Dio dei teologi è «spaventosamenWHªDQWURSRPRUÀFRTXHOORGHJOLVFLHQ]LDWLqVSHFXODUPHQWHDVHWWLFR
lontano, niente di più che una sorta di Ur-fenomeno della natura,
al limite, un Dio assente: «Dicono / che gli dèi non discendono
quaggiù, / che il creatore non cala col paracadute, / che il fondatore
54
Piove, in Satura, cit., p. 346.
Il mio ottimismo, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 508.
56
L’odore dell’eresia, ivi, p. 474.
57
Cfr. La buccia della terra, in Altri versi, cit., p. 670.
58
Big Bang o altro, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 545.
59
Il grande scoppio iniziale, in Altri versi, cit., p. 677.
60
Il mio ottimismo, cit., p. 508.
55
347
non fonda perché nessuno / l’ha mai fondato o fonduto / e noi siaPRVRORGLVJXLGLGHOVXRQXOOLÀFDQWHPDJLVWHURª61 In questi versi
di Divinità in incognito – un testo su cui torneremo, in quanto titolo
e tema vengono, non a caso, direttamente dai pezzi palestinesi di
Montale – il poeta di Satura protesta ironicamente contro il consesso
dei sapienti che ha tagliato fuori Dio da ogni relazione vitale con gli
umani, rendendo questi ultimi nient’altro che errori di un agire superiore ed insondabile, il cui obiettivo sarebbe paradossalmente il nulla. A questo ordine semantico appartengono dunque, nella poesia
del secondo Montale, «il Proto», di cui Mosca e il poeta sarebbero
«due prove, / due bozze scorrette» indegne «d’uno sguardo» e del
quale anche «l’americana di Brünnen», morta suicida, non è stata
che «un lapsus madornale»;;62 il «Chi volle tu fossi... e se ne pentì» di
Il primo gennaio;;63 «l’Altro», «i nostri commerci» col quale «sono stati un
lungo inghippo».64 D’altra parte, nella Lettera da Albenga, scritta pochi
mesi prima della partenza per la Palestina e raccolta in Auto da fé,
Montale contrappone, in un medesimo movimento polemico, il Dio
DQWURSRPRUÀFR©GHOOHUHOLJLRQLVWRULFKHªDO'LRGHLÀVLFLFKH©LJQRUD
l’opera sua e le conseguenze che ne sono venute [...] Diciamo pure
tutto: un simile Dio non dà consolazione all’anima umana ed era
inevitabile che il suo volto subisse adattamenti e mascheramenti».65
I primi anni sessanta sono dunque per Montale un tempo di costante ULÁHVVLRQHVXOWHPDGHOO·imago Dei, e non è allora senza motivo
che sia proprio una personalissima meditazione teologica ad aprire
L VHUYL]L GDOOD 3DOHVWLQD /RQWDQR GDO 'LR FRGLÀFDWR GDOOH WHRORJLH
come anche dal Dio degli scienziati, addirittura sprezzante verso
ODVYROWDOLQJXLVWLFDGHOODÀORVRÀDFRQWHPSRUDQHDFKHULFRQGXFHLO
61
Divinità in incognito, in Satura, cit., pp. 376-7.
Botta e risposta II, in Satura, cit., p. 355.
63
Il primo gennaio, ivi, p. 412.
64
L’Altro, ivi, p. 417. La distanza dell’Altro dalla condizione degli uomini e
dalla loro esistenza è crudamente sottolineata in Realismo non magico, testo sempre
inserito in Satura: «Che cosa di noi resta / agli altri / (nulla di nulla all’Altro) /
quando avremo dimesso / noi stessi / e non penseremo ai pensieri / che abbiamo
avuto perché / non lo permetterà / Chi potrà o non potrà, / questo non posso
dirlo» (TP, p. 344).
65
Lettera da Albenga, in Auto da fé, AMS, pp. 373-4.
62
348
mondo alla «struttura del linguaggio»66 messo al posto di Dio67 –
un «dio dimidiato» però, «che non porta a salvezza»68 – il poeta di
Satura opta per una radicale contestazione di ogni pretesa umana di
pensarlo, Dio, di ogni volontà di disamina puramente teorica della
questione fondamentale dell’esistenza. Se «il pensiero è aberrante
per natura»,69YROHUYLULQFKLXGHUH'LRVLJQLÀFDO·RUURUHGL©SHQVDUH
l’impensabile»,70 mentre «la nostra testa non è fatta per questo».71
Alla domanda angosciosa posta dal poeta davanti alle mura della
Chiesa di Edimburgo («Ma insomma, dov’è Iddio, dov’è?»),72 non
possono dare risposte né il razionalismo dei teologi o dei predicatori, né l’empirismo degli scienziati o gli avvitamenti concettuali dei
ÀORVRÀ(DOORUD"
C’è per Montale un’altra via, indicata, ancora molto ellitticamente, in Da Gerusalemme divisa: «Mancando ai monoteisti il conforto che
ebbero i Greci di popolare la Terra di divinità terrene o subdivinità
in incognito, molto lento dovette essere il processo che vide nascere la carità, in sostituzione dell’antica pietas, accessibile solo a pochi privilegiati. E fu la rivoluzione cristiana, da duemila anni la sola
rivoluzione che, incompiuta com’è, dica ancora qualcosa al cuore
dell’uomo».73 Si tratta di un passaggio non semplice, ma incentrato
abbastanza chiaramente su due perni essenziali: la relazione della
cultura greca col divino e l’apparizione della carità. Se per il primo
FRUQRGHOODULÁHVVLRQHmontaliana si può citare la quasi contemporanea Lettera da Albenga («I Greci avevano risolto il problema in altro
modo: inventando gli Dei, divinità ad hoc fatte a loro misura. Non
diverso il pensiero di Hölderlin che credeva all’esistenza di divinità
terrestri, viventi in incognito tra di noi»),74 il secondo punto – la na66
La forma del mondo, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 447.
La lingua di Dio, ivi, p. 455.
68
Un tempo, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 530.
69
Terminare la vita, ivi, p. 584.
70
Due epigrammi, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 509.
71
Il dono, in Poesie disperse, cit., p. 862.
72
Sosta ad Edimburgo, in Farfalla di Dinard, PR, p. 199. Si tratta del medesimo
interrogativo di Vento sulla Mezzaluna nella Bufera: «L’uomo che predicava sul Crescente / mi chiese: “Sai dov’è Dio?”» (TP, p. 235).
73
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 503.
74
Lettera da Albenga, cit., p. 374.
67
349
scita della carità – potrebbe far pensare ad uno schema hegeliano,
VXOWLSRGLTXHOORHVSRVWRGDOÀORVRIRGL6WRFFDUGDLQLo spirito del
Cristianesimo e il suo destino, dove la contrapposizione tra l’umanità
degli Dei greci e l’alterità disumana del Dio degli Ebrei viene risolta
dialetticamente proprio grazie all’amore predicato da Cristo, uomo
e Dio.75 Ma probabilmente, per andare più a fondo, bisogna nuovamente volgersi alla poesia, come già implicitamente suggeriva la
Lettera da Albenga a proposito delle «divinità viventi in incognito tra
di noi»: «Ma non è facile incontrarne qualcuna;; solo ai poeti è concessa tale possibilità. Ed è ancor oggi questo l’unico modo di avere
un’esperienza concreta del divino».76
Chi scorre il corpus poetico montaliano comprende infatti, immediatamente, che per il poeta di Clizia, di Mosca, di Adelheit, la
QHJD]LRQHGHO'LRDQWURSRPRUIRQRQSXzVLJQLÀFDUHODUHVDDGXQ
contatto impossibile col divino. Come a dire che se è folle la pretesa
umana di trattare Dio alla stregua di un problema da risolvere teoriFDPHQWHqDOWUHWWDQWRIRQGDWDODÀGXFLDGHLSRHWLQHOODSRVVLELOLWjGL
un’esperienza umana di Dio. Se Dio non è una cosa, un oggetto, un
IHQRPHQRRXQDJLJDQWRJUDÀDGHOO·XRPRVHQRQqULGXFLELOHDGXQR
schema teorico, Egli resta però l’insondabile diffuso in varie forme nella concretezza dell’esistenza. Il venir meno della teoria non
chiude lo spazio del divino, ma lo dilata, riconsegnandolo all’unica
dimensione che può appartenere a tutti: l’esperienza, la quotidianità
della vita. Si tratta certamente di uno spazio impuro, dove le rappresentazioni e i costrutti trascendentali sono impossibili («Ho incontrato il divino in forme e modi / che ho sottratto al demonico senza
sentirmi ladro»);;77 un territorio scavato nel nulla, il nulla della nostra
HVLVWHQ]DLOQXOODFKHFLUHVWDLQPDQRDOODÀQHHFKHSXUHFLDFFRUgiamo di amare disperatamente («e nulla abbiamo disperatamente
amato più di quel nulla»),78 un nulla la cui realtà ultima, come ci dice
il Montale di Ai tuoi piedi, è la memoria («Mi sono inginocchiato ai
75
Cfr. G. W. F. HEGEL, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, tr. it., in ID.,
Scritti teologici giovanili, a cura di E. Mirri, Napoli, Guida, 1972 [1795], pp. 353-457.
76
Lettera da Albenga, cit., p. 374.
77
Vaniloquio, in Poesie disperse, p. 863. Un tema che ritorna anche in Satura: «La
mia strada è passata / tra i demoni e gli dèi, indistinguibili» (La mia strada è passata,
TP, p. 396).
78
In negativo, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 589.
350
tuoi piedi / o forse è un’illusione perché non si vede / nulla di te /
ed ho chiesto perdono per i miei peccati [...] Attendendo il verdetto
[...] ricorderò gli oggetti che ho lasciati / al loro posto, un posto tanto studiato, / agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio / di giornale,
alle tre o quattro medaglie / di cui sarò derubato o forse anche / alle
IRWRJUDÀHGLTXDOFKHPLD0XVDFKHPDLVHSSHGLHVVHUORULIDUzLO
censimento di quel nulla / che fu vivente perché fu tangibile / e mi
dirò se non fossero / queste solo e non altro la mia consistenza»).79
Pochi, poveri oggetti, che segnano il percorso di una vita e che in
GHÀQLWLYDUDSSUHVHQWDQRFLzFKHQHULPDQHLVHJQDOLTXDVLLPSDOSDbili di una intima densità dell’esistenza che nel ricordo si coagula
e miracolosamente si mantiene. ‘Siamo’, in senso forte, nient’altro
FKHLOGHSRVLWRDSSDUHQWHPHQWHLQXWLOHRLQVLJQLÀFDQWHGHOQRVWUR
passato;; ‘siamo’ cellule connesse dal ricordo;; ‘siamo’ il nostro corpo, ovvero la nostra memoria. Ed è nel centro della memoria-corpo
che accadono le epifanie del divino e lasciano una scia inafferrabile
sì, ma incancellabile: «[...] credono / che i savi antichi fossero tutti
pazzi, / schiavi di sortilegi se opinavano / che qualche nume in
LQFRJQLWROLYLVLWDVVH>@HSSXUHVHXQDGLYLQLWjDQFKHG·LQÀPR
JUDGRPLKDVÀRUDWRTXHOEULYLGRP·KDGHWWRWXWWRHLQWDQWR
l’agnizione mancava e il non essente / essere dileguava».80
Mentre il mondo dei critici e dei sapienti resta sospeso ai pregiudizi delle proprie teorie, il poeta rivendica il valore di un’esperienza umile e numinosa, che dà forza e senso alla vita, trattenendola
sul limitare del niente («Piove ma dove appari / non è acqua né
atmosfera, / piove perché se non sei / è solo la mancanza / e può
affogare»).81 Il divino ha il volto di un ‘tu’. Non però il volto generico di un Dio antropomorfo, razionalmente descritto una volta per
tutte, ma quello inconfondibile e speciale di un ‘questo’: un oggetto,
XQDQLPDOHXQXRPRRXQDGRQQDRVSLWDWLGHÀQLWLYDPHQWHQHOFRUpo della memoria, resi divini: «A forza d’inzeppare / in una qualche
YDOLJLDGLÀQWRFXRLRJRQÀDDVFRSSLDUHWXWWLLODFHUWLGHOODQRVWUD
vita / ci siamo detti che il politeismo / non era da buttar via. // Le
abbiamo più volte incontrate, / viste di faccia o di sbieco / le nostre
79
Ai tuoi piedi, ivi, pp. 594-5.
Divinità in incognito, cit., p. 377.
81
Piove, cit., p. 346.
80
351
mezze divinità».82 Si tratta di «deità in fustagno e tascapane, / sacerdotesse in gabardine e sandali, / pizie assorte nel fumo di un gran
falò di pigne, / numinose fantasime non irreali, tangibili, / toccate
mai».83
Come abbiamo visto, Montale ha esplicitamente indicato nella
Grecia e in Hölderlin le sorgenti delle proprie «divinità in incognito». Eppure è altrettanto chiaro, nei suoi testi, il legame fra i tanti ‘tu’
che manifestano il divino per il poeta, e l’amore, o meglio, con parola montaliana, «la carità». Voglio dire che tutte queste «deità» che
DIIROODQRODSRHVLDGL0RQWDOHPRVWUDQRLQGHÀQLWLYDLOvolto di chi
soccorre, di chi sostiene l’altro, gli dona forza e gioia, lo ravviva e lo
custodisce. C’è come un’aria di famiglia fra i numi montaliani, di alto
RGL©LQÀPRJUDGRªFKHVLDQRXQ·DWPRVIHUDFRPXQHLOFXLVLPEROR
estremo è forse la Mosca che prima di morire raccomanda al marito
di prendere il sonnifero, dedicando la propria ultima parola ancora
alla custodia di lui.84 D’altra parte, la pizia di Divinità in incognito, assorta «nel fumo di un gran falò di pigne», è evidentemente l’Iride
delle Silvae, nella Bufera («Quando di colpo San Martino smotta / le
sue braci e le attizza in fondo al cupo / fornello dell’Ontario, schiocchi di pigne verdi fra la cenere»),85 colei che «il Volto insanguinato
sul sudario» divide dal poeta: «Perché l’opera tua (che della Sua /
qXQDIRUPDÀRULVVHLQDOWUHOXFL,ULGHO&DQDDQWLGLOHJXDVWLLQ
quel nimbo di vischi e pugnitopi / che il tuo cuore conduce / nella
QRWWHGHOPRQGRROWUHLOPLUDJJLRGHLÀRULGHOGHVHUWRWXRLJHUmani». L’autocommento di Montale a questo testo è famosissimo:
©/DVÀQJHGHOOHNuove Stanze, che aveva lasciato l’Oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice
HVLPERORGHOO·HWHUQRVDFULÀFLRFULVWLDQRª86 È come se Cristo fosse
il typos, il modello originario a cui si ispirano gli atti e le parole delle
tante divinità PRQWDOLDQH1HOQHVVRIRUWHGHOVDFULÀFLRGHOGDUVLSHU
altri, da Crisalide in poi («le tacite offerte che sostengono le case dei
viventi»), le forme del divino trovano una loro unità. Non a caso il
82
Quel che più conta, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 486.
Divinità in incognito, cit., p. 376.
84
Il grillo di Strasburgo, in Satura, cit., p. 416.
85
Iride, in La Bufera e altro, cit., p. 247.
86
Intervista immaginaria, AMS, p. 1483
83
352
viaggio dell’inviato in Palestina è segnato da un interesse inoppugnabile proprio per i luoghi della passione di Gesù, dalla Via Dolorosa a
Getsemani: «L’orto ha ancora l’ingenuità dei quadri dei primitivi, la
luce sgronda dagli alberi, un uccellino ammaestrato dai francescani
viene a posarsi sulla vostra spalla;; e nemmeno il cuore più indurito
può trattenere la commozione vedendo la più che bimillenaria lastra
di pietra sulla quale il Salvatore, per lunga e ininterrotta tradizione,
si adagiò e pianse».87 D’altra parte, non si può fare a meno di notare
come nel corpus montaliano la carità abbia i medesimi caratteri dell’epifania del divino: «Non appartiene a nessuno la carità. Sua pari / la
bolla di sapone che brilla un attimo, scoppia, / e non sa di chi era il
VRIÀRª88 Tangibile ma mai toccata, come i numi di Divinità in incognito, la carità brilla, alla stessa maniera dei «lampi» dei tanti Dei che
abbiamo «a portata di mano / senza saperne nulla».89 E se la verità
«sguiscia come un’anguilla»,90 e nessuno può pensare di impadronirsene, così la carità non è «una seconda pelle che poi si butta via», ma
un dono inafferrabile e fugace che abita al di là di noi. Nel 1948 era
sembrato a Montale che in Oriente «la fucina di Dio» fosse «più bollente e operosa che in altri luoghi» perché «qui, meglio che altrove,
l’uomo sente che la sua proporzione, il suo aspetto, la sua misura,
sono in qualche modo conformi alla Misura di chi lo ha espresso da
sé».91 Più di quindici anni dopo gli apparve probabilmente chiaro che
la «giusta misura» era quella del Re Pescatore,92 la misura dell’amore.
87
Da Gerusalemme divisa, cit., p. 505. Anche a questo proposito non si può
non notare come lo stesso senso di trepidazione di fronte a Getsemani sia testimoniato dal Pasolini di Sopraluoghi in Palestina. In viaggio, nel 1964, nella terra di
Gesù, sperando di trovarvi l’ambientazione giusta per il suo Vangelo secondo Matteo,
il regista manifesta il proprio disappunto per la diversità della Palestina moderna
rispetto a quella dei Vangeli, ma nutre un profondo rispetto per i luoghi di Cristo
e vive un momento di speciale commozione quando visita il giardino che una
WUDGL]LRQHELPLOOHQDULDLGHQWLÀFDFRQO·2UWRGHJOL8OLYL
88
Dove comincia la carità, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 441.
89
I pressepapiers, in Quaderno di quattro anni, cit., p. 581.
90
Amici, non credete, in Altri versi, cit., p. 660.
91
Sulla strada di Damasco, in Fuori di casa, PR, p. 297.
92
Il Re Pescatore, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 434. L’amore oblativo, in prospettiva implicitamente o esplicitamente cristologica, è d’altronde un tema centrale delle meditazioni montaliane in prosa, oltre che in poesia. Basti pensare al
sogno del risveglio nella camera d’albergo in Svizzera con attorno al letto dieci
353
In ogni caso, quel che ci preme porre in rilievo è che il viaggio
in Palestina rappresentò veramente, per Eugenio Montale, una forma di pellegrinaggio alla ricerca dell’altrove. I temi essenziali della
sua quête PHWDÀVLFD YL DSSDLRQR WXWWL SUHVHQWL VHSSXU LQ PDQLHUD
prodigiosamente sincopata. La sua posizione ci si è manifestata
FKLDUDPHQWHXQULÀXWRQHWWRGHLFDVWHOOLWHRULFLVX'LRXQDÀGXFLD
autentica nella possibilità di un’apprensione del divino, sotto il segno dell’amore, nello spazio esistenziale della memoria-corpo. Ma
questo vuol dire che è inconcepibile un dialogo con Dio nell’universo montaliano, e che egli non abbia trovato parole o forme anche
paradossali di traduzione teologica, seppur in poesia, del suo senso
del divino? In altri termini: c’è un Dio ‘di’ Montale, una fede per lui
in qualche modo professabile? In verità, di fede si parla anche nei
pezzi palestinesi, in particolare in Se gli archeologi... – un appunto che
fa parte di Noterelle di uno dei Mille – in termini certo interessanti, ma
non risolutivi per le nostre domande: «E così a chi mi chiede se un
YLDJJLRLQ7HUUDVDQWDULHVFHDFRQIHUPDUHRDLQÀDFFKLUHODIHGHGL
un cristiano d’altre terre io posso rispondere: ai cristiani di scarsa
fede il viaggio sarà certamente utile, perché solo un cieco e un sordo potrebbero negare che qui qualcosa è accaduto, qualcosa molto
più importante della scoperta dell’America e della dichiarazione dei
diritti dell’uomo. Ai cristiani di fede salda, a quelli che hanno la foi
du charbonnier direi invece: non venite, per voi il viaggio non è necessario. L’immagine che voi vi siete formati del Cristo non può essere
controllata sul posto, non ha bisogno di puntelli esterni».93 La foi
du charbonnier, come ci spiega l’ing. Menalchi in Quando si incarnano i
personaggi immaginari – una prosa apparsa sul «Corriere della Sera» del
15 settembre 1946 – è «la fede del carbonaio: la fede buona, senza
angeli in forma di ragazze: «“Siamo svedesi” mi disse la ragazza che stava nel centro. “Santa Lucia è per noi la festa della luce, la nostra festa nazionale. Vede questa
ragazza” e additò la più giovane, quella dai candelotti sui riccioli, mezzo Medusa
mezzo arcangelo Gabriele “è la migliore di noi, elle a le Christ dans son coeur. In Italia
ha salvato la vita a un uomo. Festeggiamo anche lei”» (Risvegliato da dieci angeli, in
Fuori di casa, cit., p. 311). Montale insomma era sensibilissimo al vibrare della «corda dell’amore» – come la chiama nella Lettera a Luca Canali del 16 febbraio 1964
(AMS, p. 338) – perché profondamente convinto che «la carità, l’amore» fosse «la
più grande forza della vita» (Il profeta dell’Apocalisse, cit., p. 1635).
93
Noterelle di uno dei Mille, cit., p. 511.
354
problemi».94 Si tratta della fede dei semplici, profondamente rispettata da Montale, ma ovviamente lontana dalla sua storia e dalla sua
sensibilità. D’altra parte, la percezione dell’evento, possibile in Palestina per «i cristiani di scarsa fede», è orientata nettamente a Cristo,
ovvero si muove in una sfera esperienziale vicina – come abbiamo
visto – all’idea montaliana del divino, ma dunque inadatta a comunicarci i tratti di un’imago Dei che oltrepassi il piano della concretezza
esistenziale, ovvero di un Dio letto, al limite, in relazione alla sua
apertura cristologica (come accade ad esempio nei testi della Bufera).
Non ci resta che cercare nelle poesie del secondo tempo montaliano.
Scorrendole, si capisce subito che Montale vi gioca una partita
GLIÀFLOLVVLPDQRQYROHUULQXQ]LDUHDSDUODUHGL'LRLQSRHVLDVHQ]D
cadere però nelle secche di qualunque teoresi positiva. Il risultato
è straniante ed affascinante a un tempo. Dai testi balenano infatti
pochissimi tratti, terribilmente essenziali e costantemente in lotta
col silenzio, che coinciderebbe con l’ammissione di una assoluta
negatività. È intanto certamente un «dio senza nome»95 quello del
secondo Montale – «Colui del quale non può dirsi il nome»96 –, in
linea, d’altronde, con la stupenda sapienza di Mosca. La rinunzia al
nome non è, evidentemente, solo un problema formale. Sottrarsi
DO QRPH VLJQLÀFD QRQ YROHU GDUH D 'LR DOFXQD FRQQRWD]LRQH ÀORVRÀFDPHQWHSRVLWLYDFRQLOULVFKLRSHUzGLDOORQWDQDUORVHFRQGR
i dettami dell’ortodossia ebraica, al punto da riproporne antropoPRUÀFDPHQWHODGLVWDQ]DVRWWRODIRUPDGHOODFROOHUDGHOO·LUD&HUWR
per il Montale saggista, il Dio vendicatore degli Ebrei mantiene una
maggiore dignità rispetto all’annacquamento proprio dell’ipotesi fenomenico-positivista,97 ma non può essere questa la strada della sua
parola più intima su Dio. Il movimento che emerge nei testi è invece
TXHOORGLXQPXWRDEEDQGRQRGLXQDIÀGDPHQWRVHQ]DUHWH6HLO
sogno del poeta è nell’«intemporaneo», «Dio» solo «sa s’era tempo;;
o s’era inutile»;;98 ed è a questo Dio che in Altri versi si chiede per ben
94
Quando si incarnano i personaggi immaginari, PR, p. 692.
Il trionfo della spazzatura, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 459.
96
Vinca il peggiore, in Altri versi, cit., p. 672.
97
Cfr. Trentadue variazioni, PR, pp. 1121-2.
98
Le stagioni, in Satura, cit., p. 392.
95
355
due volte protezione per Clizia, «divina» lettrice di Bonaventura,99
come a consegnare nelle mani del Dio senza nome e senza volto
quanto di più caro c’è stato nell’esistenza del poeta. Si tratta, insomma, di un Dio invisibile e realissimo, negato e pregato: «Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi / o forse è un’illusione perché non si vede /
nulla di te»;;100 un Dio di cui è possibile dire solo ciò che non è (non è
LO©'HXVDEVFRQGLWXVªFRQ©EDUEDEDIÀHRFFKLªRO·©DUWLÀFLHUHFKHID
scoppiare tutto»), e che pure resta lì, disperatamente amato, invocato
come con un grido fedele e senza voce, con un desiderio che non
può e non deve oltrepassare la soglia del cuore, della più assoluta,
segreta intimità: «Il mio non è / nulla di tutto questo e perciò lo amo
/ senza speranza e non gli chiedo nulla».101 Il Dio del poeta Eugenio
Montale è in fondo lo stesso Dio del Robinson di Defoe, in cui all’inizio degli anni ’50, da prefatore d’eccezione, si era certo specchiato:
«Il Dio di Robinson [...] è un Dio tutto costruito dall’interno, tutto
scoperto per misteriosa illuminazione [...] È un Dio primigenio, è il
più diretto, immediato e incontaminato grido religioso che possa salire dal profondo, in un uomo irreparabilmente solo. Dietro alla sua
immagine non sentiamo né sette né Chiese possibili. Solo la Bibbia
gli resiste».102
99
Rimuginando, in Altri versi, cit., p. 663;; Credo, ivi, p. 721.
Ai tuoi piedi, cit., p. 594.
101
Il mio ottimismo, in Diario del ’71 e del ’72, cit., p. 508.
102
Prefazione a Vita e avventure di Robinson Crusoe, SM, p. 1133.
100
356